Le iniezioni per l’Università caricate tutte sul Trivulzio

Doveva essere un’operazione a costo zero per la sanità lombarda, perché le università avrebbero pensato a tutto. Avrebbero vaccinato professori, dottorandi e personale non docente senza pesare sulla campagna degli over 80. Lo aveva promesso Letizia Moratti, per spiegare perché 20 e 30enni (e i “baroni”) avrebbero ricevuto la dose prima di migliaia di anziani. Ma la verità è diversa. A vaccinare 5 facoltà – Statale, Bocconi, Iulm, Cattolica e facoltà teologica (8.500 persone), cui vanno aggiunte altre 3.000 del Politecnico e delle Scuole Civiche – è il Pio Albergo Trivulzio. Cioè il pubblico. Che non solo ha dovuto usare una piattaforma per gestire i flussi, ma ha anche dovuto assicurare medici, supervisione sanitaria e farmaceutica, coordinamento operativo. L’Università si è limitata a dare specializzandi di Infermieristica. Così, il Pat, suo malgrado, si è ritrovato a gestire questa massa di pazienti in concomitanza con il carico vaccinale già previsto, ovvero circa 600 anziani al giorno. Naturale che domenica si siano registrati ritardi anche di due ore nelle somministrazioni agli anziani. E il paradosso è che con la zona rossa, l’università è in Dad. “È l’ennesima vergogna – dice il 5stelle Gregorio Mammì – mentre le convocazioni degli over 80 sono nel caos, al Pat vaccinano i 22enni. Si potevano vaccinare le cassiere dei supermercati o i dipendenti Atm, comunque, tutti coloro che potevano inoculare Astrazeneca. L’ennesima scelta classista di Fontana”.

Il “Sostegno” slitta ancora. Torna il reddito d’urgenza

Il decreto Ristori, ora ribattezzato Sostegno, dopo mesi di ritardo e sotto effetto dell’annuncite, dovrebbe – forse – approdare in Consiglio dei ministri questo fine settimana. Anche se appena tre giorni fa, le ultime voci lo davano in dirittura d’arrivo a metà settimana. Parliamo del provvedimento che vale 32 miliardi di nuovo extra-deficit, autorizzato a gennaio, e che contiene i fondi per indennizzare le attività danneggiate dalle restrizioni anti-Covid per i mesi di gennaio e febbraio. Ma ci sono anche nuovi fondi per la cassa integrazione e la proroga Naspi. Le sole misure lavoro e aiuti alle imprese valgono 20 miliardi e prevedono ristori a tutte le attività con fatturato fino a 10 milioni (contro il paletto di 5 milioni utilizzato fin qui) senza il paletto dei codici Ateco. Ma basandosi su un nuovo sistema di calcolo degli indennizzi (il doppio del calo medio mensile nel fatturato 2020 rispetto al 2019), il sistema richiederà una nuova piattaforma telematica e nuove procedure con i soldi che verosimilmente arriveranno ad aprile.

Per quanto riguarda la Cig Covid (stando alle bozze sono impegnati circa 5 miliardi), è previsto un rinnovo fino a giugno per tutti e fino a ottobre per i più piccoli. Ma i sindacati chiedono di prorogare tutte le misure (blocco e Cig gratuita) fino alla fine dell’anno. Previste anche nuove indennità per stagionali, precari dello sport e dello spettacolo. Tra le ultime novità, c’è il rinnovo del Reddito di emergenza e il rifinanziamento del Reddito di cittadinanza. Dopo che negli scorsi giorni il ministro del Lavoro Orlando ha incontrato i sindacati, ha confermato che la misura d’urgenza messa in campo lo scorso anno verrà reintrodotta e rafforzata attraverso l’innalzamento della soglia massima dell’ammontare del beneficio per coloro che vivono in affitto e la garanzia dell’accesso al beneficio anche ai disoccupati che hanno terminato, tra il 1° luglio 2020 e il 28 febbraio 2021, la Naspi o la Dis-coll (le misure della disoccupazione) e non godono di altri strumenti.

Altro capitolo rilevante del testo è il pacchetto fiscale con un nutrito numero di rinvii fiscali: dalla scadenza delle cartelle ad alcune scadenze per la predisposizione della precompilata. Confermata anche la cancellazione delle vecchie cartelle sotto i 5 mila euro contestate ai contribuenti tra il 2000 e il 2015, anche se in maggioranza c’è chi preme per far salire questa soglia a 10 mila euro. Previsti fondi anche per gli enti locali e la sanità di cui 2 miliardi per accelerare il piano vaccini. Tra le conferme c’è la nuova autorizzazione allo scostamento di bilancio da presentare nel Documento di economia e finanza (entro metà aprile). Probabile che si supereranno i 20 miliardi.

Tra la nuova frenata e le dosi buttate via, l’Italia resta indietro

Nel giorno in cui Aifa, l’Agenzia nazionale del farmaco, sospende in via precauzionale l’utilizzo del vaccino Astrazeneca in tutta Italia, viene definitivamente a galla il problema dello spreco dei sieri. “Voglio approfondire la questione delle dosi buttate”, ha detto a Fabio Fazio, domenica sera, il commissario all’emergenza Francesco Paolo Figliuolo, per il quale, piuttosto che gettarle, sarebbe anche meglio somministrare quelle avanzate a “chi passa”. Parole con le quali in realtà Figliuolo ha aperto uno squarcio su una pratica mai ammessa dalle Regioni ma diffusa in tutto il Paese, soprattutto, in questa fase, per quanto riguarda i richiami con i vaccini Pfizer-Biontech e Moderna. “Nonostante gli sforzi dei medici e degli infermieri succede in tutte le aziende sanitarie anche se nessuno vuole parlarne – dice Gabriele Gallone, responsabile della campagna vaccinale nell’azienda ospedaliero-universitaria San Luigi Gonzaga di Orbassano, in provincia di Torino –. Questo non solo in Piemonte ma in tutta Italia. Nel nostro ospedale siamo stati costretti a buttare via, nel corso del tempo, dodici dosi. E anche se parliamo di numeri piccoli se li moltiplicassimo per tutti i punti vaccinali presenti nel Paese il risultato potrebbe essere impressionante”. Ma come può accadere? Il problema si pone adesso prima di tutto per Pfizer-Biontech e Moderna, i vaccini basati sull’Rna messaggero il cui richiamo, dopo l’inoculazione della prima dose, deve essere fatto rispettivamente a una distanza di 21 e di 28 giorni, mentre quello di Astrazeneca lo richiede dopo dodici settimane. “La dose, una volta che è stata preparata, deve essere utilizzata entro sei ore – prosegue Gallone –. Con la prima somministrazione potevamo attingere a una lista di riserva di persone in attesa e aventi diritto, per evitare sprechi qualora qualcuno dei pazienti regolarmente prenotati non si fosse presentato. Ma questo metodo non è possibile con i richiami. Un problema che è anche acuito dalla rigidità delle classificazioni delle categorie a cui garantire prima la vaccinazione. E non escludo che possa accadere più avanti anche con Astrazeneca, qualora ne venga annullata la sospensione”.

A proposito di rigidità, nei giorni scorsi ha sollevato polemiche, per esempio, la vaccinazione del sindaco di Castellamonte (Torino): il 23 febbraio ai medici era avanzata una dose. L’assessore alla Salute del Piemonte, Luigi Icardi, coordinatore della commissione Sanità della Conferenza delle Regioni, dice di condividere “che sia un delitto buttare le dosi, ma piuttosto che vaccinare chi passa, si faccia un po’ di overbooking sulle categorie più esposte, più a rischio”. Peccato che proprio la Regione Piemonte non abbia mai dato disposizioni alle proprie aziende sanitarie sul protocollo da seguire: “Mai nemmeno arrivata la richiesta di fare il consuntivo delle dosi già preparate che non vengono somministrate – aggiunge Gallone –. Ed è anche capitato che ci sia stato detto espressamente di buttare quelle rimaste”. Figliuolo ieri sera ha firmato l’ordinanza con cui dispone che “le dosi di vaccino eventualmente residue a fine giornata, qualora non conservabili, siano eccezionalmente somministrate, per ottimizzarne l’impiego evitando sprechi, in favore di soggetti comunque disponibili al momento, secondo l’ordine di priorità individuato dal menzionato Piano nazionale e successive raccomandazioni”. Ma ogni governatore potrà valutare cosa fare. In teoria queste liste dovrebbero già essere redatte da tempo in tutte le aziende sanitarie, con l’elenco delle persone reperibili, da contattare con celerità in caso di dosi in avanzo. C’è chi le chiama aliquote di riserva, chi liste jolly (è il caso delle province autonome di Trento e di Bolzano). Poi c’è chi ricorre all’overbooking, come fanno le compagnie aree (per esempio la Campania), accettando ogni giorno più prenotazioni di quante somministrazioni possano essere fatte, in modo da poter attingere, nel caso, all’elenco di chi è in attesa. Ma non tutte le aziende sanitarie hanno adottato l’uno o l’altro metodo.

Berlino blocca AstraZeneca, Draghi si accoda e spiazza i suoi

La decisione tedesca cade come una bomba sulla campagna vaccinale italiana. Arriva all’ora di pranzo di ieri con una telefonata del ministro cristiano-democratico della Salute Jens Spahn a Roberto Speranza: lo avverte che la Germania sospende il vaccino AstraZeneca; poco dopo esce la notizia. I due si sentono spesso, si erano parlati anche domenica ma Spahn non aveva fatto parola della decisione, forse non ancora presa. Il ministro della Salute, ieri mattina, aveva parlato anche con la sua omologa spagnola, Carolina Darias, pure orientata allo stop e per ben 15 giorni. Poi ha sentito il francese Olivier Véran e a quel punto ha chiamato Mario Draghi. “Se lo fa la Germania…”.

Fin qui erano state Danimarca, Islanda, Norvegia, Bulgaria, Irlanda e Olanda. Fonti di Palazzo Chigi confermano che “la decisione” di sospendere AstraZeneca è stata “adottata insieme al ministro Speranza e in linea con gli altri Paesi europei” ed “è temporanea e cautelativa, in attesa delle prossime valutazioni da parte dell’Ema”, l’agenzia europea del farmaco, che dovrebbe pronunciarsi domani e potrebbe introdurre qualche limitazione per età o patologie. Ma proprio l’Ema con il suo responsabile per la strategia vaccinale, Marco Cavaleri, nelle stesse ore di ieri spiegava al Parlamento europeo che “non vediamo alcun problema nel proseguire le vaccinazioni”. L’ingrato compito di annunciare il dietrofront in Italia è stato affidato all’Aifa, l’agenzia del farmaco. “Chi ha fatto la prima dose – ha detto il direttore Nicola Magrini – stia tranquillo e avverta il suo medico se ha sintomi”. Solo domenica il professor Giorgio Palù, che di Aifa è presidente, aveva rassicurato tutti in tv. Sembra un devastante assist ai no vax. Draghi peraltro, a differenza di Emmanuel Macron che ha annunciato personalmente lo stop, è rimasto in silenzio. È toccato a Speranza e al direttore della Prevenzione della Salute, il professor Gianni Rezza, ribadire che la “sospensione” è solo “temporanea” e “in via precauzionale”. Matteo Renzi se la prende con Aifa, Matteo Salvini attacca la Commissione Ue.

Perfino ai ministri la notizia è arrivata con un messaggino, pochi minuti prima che fosse di pubblico dominio. Motivata qua e là anche con il timore di cause milionarie, da cui le aziende farmaceutiche si sono tenute al riparo nei contratti firmati con la Commissione Ue, la decisione è stata accolta con “sconcerto” da diversi membri del governo. Si rischia di minare la “reputazione” di uno dei vaccini: da qui a settembre l’Italia ne attende 34 milioni di dosi, da Pfizer/Biontech 50, da Johnson & Johnson 26 (ma è monodose). Ora invece prenotazioni sospese, migliaia di appuntamenti annullati via sms, l’incognita dei richiami. A Roma, hanno chiuso i grandi hub della Nuvola di Fuksas, Termini e Fiumicino. Nicola Zingaretti, ormai solo presidente della Regione Lazio, ieri, dopo aver visto Draghi, ha chiesto: “L’Ema lavori h 24 come fanno medici e infermieri”. Lo ribadisce Pierpaolo Sileri, anche lui impegnato domenica in tv a rassicurare: “E lo rifarei – dichiara –. Se lo stop è necessario che sia di breve durata”.

Dietro la decisione tedesca c’è la valutazione del Paul-Ehrlich-Institut di Berlino che scrive di “un accumulo impressionante di una forma speciale di trombosi venosa cerebrale molto rara (trombosi della vena del seno) in connessione con una carenza di piastrine del sangue (trombocitopenia) e sanguinamento in prossimità temporale alle vaccinazioni con il vaccino AstraZeneca”. Sarebbero 7 casi su 1,6 milioni di vaccinati. Non trombosi in genere, dunque, che nel Regno Unito sono state leggermente di più nella popolazione vaccinata con Pfizer/Biontech che con quella che ha avuto AstraZeneca, ma sempre poche. Infatti Boris Johnson va avanti per la sua strada.

La Commissione Ue prima non ha commentato, poi ha fatto sapere che “aspetterà la valutazione scientifica dell’Ema”. L’esecutivo di Bruxelles ha puntato dall’inizio soprattutto sull’anglo-svedese AstraZeneca, entrando in conflitto con Berlino che avrebbe preferito un maggiore investimento sul vaccino prodotto da Pfizer con la tedesca Biontech. Che stanno accelerando mentre AstraZeneca accumula ritardi.

Il Figliuol prodigo

Noi auguriamo al Gen. Comm. Grand’Uff. F. P. Figliuolo le migliori fortune, anche perché sono pure le nostre. Ma l’altra sera, vedendolo in tv collegato con Fazio in adorazione e col prof. Burioni in estasi mistica, ci siamo sentiti un po’ a disagio. Delle due l’una: o eravamo noi a non capire ciò che Fazio&Burioni intuivano al volo (“Oh finalmente! Una rivoluzione! Li sente gli applausi nello studio vuoto?”, “È un grande onore esser qui con lei! Mi viene in mente un suo collega: il generale Eisenhower!”); o il famoso “Nuovo Piano Vaccini”, peraltro già da buttare dopo lo stop ad AstraZeneca, è leggermente fumoso. Sarà che il Gen. Comm. Grand’Uff. alterna il linguaggio dei giornaloni (“accelerare”, “cambio di passo”, “svolta”) a quello delle furerie (“fare fuoco con tutte le polveri”, “legioni” invece di “regioni”) a quello delle mezzemaniche ministeriali (“capillarizzare”, “sistema Paese”). E spende gran parte dell’intervista a raccontare che spende gran parte del tempo a parlare “quotidianamente”, “una o più volte al giorno”, a voce o “via whatsapp”, con Draghi, Curcio, Speranza, Guerini, Gelmini (“attentissima a tutte le problematiche”) e Bonaccini, che “colgo l’occasione per ringraziare” a uno a uno. E, già che c’è, ringrazia pure se stesso che, modestia a parte, è “il centravanti della squadra”.

Il suo segreto? “Tutto sta all’arrivo dei vaccini”. Ma tu guarda. “500mila dosi al giorno, 80% di vaccinati a settembre”. Lo diceva già il putribondo Arcuri. Ma ora “Draghi ha chiamato quasi tutti gli ad delle case produttrici” (che sono quattro: andiamo bene). Poi la moltiplicazione dei pani e dei pesci: “J&J è monodose, quindi averne 25 milioni sarà come averne 50 dei vaccini odierni” (dev’essersi laureato in matematica con Gallera). E la conferma delle “tre linee operative”: “approvvigionare, somministrare, controllare”. Guai a invertire l’ordine, specie fra prima e seconda: iniettare un vaccino che non è ancora arrivato potrebbe causare al paziente bolle d’aria ed embolie. “Tutto pianificato”, nota Burioni in un lago di bava. Inclusa la vexata quaestio delle dosi eccedenti. Tenetevi forte: “Se ci sono classi prioritarie, ok, se no chiunque passa va vaccinato”. Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione. E il Figliuol prodigo lo è di tutto. Che sia un tipo vispo ognun lo vede: capillarizzare e programmare serve appunto a vaccinare “chiunque passa”. Il segreto è passare di lì al momento giusto, fischiettando o fingendo di fare jogging. “Dottore, passavo di qui per caso, c’è niente per me?”. “Lei è fortunato! Ho giusto qui una dose di Johnson&Johnson che, essendo monodose, vale doppio: non è che vuole chiamare anche la sua signora?”.

Pazzo o furbetto? Processo a Don Chisciotte

Non sarà un’iniziativa del tutto originale e innovativa, come scrive Antonio Salvati nella prefazione, ma l’idea di processare personaggi storici, d’invenzione letteraria o semplicemente famosi è, ugualmente, geniale. Geniale e benemerita. E non solo perché “il processo è un vero e proprio archetipo culturale: il principale, e forse più affascinante, lascito millenario della tragedia greca”, o perché “a seguito dell’affermarsi dei social network la dinamica processuale sembra essere diventata la matrice base della comunicazione moderna”. Ma perché rende vive, presenti e, a tratti, persino incandescenti materie che in troppi considerano morte, inutili o futili come la storia (quale pianta sopravviverebbe senza radici?), la letteratura (quanto sapremmo di noi stessi e dello stare al mondo, senza Omero, Dante, Shakespeare, Leopardi, Dostoevskij & Co.?) e il nostro inestinguibile bisogno di miti, idoli ed eroi: veri o fasulli, buoni o cattivi che siano. Ecco, allora, che, dopo Maradona, Oscar Wilde e Ponzio Pilato, l’immaginaria “Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palmi, sezione Festival di Diritto e Letteratura”, mette sotto processo “Chisciano Alonso, inteso Quixano Alonso, inteso Don Chisciotte”.

Processo tutt’altro che facile quello al protagonista di un libro nel quale, come ha osservato Pietro Citati, “tutto è, al tempo stesso, assolutamente falso e assolutamente vero: dove il vero, senza cessare di essere vero, è assolutamente falso, e dove il falso, senza cessare di essere falso, è assolutamente vero”. Pubblico ministero (dott. Antonio Salvati) e difensore (prof. Franco Carinci, Università degli Studi di Bologna), dovranno, dunque, dare il meglio di sé, se vorranno che il verdetto del giudice (prof. Gennaro Carillo, Università Suor Orsola Benincasa di Napoli) faccia trionfare la loro tesi. Capo di imputazione per l’ingenioso hidalgo della Mancia: “essersi fatto scudo della propria presunta follia allo scopo di burlarsi del vivere civile e delle regole, delle convenzioni che lo disciplinano, attribuendosi con lo schermo di un’inesistente pazzia il diritto di vivere la propria vita facendo ciò che gli aggradava, nel momento in cui gli aggradava e con le modalità che più gli aggradavano”. Follia strumentale o reale? Sanezza o stato morbile? E, se burlarsi della vita fosse l’unico modo per sopravviverle? Non era forse un vero cavaliere, un principe, addirittura, a chiedersi cosa fosse più nobile per la mente: “sopportare le sassate e le frecce dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di guai e, combattendo, finirli”?

Secondo il pubblico ministero, la colpa di Don Chisciotte è aver “finto per vigliaccheria”, rinunciando alla “vera missione dell’uomo”: non “costruire mondi fantastici”, ma “impegnarsi fino allo spasimo per trovare il modo di convivere con i propri simili, rispettandoli e venendo rispettati”. Per Salvati, l’impresa veramente epica non è “fuggire dalla realtà per combattere i mulini a vento”: “molto più difficile, molto più eroico, molto più umano nel pieno senso del termine è imparare a smontare i mulini a vento, per provare a farli funzionare bene”.

Per la difesa, invece, quale sarebbe il vantaggio di una pazzia simulata, che non riesce a salvare Don Chisciotte dalle conseguenze delle sue “supposte malefatte”, le quali trovano quasi sempre una “rendita di solenni bastonate e di esose spese risarcitorie”. Nessuno sano di mente farebbe quel che ha fatto l’hidalgo della Mancia, “sapendo di dover pagare il costo in termini di prese in giro e di botte”. Senza contare, aggiunge l’avvocato Carinci, che “dalla pazzia di Don Chisciotte trasudano principii e valori […] sufficienti a farlo ritenere debole di mente in un mondo che non li pratica per nulla”. Secondo la difesa, dunque, condannando la pazzia come falsa, si commetterebbero un errore – Don Chisciotte, “non vi trasse altro che risate e bastonate” – e un vero e proprio “crimine contro lo spirito”, dal momento che quella pazzia conteneva una “profonda visione etica”: questa sì la “vera ragione della reazione dell’imputato alla violenza e al sarcasmo di un mondo perduto in sé stesso, ieri come oggi”.

Naturalmente non sveleremo la sentenza del Giudice Carillo. Non solo per non spoilerare (orrendo neo-calco-logismo) il finale. Ma perché il senso di un viaggio come questo è il viaggio, non la meta. Un viaggio che tutti dovremmo intraprendere, soprattutto in questo tempo nel quale, come scrive Salvati, “in pochi argomentano, in pochissimi spiegano e quasi nessuno discute per il solo gusto di farlo”. Un libro piccolo ma prezioso, perché ci invita a uscire dalle camere d’eco nelle quali ci siamo confinati, illudendoci di essere forti (forte è chi non teme il confronto non chi lo fugge), liberarci dalla folle idea che le nostre convinzioni siano altrettante verità, e tornare ad aprirci alla possibilità di “cambiare idea dopo uno scontro ad armi pari fatto di idee, di convinzioni, di principi”. Troveremo il coraggio di farlo?

 

“Io, giramondo della musica in Cina ho trovato il futuro”

Ma che musica maestro, non in Italia, ma in Cina a Roberto Fiore, napoletano classe 1981, una delle più prestigiose università ha recentemente affidato la direzione dell’orchestra. Non è il classico “cervello in fuga” che lascia il Bel Paese alla ricerca di un’opportunità, di far fortuna nella “terra promessa”, ma qualcosa di più, considerato alla stregua di una rockstar in Estremo Oriente. In Italia non si aprivano le porte, in Cina costruiscono teatri dove sarà protagonista. “Sono impegnato nel creare la nuova orchestra supportata dall’Università di Nantong che collaborerà con il nuovo Gran Teatro di Nantong di cinque sale, tra cui una per l’Opera e una per i concerti”.

Maestro Fiore, Nantong conta sette milioni di abitanti, come ci è finito?

E l’università, dotata di tre campus, è popolata da circa ventimila studenti e per entrare a lavorare con noi e suonare nell’orchestra che dirigo serve un dottorato in arti musicali e bisogna superare un concorso. In pieno stile cinese, fanno i concorsi dai tempi di Confucio qui. Inoltre abbiamo una collaborazione in atto con l’instituto superiore msuicale “Franci” di Siena. Sono arrivato la prima volta in Cina cinque anni fa, nel 2016, per un viaggio di piacere, non di lavoro, legato a un interesse personale sulla musica in Cina. Ecco, dopo dieci giorni, tramite una sola conoscenza casuale il mio curriculum ha cominciato a girare insieme alla voce della mia presenza in Cina e così da Pechino mi hanno invitato per tenere delle masterclass alla Guizhou Normal University di Guiyang, che è una città del sud-ovest, di quasi cinque milioni di abitanti, e a Chongqing che è una megalopoli di 31 milioni di abitanti, che in Italia nessuno conosce, dove c’è anche un attivissimo Consolato generale d’Italia con cui ho collaborato regolarmente. Poi, nel 2017 mi hanno richiamato a Guiyang per mettere in piedi un’orchestra. In Cina le università più importanti supportano una orchestra. Ci sono rimasto fino al lockdown del 2020 come docente di opera italiana e musica da camera, direttore e arrangiatore della big band jazz, che ho costituito io, e direttore, appunto, dell’orchestra sinfonica. Sono orgoglioso di quello che abbiamo fatto, e di esser riuscito a dirigere opere come La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi.

E il lockdown?

Ero rientrato a Napoli a gennaio perché mio padre compiva 70 anni e volevo esserci. Avevo pianificato due settimane in Italia, una valigia leggera… È finita come sappiamo, quindi ho tenuto le lezioni online da Napoli, e a maggio abbiamo creato un coro virtuale per eseguire il “Va, Pensiero” dal Nabucco di Giuseppe Verdi: è stato un momento emozionante, vedere come dei giovani musicisti cinesi potessero con impegno, cercare di carpire il senso di una delle arie corali più importanti della cultura italiana. Nel frattempo è scaduto il contratto e sarei anche potuto rimanere in Italia, ma la mia sensazione è che mentre in Cina c’è un forte sviluppo culturale, in Italia la situazione, già prima della pandemia, sia regressiva: purtroppo le orchestre chiudono.

Piccolo passo indietro, prima della Cina, qual è stato il suo percorso?

Ho girato il mondo: sono stato docente all’Accademia Atlantic Coast in Portogallo, direttore assistente del maestro Massimiliano Caldi della Filarmonica “Chopin” di Danzica, ho lavorato a Milano e pubblicato con la Casa musicale Sonzogno e diretto l’ensemble Nuova Cameristica per la mia ricerca su Giovanni Sgambati, e prima ancora in Sudamerica, a Buenos Aires soprattutto, dove ero con una delle due borse di studio, l’altra a Cracovia, e prima di partire nel 2017, ho diretto l’orchestra “Giuseppe Verdi” di Milano. Prima ancora c’è stato il Conservatorio tra Latina e Roma dopo la laurea in informatica con applicazioni musicali a Pisa.

Ritorniamo al post-lockdown 2020. Finisce l’anno accademico, scade il suo contratto ma poi ritorna in Cina… e adesso è alle prese con una nuova avventura?

Sì, potevo ritrovarmi tranquillamente senza lavoro, sono rientrato in Cina dopo aver creato un progetto su Morricone con l’orchestra Filarmonica di Saigon supportato, tra l’altro, dal console italiano Dante Brandi. In Vietnam avevo diretto nel 2019 l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Saigon. Sono ritornato in Cina ad ottobre 2020 con un nuovo lavoro a Chongqing, che si è concluso a dicembre. Il mercato del lavoro in Cina è complesso ma anche molto dinamico. In due settimane sono arrivate cinque proposte e ho accettato la più entusiasmante.

Cioè a Nantong, due ore da Shanghai.

Sì mi hanno chiesto di lavorare per la costituzione di una orchestra per il nuovo Teatro dell’Università: a Nantong in pandemia da zero hanno iniziato a costruire tre teatri, tra cui quello universitario con una capienza di mille e duecento persone. Per dire cosa significhi investire sulla cultura e sul futuro. Rimango basito quando sento ancora di false e stupide leggende su quello che mangiano o fanno i cinesi: qui conosco persone vegetariane o che non mangiano il coniglio perché lo ritengono un animale “troppo carino”! Ora la mia sfida è la realizzazione di questa orchestra dell’università di Nantong, poi a maggio s’inaugurerà il nuovo teatro della città, il primo dei tre, e ho già avuto il piacere di conoscere il nostro console a Shanghai, Michele Cecchi, con cui speriamo di preparare qualcosa di speciale.

Napoli le manca?

Napoli come può non mancare? Ma devo dire che in Cina alcune cose sono davvero identiche a Napoli, così mi sento davvero a casa: non sono timidi, adorano i pranzi in famiglia nel fine settimana e invitarti alla loro tavola, c’è una comunità sempre pronta a intervenire per aiutarsi a vicenda. È davvero tutto molto ma molto diverso dalla Cina dell’immaginario italiano. La cosa incredibile, che non viene considerata in Italia, è che qui nelle università e nei conservatori il 45 per cento di quello che si studia nei dipartimenti di canto è proprio musica italiana.

Agnelli e Renzi d’Arabia: il Rinascimento diffamato

Per un certo senatore del contado fiorentino tra i tiranni sanguinari dell’Arabia Saudita è sbocciato un Nuovo Rinascimento. E quel «terrorista internazionale che risponde al nome di Henry Kissinger» (Luis Sépulveda) torna a parlare agli italiani per dire che Gianni Agnelli «era uomo del Rinascimento”. Il Rinascimento, è vero, non può querelare, ma non per questo è giusto lasciarlo massacrare.

C’è qualcosa di sordido in questa continua strumentalizzazione, fondata sulla più crassa ignoranza. E viene da risponder che è meglio vedere crudamente la decadenza infinita di questo nostro tempo, che imbellettare un cadavere per presentarlo in costume rinascimentale.

Un fiorentino che il Rinascimento lo conosceva davvero, Piero Calamandrei, dopo aver pianto le rovine dei ponti e del centro di Firenze fatti saltare dai nazisti, aggiungeva: “Eppure tutto questo non è stato il peggio: perché l’Italia in questi anni ha dovuto soffrire strazi anche più profondi. Questi ponti frantumati, queste case d’Oltrarno che ora precipitano nel fiume come una valanga di macerie, sono resti sacri, rivestiti, nel loro cordoglio di dignità e fierezza: quasi vien voglia, quando vediamo queste rovine, di inginocchiarci e baciarle. Ma poi ricordiamo la vergogna delle case d’Oltrarno ritinte e dei ponti ripuliti con colori di finto antico per presentarli in bella apparenza al barbaro padrone che veniva a visitare il suo feudo (…). E ripensando a quegli anni di umiliazione, ecco, noi sentiamo che le nostre città preferiamo cento volte vederle in rovina ma fiere come sono ora, piuttosto che vendute e mascherate e insozzate come sono state per vent’anni. Questi gaglioffi ladri e sanguinari hanno nascosto per vent’anni al mondo civile il volto dell’Italia vera”.

Calamandrei preferiva il Rinascimento in macerie a quella oscena mascherata del finto Rinascimento che fu allestito nel 1938 per la visita a Firenze di Hitler. Eterna retorica dei nuovi Rinascimenti al servizio dei nuovi padroni: non importa quanto indegni. Di fronte alle riproposizioni attuali di questa micidiale miscela di ignoranza e servilismo, non vale certo la pena di disturbare l’alto dibattito sulla genesi del mito del Rinascimento che tra Otto e Novecento vide impegnati Burckhardt, Huizinga, Cantimori e tanti altri. È infatti evidente che le fonti dei settatori di questi nuovi rinascimenti prêt-à-porter sono semmai le fiction tv sui Borgia, e i polpettoni di Dan Brown. Epperò qualcosa sul vero Rinascimento converrà pur dirla, visto che rischia di passare l’idea che in fondo anche quei celebrati protagonisti del nostro Quattrocento fossero nient’altro che una manica di torturatori, parassiti, ereditieri indolenti: a un passo dal far immaginare Lorenzo il Magnifico con l’orologio indossato sopra il polso del lucco, o con in testa il ghutra saudita al posto del mazzocchio.

Il punto vero riguarda proprio il rapporto tra discorso pubblico e comune senso della decenza, della moralità pubblica. Non c’è alcun dubbio che potere, denaro e violenza siano impastati nella storia del Rinascimento: come in quelle di qualsiasi periodo storico, presente compreso. Ma quel che colpisce, conoscendo le vite e le mentalità degli inventori del Rinascimento (a partire da Cosimo de’ Medici), è proprio il rapporto tra la consapevolezza delle proprie colpe e l’urgenza di riparare ad esse attraverso la restituzione alla collettività di ciò che essi sentivano di aver indebitamente sottratto per sé stessi.

Cosimo era un uomo tormentato, assillato: “Le sue stesse ricchezze – ha scritto Ernst Gombrich – lo accusavano; non era possibile essere un banchiere senza infrangere le disposizioni contro l’usura, di qualunque tipo fossero i sotterfugi tecnici per eluderle (…) l’unico modo per sfuggire al marchio d’infamia (…) era ridar tutto ai poveri”. Cosimo era probabilmente l’uomo più ricco del mondo: andando a letto ogni sera, egli pensava ai propri peccati, e aveva la lucida onestà di riconoscere che quei soldi non erano del tutto suoi, e non erano del tutto puliti. Quando il nipote, Lorenzo il Magnifico, si congedò dai propri figli, indicò loro un certo “quadernuccio”: in quelle pagine consunte erano annotate le cifre astronomiche che il padre e il nonno avevano donato – meglio, avevano restituito – a Firenze in atti di carità e in edifici pubblici (i capolavori architettonici del Rinascimento, appunto): nel giro di sessant’anni la famiglia Medici restituì alla città di Firenze più di tre volte il patrimonio del suo fondatore.

Esattamente il contrario di ciò che pensano gli attuali protagonisti dei Nuovi Rinascimenti, che vorrebbero esser fatti “santi subito” non espiando, ma anzi autocelebrando, la loro accanita coltivazione dei propri interessi a scapito, quando non in danno, degli interessi pubblici. Privatizzando tutto: anche il Rinascimento.

Israele Minaccia Iran, ex capi Mossad per il dialogo

NNon capita di frequente che due “Gatekeepers” d’Israele, due guardiani della sicurezza come Tamir Pardo e Efraym Halevy – entrambi hanno diretto il Mossad – escano allo scoperto per dire chiaramente che con l’Iran degli ayatollah bisogna parlare o trovare un “modus vivendi”. Una smentita secca della politica del premier Benjamin Netanyahu, convinto che solo una soluzione militare contro Teheran possa tenere al sicuro lo Stato ebraico. “Sull’Iran, le politiche del governo mancano di un approccio unificato alle sfide future” – ha scritto Pardo sul quotidiano Yedioth Aaronoth – “Israele ha affrontato il trinceramento iraniano lungo la sua frontiera settentrionale (Siria, ndr) isolandosi dalle altre questioni relative alle politiche della Repubblica islamica. Ciò significa che la frontiera settentrionale è vista separatamente dalla minaccia predominante della corsa dell’Iran per ottenere armi nucleari e i mezzi per consegnarle”. Israele, scrive Pardo, ignora anche i vantaggi che potrebbero essere ottenuti dagli sforzi degli Stati Uniti e dei loro alleati per contrastare i piani dell’Iran, così come le politiche nei confronti dei palestinesi improntate a un maggior dialogo sarebbero parte di una strategia di più ampio respiro. “È tempo che Israele metta fine alle sue politiche reattive”, conclude Pardo, “e formi un’ampia strategia basata su tutti gli interessi e le preoccupazioni che il paese sta affrontando”. Intervistato alla tv anche l’ex Consigliere per la sicurezza nazionale ed ex capo del Mossad Efraim Halevy, che afferma che Israele dovrebbe rivisitare la sua strategia sull’accordo nucleare iraniano. “Sarebbe un errore mantenere la politica adottata da Israele quando il presidente Trump è stato eletto, convincendolo a lasciare l’accordo sul nucleare”, ha spiegato Halevy, “e una volta che si lascia un accordo non c’è più una leva da usare sull’altra parte”. Halevy crede che alla fine il modo migliore per servire gli interessi di Israele dovrebbe essere l’apertura di un dialogo con l’Iran. Dagli incontri segreti che ha avuto con gli iraniani negli ultimi dieci anni, racconta nell’intervista, ha colto il desiderio di molti iraniani di avere un dialogo, ma perché ciò avvenga, le due parti devono rispettarsi a vicenda.

 

Petrolio, così le major fanno finta di essere ambientaliste

Il 2020 è stato un anno cruciale per i grandi gruppi petroliferi, che hanno definitivamente perso la battaglia del cambiamento climatico e lo sanno. Dopo aver speso centinaia di milioni di dollari per contestare tutti gli studi in materia di ambiente, compresi i rapporti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), e per contrastare ogni movimento e politica ecologica, le grandi compagnie petrolifere sono ormai costrette a riconoscerlo: il cambiamento climatico non può più essere negato. Dunque so sono lanciati in un’altra battaglia: quella della transizione ecologica.

Da un anno o due, chi più chi meno, BP, Shell o ancora Total hanno annunciato che avrebbero adattato le proprie strategie. Lo statunitense ExxonMobil, il cui ex amministratore delegato Rex Tillerson è stato segretario di Stato di Donald Trump nel 2017-2018 e capofila degli scettici del clima, è stato l’ultimo a capitolare. Nel 2020, ExxonMobil ha ammesso che il cambiamento climatico è una realtà, ma era obbligato a farlo: uscendo dall’indice Dow Jones nell’agosto 2020, il gigante del petrolio rischiava infatti di rimanere tagliato fuori da alcuni mercati di capitali, dal momento che sempre più fondi hanno fatto dell’impegno in materia ambientale uno dei criteri di selezione dei propri investimenti. Nel 2020 tutti i gruppi hanno registrato perdite colossali: più di 22 miliardi di dollari per ExxonMobil, 21 miliardi per Shell, 20 miliardi per BP, quasi 8 miliardi per Total. I primi otto gruppi petroliferi occidentali hanno annunciato perdite complessive per 89,4 miliardi di dollari nel 2020. Sono numeri senza precedenti. Gran parte di questi passivi sono legati al deprezzamento degli attivi. Con il barile a 20 dollari, o meno, all’inizio del lockdown mondiale della primavera 2020 e per settimane, molte attività di esplorazione e produzione non erano più redditizie. Ma alcuni gruppi ne hanno approfittato per cominciare a modificare il loro approccio e ripulire i bilanci discutibili. Total ha così svalutato di diversi miliardi la sua attività nelle sabbie bituminose del Canada, attività destinata a scomparire a più o meno breve termine. Bp ha accantonato una parte delle sue attività di esplorazione meno redditizie per poterle rivendere meglio. Shell ha fatto lo stesso.

Un po’ alla volta, insomma, le compagnie si separano dagli attivi meno redditizi, nel mare del Nord, nel Sahara egiziano, in Canada o in Angola. Siamo solo all’inizio di questo processo. Tutti promettono che stanno cambiando, che da inquinatori diventeranno ambientalisti. Shell assicura che raggiungerà la neutralità carbonica entro il 2025, Total entro il 2030, ExxonMobil si è fissato l’obiettivo per il 2050. Se hanno perso la battaglia del riscaldamento climatico, i grandi gruppi del petrolio intendono invece vincere la guerra della transizione ecologica, imponendo i loro punti di vista e le loro tecnologie, in modo tale che, se in apparenza tutto sarà cambiato, loro conserveranno una posizione di dominio nel mondo dell’energia. A questo proposito, la differenza di approccio delle compagnie petrolifere europee rispetto alle concorrenti statunitensi è piuttosto significativa. I gruppi europei hanno ammesso molto prima degli altri il riscaldamento globale e i cambiamenti che esso implica. Già nel 2018 il gruppo britannico Bp aveva avvisato che il consumo mondiale di petrolio, che aveva raggiunto i 100 milioni di barili al giorno, era di sicuro al suo picco e che era necessario ormai adeguarsi a un mondo senza combustibili fossili. Per questo prevede di ridurre del 40% la sua produzione di energia fossile entro il 2030. Sull’esempio di Bp, tutti i gruppi europei vogliono ormai diventare i paladini delle energie rinnovabili. Impianti eolici offshore, parchi solari e idrogeno sono al centro di aspre battaglie tra i numerosi concorrenti. Nel 2020, Total ha investito più di 2 miliardi di dollari nel settore delle rinnovabili per più di 10 GW di capacità produttiva. Se si considerano la sua partecipazione nella società Adani Green Energy Limited e gli altri progetti, il gruppo si troverà a capo di un portafoglio di 35 GW di energie rinnovabili entro il 2025, superando tutti i suoi principali concorrenti. In futuro Total non si vede più come un fornitore di petrolio o di gas ma come un fornitore di tutte le energie, a eccezione del carbone e del nucleare. E intende sottolineare questo cambiamento sin dalla prossima assemblea generale del gruppo cambiando il suo nome in TotalEnergies.

Shell, Bp, Eni stanno seguendo le sue orme. Questa strategia finanziaria, che consiste nell’acquistare degli impianti rinnovabili in tutto il mondo per pervenire a un equilibrio nella neutralità carbonica, è discutibile per molte associazioni ambientaliste. In sostanza, questa strategia, sostengono le associazioni, invece di cambiare le abitudini, modificare i comportamenti, i consumi, i modelli di produzione, come sarebbe necessario per operare una vera transizione ecologica, intende solo stabilire un saldo contabile tra, da un lato, le emissioni di carbonio legate alle attività tradizionali e, dall’altro, la produzione rinnovabile. A questo punto potranno fare bella mostra del risultato di “zero emissioni” così ottenuto. Una strategia che i gruppi statunitensi spingono ancora oltre, tenuti a rendere conto a un’opinione pubblica sempre più sensibile alle questioni climatiche e alla nuova amministrazione Biden, che ha fatto della transizione ecologica uno dei pilastri della sua politica. Tuttavia, secondo loro, la fine del petrolio e dei combustibili fossili non è imminente. Lo hanno ribadito i dirigenti di ExxonMobil e ConocoPhillips in un recente meeting sull’energia in Texas. Per loro, a dispetto di quello che dicono gli esperti, il mondo avrà ancora bisogno di petrolio nei prossimi anni e per questo il loro programma è piuttosto quello di accrescere la produzione e gli investimenti nell’esplorazione. Al tempo stesso, sanno però che la neutralità carbonica è diventata determinante per molti fondi di investimento. Come conciliare le due cose?

Per i gruppi petroliferi statunitensi la soluzione non va cercata nell’eliminazione dei combustibili fossili, ma nell’eliminazione delle emissioni di carbonio. Puntano cioè a sviluppare tecnologie e impianti di stoccaggio del carbonio. Le prime esperienze in questo campo non sono state soddisfacenti, ma le aziende americane sono convinte di disporre di tecnologie e mezzi finanziari sufficienti per riuscirci. E se ciò non dovesse bastare, c’è sempre la tecnica della compensazione. Per compensare le proprie emissioni di Co2, si annunciano già progetti di riforestazione in tutto il mondo. In Inghilterra, Greenpeace ha fatto alcuni calcoli: i soli progetti di riforestazione proposti dalla compagnia petrolifera italiana Eni per compensare le sue emissioni di Co2 dovrebbero rappresentare il 6% della superficie terrestre. Cumulando tutte le misure analoghe proposte dalle maggiori compagnie petrolifere per compensare le loro emissioni, non è sicuro che l’intera superficie del pianeta sarebbe sufficiente. I gruppi americani si aspettano molto dal governo per sostenerli in questa transizione. Se si sono mostrati fortemente ostili a qualsiasi sorta di carbon tax, ora chiedono invece l’inasprimento dei mercati delle emissioni. Ai loro occhi la misura ha molti vantaggi: dovrebbe permettere di eliminare i concorrenti più deboli, incapaci di sostenere i costi aggiuntivi; dovrebbe anche permettere di evitare qualsiasi regolamentazione governativa poiché sarà il mercato a regolamentarsi. I governi possono respingere le proposte delle compagnie che non sono all’altezza della sfida climatica? In passato si sono mostrati deboli nei confronti delle compagnie e la storia rischia di ripetersi. Il punto è che gli uni e gli altri condividono la stessa visione del cambiamento climatico, convinti che sia possibile gestire la natura e che la tecnologia possa fornire i rimedi per mantenere il sistema esistente.