Azzardo. 22 miliardi di giocate in meno nel 2020 rispetto a un anno prima: sono andate alle mafie?

Nel Paese che ha la febbre del gioco, se anche al gioco viene la febbre a giovarsene è la criminalità. Lo rivela l’ultimo rapporto del Copregi, il Comitato prevenzione e repressione del gioco illegale dell’Agenzia dogane e monopoli al quale contribuiscono il Dipartimento della Pubblica Sicurezza, il Comando Generale della Guardia di Finanza e il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri.

Da marzo 2020, nei dodici mesi segnati dai lockdown per la pandemia al crollo della raccolta del gioco legale sul canale fisico (sale giochi, slot, sale scommesse, bingo) ha fatto da contraltare solo in parte un aumento delle giocate sui canali online legali: il resto è andato con ogni probabilità a ingrossare il gioco illegale e le mafie. Il problema, come segnala un grande operatore nazionale, è che il settore del gioco legale da marzo 2020 a oggi è stato chiuso 240 giorni. Dal primo lockdown, il 9 marzo di un anno fa, le 7mila sale giochi sono state riaperte in tutta Italia il 15 giugno e nel Lazio dal primo luglio, per venire richiuse dal 26 ottobre.

Nel 2019 sul canale fisico il gioco legale aveva raccolto 74,1 miliardi, mentre negli ultimi dodici mesi è sceso a 39. I 35 miliardi di differenza “non sono spariti”, ha spiegato Marcello Minenna, direttore generale dell’Agenzia: “Una parte di quelle somme si è semplicemente spostata dal canale fisico a quello telematico”. Nel 2020 le giocate legali online sono aumentate a 49,2 miliardi, crescendo di 13 e superando quelle sul canale fisico. Ma secondo Minenna “l’altra parte” che manca, ben 22 miliardi, potrebbe essere “finita nei circuiti illegali” sottraendo tasse per oltre 4,5 miliardi. Lo Stato ha reagito scoprendo in pochi mesi 250 sale giochi illegali, chiudendo 100 bische e sequestrando 2mila slot, ma la lotta è solo all’inizio.

La filiera del gioco legale nel 2019 dava all’Erario un gettito di 12 miliardi e un reddito agli operatori compreso tra 7 e 8 miliardi. Nel comparto operano alcune grandi aziende e 60mila piccole e medie imprese, quasi tutte familiari, con 150mila addetti tra occupati diretti e indiretti. Tre le organizzazioni di categoria: Sistema Gioco Italia che aderisce a Confindustria, Acadi che fa parte di Confcommercio e Astro–Assotrattenimento.

Dopo le proteste di piazza degli imprenditori, il tema è stato sottolineato anche dai sindacati. “Sale Bingo, sale scommesse e gaming hall sono in sospensione e in regime di ammortizzatori sociali e non ci sono segnali positivi per il futuro”, ha scritto la Filcams Cgil che fa fronte con Fisascat Cisl e UilTucs. I sindacati chiedono un confronto con le istituzioni sulla riorganizzazione del settore che unisca salute pubblica, tutela occupazionale e contrasto alle attività illegali, considerando i luoghi di gioco per la loro effettiva rischiosità e consentendo di riaprire al pari delle altre attività a rischio equivalente.

Rimettere in piedi il gioco legale senza colpire la salute dei cittadini e senza diffondere la ludopatia è una scommessa difficile, ma va vinta per sconfiggere le mafie.

 

La pendolarità è un danno per i lavoratori e l’economia

Con la pendolarità per lavoro si intendono in genere tutti i movimenti “sistematici”, cioè giornalieri, al di fuori del proprio Comune di residenza, cioè quelli per cui è indispensabile prendere un mezzo motorizzato. La pendolarità ha notoriamente costi privati e sociali molto alti: innanzitutto elevatissimi costi monetari per chi va in automobile (causa tasse), poi per tutti elevati costi di tempo e di disagio, con conseguente diminuzione sia della produttività del lavoro che con la perdita di tempo da dedicare al riposo o alla vita privata. E non è finita: i pendolari che devono muoversi con mezzi individuali generano anche pesanti costi ambientali, di sicurezza e di congestione. E per quanto riguarda il trasporto pubblico, questo presenta anche elevati costi monetari in termini di sussidi, particolarmente alti nel contesto italiano anche grazie alla scarsa efficienza media delle imprese e alle basse tariffe. La causa, prima di un fenomeno così negativo, è la casa in proprietà, o meglio gli elevati costi burocratici e fiscali che si riscontrano se si vuol cambiar casa, ma anche il fatto che il mercato dell’affitto è molto poco sviluppato in Italia, e anch’esso problematico.

Il fenomeno sarebbe meno grave in un contesto di accessibilità diffusa ed equilibrata sul territorio. Ma storicamente così non è: le aree centrali concentrano i posti di lavoro e di conseguenza godono di una accessibilità previlegiata in termini di trasporti pubblici, e a volte anche di viabilità. Ma questa accessibilità privilegiata dei centri urbani ne aumenta l’attrattività e quindi i prezzi e gli affitti delle case, cioè la rendita urbana. Che è l’altra micidiale causa della pendolarità: espelle le categorie a basso reddito dalle aree centrali e le “costringe” a viaggiare, non per turismo. Inoltre la casa “impossibile da cambiare” è una sciagura per il mercato del lavoro, già così in difficoltà. L’economista americano di area democratica Krugman ritiene che la crisi del 2008, che ha “paralizzato” la gente rendendo le case invendibili, ha determinato perdite economiche molto forti all’intera economia. Il fenomeno danneggia lavoratori, imprese e collettività, dilatando inutilmente la pendolarità con costi privati e sociali che abbiamo visto. E la rendita urbana, secondo una serie di studi a seguito delle analisi dell’economista neomarxista Piketty, è la causa principale dei crescenti squilibri di reddito tra capitale e lavoro, con un ruolo più elevato del profitto.

Una cosa da fare subito sarebbe incentivare l’affitto, o rendere rapido e poco oneroso il cambio di proprietà. Una politica fattibile per via fiscale in tempi rapidi. Ma avrebbe solo risultati parziali: manterrebbe la gerarchia dei prezzi, cioè la rendita urbana, diminuendo solo i costi di cambiar casa tra aree con prezzi omogenei (“mi posso spostare agevolmente tra aree periferiche, se cambio lavoro o la famiglia s’allarga o si restringe”). Per aggredire seriamente la rendita urbana occorrerebbe eliminare gli squilibri di accessibilità: diventare meno gerarchica possibile.

Si può ottenere in parte con l’automobile (il famigerato “modello americano”, dove però le case costano molto meno che da noi rispetto ai redditi. Si vedano le ricerche di Wendell Cox). Certamente l’automobile deve diminuire radicalmente sia i suoi costi privati, oggi legati per oltre il 50% alla tassazione, sia quelli sociali (ambiente). Ma questa diminuzione è già in corso grazie al progresso tecnico. E accelererà molto grazie alla feroce concorrenza sulle auto elettriche. E se diminuiscono anche i costi privati dell’automobile, le ragioni per sussidiare il Tpl si affievoliscono. Si potranno spostare i sussidi sugli utenti a più basso reddito, a parità di risorse pubbliche disponibili, persino con servizi gratuiti. Oggi spesso si sussidiano i ricchi che stanno in centro e si tassano i poveri che stanno in zone inaccessibili che richiedono l’auto. Dopo il Covid, molta attività lavorativa in remoto rimarrà e la pendolarità diminuirà spontaneamente. Se questa tendenza sarà supportata dalla pianificazione pubblica anche con il sostegno alla mobilità elettrica (che potrà essere pagata in buona misura dagli utenti, non più “caricati” dalla tassa sulla benzina), la rendita urbana potrà essere combattuta, con benefici per tutti.

E gli effetti ambientali dell’orribile consumo di suolo? Questi si ridurranno drasticamente quando saranno finalmente cancellati i fiumi di sussidi che diamo all’agricoltura inquinante, per impedire ai Paesi poveri di venderci le loro produzioni. Meglio che le città attenuino il loro ruolo di luoghi privilegiati per i ricchi, che i poveri vengono a visitare ammirati la domenica (ma definirli poveri non sta bene, oggi si usa chiamarli urban users, che è tanto più fine…).

Le privatizzazioni in saldo e il vizio delle consulenze

Dopo i 43 morti per il crollo del ponte Morandi a Genova, la vendita della monopolista società Autostrade è diventata il principale simbolo negativo delle privatizzazioni di aziende “gioiello” dello Stato, organizzate negli anni Novanta da Mario Draghi quando era direttore generale del ministero del Tesoro. Ora, in una specie di “nemesi” del destino, tocca proprio al premier Draghi decidere sulla trattativa in corso per acquistarla e riportarla sotto il controllo pubblico.

Per alcuni Autostrade fu svenduta. Per i compratori Benetton – che sapevano farsi benvolere dal centrosinistra di Romano Prodi, Massimo D’Alema e Carlo Azeglio Ciampi, come dal centrodestra di Silvio Berlusconi e dagli altri partiti – il prezzo era giusto. Le condizioni tecniche di Draghi per la vendita furono favorevoli: in sintesi consentivano di comprare con l’aiuto di maxi-debiti e di trasferirli poi dentro l’azienda acquisita.

Autostrade sembrava un gigantesco bancomat per i proprietari, riempito a suon di aumenti dei pedaggi concessi dai governi di tutti i colori. L’inchiesta giudiziaria sul crollo del ponte a Genova chiarirà se si risparmiava sulla manutenzione fino a mettere a rischio la sicurezza degli automobilisti. In compenso Draghi sa nei dettagli quanto e come fu pagata Autostrade. Ha la competenza per comprarla senza farsi condizionare dai prezzi alti ipotizzati da “indiscrezioni” di giornali attenti agli interessi dei Benetton. E per non far accollare allo Stato gli imprevedibili e altissimi rischi dei risarcimenti per il disastro del Morandi.

Anche la vendita del colosso monopolista Telecom ha fatto capire ai liberisti alla Draghi che il privato non sempre è meglio del pubblico. Nel ’97 il controllo fu dato agli Agnelli che, com’era loro abitudine, comprarono una quota minima con un “nocciolo duro” di altri azionisti. Poi prevalsero – con maxi-debiti scaricati sulla società – Emilio Gnutti e Roberto Colaninno, ben visti dall’allora premier D’Alema. Quando a Palazzo Chigi arrivò Silvio Berlusconi, incassarono rivendendo a Marco Tronchetti Provera. In sostanza, con le privatizzazioni, imprenditori e finanzieri graditi ai governi subentrarono ai dirigenti-boiardi imposti dai politici. Telecom, molto indebitata, tagliò decine di migliaia di dipendenti.

Meno nota, ma giudicata nella finanza laica quasi “un delitto”, fu la privatizzazione della Banca commerciale italiana (Comit/Bci), raro esempio di istituto di credito nazionale con efficienza, credibilità e abbastanza autonomia dai partiti fin dai tempi del banchiere umanista Raffaele Mattioli. Finì ai “nemici” delle banche ex democristiane. Intesa di Giovanni Bazoli la inglobò ed eliminò il prestigioso marchio Comit/Bci.

I facili introiti “una tantum” delle privatizzazioni di Draghi non risolsero il problema dell’alto debito dello Stato. Serviva ridurre gli sprechi, la corruzione, l’evasione fiscale e un attento controllo della spesa strutturale. Andava calcolato meglio se, nel lungo periodo, sarebbe convenuto non vendere le aziende redditizie e incassare i dividendi. Anche perché, in Italia, governi e alti burocrati non avevano certo fama di bravi venditori/compratori con i privati.

Bisognava migliorare molto almeno gli apparati dei ministeri. Invece Draghi, nel suo decennio al Tesoro, esternalizzò alle costose banche d’affari e società di consulenza multinazionali, spesso in potenziali conflitti d’interessi con altri loro business e clienti privati. Iniziò nella mini-crociera sul panfilo reale inglese Britannia, nel giugno ’92, dove aprì le porte del suo ministero ai banchieri anglo-Usa. Già nel settembre successivo alcuni di loro furono sospettati dell’attacco speculativo alla lira con guadagni enormi a spese degli italiani. La conseguente svalutazione della moneta deprezzò le aziende pubbliche. In teoria banchieri e loro clienti potrebbero aver partecipato alle privatizzazioni pagando a prezzi di saldo con quanto incassato speculando contro la lira.

Secondo dei veterani del Tesoro, Draghi sbagliò a “far entrare famelici squali della finanza dove alti burocrati sguazzavano come pigri pinguini e placide foche”. Un esempio di come li sbranarono furono le ingenti perdite con riservatissimi e criptici contratti di “derivati finanziari”, piazzati dalle banche straniere. Dovevano assicurare un grande debitore come l’Italia dalle eccessive variazioni dei tassi d’interesse e dei cambi valutari. Ma a volte svelavano effetti speculativi ad alto rischio. Il Tesoro e altre amministrazioni pubbliche hanno pagato miliardi alle grandi banche d’affari, che vincevano quelle “scommesse” finanziarie. Le contestazioni della Corte dei Conti contro dirigenti del Tesoro sono ancora in corso. Non hanno coinvolto Draghi, che ha sempre rivendicato l’utilità e la cultura dei derivati, sia di non aver mai firmato contratti “incriminati”.

Guidando la commissione per la riforma degli intermediari finanziari, il direttore del Tesoro diede vita alla “legge Draghi”. Era influenzato dal liberismo dominante a Wall Street e nella City. E la sua coerenza andava rispettata. Almeno fino a quando non lasciò il Tesoro e nel 2002 sollevò dubbi di potenziali conflitti di interessi trasferendosi a Londra al servizio della banca privata Goldman Sachs, che lo gratificò con un mega-stipendio. Anche suo figlio Giacomo seguì le orme paterne in una entità simile, Morgan Stanley, che guadagnerà miliardi su un contratto di derivati con il Tesoro (successivo all’uscita di Draghi).

Le banche d’affari assumono spesso politici e dirigenti dopo averli apprezzati quando operavano nello Stato. Queste “porte girevoli” tra pubblico e privato, però, possono nascondere una ricompensa dilazionata nel tempo? Il segreto sui contratti bancari non consente certezze. Rispetto a tanti governanti ingaggiati “a peso d’oro” dai banchieri, l’indiscussa competenza finanziaria tutelava l’immagine del buon Mario. In più quelle critiche si dissolvono man mano che si allontana il ricordo del ruolo nelle istituzioni pubbliche. Il problema di Draghi fu che non finì ricco e dimenticato in Goldman Sachs. Nel 2006 fu richiamato a Roma dal premier Berlusconi, su “segnalazione” del solito Ciampi (allora al Quirinale), come governatore della Banca d’Italia, al posto di Antonio Fazio travolto dallo scandalo Bancopoli.

(2, continua)

Il nuovo pnrr? per ora l’hanno riscritto solo i giornali

Mario Draghi, si sa, è bravo per definizione. Ma la frenesia di trovare ogni giorno tracce del “cambio di passo” che imprimerà all’Italia sta sfuggendo di mano. Prendiamo il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che deve indirizzare i 200 miliardi del Recovery Fund. Da quando Draghi si è insediato, sulla stampa è un fiorire di “riscritture” in cui il nostro si prodiga perfino “da solo”. Poi succede l’inaspettato. Lunedì, alle Camere, il ministro dell’Economia Daniele Franco preannuncia che “il governo metterà a disposizione le note tecniche sulle misure da finanziare nell’ambito del Pnrr. Si tratta delle note analitiche sottostanti il Piano del 12 gennaio, redatte in inglese per l’esame da parte della Commissione Ue nel proseguo dei lavori. Si intende così innanzitutto dare conto dell’enorme lavoro già fatto. Sono le note che noi ministri abbiamo ricevuto nel passaggio di consegne”. Il Fatto ne ha dato conto ieri. Tutto chiaro? Mica tanto.

Venerdì, a note consegnate, i giornali raccontavano come tutto “stia cambiando” rispetto al vecchio piano di Conte. Pare – e prendiamo qui a titolo di esempio due giornali – che circoli un “Recovery plan targato Draghi” (La Verità); un testo “che è un passo avanti che arricchisce il precedente piano di Conte”, perché “entra molto più in profondità nei singoli filoni di spesa e anche nei progetti” (Il Sole 24 Ore). Un esempio? “Il Cloud e il 5G”, dove si “sterza e si riannoda il filo con Washington” (La Verità). Sul primo infatti si “archivia la linea dei 5Stelle” (“una architettura nazionale più che autarchica autistica e che taglia fuori i grandi player, che sono americani”), mentre sul 5G ci sono “chiare indicazioni di Colao”. Il quotidiano di Confindustria ci segnala poi che questo “documento arricchito” contiene quei “Target, milestones, obiettivi e cadenzamento delle spese che la Commissione Ue aveva lamentato nelle scorse settimane”. E qui pare “spunti” la “proroga del Superbonus edilizio al 2023”, cosa che i 5Stelle in confusione hanno salutato con un comunicato festoso. Eppure non è cambiato nulla, anzi, alcune note sono perfino più vecchie rispetto alla bozza del 12 gennaio. Poco importa, la riscrittura la fanno i giornali, “da soli”.

Derogando a tutto: il campionato (falsato) dei bilanci

Isoldi sono finiti, ci sono club che non hanno un euro in cassa, faticano a saldare stipendi e versamenti. Il pallone italiano è in stato comatoso, ma che problema c’è? Non ci sono malati se non ci sono controlli. Di deroga in deroga, di rinvio in rinvio, la FederCalcio sta riuscendo a realizzare il sogno di tutti i patron: praticamente un intero campionato senza tasse e accertamenti. C’è chi non paga un euro di contributi da luglio 2020, e magari non lo farà fino a maggio, quando la stagione sarà conclusa.

Sono mesi che il pallone piange miseria, e non ha tutti i torti. Il Covid ha chiuso gli stadi, volatilizzato i ricavi degli spettatori, fatto scappare gli sponsor: per la sola Serie A, è stimata una perdita di 200 milioni per la stagione 2019/2020, addirittura 700 con quella in corso. Reale o esagerata che sia, quelle dei patron sono le classiche lacrime di coccodrillo, visto che la pandemia ha solo esasperato le contraddizioni di un sistema che non stava in piedi da tempo. Travolto dal virus, il pallone aveva due strade davanti: tirare la cinghia e provare finalmente a riformarsi, oppure far finta di nulla e sperare in un aiuto. Ovviamente ha scelto la seconda.

La soluzione è stata smettere di pagare tutto ciò che era possibile non pagare. Gli stipendi, quelli sono rinviabili fino a un certo punto: i calciatori gratis in campo non ci vanno, ogni tanto protesta l’AssoCalciatori (che pure da quando ha sposato la linea del presidente federale Gravina esercita il suo ruolo di sindacato sempre più flebilmente), qualcosa si può risparmiare, spalmare su più anni, ma bisogna trovare l’accordo individuale, giocatore per giocatore. È più facile con le tasse: Lega e Federazione battono cassa col governo chiedendo aiuti e dilazioni, finché arriva la cartella esattoriale è tutto tempo guadagnato. Il problema è che il calcio italiano si era dato un sistema di regole precise, controlli, scadenze, indicatori, per monitorare lo stato di salute dei club ed evitare nuovi casi Parma. Il saldo puntuale di stipendi e contributi è proprio uno degli obblighi principali da rispettare, per non incorrere in pesanti penalizzazioni. Solo che da mesi ormai la Figc, ogni volta che arriva la scadenza, puntualmente la rinvia. A settembre ha spostato il termine a novembre, a novembre lo ha posticipato a febbraio. A dicembre (grazie a un emendamento del Pd costato decine di milioni alle casse dello Stato) è riuscita ad ottenere la sospensione dei contributi per le mensilità di gennaio/febbraio. A quel punto, visto che tanto la prima rata di questo bimestre sarà dovuta solo dal 31 maggio, nell’ultimo consiglio federale si è deciso di rinviare a tale data pure i controlli sulle mensilità precedenti (che invece non sono state sospese e dunque restano dovute al Fisco).

Il risultato è che ci sono società che non pagano i contributi da giugno 2020 (in attesa di nuovi favori sulle prossime mensilità). Niente nomi, tutto avvolto dalla riservatezza, ma quali siano le squadre più in crisi non è un mistero. Sanzioni zero, anche perché non ci sono controlli. Sono quasi tutti contenti, tranne quei presidenti (pochi) che avevano saldato le pendenze in tempo. Ingenui loro. La deroga, che è arrivata spesso a ridosso della scadenza, ha graziato quelli che non ce l’avrebbero fatta (e che magari adesso si salveranno o si qualificheranno per la Champions League, al posto di società più sane). Prima o poi i nodi verranno al pettine, ma per allora diversi patron sperano di vendere un pezzo di campionato ai fondi d’investimento (la ragione per cui è ancora bloccata l’assegnazione dei diritti tv) e con quei soldi mettere una toppa al buco in bilancio. La Figc, invece, dirà che non c’erano alternative, perché altrimenti troppi club sarebbero falliti a causa del Covid. Che l’ha fatto per evitare di stravolgere la classifica con le penalizzazioni, per non falsare il campionato. O forse il campionato più falsato è quello dove le squadre non hanno i conti in regola.

I diritti tv del calcio: una pedina nella guerra sul futuro delle Tlc

Il pallone in realtà è una biglia e i ricchi presidenti, che si credono potenti, poco più di bambini che litigano per Sky, Dazn o i fondi d’investimento. Non si sono accorti che i diritti tv della Serie A stavolta sono solo un piccolo tassello di una partita molto più grande, dove giocano i veri top player, si fanno scelte strategiche per il futuro del Paese, si muove il riassetto di un mercato che vale miliardi.

Da quasi tre mesi la Serie A è impantanata sull’assegnazione dei diritti tv 2021-2024, quelli che partono da settembre. Le opzioni sono due. Sky offre 750 milioni su satellite e digitale terrestre, ma non può trasmettere partite in esclusiva su internet (glielo ha vietato il Consiglio di Stato), quindi in parallelo propone l’avvio di un “canale della Lega” online. Dazn ha un’offerta più alta, 840 milioni per il campionato in streaming: 7 partite in esclusiva, 3 in condivisione (rivendute magari a Sky…).

I club come al solito si sono spaccati, non tanto fra le due proposte, quanto sull’ingresso dei fondi d’investimento. Una cordata guidata da CVC offre 1,7 miliardi per prendersi il 10% del torneo e gestirne la parte commerciale per almeno dieci anni. Mezza Serie A, i club più piccoli, più disperati, quei soldi li vogliono ad ogni costo perché sperano di aggiustare i bilanci. Le big invece no: Lotito, Agnelli, De Laurentiis per una volta sono dallo stesso lato della barricata per ragioni diverse, per non perdere potere o tenersi liberi in vista di un’ipotetica SuperLega europea. Il ricatto è “niente diritti tv senza fondi” e viceversa: uno stucchevole braccio di ferro che si è trascinato ormai pericolosamente vicino alla scadenza delle offerte a fine marzo.

Anche la scelta fra Sky e Dazn, satellite o streaming, tradizione o rivoluzione, non è scontata. Gli equilibri si sono spostati quando la voce anticipata a gennaio dal Fatto è diventata realtà: “C’è Tim dietro Dazn”. Dopo numerose smentite, Tim è uscita allo scoperto confermando l’accordo come “operatore di telefonia e pay tv di riferimento, nonché partner tecnologico”. Tradotto: Dazn e le sue partite passerebbero dall’ex monopolista, che metterà a disposizione le sue competenze per la trasmissione e soprattutto garantirà una parte dell’affare (si parla del 40%, 340 milioni). Questo cambia tutto, l’offerta di Dazn diventa molto più credibile: mai un’azienda di queste dimensioni, che ha tra i suoi azionisti la pubblica Cassa depositi e prestiti, si era interessata alla Serie A.

Tim è uno dei colossi italiani: oltre 55mila dipendenti, 15 miliardi annui di fatturato, ma è alle prese con un mercato saturo, ricavi in calo (-12% sul 2019) e un indebitamento pesante. Ora il suo progetto più rilevante è la società della rete unica, di cui resterebbe proprietaria condividendo però la governance (ma serve un complicato accordo di tutti, Enel e Cdp – di nuovo – in testa). Da tempo il calcio italiano sperava che Tim s’accorgesse di lui, l’ad di Lega De Siervo l’aveva soprannominata “la bella addormentata nel bosco”. Il momento è arrivato perché a Tim il pallone non piace, serve.

Il business del futuro, e già del presente, è l’integrazione fra contenuti e telefonia: crearsi una piattaforma online, metterci dentro qualcosa di interessante e permettere a clienti di godersela, comodamente connessi, come e quando vogliono. Un mercato esploso durante la pandemia con milioni di persone costrette a casa (+60% di visualizzazioni nel secondo semestre 2020) e destinato a crescere ancora. L’hanno capito tutti. L’aveva capito pure Sky, che nella gestione Comcast ha lanciato la tecnologia SkyQ e l’offerta Sky-wifi, l’unica maniera per tenere in piedi la sua costosa e ormai obsoleta struttura industriale (decoder, parabola, etc.). I numeri sono ancora piccoli, ma Tim s’è accorta della minaccia: Comcast è il terzo fornitore di telefonia domestica negli Usa, con una base di 5 milioni di abbonati della tv può diventare pericolosa in Italia.

La contromossa di Tim è sfidare l’avversario sul suo terreno, colpirlo nel suo business più prezioso. I diritti tv del pallone, che in Italia sono senza dubbio il prodotto migliore da mettere dentro qualsiasi contenitore (come TimVision). Sono anche lo strumento più rapido per spostare la clientela sulla fibra. Nel dibattito sulla trasmissione del campionato in streaming, Tim si è affrettata a diffondere numeri rassicuranti: 19 milioni di linee attive, 16,8 sue di cui il 91% in ultrabroadband, quindi ad alta velocità. Questa però è solo la copertura potenziale: i dati Agcom raccontano una realtà un po’ diversa, in cui ancora il 40% del Paese ha una linea in rame e quanto a Ftth (“Fiber to the home”, la fibra che ti arriva fino a casa) Tim conta appena 230mila utenze, dietro Fastweb, Vodafone e WindTre. La Serie A, la necessità di una connessione eccellente per vederla, la possibilità di avere magari un pacchetto unico, legherà gli utenti a Tim e li spingerà verso la banda larga: il pallone potrebbe svecchiare il Paese e far fare bei soldi all’ex monopolista dei telefoni. Insomma, un miliardo (in tre anni) sembra un investimento ragionevole per togliersi dai piedi un rivale e al contempo proiettarsi sul mercato del futuro.

È finito da un po’ il tempo del duopolio Rai-Mediaset con spruzzate di Sky o La7, mai nata davvero la guerra Sky vs Dazn. Oggi questi potentati locali – i broadcaster vecchio stampo, le stesse aziende di tlc – sono nani in un mercato di giganti. Il problema è creare qualcosa che abbia i numeri e la forza per resistere all’onda d’urto dei colossi mondiali – Netflix, Amazon, Disney, etc – che possono permettersi di investire e perdere miliardi prima di guadagnare in un settore. Vale anche per i diritti tv. Il primo azionista di Tim è la francese Vivendi, cui manca il mercato italiano e poco altro per essere la media company europea che vorrebbe: certo, per farlo deve fare pace con Berlusconi, essendo Mediaset l’altro suo grande investimento italiano. In ogni caso, se Tim-Dazn dovessero spuntarla, Sky dovrà interrogarsi su cosa fare di se stessa, se provare a resistere o smantellare: la fase di ristrutturazione era già iniziata, l’ad Massimo Ibarra puntava a tenere il campionato altri tre anni per gestire una ritirata ordinata. Senza, sarà traumatica e lo stesso ramo di Sky Italia potrebbe finire sul mercato.

In questa enorme partita, il calcio per una volta è solo un mezzo e deve capire quali sono i suoi fini. L’offerta di Dazn è più ricca e infatti pare vicina alla meta: in Lega le mancano tre voti. Per il tifoso significherebbe un pacchetto Serie A a 24,99 o 29,99 euro al mese. L’unica domanda è se l’Italia sia già pronta per il salto sul digitale. Dazn continua a dare rassicurazioni, dall’innovativo protocollo Multicast per gestire un grande numero di connessioni (soluzione che non convince tutti gli esperti), ad una copertura col digitale terrestre (sta trattando le frequenze di Persidera) per alleggerire lo streaming in bar e ristoranti.

La garanzia migliore sta nell’avere alle spalle Tim, senza cui questa operazione non sarebbe possibile. L’altra incognita è il travaso di una clientela legata da anni a Sky, 5 milioni di persone, 2,5 interessate solo al calcio: Dazn che ormai raggiunge picchi di oltre 2 milioni di spettatori, la metà continua a farli tramite Sky. Storicamente le migrazioni di utenti non sono indolori. Non ci riuscì Mediaset quando strappò la Champions a Sky (cosa che pagò a caro prezzo), non ci è riuscita Sky tre anni fa quando sperava di inglobare gli abbonati del Biscione. In Francia il canale della Lega di Media Pro (a condizioni più sfavorevoli) ha fatto 600mila abbonati invece dei 3,5 milioni previsti (più o meno lo stesso target di Tim/Dazn). Tra connessioni difettose, pigrizia, frammentazione dell’offerta (la Champions resterà comunque su Sky), c’è il rischio di perdersi più di qualche tifoso per strada. Ma i soldi, le strutture, la potenza di fuoco di Tim sono un’occasione troppo grossa per la Serie A per farsi traghettare verso il futuro. È su questo che i presidenti riflettono. O forse litigando solo come bambini.

C’è poeta e poeta. Leopardi o gastrite in versi? Il piacere misterioso di leggere opere astruse

Scrivere una poesia ermetica è molto più facile che comporre Il passero solitario o Il cinque Maggio. Non c’è bisogno di metrica, di rime baciate o alternate, A-B-B-A ,di endecasillabi o… di altre cosucce che ci hanno tormentato per anni al liceo, e anche alle medie, quando eravamo solo poco più che bambini innocenti.

Io, di natura, sono facile alla distrazione. Non ho il gran dono della concentrazione, ci metto un nonnulla ad assentarmi e partire con la mente inseguendo un pensiero mio, magari il più banale, sufficiente però, a farmi inesorabilmente distrarre. Figuriamoci quando il mio professore di italiano cercava di spiegarci il significato della poesia moderna. Io lì mi perdevo totalmente: non solo per distrazione, semplicemente non capivo.

Esempio di una poesia moderna che è stata per me una specie di incubo per anni, faceva cosi: “… cattedrale sepolta in un deserto di pentole ottuse/ rimugino il vento immondo con divina sapienza/ e garriti di rondini lontane e stronze/ mi arrovello nel coacervo putrido e insignificante/ e rutto alla vita soavemente e sovente, rutto (qui il professore ci spiegava che il rutto è sinonimo di una spiritualità liberatoria) o salto sui geroglifici ripugnanti della vana pubblicità/ informe come un fariseo ebbro di assenzio e di merda (il professore diceva che il poeta intendeva la merda come rifiuto delle convenzioni borghesi) e finalmente felice ed equipollente/ rutto alla luna!” (qui il professore ammetteva un grave problema gastrico del poeta).

Ora, se dopo tanti anni incontrassi questo poeta, come minimo gli menerei! Vogliamo paragonare “… Silvia, rimembri ancor quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi…”, noo, non c’è proprio corsa! Leopardi non era sanissimo, ma di certo non soffriva di stomaco.

La storia infinita (e comica) Berlusconi: il potere, la condanna e il ritorno, senza passare dalla galera

Il primo pensiero sul libro di Giuseppe Pesce, Il lato B (Martin Eden editore), è ingiusto. Infatti è un librettino elegante con foto appena un po’ umoristica di Berlusconi in copertina. Ed è impossibile non dire: “Ancora?”.

Possibile che non sia stato detto tutto di Berlusconi, da quando si è dichiarato da solo salvatore dell’Italia che stava cadendo nelle mani dei comunisti, da quando ha governato l’Italia per vent’anni spingendo ogni struttura del Paese sull’orlo del precipizio, fino a quando è stato rimosso con un’indispensabile brutalità dall’intera Europa, mentre lui vedeva treni affollati, ristoranti in festa e segretarie troppo belle per non attirare investimenti stranieri? A una prima sfogliata del testo vi rendete conto che è presente, insieme con l’autore, il meglio dell’umorismo italiano del tempo, da Corrado Guizzanti a Nanni Moretti. Cosa volete di più?Invece Pesce ci sta dando il libro giusto nel periodo giusto, ovvero un racconto incredibile in un momento incredibile.

Infatti il libro è la storia svelta, asciutta e comica del più imprevedibile personaggio di governo conosciuto dagli italiani (Mussolini era molto peggio ma è finito come è finito). Qui invece sono due i tratti straordinari della “realtà romanzesca”: da un lato il racconto puro e semplice dell’avventura berlusconiana (l’umorismo e il paradosso non sono allegra cattiveria d’autore ma ordinata ricostruzione in sequenza, insieme comica e realistica, dei fatti); dall’altro i telegiornali che vanno in onda mentre stai leggendo “Il lato B”. I mezzibusti annunciano che Berlusconi (nell’anno 2020) sta andando al Quirinale con la delegazione del suo partito che esiste ancora (stessi nomi, da Gelmini a Brunetta), che Berlusconi è stato richiesto e “ha accettato” di far parte della coalizione che viene chiamata “il governo di tutti”, e che Berlusconi, insieme al Pd e ai Cinque Stelle, torna a governare l’Italia.

Eppure non c’è stata una rivoluzione, un colpo di mano di destra, una sommossa militare (benchè un generale di corpo d’Armata distribuisca le siringhe per i vaccini), una spallata dei managers pragmatici. C’è stato il fatto incredibile che Pesce ha annunciato nel suo libro come una profezia: il ritorno di Berlusconi senza passare dalla prigione.

Con un risvolto che resterà, come bizzarra memoria, nella storia d’Italia: un cittadino condannato in via definitiva a quattro anni di reclusione per frode fiscale si muove solo scortato dai Carabinieri, ma come scorta d’onore, riceve il saluto marziale e metallico dei corazzieri, e poichè entra ed esce quasi ogni giorno da moltissime porte autorevoli, molti militari di molte armi si irrigidiscono al suo entrare e uscire con il loro saluto a questa autorità impropria ma resistente. Resterà noto per avere evitato con bravura e un certo orgoglio solo la polizia penitenziaria. Pesce ha capito che uno così merita ancora un libro.

 

Il lato B della Storia. Berlusconi tra cinema e televisione. Giuseppe Pesce – Pagine: 112 – Prezzo: 10 – Editore: Martin Eden

Le sardine scadute e i versi (mediocri) della poetessa Amanda

BOCCIATI

Sardine scadute. La parabola delle sardine è sempre più miseranda: si passa dalla mortadella nel documentario sull’Emilia alla foto di Mattia Sartori stravaccato e sorridente in tenda sotto un’immagine di Enrico Berlinguer. Foto che, ci hanno tenuto a comunicare, non è stata scattata in un circolo del partito ma a casa di un’amica, che è piena di cimeli comunisti”. Matti, sveglia: guarda che hai 34 anni, mica 14.

Tradurre e tradire. Le traduzioni delle poesie di Amanda Gorman, la fanciulla 22enne che ha declamato i suoi versi durante la cerimonia d’insediamento di Joe Biden, diventano un caso. Il traduttore catalano, come già era successo in Olanda, è stato incaricato e poi ritirato: “Non hanno messo in dubbio le mie capacità, ma cercavano un profilo diverso, che doveva essere una donna, giovane, attivista e preferibilmente nera”. Naturalmente la cosa fa ridere (o forse piangere) in sé. Vogliamo aggiungere una frase perfettamente condivisibile di Barbara Alberti, in un’intervista al sito mowmag.com: “Di lei conosco solo i versi della poesia recitata a Capitol Hill, e li ho trovati mediocri. E poi, che poeta sei se fai distinzioni del genere? È la negazione stessa della poesia. Questa è incultura moderna”.

I panni sporchi. Harry e Meghan, duchi fuggiaschi ma facoltosi, si sono fatti intervistare da a Oprah Winfrey nella loro splendida villa di Santa Barbara, che tra l’altro sorge accanto a quella di Oprah. L’intervista, dicono gli esperti, voleva imitare quella famosissima di Diana, con la quale Meghan ha condiviso lo stesso braccialetto di diamanti e l’abissale disagio nella gabbia della Casa Reale (ma non lo standing). Harry ha accusato violentemente ed esplicitamente la sua famiglia di non aver fatto nulla per proteggere Meghan dagli attacchi razzisti dei media. La duchessa ha pensato al suicidio: “Tutti i giornali britannici hanno detto che avrei fatto piangere Kate, ma in realtà è stata lei a far piangere me per una banale disputa sui vestiti e mi ha anche chiesto scusa. Ero bombardata da storie negative che mi distruggevano e non mi facevano dormire la notte. Ho pensato spesso che non volevo più vivere”. Poi sgancia la bomba nucleare: “Non posso dimenticare quando a corte temevano che il piccolo Archie nascesse con la pelle troppo scura”. La risposta della Regina deve averli presi piuttosto in contropiede. Ecco la nota Buckingham: “L’intera famiglia è addolorata per le loro difficoltà”. E sulle accuse di razzismo: “Preoccupanti, vengono prese molto seriamente e saranno affrontate”. Sceneggiata disinnescata?

 

PROMOSSI

Mai dire mai. Dimostrando di essere davvero intelligente, Willie Peyote si è scusato con i colleghi Francesco Renga ed Ermal Meta, dopo lo spiacevole incidente radiofonico che li ha coinvolti tutti e tre. Wille si era lasciato andare a critiche pungenti nel corso di una diretta su Twitch. Con toni ineleganti: “Renga, e mi dispiace dirlo perché lui era uno dei rappresentanti della bella vocalità all’italiana, ha cagato sul microfono”. Poi se l’è presa anche con Ermal Meta, primo in classifica per due serate: “Non si meritava per niente il primo posto. Canti ‘Caruso’ nel giorno di compleanno di Lucio Dalla, è una scelta ruffiana. Lui canta bene nessuno glielo toglie, ma in confronto Annalisa è un vulcano in eruzione”. E poi? Ci ha pensato e si scusato: “Commenti che potevo risparmiarmi. Quindi è giusto che quando dici una minchiata la gente te lo faccia notare. Sono stati detti nell’ambito di un programma con amici, comici, che voleva commentare Sanremo con un fare goliardico”. Ho visto di meglio, ho fatto di peggio: comunque in un Paese di Fonzie, si è scusato e l’ha fatto come si deve.

Salvo sono. Lunedì 8 marzo su Rai1 “Il Commissario Montalbano – Il metodo Catalanotti” ha conquistato 9 milioni di spettatori pari al 38.4% di share: Ama, vedi che si può fare il 38 anche con due ore e mezza di programma?

 

Partito democratico (pure troppo): per piacere a tutti ha perso l’anima

NON CLASSIFICATI

Provare per credere. Ne avevamo il sospetto da tempi non sospetti, ed ecco che ogni giorno che passa non fa che confermare quel che sospettavamo: quel barlume di discontinuità nella gestione sanitaria che in molti vedevano profilarsi all’orizzonte con l’arrivo di Draghi a Palazzo Chigi, altro non era che un miraggio. Pianificare per tempo ogni decisione relativa alle chiusure, comunicare in maniera ordinata solo a cose fatte, smettere di ricorrere all’utilizzo dei dpcm coinvolgendo ogni volta il Parlamento sono tutte aspirazioni nobili e giuste ma che appartengono alla sfera onirica. Nel mondo reale, esitare, faticare ad arginare le diverse voci, decretare d’urgenza da Palazzo Chigi, sembrano essere tutte coazioni a ripetere inevitabili. E se tre indizi fanno una prova, due voci antitetiche che sostengono la stessa cosa forse valgono ancora di più. Giovanni Toti, Presidente della Regione Liguria, ha commentato con disappunto i tentennamenti dell’ultima settimana: “Dal Governo Draghi noi ci aspettavamo un cambiamento di rotta, se poi abbiamo i Dpcm come Conte, anticipati alla stampa quotidiana come succede da ieri per la Conferenza delle Regioni di oggi… Per quel che dirà Draghi domani abbiamo già praticamente fatto la riunione. Sappiamo che chiuderemo a Pasqua, sappiamo delle zone rosse, francamente la discontinuità non la vedo: do il beneficio a Draghi che è arrivato da dieci giorni, ma per quanto sia capace, bravo e autorevole, dovrà prendere contezza del mondo che lo circonda”. O forse è stato prendendo contezza del mondo che lo circonda che Draghi ha rinunciato alla discontinuità. Dal canto suo, Chiara Geloni, si è tolta un sassolino dalla scarpa, chiosando così su Twitter, sotto un titolo di giornale che annunciava il rinvio delle decisioni sulle chiusure alle riunioni dei giorni successivi: “Mannaggia a quelli di prima, che decidevano all’ultimo perché erano incompetenti”. Ma si sa, gli esseri umani son così: devono provare per credere.

 

PROMOSSI

Estratto di Canfora. Perché il partito democratico non trova pace? Perché cannibalizza segretari anno dopo anno nell’illusione di scoprire finalmente la propria ragion d’essere? Perché l’ambigua espressione “vocazione maggioritaria” si è trasformata da progetto d’inclusione a profezia di sventura? Una risposta tanto icastica quanto tranciante l’ha data Luciano Canfora ad Alessandro De Angelis: “Basta ricordarsi come è nato il ‘partito a vocazione maggioritaria’ come lo definì Veltroni. Che vuol dire? Che il Padreterno ha detto: sarai grande? Che Jahvè sul Sinai ha detto all’autoproclamato Mosè ‘porterai il popolo alla salvezza?’. È nato da una abdicazione completa, basta vedere il Pantheon di partenza con Norberto Bobbio, John Fitzgerald Kennedy e Martin Luther King. Il decadimento è frutto, tra l’altro, di quella scelta autolesionistica”. Ecco, forse il Pd dovrebbe ripartire da quel pantheon, dal peccato originale di voler piacere a tutti fino al punto di perdere la propria sostanza. Tutto il resto viene a seguire.

VOTO 9