Il pallone in realtà è una biglia e i ricchi presidenti, che si credono potenti, poco più di bambini che litigano per Sky, Dazn o i fondi d’investimento. Non si sono accorti che i diritti tv della Serie A stavolta sono solo un piccolo tassello di una partita molto più grande, dove giocano i veri top player, si fanno scelte strategiche per il futuro del Paese, si muove il riassetto di un mercato che vale miliardi.
Da quasi tre mesi la Serie A è impantanata sull’assegnazione dei diritti tv 2021-2024, quelli che partono da settembre. Le opzioni sono due. Sky offre 750 milioni su satellite e digitale terrestre, ma non può trasmettere partite in esclusiva su internet (glielo ha vietato il Consiglio di Stato), quindi in parallelo propone l’avvio di un “canale della Lega” online. Dazn ha un’offerta più alta, 840 milioni per il campionato in streaming: 7 partite in esclusiva, 3 in condivisione (rivendute magari a Sky…).
I club come al solito si sono spaccati, non tanto fra le due proposte, quanto sull’ingresso dei fondi d’investimento. Una cordata guidata da CVC offre 1,7 miliardi per prendersi il 10% del torneo e gestirne la parte commerciale per almeno dieci anni. Mezza Serie A, i club più piccoli, più disperati, quei soldi li vogliono ad ogni costo perché sperano di aggiustare i bilanci. Le big invece no: Lotito, Agnelli, De Laurentiis per una volta sono dallo stesso lato della barricata per ragioni diverse, per non perdere potere o tenersi liberi in vista di un’ipotetica SuperLega europea. Il ricatto è “niente diritti tv senza fondi” e viceversa: uno stucchevole braccio di ferro che si è trascinato ormai pericolosamente vicino alla scadenza delle offerte a fine marzo.
Anche la scelta fra Sky e Dazn, satellite o streaming, tradizione o rivoluzione, non è scontata. Gli equilibri si sono spostati quando la voce anticipata a gennaio dal Fatto è diventata realtà: “C’è Tim dietro Dazn”. Dopo numerose smentite, Tim è uscita allo scoperto confermando l’accordo come “operatore di telefonia e pay tv di riferimento, nonché partner tecnologico”. Tradotto: Dazn e le sue partite passerebbero dall’ex monopolista, che metterà a disposizione le sue competenze per la trasmissione e soprattutto garantirà una parte dell’affare (si parla del 40%, 340 milioni). Questo cambia tutto, l’offerta di Dazn diventa molto più credibile: mai un’azienda di queste dimensioni, che ha tra i suoi azionisti la pubblica Cassa depositi e prestiti, si era interessata alla Serie A.
Tim è uno dei colossi italiani: oltre 55mila dipendenti, 15 miliardi annui di fatturato, ma è alle prese con un mercato saturo, ricavi in calo (-12% sul 2019) e un indebitamento pesante. Ora il suo progetto più rilevante è la società della rete unica, di cui resterebbe proprietaria condividendo però la governance (ma serve un complicato accordo di tutti, Enel e Cdp – di nuovo – in testa). Da tempo il calcio italiano sperava che Tim s’accorgesse di lui, l’ad di Lega De Siervo l’aveva soprannominata “la bella addormentata nel bosco”. Il momento è arrivato perché a Tim il pallone non piace, serve.
Il business del futuro, e già del presente, è l’integrazione fra contenuti e telefonia: crearsi una piattaforma online, metterci dentro qualcosa di interessante e permettere a clienti di godersela, comodamente connessi, come e quando vogliono. Un mercato esploso durante la pandemia con milioni di persone costrette a casa (+60% di visualizzazioni nel secondo semestre 2020) e destinato a crescere ancora. L’hanno capito tutti. L’aveva capito pure Sky, che nella gestione Comcast ha lanciato la tecnologia SkyQ e l’offerta Sky-wifi, l’unica maniera per tenere in piedi la sua costosa e ormai obsoleta struttura industriale (decoder, parabola, etc.). I numeri sono ancora piccoli, ma Tim s’è accorta della minaccia: Comcast è il terzo fornitore di telefonia domestica negli Usa, con una base di 5 milioni di abbonati della tv può diventare pericolosa in Italia.
La contromossa di Tim è sfidare l’avversario sul suo terreno, colpirlo nel suo business più prezioso. I diritti tv del pallone, che in Italia sono senza dubbio il prodotto migliore da mettere dentro qualsiasi contenitore (come TimVision). Sono anche lo strumento più rapido per spostare la clientela sulla fibra. Nel dibattito sulla trasmissione del campionato in streaming, Tim si è affrettata a diffondere numeri rassicuranti: 19 milioni di linee attive, 16,8 sue di cui il 91% in ultrabroadband, quindi ad alta velocità. Questa però è solo la copertura potenziale: i dati Agcom raccontano una realtà un po’ diversa, in cui ancora il 40% del Paese ha una linea in rame e quanto a Ftth (“Fiber to the home”, la fibra che ti arriva fino a casa) Tim conta appena 230mila utenze, dietro Fastweb, Vodafone e WindTre. La Serie A, la necessità di una connessione eccellente per vederla, la possibilità di avere magari un pacchetto unico, legherà gli utenti a Tim e li spingerà verso la banda larga: il pallone potrebbe svecchiare il Paese e far fare bei soldi all’ex monopolista dei telefoni. Insomma, un miliardo (in tre anni) sembra un investimento ragionevole per togliersi dai piedi un rivale e al contempo proiettarsi sul mercato del futuro.
È finito da un po’ il tempo del duopolio Rai-Mediaset con spruzzate di Sky o La7, mai nata davvero la guerra Sky vs Dazn. Oggi questi potentati locali – i broadcaster vecchio stampo, le stesse aziende di tlc – sono nani in un mercato di giganti. Il problema è creare qualcosa che abbia i numeri e la forza per resistere all’onda d’urto dei colossi mondiali – Netflix, Amazon, Disney, etc – che possono permettersi di investire e perdere miliardi prima di guadagnare in un settore. Vale anche per i diritti tv. Il primo azionista di Tim è la francese Vivendi, cui manca il mercato italiano e poco altro per essere la media company europea che vorrebbe: certo, per farlo deve fare pace con Berlusconi, essendo Mediaset l’altro suo grande investimento italiano. In ogni caso, se Tim-Dazn dovessero spuntarla, Sky dovrà interrogarsi su cosa fare di se stessa, se provare a resistere o smantellare: la fase di ristrutturazione era già iniziata, l’ad Massimo Ibarra puntava a tenere il campionato altri tre anni per gestire una ritirata ordinata. Senza, sarà traumatica e lo stesso ramo di Sky Italia potrebbe finire sul mercato.
In questa enorme partita, il calcio per una volta è solo un mezzo e deve capire quali sono i suoi fini. L’offerta di Dazn è più ricca e infatti pare vicina alla meta: in Lega le mancano tre voti. Per il tifoso significherebbe un pacchetto Serie A a 24,99 o 29,99 euro al mese. L’unica domanda è se l’Italia sia già pronta per il salto sul digitale. Dazn continua a dare rassicurazioni, dall’innovativo protocollo Multicast per gestire un grande numero di connessioni (soluzione che non convince tutti gli esperti), ad una copertura col digitale terrestre (sta trattando le frequenze di Persidera) per alleggerire lo streaming in bar e ristoranti.
La garanzia migliore sta nell’avere alle spalle Tim, senza cui questa operazione non sarebbe possibile. L’altra incognita è il travaso di una clientela legata da anni a Sky, 5 milioni di persone, 2,5 interessate solo al calcio: Dazn che ormai raggiunge picchi di oltre 2 milioni di spettatori, la metà continua a farli tramite Sky. Storicamente le migrazioni di utenti non sono indolori. Non ci riuscì Mediaset quando strappò la Champions a Sky (cosa che pagò a caro prezzo), non ci è riuscita Sky tre anni fa quando sperava di inglobare gli abbonati del Biscione. In Francia il canale della Lega di Media Pro (a condizioni più sfavorevoli) ha fatto 600mila abbonati invece dei 3,5 milioni previsti (più o meno lo stesso target di Tim/Dazn). Tra connessioni difettose, pigrizia, frammentazione dell’offerta (la Champions resterà comunque su Sky), c’è il rischio di perdersi più di qualche tifoso per strada. Ma i soldi, le strutture, la potenza di fuoco di Tim sono un’occasione troppo grossa per la Serie A per farsi traghettare verso il futuro. È su questo che i presidenti riflettono. O forse litigando solo come bambini.