Un decreto per le truppe: il governo amplia le missioni

Soldati, aiuti finanziari ai civili ucraini, misure che recepiscano le sanzioni approvate dal Consiglio europeo ieri a Bruxelles. Ma anche misure protezionistiche difensive, che potrebbero arrivare a richiedere un aumento della quota di energia prodotta dalle centrali a carbone (oggi ferma al 6 per cento), se Putin dovesse chiudere le forniture di gas al nostro Paese. Di questo si è parlato nel Cdm e poi nel Comitato interministeriale per la Sicurezza della Repubblica di ieri. Con le relazioni riservatissime dei ministri Luigi Di Maio (Esteri), Lorenzo Guerini (Difesa) e Roberto Cingolani (Transizione ecologica). Su questo andrà a riferire oggi in Parlamento Mario Draghi assieme alle riunioni che ha avuto ieri (G7 in videoconferenza e Consiglio europeo a Bruxelles) e che avrà oggi (Nato e Onu). Perché sarà il Parlamento che dovrà ratificare il decreto che al massimo domani arriverà in Cdm.

Come annunciato dallo stesso Guerini, l’Italia ha dato la disponibilità ad aumentare le proprie truppe nell’Est Europa. Per le misure precise si aspetta la riunione della Nato di oggi. Ma ci sono già alcune ipotesi allo studio. Alla Nato l’Italia si è detta disposta ad aumentare i soldati nelle missioni già in campo: in Lettonia, con 250 alpini, e in Romania, dove abbiamo una missione di “air policing” con i nostri aerei (entrati in azione negli ultimi giorni su richiesta della Nato a seguito di un potenziale ingresso di traffico aereo non autorizzato), oltre agli assetti navali nella Standing Naval Forces. Il governo ha dato poi ulteriore disponibilità a partecipare ad altre misure di deterrenza: sono in corso interlocuzioni con Paesi dove poter estendere la nostra presenza, come Ungheria e Bulgaria. Ma su questo, probabilmente, servirà un intervento legislativo supplementare.

Tutte le fonti di governo escludono che ci possa essere un intervento militare a Kiev, come peraltro escluso dagli Stati Uniti. Mentre la possibilità di una no Fly Zone sull’Ucraina non è ora all’ordine del giorno, ma potrebbe entrare in agenda più in là. Molto dipende da come si comporterà la Russia: la speranza è che arrivi presto a una de-escalation.

Nel decreto di oggi dovrebbe essere compreso anche il pacchetto di 110 milioni di aiuti per i civili ucraini, annunciato da Luigi Di Maio. E alcune misure sull’energia.

L’Ucraina è una nazione “amica”, un Paese Ue, ha detto Draghi nella Sala dei Galeoni, davanti alla stampa. E l’attacco sferrato dalla Russia “riguarda tutti noi, il nostro vivere da liberi, la nostra democrazia”. Dopodiché ha chiarito che l’Italia ha sempre perseguito la via del “dialogo” per arrivare a una soluzione pacifica della crisi. Ma il dialogo ora è “impossibile”. E con gli alleati, sottolinea il premier, il nostro Paese non smetterà di cercare una soluzione della crisi e nel frattempo chiede la fine “immediata” dello “spargimento di sangue” e il “ritiro incondizionato” delle truppe fuori dai confini “internazionalmente riconosciuti” dell’Ucraina (quindi anche dalla regione del Donbass).

Il premier aveva in predicato una visita a Vladimir Putin – su invito dello Zar – che è stata tenuta in sospeso e poi congelata. Draghi ha sfiorato il peggiore dei boomerang possibili: quello di andare a Mosca più o meno in contemporanea con l’attacco russo. La speranza era quella di supplire alla scarsa incisività mostrata dall’Italia finora con una visita che potesse avere maggior successo di quella del cancelliere tedesco Scholz e del presidente francese Macron. Ora la visita è completamente congelata. Anche se a Palazzo Chigi si spera ancora in un ruolo per il premier. Magari come mediatore tra Biden e Putin. L’equilibrismo tra l’atlantismo sempre esibito da Draghi e la necessità di tenere un filo con Mosca, che ha tenuto il premier ai margini di questa crisi dovrebbe, in teoria, rivelarsi un punto di forza. Senza de-escalation si tratta di fantascienza.

Ieri c’è stato anche un Consiglio supremo di Difesa al Quirinale, con il premier e i ministri più coinvolti nella crisi. Riunione breve e tesissima, finita con un comunicato finale molto esplicito. “Nell’affrontare la crisi in atto, l’Italia manterrà uno stretto raccordo con i propri partner in tutti i principali consessi internazionali. Insieme con i Paesi membri dell’Ue e gli alleati della Nato è indispensabile rispondere – si legge nella nota diffusa dal Quirinale – con unità, tempestività e determinazione”.

In serata, Draghi è volato a Bruxelles per il Consiglio europeo. Il pacchetto di sanzioni era stato preparato già ieri mattina dal Coreper, la riunione degli ambasciatori europei. L’Italia è da giorni attenzionata speciale dalla stampa anglosassone (Financial Times prima e Wsj dopo) come il Paese che potrebbe rompere il fronte, perché più a rischio rispetto alle controsanzioni russe, per la nostra dipendenza dal gas di Mosca. Non a caso ci siamo battuti dall’inizio per una condivisione dei rischi. Ma ieri Draghi ci ha tenuto a ribadire nel suo intervento che “sulle sanzioni siamo completamente allineati alla Francia, alla Germania, all’Ue”.

Goodbye Lenin nel Donbass. La guerra? Stupro di impotenti

In una conferenza stampa del 7 febbraio, Vladimir Putin notava quanto poco il governo ucraino apprezzi l’accordo di Minsk, e aggiungeva: “Che ti piaccia o no, è il tuo dovere, bella mia”. Un modo di dire dalle rinomate connotazioni sessuali: si trattava di una chiara citazione de La bella addormentata nella bara, pezzo di epoca sovietica del gruppo punk rock “Krasnaja Plesen”: “Nella bara sta la bella addormentata / mi ci sono infilato e me la sono scopata / Che ti piaccia o no tu dormi, bella mia”. Il portavoce del Cremlino ha sostenuto che Putin si riferisse a un antico detto popolare, ma l’allusione all’Ucraina come vittima di necrofilia e stupro è ovvia. (…)

L’osceno commento di Putin va letto sullo sfondo della crisi ucraina, presentata dai nostri media come minaccia di “stupro di un Paese onesto”. Crisi non priva di aspetti comici: a riprova, in un mondo alla rovescia come il nostro, della sua gravità. Come ha notato l’analista politico sloveno Boris ČIbej: “Chi ci attendiamo che attacchi [la Russia], dichiara di non averne intenzione; chi dovrebbe calmare le acque insiste che lo scontro è inevitabile”. (…) Facile tradurre la situazione nella metafora dello stupro. La Russia, pronta a violentare l’Ucraina, asserisce di non volerlo fare, ma fra le righe palesemente insinua che, nel caso in cui non ottenesse il consenso ucraino a un rapporto sessuale, è disposta a stuprarla (ricordiamoci la volgare risposta di Putin); inoltre, accusa l’Ucraina di istigarla a commettere lo stupro. Gli Stati Uniti, che intendono proteggerla dallo stupro, suonano il campanello d’allarme, in modo tale da ergersi a protettori degli Stati post-sovietici: un tipo di protezione che non può non ricordarci quella che un gangster può offrire a negozi e ristoranti del suo quartiere contro le rapine, con la velata minaccia che rifiutarla comporterebbe pessime conseguenze. L’Ucraina, bersaglio del temuto stupro, cerca di mantenere la calma, e sembra innervosirsi all’allarme Usa, consapevole che la canizza possa davvero provocare la Russia allo stupro.

Che cosa si nasconde, dunque, dietro questo conflitto, con tutti i suoi imprevedibili rischi? E se il pericolo non stesse tanto nel suo riflettere una forza crescente delle due ex superpotenze ma, piuttosto, nel provarne l’incapacità di accettare di non esserlo più? Quando, al culmine della Guerra fredda, Mao Tsé Tung disse che, pur con tutte le loro armi, gli Stati Uniti erano una tigre di carta, dimenticava di aggiungere che le tigri di carta possono essere più pericolose delle tigri vere e sicure di sé. Il fallimento della ritirata afghana non è che l’ultimo della serie di fiaschi della supremazia Usa, e lo sforzo da parte russa di ricostruire l’impero sovietico non è che il disperato tentativo di coprire la propria situazione di debolezza e di declino. Com’è il caso dei veri violentatori, lo stupro segnala l’impotenza dell’aggressore.

Impotenza palpabile, ora che lo stupro è cominciato, con la prima penetrazione diretta dell’esercito russo in Ucraina – la prima, cioè, se escludiamo il Gruppo Wagner (…) e da anni attivo nel Donbass, dove organizza la resistenza “spontanea” all’Ucraina (come ha già fatto in Crimea).

Ora che le tensioni sono esplose, la Duma russa ha approvato un appello diretto a Putin, affiché riconosca gli Stati separatisti – e a controllo russo – di Donetsk e di Lugansk. Prima Putin ha sostenuto di non voler immediatamente riconoscere le sedicenti repubbliche; così che, quando le ha infine riconosciute come repubbliche indipendenti, sembrasse averlo fatto a causa della pressione popolare, secondo le regole descritte (e praticate) un secolo fa da Stalin.

Alla metà degli anni Venti del Novecento, Stalin propose di adottare una semplice decisione: il governo della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa sarebbe diventato il governo delle altre cinque repubbliche: Ucraina, Bielorussia, Azerbaijan, Armenia e Georgia. Se verrà confermata dal Comitato Centrale del Partito Comunista Russo, l’attuale decisione non verrà resa pubblica, ma comunicata ai Comitati Centrali delle Repubbliche perché circoli fra gli organi sovietici – i Comitati Esecutivi Centrali dei Congressi dei Soviet delle dette Repubbliche – prima della convocazione del Congresso Panrusso dei Soviet, ove verrà dichiarata intendimento di tali Repubbliche. (…) Il Comitato Centrale decide quel che la base gli chiederà di approvare, come se fosse desiderio della base stessa. (…)

L’invasione in corso porta a compimento la negazione di ogni residuo della tradizione leninista. L’ultima volta che Lenin è comparso nei titoli di testa occidentali risale alla sollevazione ucraina del 2014, che rovesciò il presidente filorusso Janukovy: nei servizi televisivi sulle proteste a Kiev, abbiamo visto e rivisto la scena dei manifestanti che, infuriati, abbattevano la statua di Lenin. Assalti del tutto comprensibili, visto che tali statue funzionavano da simboli dell’oppressione sovietica, e la Russia di Putin viene percepita come la continuatrice della politica di soggezione alla Russia delle nazioni non russe, già tipica dell’Unione Sovietica. E tuttavia, era paradossale vedere gli ucraini tirar giù Lenin per affermare la propria sovranità nazionale. (…) Il proletariato non può non lottare contro il mantenimento forzato delle nazioni oppresse nei confini di uno Stato, e questo significa appunto lottare per il diritto di autodecisione. (…) Nel caso contrario l’internazionalismo del proletariato resterà vuoto e verbale; tra gli operai della nazione dominante e gli operai della nazione oppressa non sarà possibile né la fiducia, né la solidarietà di classe.(…)

La politica estera di Putin si pone in evidente continuità con quella linea zarista-stalinista (…). E non sorprende che, lunedì 21 febbraio 2022, nell’annunciare l’intervento militare nella regione del Donbass, Putin abbia ripetuto la sua già espressa opinione, secondo cui fu Lenin – salito al potere dopo la caduta della famiglia reale dei Romanov – l’“autore e creatore” dell’Ucraina (…). Si può essere più chiari di così?

Le persone di sinistra che rimangono con la Russia (in fin dei conti, la Russia è il successore dell’Urss, le democrazie occidentali sono un falso, Putin si oppone all’imperialismo americano ecc. ecc.) debbono ammetterlo: Putin è un nazionalista conservatore. La Russia non sta soltanto tornando alla Guerra fredda e alle rigide regole che questa portava con sé. Sta accadendo qualcosa di molto più folle: non una guerra fredda ma una pace calda, una pace che assomma a una guerra ibrida permanente, in cui gli interventi militari sono spacciati per missioni di pace contro i genocidi (…).

Per concludere con la domanda di Lenin: che fare? Chi, come noi, vive in Paesi che si ritrovano spettatori della triste commedia dello stupro, deve sapere che solo una decisa castrazione potrà impedirlo. Non possiamo che raccomandare che la comunità internazionale effettui una simile operazione chirurgica sulla Russia e, in certa misura, anche sugli Stati Uniti: ignorandoli e marginalizzandoli il più possibile, trattandoli come imbarazzanti oscenità, come qualcuno che vediamo defecare sulla pubblica strada; e assicurandosi che al posto della loro autorità globale non cresca più nulla.

Traduzione di Vincenzo Ostuni – Slavoj Zizek 2022

“Mai investito in Sanità. Noi soltanto agenti”

“Mai investito” in obbligazioni sanitarie. L’istituto di credito Intermonte ieri ha smentito “di aver investito, promosso o sollecitato l’investimento” nelle obbligazioni con sottostanti crediti sanitari effettuate da Gianluigi Torzi, al centro dell’indagine della Procura su una presunta truffa da 1 miliardo. In una nota la società precisa di avere “svolto esclusivamente un ruolo di agente per la consegna dei titoli in una delle operazioni oggetto di indagine”. Nei giorni scorsi la Gdf si era recata nella sede dell’istituto, parte offesa nel procedimento. Anche Torzi ha smentito: “La mia attività professionale non ha ad oggetto la cartolarizzazione di crediti sanitari”, ha detto il broker finanziario all’Ansa.

Tabacco, Cortina, giornali: la solita “politichetta” detta il Milleproroghe

Solito pot-pourri di misure, un discreto regalo per le multinazionali del tabacco (sfumato all’ultimo quello per le corse ippiche), una maggioranza spaccata e il governo battuto per ben quattro volte durante le votazioni in Commissione. Questo è il nuovo decreto Milleproroghe che ieri ha ottenuto l’approvazione definitiva dal Senato, chiamato al voto di fiducia. Il provvedimento ha l’obiettivo di posticipare l’entrata in vigore di alcune disposizioni normative o prorogare l’efficacia di leggi in scadenza, questa volta, più che in passato, si è arricchito di norme che con le proroghe c’entrano ben poco. Misure, insomma, più o meno importanti, più o meno condivisibili, sovrastate da alcuni interessi specifici. Ecco una breve e inesaustiva analisi di quelle più rilevanti.

Tabacco. Posticipato di 8 mesi l’aumento dell’accisa sulla sigaretta elettronica dal 10% al 15%. Ma questa è stata solo la scusa per il vero regalo ai colossi del tabacco. Per giustificare i mancati introiti derivanti dalla proroga delle accise degli svapo, è stata già autorizzata la vendita di un nuovo prodotto: le nicotine pouches (bustine di nicotina da succhiare). La British American Tobacco (Bat) starebbe già pensando di avviare la produzione nello stabilimento di Trieste su cui sono stati previsti già investimenti. Ettore Rosato, uno degli uomini più vicini a Matteo Renzi, si è speso per l’emendamento. La fondazione Open ha ricevuto negli scorsi anni finanziamenti dalla multinazionale.

Lotta al contante. Per dieci volte negli ultimi 20 anni, la sesta dal 2012, è stato modificato il tetto massimo per i pagamenti con denaro contante. La soglia, scesa a 1.000 euro dal 1° gennaio nell’ottica della lotta al nero e degli impegni presi col Recovery Fund, torna a 2.000 euro, facendo slittare il passaggio a mille euro dal 2023. La modifica è passata su spinta di Forza Italia, Fratelli d’Italia e Italia Viva.

Editoria. Viene previsto che l’importo del contributo pubblico non possa essere inferiore rispetto a quello dello scorso anno. Mentre per l’editoria cooperativa non profit viene prolungata di un anno l’entrata in vigore del taglio al contributo pubblico voluto nel 2018 dal governo Conte-1. In questo modo il taglio, previsto fino al 2024, slitta al 2025.

Fondi ex-Ilva. Contro il parere del governo, sono stati restituiti 575 milioni (frutto dei sequestri ai vecchi proprietari, la famiglia Riva) che erano stati destinati a tenere in vita il siderurgico (e finanziarne il piano di decarbonizzazione).

Super proroghe. L’ex area industriale Stoppani, a Cogoleto (Genova), chiusa nel 2003 dopo essere diventata il simbolo dei danni alla salute e all’ambiente, avrà ancora un altro anno per le “urgenti” misure di bonifica. Confermati, inoltre, per tutto il 2022 gli incentivi per gli impianti di produzione di energia elettrica alimentati a biogas. “Così gioiscono le industrie petrolifere, dell’olio di palma e della soia”, hanno denunciato gli ambientalisti. Previsto anche un prolungamento fino al 30 aprile 2022 della durata in carica del commissario straordinario per gli eventi sportivi di Cortina d’Ampezzo che si sono svolti a marzo 2020 e febbraio 2021. Prorogata, poi, fino al 1º luglio 2025 la possibilità di fare sperimentazione sugli animali nell’ambito di studi sugli xenotrapianti d’organo e sulle sostanze d’abuso, compresi i farmaci.

Viaggi. Esteso da 24 a 30 mesi il voucher turismo, alternativa al rimborso per migliaia di italiani che, a causa delle restrizioni per il Covid, non ha potuto viaggiare (in treno, aereo, traghetto) o pernottare in hotel. I soldi restano ancora ad agenzie, tour operator e albergatori.

Cultura e povertà. Maxi-dote da 2 milioni di euro per l’Istituto dell’Enciclopedia italiana, cioè la Treccani. Mentre all’Università di Tor Vergata di Roma andranno 300mila euro per la ricerca sul romanzo di formazione italiano. La misura, che beneficia di risorse più cospicue, è relativa al contrasto alla povertà.

Mosca s’è preparata bene: ha le riserve per resistere

Questa volta è probabile che le sanzioni imposte alla Federazione Russa non saranno di scarsa portata. Se la risposta militare, come ha annunciato Stoltenberg il segretario generale dell’alleanza atlantica, sarà per il momento destinata ad aumentare la presenza di truppe e attrezzature solo nei Paesi Nato più vicini al teatro di guerra ma non in Ucraina, la risposta economica si preannuncia completamente differente rispetto a quella varata dopo i fatti del 2014.

La guerra si fa anche colpendo gli interessi finanziari ed economici del nemico. La Russia sembra però averlo messo in conto ed essersi preparata da tempo per poter resistere, nella sua intenzione, all’impatto che le sanzioni potrebbero avere sul proprio sistema finanziario. La scorsa settimana la Reuters ha riportato le parole del ministro delle finanze russo Siluanov con cui affermava che lo Stato aveva sufficienti riserve in oro e in valuta per garantire, in caso di sanzioni, il regolare funzionamento delle banche e del sistema dei pagamenti, anche quelli in valuta estera. Queste riserve, frutto dei continui surplus negli scambi con l’estero, sono arrivate alla fine del 2021 a quasi 640 miliardi di dollari, riuscendo a coprire tutto il debito estero che scade entro un anno (circa 80 miliardi di dollari) e quasi due anni di importazioni. Se la Russia non esportasse più nulla da oggi e non avesse nemmeno più finanziamenti dall’estero, avrebbe riserve per continuare a importare per due anni quello che le occorre per il funzionamento della propria economia e riuscendo nel frattempo ad onorare tutte le scadenze a breve termine assunte dai russi con l’estero. Questo risultato è frutto di un controllo serrato del ciclo economico.

La Russia non è riuscita a diversificare la propria economia a sufficienza in modo da renderla meno dipendente dalle esportazioni di petrolio e gas, che contano più del 50% del totale dell’export. Rimane in sostanza un Petrostato, che ha legato le proprie importazioni, fatte per la gran parte di beni più sofisticati (come medicine, mezzi di trasporto, apparecchiature elettriche e così via), all’andamento del prezzo del petrolio. La crescita economica del secondo decennio di questo secolo è stata circa la metà di quella del decennio precedente, dove rappresentava la “r” dei famosi Brics, i Paesi emergenti con un alto potenziale di sviluppo. Nel 2021 il prodotto interno lordo espresso in dollari era ancora lo stesso del 2010. Ma così facendo, comprimendo il ciclo economico in modo che le importazioni fossero sempre inferiori alle esportazioni, ha accumulato una posizione di credito sull’estero, nel senso che i russi hanno più crediti che debiti verso il resto del mondo. Una parte di questi crediti, circa il 40%, è nella forma di riserve valutarie e oro, ma non in titoli di Stato americani, a conferma del fatto che questa forma di difesa fosse ormai studiata da tempo. Dal 2012, quando la Russia aveva circa 160 miliardi di titoli del Tesoro Usa ed era il sesto detentore al mondo, ha progressivamente liquidato questi investimenti, che depositati nel sistema finanziario americano potevano esser facilmente congelati.

Le riserve sono le munizioni finanziarie che Putin ha accumulato per poter difendere il cambio del rublo, per stabilizzare il mercato del debito pubblico, per prestare alle società russe impossibilitate a finanziarsi sul mercato internazionale, per limitare quindi i danni che le sanzioni potrebbero provocare. Aggirare questa linea di difesa vuol dire riuscire a congelarle, sequestrando quanto è presente nei conti e depositi esterni alla Russia, o renderle inutilizzabili nel sistema di pagamento Swift, espellendone le banche russe. L’utilizzo di sistemi di pagamento alternativi, tipo il Spfs russo o il Cips cinese, non possono minimamente compensare l’importanza dello Swift.

L’impossibilità di compiere pagamenti in entrata e uscita dalla Russia significherebbe bloccare i crediti delle banche internazionali nei confronti di cittadini, imprese e banche russe. In questo caso il sistema bancario italiano risulterebbe il più colpito, avendo la maggiore esposizione al mondo verso la Russia, pari a circa 25 miliardi di dollari, seguito da Francia e Austria. Significherebbe anche riuscire a congelare i fondi, pari a circa 125 miliardi di dollari, dei russi all’estero, depositati principalmente nel sistema bancario francese, svizzero e statunitense, che non potrebbero essere riportati in patria. Significherebbe poi bloccare i pagamenti delle esportazioni e delle importazioni, tra cui appunto il gas e il petrolio, mettendo seriamente a rischio le forniture, con danni sia per la Russia che per tutti i clienti del gas russo. Data la dimensione dell’economia di Mosca e i suoi legami internazionali, soprattutto con i Paesi europei, si tratterebbe però di una soluzione di tipo “nucleare”, con ripercussioni difficilmente calcolabili e certamente non confinabili solo all’economia russa. Con il rischio anche di spingere Mosca verso Paesi in grado di fornirle aiuto, come la Cina.

Gas, grano & C.: le sanzioni infiammano i rincari

Le sanzioni economiche e finanziarie sono da sempre un’arma a doppio taglio: feriscono il bersaglio, ma di certo non giovano nemmeno a chi le lancia. Anche le misure contro Mosca per l’invasione russa dell’Ucraina non faranno eccezione. In prima linea, come già nel 2014, c’è l’Italia: contraccolpi pesanti sono già in arrivo. I primi effetti si sentiranno sulle bollette del gas, sul pieno di carburante, sulla spesa alimentare.

Metano. Dopo lo strappo delle scorse ore, continuano i rialzi apparentemente senza freni dei prezzi del gas. I contratti future per le consegne a marzo sul mercato di riferimento europeo di Amsterdam ieri sono saliti del 57,2% a 139,75 euro per megawattora, la scadenza di aprile del 56% a 138,67 euro. Negli Stati Uniti, meno esposti della Ue all’approvvigionamento di gas naturale dalla Russia, l’aumento è stato “solo” del 5,12%. Questi rincari destabilizzeranno i conti non solo delle famiglie ma anche delle imprese europee. Dopo la Germania, tra i grandi Paesi Ue l’Italia è la più dipendente dall’import di gas russo. Nel 2021, il 96% dei consumi nazionali per 76,1 miliardi di metri cubi è arrivato dall’estero: in primis proprio dalla Russia che copre il 38,2% circa del fabbisogno italiano, seguita da Algeria (27,8%), Azerbaijan (9,5%), Libia (4,2%) e Nord Europa (Norvegia e Olanda, al 2,9%).

Petrolio. La Russia con il 10% del totale è tra i maggiori esportatori mondiali di greggio e fa parte dell’Opec Plus, la configurazione allargata del cartello dei Paesi produttori: le sanzioni imposte da Usa e Ue potrebbero far scattare ritorsioni di Mosca. L’Italia nel 2021 ha importato da Mosca 5,14 milioni di tonnellate di greggio, il 10% dei 51,6 milioni totali. La Russia è il terzo mercato di acquisto per Roma dopo l’Azerbaijan (11,48 milioni di tonnellate, il 22,3% del totale) e la Libia (9,56 milioni di tonnellate, il 18,5%). La guerra in Ucraina ha fatto decollare anche il prezzo del petrolio, volato oltre i 100 dollari al barile per la prima volta dal 2014. Il Brent, petrolio estratto nel Mare del Nord, ha segnato un valore di 103,3 dollari al barile, in rialzo del 6,76%. Anche il future sul greggio statunitense è aumentato del 6,55% a 98,13 dollari al barile.

Grano. Pane, pasta, pizza, biscotti: il carrello della spesa costerà di più. L’attacco della Russia all’Ucraina ha fatto rincarare i prezzi del grano del 5,7% in un solo giorno sul mercato di riferimento mondiale di Chicago, al massimo da nove anni a 9,34 dollari per bushel (la misura Usa che equivale a 27,216 chili). A Parigi, piazza agricola di riferimento in Europa, il grano tenero è rincarato di 47 euro a tonnellata (+16%) e il mais di 30 euro (+12%). L’Ucraina, ricorda Coldiretti, produce 27 milioni di tonnellate di grano tenero per la produzione del pane (settimo posto al mondo) e circa 36 milioni di tonnellate di mais per l’alimentazione animale (quinta al mondo), mentre la Russia a livello mondiale è il principale produttore (75 milioni di tonnellate) ed esportatore di grano tenero. La guerra potrebbe bloccare l’export russo e le spedizioni ucraine dai porti del Mar Nero. Uno stop innescherebbe non solo l’inflazione, ma anche carestie e tensioni sociali. L’Italia produce circa il 65% del proprio fabbisogno di grano duro: il restante 30-35% viene coperto dalle importazioni. La produzione di grano tenero italiano è di circa 3 milioni di tonnellate rispetto a un fabbisogno industriale di circa 5,5. L’Italia importa 120 mila tonnellate di grano dall’Ucraina (il 5% degli acquisti dall’estero nazionali) e altre 100 mila dalla Russia, pari al 64% del proprio fabbisogno di grano per la produzione di pane e biscotti e il 53% del mais di cui ha bisogno per l’alimentazione del bestiame. L’Ucraina è il nostro secondo fornitore di mais con una quota di poco superiore al 20%.

Finanza. L’attacco di Mosca ha fatto tracollare i mercati di tutto il mondo. La Borsa di Mosca è crollata del 28,8%, mandando in fumo una capitalizzazione di 180 miliardi di dollari. Il rublo è sceso di oltre il 6% a 86,462 sul dollaro. A Milano Piazza Affari ha “bruciato” 30 miliardi in calo del 4,01%. I ribassi più marcati sono stati per le società più legate al business russo. In prima fila le banche, con UniCredit (-13,49%) e Intesa SanPaolo (-7,96%), poi Pirelli (-10,4%), Maire (-7,86%), Buzzi (-7,84%), Stellantis (-6,06%) e la petrolifera Saras (-6,83%). Ma anche l’indice azionario globale Msci è sceso del 2,1% ai minimi da marzo 2021. Le Borse europee sono crollate, con l’indice Stoxx dei 600 titoli maggiori sul fondo da maggio 2021 con un ribasso di oltre il 3%. Londra ha segnato -3,82%, Parigi -3,91%, Francoforte -3,92%.

L’Ucraina è stata costretta a sospendere la sua valuta, la grivnia, poiché le sue obbligazioni sono crollate violentemente dopo che gli investitori hanno scommesso su un suo default, come è già successo dopo l’annessione della Crimea alla Russia nel 2014.
A temere di più sono le banche italiane e francesi, la cui esposizione nei confronti della Russia ammonta a circa 26,5 miliardi di euro. La terza banca al mondo per esposizione verso Mosca è UniCredit, presente in Russia dal 2005 dopo la fusione con la tedesca Hvb che aveva nel paese una propria controllata. Il gruppo italiano in Russia ha attualmente circa 2 milioni clienti retail e circa 30mila tra le imprese, con circa 8 miliardi di prestiti. Intesa Sanpaolo invece gestisce oltre la metà delle operazioni commerciali tra Russia e Italia, con asset per circa un miliardo di euro.

Industria. Nel 2021 la Russia valeva solo l’1,5% dell’export italiano, con una quota di 7 miliardi, e il 3% dell’import, per un valore di 12,6 miliardi, ma vi vendono oltre 11mila imprese nazionali. In particolare quelle farmaceutiche (1,9 miliardi, 20% dell’export), di macchinari industriali (40% del totale, 3,9 miliardi nel 2019) e tessili (1,5 miliardi, 14,8% dell’export). Le sanzioni internazionali ovviamente rischiano di fermare l’interscambio. Da registrare invece il blocco di Mosca alle importazioni agroalimentare dalla Ue e dunque dall’Italia, scattato come ritorsione dopo le misure europee del 2014 per l’invasione della Crimea.

Qatar 2022, gli stadi come nuove piramidi

Dai faraoni d’Egitto agli Assiro-Babilonesi agli imperatori romani, e poi via via nei secoli, l’uso della grande architettura da parte dei detentori del potere viene in genere visto come “ricerca del consenso”.

Ricerca in cui sono oggi molto attivi tre dei sei Stati del Consiglio di cooperazione del Golfo Arabico: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar. E al momento forse è quest’ultimo, il più piccolo, a occupare più visibilmente la ribalta organizzando “Qatar 2022”, il Mondiale di calcio, il cui inizio è fissato fra nove mesi (21 novembre). Fra luci sfolgoranti e ombre pesanti.

Il Paese ha compiuto passi da gigante da quando, nel 1995, l’emiro Hamad Bin Khalifa al-Thani ha dato impulso all’estrazione del gas da un enorme giacimento sottomarino. Il Pil è passato da 8 a 148 miliardi di dollari (dato 2020); l’emiro, e poi il successore Tamim bin Hamad al-Thani, hanno investito nel lusso, nell’innovazione e anche nell’informazione, creando il prestigioso canale satellitare pan-arabo al-Jazeera. Nello scorso ottobre si sono tenute (primo passo verso una qualche democrazia) le prime, storiche elezioni per due terzi dei 45 seggi del Consiglio della Shura, responsabile delle politiche statali. Ma la vera passione degli emiri al-Thani è il calcio. Già Hamad aveva acquistato uno squadrone francese, il Paris Saint-Germain, e una squadra spagnola così così, il Malaga. Ora, “Qatar 2022” è un autentico fiore all’occhiello. Cautamente, l’Atlante Politico 2016 della Treccani dice che questo e altri successi internazionali sono dovuti a un notevole “attivismo diplomatico, talvolta dai contorni ambigui”. Vedremo: ma intanto prendiamo contatto con la “grande architettura” di cui si diceva: gli stadi. Sono otto, tutti nuovi tranne uno, progettati da archistar internazionali nella capitale Doha o in località non lontane. Senza risparmi, a partire dall’aria condizionata: il costo complessivo del Mondiale si calcola in 200 miliardi di dollari.

Lo stadio che ospiterà la finale (18 dicembre) è a Lusail, località che è la “culla” della famiglia al-Thani: sta sorgendo anche una nuova città. L’impianto è opera dell’87enne Sir Norman Foster (studio Foster+Partners), autore di infiniti progetti, dalla cupola del Reichstag di Berlino al nuovo stadio di Wembley. La forma e la decorazione dell’impianto di Lusail evocano quelle di recipienti della tradizione locale. Ospita 80.000 spettatori; dopo il Mondiale la capienza verrà ridotta a 40.000, e negli spazi così ottenuti si realizzeranno negozi, scuole, case di cura. Il progetto dello stadio Al-Janoub (“meridionale”), in località Al Wakrah, è invece dell’architetta anglo-irachena Zara Hadid, scomparsa nel 2016. Nota per la sua predilezione per le linee curve (come si vede anche nella più nota delle sue opere in Italia, il MAXXI di Roma), in questo caso si era ispirata al dau, tradizionale barca araba. L’impianto costruito nell’Education City di Doha si deve a Buro Happold, studio fondato nel 1976 da Sir Edmund Happold, ora presente con 28 sedi in tutto il mondo. Presenta all’esterno sfaccettature che ricordano quelle del diamante; realizzato con largo impiego di materiali ecosostenibili, ospita 40.000 posti, i quali per metà saranno smontati dopo il Mondiale, donando i sedili per impianti da creare in Paesi meno agiati. Anche lo stadio di Al-Thumama, che nel design ricorda il tipico copricapo detto kefiah, alla fine del torneo donerà 20.000 sedili. Il più lontano da Doha (60 km) è lo stadio Al-Bayt nella città di Al-Khawr, dove si giocherà la partita inaugurale (21 novembre). Vi hanno lavorato imprese italiane (Webuild, Cimolai): la linea esterna è ispirata alle tende dei beduini; il progetto comprendente servizi di vario tipo e ospedali. Singolarissimo il caso del Ras Abu Aboud, l’unico senza aria condizionata, che sarà costruito impiegando 974 container e alla fine sarà completamente smontato. Al-Rayyan ospita uno impianto che non è fra i principali, ma l’area, fra mare e deserto, è fra le più interessanti, con torri e fortezze: quella di Wajba fu teatro nel 1893 di una vittoria contro i Turchi. Lo Stadio internazionale Khalifa, o National Stadium, nel quartiere sportivo di Doha, è l’unico che già esisteva (aveva anche ospitato anche la Coppa d’Asia 2011): ampliato, è divenuto una struttura polivalente.

Stadi geniali, attenzione maniacale al green, all’ecosostenibile, al reversibile: l’obiettivo sembra essere quello di stupire il popolo e di attrarre le élite. Un mondo luccicante ma al tempo stesso oscuro: per esempio, si sa ormai che tutta l’operazione è nata anche grazie anche alla corruzione. Nel 2015 Blatter, il potente presidente della Fifa, è stato costretto a dimettersi, e poi squalificato, in quanto accusato di aver preso soldi per orientare proprio il voto che ha assegnato i Mondiali al Qatar, malgrado (fra l’altro) l’assurdo calendario.

Decisamente ancor più grave il costo in vite umane. Inchieste e articoli del Guardian e di numerosi altri giornali (fra cui Il Fatto) parlano di 6500 morti (cifra approssimata per difetto). Operai immigrati dai Paesi vicini costretti a lavorare dieci ore al giorno anche a 50 gradi per salari bassissimi, taglieggiati per giunta da trattenute di vario tipo; per i decessi, giustificazioni penose nei documenti ufficiali (“insufficienza cardiaca” e via dicendo); molti uomini ricacciati a fine lavori senza aver intascato nemmeno il poco che era stato promesso… Una commissione della Uefa sui diritti dei lavoratori in Qatar, dopo recenti visite, ha sostenuto che “il torneo continua a essere un catalizzatore per un cambiamento positivo”. Visione un po’ soft di un problema che invece dovrebbe turbare le coscienze, a partire – diciamolo pure – da quella degli architetti. Norman Foster ha lavorato anche per l’Expo 2020 a Dubai, nei vicini Emirati Arabi Uniti, con un mirabolante “Padiglione della mobilità” a forma di trifoglio; ci ha lavorato anche un altro superprofessionista, Jean Nouvel, con la immensa cupola del “Louvre di Dubai”. Ebbene, proprio lì, per la costruzione del Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo, sono morti oltre 1000 operai indiani, mentre di quelli provenienti dal Bangladesh e dal Pakistan non si è neppure tenuto il conto. Teniamoci caro il nostro Renzo Piano, che da quell’area gira alla larga.

Se ne potrebbe discutere all’infinito, ma sintetizzando, ci domandiamo, come già il 23 novembre 2020 la Gazzetta dello Sport: “Qatar 2022: ne valeva la pena ?”.

 

Le sanzioni “senza precedenti” in realtà non sono così temibili

Putin punta chiaramente a Kiev e a un nuovo assetto dell’Ucraina. La posizione delle truppe sul terreno, l’intensità crescente dei bombardamenti indicano questa volontà. Esclusa l’opzione militare – nessuno può auspicare una guerra aperta tra la Nato e la Russia e la stessa Nato la esclude categoricamente – all’occidente resta solo una strada fatta di sanzioni e isolamento politico del leader russo. La strada delle sanzioni imboccata ieri non sembra però all’altezza della situazione.

La parola d’ordine più ripetuta è “sanzioni senza precedenti”, ma poi scendendo nel dettaglio la questione è più complicata di quanto sembri. “Senza precedenti” è la definizione che ha utilizzato Joe Biden, poi l’Alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell oppure il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio.

Intervenendo in serata, ora europea, il presidente Usa ha dettato la linea parlando di misure adatte a colpire “settori strategici della difesa russa”, colpendo l’export verso la Russia dell’hi-tech, dai software alle tecnologie per la cosiddetta industria pesante fino ai videogiochi. L’obiettivo è anche quello di colpire le esportazioni di materiali per le raffinerie petrolifere russe. Sanzioni anche alle banche con il congelamento degli asset di 5 istituti russi, tra cui la seconda banca del Paese, la Vtb. La Gran Bretagna ha bandito dai mercati della City l’intero comparto bancario e anche la compagnia di bandiera Aeroflot. Inoltre il pacchetto dovrebbe prevedere una serie di misure individuali per un centinaio di soggetti, tra persone (gli oligarchi russi), entità e società.

Su questa falsariga si è mosso il Consiglio europeo che ha concordato misure restrittive con “massicce e severe conseguenze per la Russia”. Le sanzioni, si legge nel comunicato finale del vertice, coprono il settore finanziario, energetico quello dei trasporti, l’export di beni e finanziario, la politica dei visti e l’inserimento nella lista nera, e con nuove criteri, di personalità russe”.

Resta però l’incognita dell’effettivo impatto che queste misure potranno avere su un paese (si veda articolo nelle pagine seguenti) che è creditore sui mercati finanziari, registra un debito ridottissimo (il 16,5% in rapporto al Pil) e ha un fortissimo surplus commerciale. La Russia ha già retto le sanzioni del 2014 e ieri Putin ha assicurato che il suo Paese è attrezzato a reggere a lungo.

I leader europei inoltre hanno escluso per ora l’espulsione della Russia dal sistema di pagamenti internazionali Swift (acronimo di Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication, cioè il sistema per lo scambio delle transazioni finanziarie a livello mondiale che raggruppa oltre 11 mila organizzazioni finanziarie e bancarie in oltre 200 paesi). La Russia avrebbe una limitazione immediata della sua operatività finanziaria e ne sarebbe davvero colpita.

La Gran Bretagna di Boris Johnson ha auspicato la linea dura per dare un colpo significativo alle banche russe e alla loro capacità di commerciare con l’estero. Ma il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha sostenuto di non voler sostenere una mossa così drammatica e nemmeno l’Unione europea e, a quanto pare, anche l’Italia. Ma comunque è stato lo stesso Biden a definire lo Swift un’opzione sempre presente sul tavolo specificando però che “al momento non ci sono piani per usarlo”.

L’opzione totalmente esclusa però, quella più incisiva, ma proibitiva per l’Europa, è quella energetica. Oggi circa il 36% del gas importato dall’Ue viene da Mosca. Nonostante l’Europa abbia cercato di diversificare gli approvvigionamenti – verso la Norvegia, la Libia, l’Algeria – la dipendenza non è stata mai ridotta, anche perché il trasporto via gasdotto resta tra i più economici e quindi di difficile interruzione.

L’Italia è il Paese europeo che ha maggior dipendenza con circa il 40% del fabbisogno energetico coperto dalla Russia. Molto più di Germania (26%) e Francia (17%) che pure sono tra i più prudenti sul piano delle sanzioni energetiche.

Vladimir e i “nazi”: un ritorno al secondo conflitto mondiale

Mosca è a Kiev. “Avviamo la denazificazione e la smilitarizzazione dell’Ucraina”. “Proteggiamo la popolazione dal genocidio del regime ucraino”. “Per 8 anni abbiamo fatto tutti il possibile per risolvere la situazione in modo pacifico. Invano”. “Le forze che hanno preso il potere con il colpo di Stato nel 2014 lo mantengono”. Lasciando di nuovo a occhi sbarrati e increduli il suo popolo, Putin è tornato a parlare alla nazione russa, dando inizio al più grande conflitto nel cuore d’Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale con due parole incredibilmente violente perché semplici: “Cari amici”. Riportando l’Europa alla latitudine temporale della Seconda guerra mondiale, prima che il mondo venisse diviso in blocchi dalla Guerra Fredda, il capo della Federazione ha chiosato che oggi è proprio come allora, quando “bande di ucraini nazionalisti, complici di Hitler, uccidevano civili innocenti durante la Grande guerra patriottica”. Nessuno osi interferire: “reagiremo”. Il Cremlino si rifiuta di chiamarla guerra: “È un’operazione speciale”. Il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, gli fa eco in conferenza stampa: “Bisogna liberare l’Ucraina dai nazisti”, ma si rifiuta di specificare se tra questi vi sia anche il governo Zelensky. Ambasciatore di Mosca all’Onu si scontra con quello di Kiev: “non siamo aggressivi contro il popolo ucraino, ma contro la giunta al potere”.

Mentre arrivano notizie di decine di giovani russi morti in divisa in terra gialloblu, il generale Igor Konashenkov diffonde il bilancio degli obiettivi neutralizzati: 74 strutture militari ucraine, tra cui 11 aeroporti. Serghey Shoigu, ministro della Difesa, ha chiesto ai comandanti russi “di trattare con rispetto gli ufficiali ucraini: obbediscono agli ordini”. Riesce a raggiungere il braccio destro di Putin – il ministro degli Esteri, Sergej Lavrov – solo l’omologo cinese, Wang Yi, che chiede il ritorno dei negoziati. “Ora l’Ovest è isterico sulla faccenda ucraina, ma dimentica che ha abbandonato il dialogo” ha detto la belligerante portavoce del dicastero di Lavrov, Maria Zakarova. Il presidente tornerà a parlare con Zelensky, dice il Cremlino, ma solo a una condizione: che l’Ucraina accetti da principio di diventare Paese neutrale. Perdere la guerra, la faccia, i confini o la ricchezza. A dirigenti aziendali e oligarchi con i conti a picco mentre crollano le Borse mondiali, convocati ieri nelle ore immediatamente successive all’attacco, Putin ha riferito: “Siamo preparati alle sanzioni, non ci hanno lasciato altra scelta, i rischi per la nostra sicurezza erano troppo alti”. Il Roskomnadzor, Servizio federale che supervisiona i mass media, ha ordinato a giornali e tv della Federazione di citare sulla crisi solo fonti ufficiali russe. Per 90 giorni Facebook ha bloccato il gigante mediatico statale Ria Novosti per “diffusione di notizie false”. Fuori uso il sito del Cremlino come quello della Duma: un attacco hacker riesce a metterlo k.o.

“Non sta succedendo davvero”: un senso di irrealtà serpeggia da Pietroburgo a Voronezh. Da ieri all’alba ha cominciato a disgregarsi anche la Federazione, all’interno delle sue case, delle sue famiglie, delle sue comunità: c’è chi del presidente è fiero, “perché difende i nostri confini” e perché “è tutta colpa della Nato”. Molti altri hanno le facce rigate da lacrime incredule per quell’attacco sferrato mentre Kiev, come Mosca, ancora dormiva. Contro lo zar “nonno ubriaco” anche l’oppositore Aleksej Navalny. Il palco della sua opposizione pacificista è stato il tribunale di Lefortovo dove è sotto processo: “Voglio che la Corte scriva che sto chiedendo che la guerra scatenata da gangster e ladri sia fermata”. “Net voine, mir Ukraine”: no alla guerra, pace all’Ucraina. Mille e 700 gli arresti in tutto il Paese per quanti sono scesi in strada in 43 città russe a opporsi all’aggressione militare. Appuntamento in piazza Pushkin a Mosca, il ritrovo degli oppositori, lo aveva dato l’attivista Martina Litvinovich, arrestata subito dopo l’appello dalle divise arrivate fuori casa sua. Centinaia di russi hanno comunque sfidato i blindati delle forze di sicurezza per continuare a urlare net al conflitto contro un Paese dove ci sono parenti, amici, fidanzate, cugini: un popolo di fratelli.

Il ruggito del coniglio Joe: “Putin criminale, pagherà”

La Russia pagherà caro l’attacco “premeditato e senza giustificazioni” all’Ucraina e Vladimir Putin diventerà “un paria sulla scena internazionale”: lo ha detto ieri sera il presidente Usa, Joe Biden, annunciando una serie di sanzioni che colpiscono la finanza, l’economia e il commercio russi e diverse personalità della nomenklatura, studiate apposta per massimizzare il danno inferto e per minimizzare le conseguenze negative “sul nostro Paese e i nostri alleati”. Biden ha parlato dopo ore convulse di consultazioni bilaterali e multilaterali. E dopo avere subito, nei giorni scorsi, accuse di isteria per i “warning” lanciati dall’intelligence statunitense, ha rivendicato quegli allarmi: “Abbiamo avvertito per settimane che l’attacco ci sarebbe stato”.

La voceesile e a tratti esitante, l’aspetto fragile. Biden è durissimo con Putin, anche se ha finora scelto di non colpirlo personalmente con sanzioni: “E’ l’aggressore … ha scelto la sua guerra … non ho piani per incontrarlo…”. Quanto all’efficacia delle sanzioni, Biden riconosce che non basteranno a fermare Putin, ma nota che hanno già intaccato l’economia russa, con un crollo di un terzo della borsa di Mosca. “Ci vorrà del tempo, ma questa aggressione non può passare impunita: se fosse così, sarebbe molto peggio per noi”, una frase che evoca i fantasmi della debolezza di Gran Bretagna e Francia di fronte alla Germania nazista.

“E un momento di pericolo per tutta l’Europa, ma la Russia ne uscirà più debole e il resto del mondo più forte”. Il presidente Usa riesce pure a trovare una buona notizia nel contesto odierno: “La Nato è più unita e più determinata che mai, difenderemo fino all’ultimo pollice il territorio atlantico”. Sulla tolda di comando d’un Occidente sconcertato dall’offensiva putiniana, il presidente Joe Biden segue, dalla Situation Room alla Casa Bianca, l’avanzata dell’Armata Rossa nelle pianure ucraine e chiama a raccolta alleati e partner. Biden annuncia le contro-misure che saranno adottate dopo essersi consultato con i leader del G7: una riunione virtuale, durata circa due ore, che sarà oggi seguita da un Vertice atlantico, pure virtuale. Hanno delineato una risposta congiunta alla mossa russa, concordando nel definire l’attacco all’Ucraina “ingiustificato e non provocato”. Le sanzioni limitano l’accesso della Russia ai mercati dei capitali internazionali, colpiscono personalità ed enti russi, come gli oligarchi e le loro banche, e prevedono lo stop all’export di materiale tecnologico. C’è pure la possibilità di escludere la Russia dal circuito Swift delle transazioni internazionali e di “punire” luogotenenti del presidente. Il segretario generale dell’Alleanza atlantica Jens Stoltenberg osserva che “la pace in Europa è stata squassata” dall’offensiva russa in territorio ucraino: “È un momento grave per la sicurezza occidentale”. Il Consiglio atlantico, riunitosi ieri, ha accolto la richiesta di Bulgaria, Polonia e Lituania “per tenere consultazioni urgenti ai sensi dell’articolo quattro del Trattato” dell’Atlantico del Nord, che impegna le parti a consultarsi quando è minacciata l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza.

Prima d’intervenire al G7, Biden aveva riunito il Consiglio di Sicurezza nazionale e aveva anche telefonato al presidente Zelenski, che gli ha chiesto di “sollecitare i leader del mondo a parlare chiaramente contro la flagrante aggressione” di Putin. A Zelesnky Biden ha detto che Usa e alleati “imporranno sanzioni dure alla Russia” e continueranno a fornire sostegno all’Ucraina. Coesione in Usa dove riaffiora, nelle parole dell’ex presidente George W. Bush, la tradizionale linea bipartisan in politica estera: “Non possiamo tollerare il bullismo autoritario di Putin”.