Un po’ Pirandello, un po’ Sciascia, un po’ Brancati, un po’ Camilleri, insomma sotto il filone dell’alta letteratura siciliana, dove verità e apparenza non sempre coincidono, dove il giallo non è solo una variante cromatica, ma quel pizzico di sapore dentro l’esistenza di ognuno.
Claudio Gioè sta lì.
Allo stesso modo, sotto quelle tonalità, gioca con le risposte, a volte si cela, in altre si palesa, in altre ancora aspetta di capire se la copertura costruita al momento, regge; se la maschera è quella giusta, o se, semplicemente, l’interlocutore è in grado di capire.
Così è, se vi pare.
“Una volta ho dichiarato che avrei voluto diventare astronauta. Ci hanno creduto”. Caso strano, vuoi la nemesi, vuoi la catarsi, l’ipotesi “astronauta” torna anche nei desiderata di Claudio Gioè nei panni di Saverio Lamanna (“Ma davvero? Non lo ricordavo”) in Màkari, miniserie in onda da domani su Rai1, basata sui romanzi di Gaetano Savatteri, in cui Gioè diventa un giornalista-investigatore tra le maglie della natia Sicilia. “Però sono un abbonato del Fatto, e dalla prima ora”.
Insomma, astronauta.
È tipico dei palermitani diventare “cazzari” quando si trovano di fronte alle domande difficili, magari quelle esistenziali, del tipo: ‘Cosa avresti fatto nella vita oltre l’attore?’; a volte me lo chiedono ancora.
Risposta?
Mi vergogno un po’ ad ammettere di non aver mai avuto dubbi sulla mia voglia e passione rispetto alla recitazione; per questo in alcune occasioni mi sono inventato qualche piano B credibile o assurdo, come nel caso dello sceriffo o dell’astronauta.
Però lei si è iscritto alla facoltà di Lettere. Sembra un piano B…
Sì, prima di partire per Roma: allora vivevo a Palermo e quell’estate ero a San Vito; a quel tempo sognavo di entrare in Accademia… C’era un palchetto al centro della piazza, dove di notte, con la birra in mano, ragionavo di futuro con gli amici.
Cosa recitava?
Ricorda con rabbia di John Osborne, un testo inglese degli anni Cinquanta che poi ho portato in Accademia per il provino; ero iscritto a Lettere perché non ci pensavo proprio, tutti quanti mi dicevano che era impossibile passare la selezione; (cambia tono) è un po’ un’assurdità del nostro sistema didattico: è come se ci fosse un unico conservatorio per chi vuole imparare a suonare il violino e con soli quindici posti disponibili all’anno.
A Roma cosa ha trovato?
Sono arrivato nella Capitale con gli occhi totalmente sgranati dalla curiosità di capire: quella realtà sterminata in qualche momento mi ha suscitato timore; anche solo trovare posteggio per l’auto era, per me, un’impresa di ore…
Però…
Sono rimasto sorpreso dalla tempesta culturale: passavano spettacoli lontanissimi dalla realtà palermitana, spettacoli esaltanti come quelli di Carmelo Bene, di Luca Ronconi o di Leo de Berardinis…
Bene lo ha conosciuto?
Ci ha ricevuti in camerino.
Non vi ha insultato?
Era avvolto da una vestaglia rossa damascata, al centro del petto aveva lunghe cicatrici che raccontavano la sua lotta con la salute; mi sorprese la sua estrema umiltà, con noi imbarazzati perché non trovavamo le parole giuste per esprimere la nostra ammirazione.
Bene umile?
Si schermiva, dava i meriti al testo.
Torniamo a Palermo: quando era ragazzo un luogo di culto era la videoteca di Maresco e Ciprì…
Ci andavo, ma senza frequentazione assidua e privilegiata come quella di Luca (Guadagnino); (sorride) probabilmente, già a 13 o 14 anni, Luca discuteva con loro di cinema coreano, mentre io mi limitavo ad affittare qualche blockbuster.
È il protagonista del primo corto di Guadagnino, ma è nel cassetto perché non firma la liberatoria.
Non è vero.
Lo sostiene Guadagnino.
Ne abbiamo parlato a Los Angeles e gli ho dato il via libera; (cambia tono) all’inizio abbiamo sognato insieme questo lavoro, e lui era già così, era già un candidato all’Oscar, o almeno era mentalmente nelle dinamiche di Los Angeles, senza che alcun dubbio lo pervadesse.
Addirittura.
Da critico cinematografico qual è, aveva grande lucidità, conosceva perfettamente la geografia artistica, sapeva dove puntare da regista, eppure intorno lo prendevano per pazzo o mitomane.
Anche lei?
Partecipavo ai suoi film, mi piaceva la sua visione critica nei confronti del cinema mondiale e per me è stata un’iniziazione alla macchina da presa, perché venivo dal teatro, ero asciutto rispetto a certe coordinate; Luca, in qualche modo, è stato un mentore, e insieme andavamo a vedere film rari, preziosi, belli.
Se Guadagnino era proiettato all’Oscar, di sé cosa pensava?
Amavo la recitazione e non avevo chiara la direzione, quindi scrivevo per il teatro e facevo regie; il mio mondo era un piccola compagnia, un’associazione culturale con la quale mi divertivo e puntavo su ciò che mi piaceva; (sorride) un giorno Luca tracciò una visione di me: “Sarai il nuovo Montalbano”.
Risposta?
“Tu sei pazzo”.
Molti suoi colleghi, da Valentina Cervi a Sonia Bergamasco, da Claudio Castrogiovanni allo stesso Guadagnino la considerano un fuoriclasse.
(Inizia a rallentare l’emissione di vocaboli e a grattarsi la spalla) Li ringrazio.
Imbarazzato?
Devo ancora imparare a ricevere i complimenti; (per “salvarsi” torna a prima) con Luca ci ha accomunato una passione, una passione tale da mettere in secondo piano tutto il resto.
A cosa ha rinunciato?
È stata una forma di vocazione monacale, dove tagli legami, affetti e tutto quello che non rientra in quel cono visuale.
Il lato B dei complimenti di prima è che ha ottenuto meno di quel che doveva.
Per carità, ringrazio il cielo per quello che ho realizzato; ho rischiato con ruoli di personaggi brutti, antipatici, cattivi, ma l’arte deve restare selvaggia, senza regole, di rottura rispetto alle connessioni delle società; dall’altra parte la vita privata deve restare tale, mentre l’arte è senza freni, e bisogna essere pronti a donarsi totalmente, altrimenti il gioco diventa uno scherzo.
Riesce sempre a separare arte e vita?
Siamo una categoria un po’ a rischio, siamo frutto di una grande patologia psicologica ma è spesso l’unico modo nel quale riusciamo a esprimere qualcosa di noi; poi sono un po’ cinico, e mantengo una divisione netta tra le due facce dell’esistenza.
Come?
Attraverso uno sguardo ironico.
Più Depardieu o De Niro?
Il primo.
Bicchiere di vino prima di entrare in scena?
Per aiutarmi è capitato, magari interpretavo un ubriaco; comunque, finita la scena, tolgo la maschera.
Molti attori si avvicinano alla recitazione come forma di psicoanalisi.
Se la finalità è risparmiare i soldi dello psicologo, qualcosa non va; ma è innegabile che il teatro ha una potenza terapeutica sia in chi lo esercita sia in chi lo osserva, altrimenti non si spiegherebbe la longevità di questa arte.
In questo anno di stop, le è mancato più il palco o il ciak?
Il palco, mi manca quello spirito di collettività.
Per Lavia il teatro è soprattutto il dopo spettacolo.
La domanda di molti attori prima di entrare in scena è: ‘Dove si va a cena dopo? Hai prenotato?’; mi sono trovato in spettacoli, con la regia proprio di Lavia, in cui il primo attore saltava pezzi di monologo sennò chiudeva il ristorante; in tournée succede di tutto, è letteratura.
Nella serie è un uomo-seduttore…
Per questo è forse il ruolo più difficile della mia carriera; comunque Saverio Lamanna, nei romanzi, è un femminaro, un piacione, tutte le donne che incontra gli vanno dietro; con la recitazione ho cercato di sopperire alla mia reale indole.
Per Valentina Cervi lei a 20 anni ne dimostrava 50.
È vero, non mi riconoscevo molto nella mia generazione, vivevo in un mondo tutto mio, anche come abbigliamento: vestivo con i pantaloni con le pence, le bretelle, capelli lunghi e tutto il repertorio del giovane teatrante.
Secondo la Bergamasco La meglio gioventù ha unito un gruppo di attori…
Sì, perché quella stagione cinematografica ha provato a descrivere un Paese che cercava di uscire dalle pastoie degli anni Novanta; è stata un’esperienza che ci ha amalgamato, e il mio personaggio ha regalato molte soddisfazioni, ancora oggi mi fermano per i complimenti.
Per quali ruoli la riconoscono?
In primis per Riina (ne Il capo dei capi), poi per I cento passi, e per bilanciare aggiungo il Tredicesimo apostolo, gran successo, soprattutto tra le signore.
Un cinepanettone no?
Non credo di essere un nome appetibile.
Ha ricevuto i complimenti da Riina stesso…
Attraverso i suoi legali; uno di loro una volta mi ha fermato in aeroporto, in un altro caso, ed era un legale differente, in un ristorante: “Le faccio i complimenti per come ha interpretato il mio cliente”. “Chi è lei?”. “Sono l’avvocato”. “Allora chieda a Riina se mi racconta tutti i segreti della trattativa Stato-Mafia”.
E loro?
Un sorriso come risposta; (cambia tono) così ho aggiunto: “Se Riina si è riconosciuto nel personaggio, allora, di fatto, ha ammesso, per la prima volta, di essere il capo dei capi. Avvocato, che mi dice?”. “Non è così, non è così”. “Avvocato, ripeto: se si riconosce nella fiction, allora non è il manovale che sostiene di essere”. Ed è finita lì.
Come andava a scuola?
Bene al ginnasio, poi mi sono spaventato, temevo di passare per secchione e venir escluso da tutto; ho puntato al sei.
Scherza…
Diciamo che mi sono lasciato prendere dal cazzeggio.
Cosa legge?
Negli ultimi anni ho un po’ abbandonato la letteratura, per dedicarmi alla saggistica: epistemologia, cibernetica, teoria delle informazioni, per me sono affascinanti quanto un romanzo di vita, perché riguardano l’intimo, le modalità di come apprendiamo, quali sono i processi mentali e cognitivi. Libri che ti sbarellano la testa.
Con chi ne parla?
Con nessuno.
Si sente mai in missione per conto di Dio?
Capita, ma è un lavoro appeso al nulla, quindi è inevitabile per sopravvivere; il nostro status di precari è insito nel mestiere. Mi ricordo quando alla fine del turbocapitalismo americano degli anni Novanta è arrivata questa precarietà diffusa, anche per il posto fisso, e lì ho pensato: benvenuti nella condizione dei teatranti.
Che poster aveva nella sua camera da ragazzo?
Nessuno.
I suoi miti a 14 anni?
(Pausa lunghissima) È un’epoca troppo fumosa.
Tenta la lotteria?
Non ho questo vizio.
Gioca a Natale?
Al massimo perdevo, ma in quelle tavolate natalizie partecipavo più per le ragazze.
Le donne l’hanno distratta?
Sempre, se non fosse così, chissà dove sarei oggi.
Scherza.
È una battuta alla Lamanna.
Oroscopo.
In passato mi prendevo il lusso di leggerlo, oggi no.
Chiesa.
Sono stato chierichetto, assistente alla messa; ricordo quegli spettacoli straordinari, era come stare a teatro.
La messa come spettacolo?
Si citano le parole di Cristo, quindi è una rappresentazione sacra, è un archetipo teatrale, e il mio primo costume di scena è stato quello di chierichetto.
La descrivono come poco tecnologico.
A volte il mio è uno schermo per evitare le rotture; però non sto sui social, non ho molta familiarità con certi meccanismi, ma ne conosco i pericoli.
Chi è lei?
Sto cercando ancora di capirlo, e in questo percorso il teatro mi sarà amico.
(Luigi Pirandello ne l’Enrico IV: “Confidarsi con qualcuno, questo sì, è veramente da pazzo!”)