“Effetto pandemia: il disastro dell’Europa lo pagherà Berlino”

“America first. La diceva Trump e ci stupiva e addolorava. Ora lo ripete Biden e scopriamo che fa la cosa giusta”.

Jean Paul Fitoussi, perché Biden fa la cosa giusta trattenendo milioni di dosi Astrazeneca che gli Usa non utilizzano e che servirebbero altrove?

Perché ogni governante deve pensare al proprio Paese, al suo benessere, a garantirgli un’uscita da questo tunnel infinito. E a farlo prima degli altri, e meglio degli altri. Se è un governante degno di questo nome.

E la condivisione? La liberalizzazione dei brevetti, la solidarietà internazionale?

Sa quanto hanno speso gli Usa per la ricerca sui vaccini? Sa quanto ha dato ad Astrazeneca? Facciamo due conti.

Astrazeneca ha ricevuto 1,2 miliardi di dollari, Johnson & Johnson un miliardo di dollari, Moderna 1,5 miliardi di dollari, Novavax 1,6 miliardi, 2,1 miliardi a Sanofi. Il governo americano ha finanziato con più di 12 miliardi di dollari la ricerca sui vaccini e le terapie anti Covid.

Metta adesso la velocità, la capacità di reazione e il peso di questo investimento di fronte all’assoluta assenza dell’Europa e comprende perché noi stiamo al palo e loro no.

Lei ce l’ha con l’Europa anche per le dimensioni dello stanziamento comunitario per il Recovery.

Le nostre sono cifre modeste e incomparabili con quelle americane. Malgrado negli ultimi mesi la somma sia stata riallineata verso un segmento superiore, l’Europa spende tre/quattro volte in meno degli Usa avendo gli Usa meno abitanti dell’Europa. Questa è la realtà.

L’Europa è lenta.

Lenta, poco reattiva e poco generosa È nata male e la pandemia le consegna una leadership in declino. La Germania è la grande sconfitta culturale e politica di questo evento. A chi serve un’Europa così? Ai sovranisti.

Pensa che se la Gran Bretagna uscirà, come pare, prima degli altri dal lockdown, sarà l’apripista di nuove emulazioni? La Brexit farà scuola?

Gli inglesi hanno sfruttato una chance: quella di far da sé, provvedere prima e meglio. Ma lo hanno potuto fare perché i programmi governativi hanno sempre investito molto nella ricerca, a differenza degli altri Paesi. Diciamoci la verità: non è solo fortuna, non è solo un caso che Oxford sia lì.

La Gran Bretagna ne guadagnerà molto.

Il 21 giugno loro saranno fuori, il 4 luglio sarà il turno degli Usa. E in quel periodo anche Israele potrà dirsi liberato dalla pandemia. Invece noi aspetteremo l’autunno, forse. Noi francesi, voi italiani, anche i tedeschi.

E l’Europa dovrà fare i conti con chi chiederà di uscirsene.

Normale se non prende provvedimenti. L’Europa è nata male, non è unione politica e ha poteri limitati, ridotti. È un pachiderma. Noi trattavamo sui soldi dei vaccini, gli altri mettevano in cantina fiale e fiale.

Qual è la nazione che pagherà di più questa inadeguatezza?

Verrà ridimensionata la leadership tedesca.

Il partito della Markel, la Cdu, è anche dilaniato da scandali enormi.

L’esito della pandemia ci metterà davanti alla grande questione: la devoluzione dei poteri nazionali. Dobbiamo rifare l’Europa e ci serve un uomo concreto, fattivo ma soprattutto veloce.

Chi sarà il successore della Merkel?

L’italiano Mario Draghi.

E la Francia cosa dirà?

Macron non può dirsi contento di come sia stata governata da Parigi questa emergenza. Siamo sessantasei milioni di abitanti e credo che solo da poco abbiamo superato sei milioni di somministrazioni che è una cifra che va poi divisa per due. Non più di tre milioni i totalmente vaccinati (prima e seconda dose). Troppo poco.

Merkel è fuori gioco e Biden non è il grande amico che immaginavamo. Altro che multilateralismo, apertura ai Paesi poveri, solidarietà. Ognuno fa da sé.

America first. Ma lo dice pure Johnson: prima gli inglesi. Così va il mondo, e se non lo capiamo…”.

Il sacrificio umano del prof chiamato dall’establishment

La diretta streaming dell’assemblea dell’investitura è annunciata da Enrico Letta in persona su Twitter, con un dettaglio fotografico della tastiera del Pc che ha partorito il discorso (sporca: cellule morte, polvere, forfora), un primissimo piano che forse cita il cinema russo (l’occhio della madre: le dita del segretario) o forse la nouvelle vague francese. Arriva dopo la foto al ghetto, il videomessaggio davanti alla cartina dell’Italia (da cui esegesi degli analisti su significati reconditi e allegorie geopolitiche), l’intervista a Propaganda Live, il doppio selfie in ascensore, la visita “a sorpresa” al circolo Testaccio: nel solco della sobria taciturnità di Draghi, ci spiegano.

L’assemblea parte in ritardo col discorso di Valentina Cuppi, nei cuori di tutti noi in quanto (per chi non lo sapesse) presidente del Pd. Discorso di cui si ricordano due passaggi: “Diciamolo che noi non siamo interessati solo ai diritti civili e non a quelli sociali” (bastava dirlo!) e “Ora interromperemo lo streaming per non annoiarvi troppo”.

C’è molta discontinuità. Ora per ogni plurale si declina pure al femminile: “tutte e tutti”, “ragazze e ragazzi”, “candidate e candidati”, anche se in italiano “tutti” vuol dire già “tutte e tutti” etc. “I membri” resta i “i membri”.

Arriva Letta, il meno antipatizzante su piazza, forse anche beneficiario di una specie di simpatia di riflesso: era talmente odioso il suo accoltellatore, che Letta potrebbe derubare le vecchiette alle Poste e restare simpatico.

Decisamente più élite di Zingaretti, nello stile, nella formazione, negli impieghi pregressi, nelle relazioni (non nel Cap di residenza: la popolare Testaccio contro la notarile Prati); soprattutto, nelle citazioni: molto Novecento colto per Letta: Man Ray, Hannah Arendt, Sartre; Moro e Ciampi per Zingaretti, che in epoca ante-Barbara D’Urso si concesse un Camilleri, in un cortocircuito omozigote abbastanza straniante. Qui, dove un tempo era tutto lanciafiamme, ora c’è “anima e cacciavite”. La pandemia ha imposto Nazareno semivuoto e potenziali traditori in videoconferenza; risparmiati gli applausi ipocriti della famiglia disfunzionale pidina (presi singolarmente, al netto di qualche renziano asintomatico, sembrano tutti brave persone; è insieme che fanno disastri). È chiaro il confine tra quello che Letta lascia e quello che trova. “I miei due telefoni, quello francese e quello italiano” (una frase per cui qualcuno farebbe carte false), muti per sette anni, e ora di colpo in fiamme. “Scappa, Enrico!”, gridiamo davanti allo streaming come Nanni Moretti gridava “voltati!” a Lara del Dottor Živago.

Poi ci ricordiamo che quando l’establishment chiama, la scuola politica cessa.

Molta “competenza” delle classi dirigenti (dal che si evince che Letta toglierà da ruoli decisionali i finti laureati e i non scolarizzati del Pd), qualche inciampo grammaticale (“Io sono tra quelli che considera”), un’aporia: “Se noi diventiamo il partito del potere noi moriamo”, o forse è un hysteron proteron, come il “Moriamo e lanciamoci in mezzo alle armi” dell’Eneide: ma non erano già il partito del potere? Ma non erano già morti?

Si paga l’obolo all’ecologismo: “sviluppo sostenibile” (nel partito del Tav, delle trivelle, del Tap, del cemento di Milano, del Green Act annunciato, ovviamente da Renzi, e mai realizzato, etc.); “territorio”, però stavolta montano: très chic, molto slow food. Troppi elenchi: “Abbiamo tre sfide”, “Il patto di stabilità può essere di due tipi”, “Abbiamo due impegni”, “Un’iniziativa basata su quattro temi”, “Ci sono due modelli di partito” che poi diventano tre, e ti saluto.

Il programma non è male, va addirittura verso sinistra, il che fa scommettere che glielo faranno realizzare. Un non detto aleggia: Letta sarà l’ennesimo sacrificio umano, per di più recidivo, di un partito che è ormai un organismo dotato di volontà distruttrice, tipo Blob Il fluido che uccide?

Intanto: non è un buffone, non è un bugiardo, non è uno squilibrato egocentrico, non intrattiene rapporti con regimi liberticidi: è già tanto. Lo acclamano le donne con un cesto di fiori pasquali.

Nelle finestre di Zoom applaudono tutti, pure i 2 contrari e i 4 astenuti. Auguri.

Regionali, crolla la Merkel e cresce il partito dei Verdi

Da una parte c’è il leader dei Verdi, Robert Habeck, che parla di “un ottimo inizio per l’anno super elettorale”. Dall’altro il segretario della Cdu, il partito di Angela Merkel, che ammette “non è una buona serata per noi”. Si racchiude in queste due frasi il risultato delle elezioni che si sono tenute ieri in due regioni della Germania, il Baden Wuerttemberg e il Renania Palatinato, al punto che uno dei leader della Spd ricorda: “In entrambi i laender, un governo progressista è possibile senza la Cdu. Dovremmo cogliere questa opportunità”.

Si tratta del primo test elettorale dell’anno, che vedrà tenersi a settembre le elezioni generali per decidere chi guiderà la Germania dopo Angela Merkel. E da queste due regioni arriva il segnale a Berlino: in entrambe si può infatti ambire al cosiddetto “semaforo” di cui parla la Spd, ovvero una coalizione che escluda del tutto la Cdu e metta insieme Verdi, Socialdemocratici e Liberali. Secondo gli exit poll, nel Baden Wuerttemberg, già governato da un premier “verde”, il partito ecologista avrebbe ottenuto il 31,5% dei voti, contro il 23 della Cdu, al minimo storico. Nel Renania Palatinato, i socialdemocratici già al governo sono al 33,5%, con la Cdu che si ferma al 25,5%, i Verdi sono quarti al 9,5%, dopo l’estrema destra dell’Afd al 10,5%, anche questa in calo.

La Cdu ha attribuito il crollo elettorale ai problemi legati alle mascherine contro il Covid-19 – lo scandalo delle tangenti per i dispositivi inviati all’Azerbaigian, che ha portato alle dimissioni di due deputati -, alle politiche di gestione della pandemia e alla popolarità dei governatori uscenti di quelle due regioni.

Letta, primo atto d’accusa al Pd: basta correnti, via i capigruppo

“Senso del limite, decoro e rispetto”. Per imprimere la discontinuità più forte Enrico Letta, che parla per oltre un’ora, illustrando all’Assemblea del Pd, parte dallo stile. E dalla differenza (citando Pirandello), tra “maschere” e “volti”. Atti di accusa velati, ma durissimi, con un sottotesto evidente: i dem hanno sbagliato tutto e il neo segretario ha tutte le intenzioni di andare avanti per la sua strada. Il voto più che bulgaro (860 sì, 2 no, 4 astenuti) ricorda l’applauso in piedi dei partiti a Giorgio Napolitano, che dopo la sua rielezione li criticava senza pietà (ma anche l’acclamazione di Romano Prodi a candidato al Colle, poi impallinato dai 101).

Il Letta tornato al Nazareno dopo l’autoesilio parigino lo dice chiaramente: “Serve un nuovo Pd”, che torni sul “territorio”, che sia “radicale nei comportamenti”, prima ancora che “progressista e riformista”. Che “superi le correnti” e passi per una “verifica” con i gruppi parlamentari. Nella formazione degli assetti del suo Pd, l’ex premier non ha intenzione di procedere con il bilancino delle correnti. Mentre la lealtà e la tenuta dei gruppi andranno verificate, a partire da chi li guida (Graziano Delrio e Andrea Marcucci). Frutto di liste fatte da Matteo Renzi, la diffidenza è d’obbligo. Dal segretario non arrivano esplicite intenzioni di azzeramento. Ma tra gli altri big della maggioranza già circola l’idea di sostituire quanto meno Marcucci, mandandolo alla vice presidenza del Senato, dove ora c’è Anna Rossomando (orlandiana), che prenderebbe il suo posto. Letta va oltre, guarda soprattutto al futuro più prossimo: il superamento di questo modello di partito (beghe personali incluse) passa per l’immissione di altre energie, altre realtà. Da oggi inizia una consultazione nei circoli, previa consegna di un Vademecum. Ma l’appuntamento clou sono le agorà digitali in autunno: l’idea è quella di allargare la partecipazione il più possibile, a partire da giovani e donne. Da notare le omissioni del discorso. Mentre Letta ringrazia Nicola Zingaretti per averlo cercato e ricorda Sergio Mattarella, nemmeno nomina i capi corrente, Orlando, Franceschini, Guerini. Ma cita Sassoli e Gentiloni (la linea europea del Pd) e Romano Prodi, con tutto il riferimento all’eredità dell’Ulivo e Enrico Berlinguer. E Papa Francesco.

Pare che l’accordo sul suo nome sia stato fatto dopo una riunione tra Zingaretti, Bettini, Orlando e Franceschini. Ma lui non ha intenzione di rendere conto alle correnti. Sono le regole d’ingaggio.

Perché poi lo dice con una nettezza che fu solo di Renzi: “Sono qui per vincere”. Parola chiave, coalizione. Gli interlocutori che cercherà nei prossimi giorni li nomina uno per uno, compreso chi lo spodestò da Palazzo Chigi: “Speranza, Bonino, Calenda, Renzi, Bonelli e Fratoianni”. E aggiunge, “questo nostro centrosinistra andrà all’incontro con i 5 Stelle guidati da Conte”. Quest’ultimo ricambia con gli auguri e con il rilancio di un “confronto necessario”. Come conseguenza in serata a Che tempo che fa spiega che il proporzionale non gli è mai piaciuto e dice no alle liste bloccate.

Il resto viene da sé. “Il governo di Mario Draghi è il nostro Governo. È la Lega che deve spiegare perché ci sta”, chiarisce Letta (che in questi giorni ha sentito il premier). Mette lo ius soli come priorità, come scelta di civiltà. Anche un modo per sottolineare la differenza rispetto alla Lega di Salvini. Il quale non a caso reagisce “comincia male”.

Ma sarà sui temi economici che si misurerà davvero la presa del Pd sugli elettori e la sua identità. Letta ieri inizia dall’Europa, ponendo due obiettivi: rendere permanente il Next Generation Eu e un patto di stabilità fondato sulla “sostenibilità sociale e ambientale”. Poi enuncia una serie di riforme: voto ai 16enni, modifiche costituzionali contro il trasformismo, nuovo metodo di elezione dei parlamentari.

Si ferma senza averle mandate a dire, il nuovo Segretario. Pubblicamente, il coro di lodi da parte dei big è unanime. Ma poi i ragionamenti sono diversi. E ruotano intorno a un punto: Letta di “noi” (nel senso di capi corrente) ha bisogno. Mentre si pensa già a un seggio in Parlamento per lui, che ha azzerato tutti i suoi incarichi retribuiti: oltre a quello di Siena, ci sono anche quelli lasciati liberi da Martina e Minniti. Cita anche Sartre, Letta: “L’identità è per metà quello che siamo e per metà quello che vedono gli altri”. Affonda: “L’immagine che abbiamo dato è quella di una torre di Babele”. Viene in mente la Torre di Pisa (sua terra natale): pure se inclinata, una torre è difficile da abbattere.

Ma mi faccia

Un po’ per uno. “Il prossimo sindaco di Roma? Io voterei Bertolaso” (Matteo Salvini, segretario e deputato Lega, 11.3). Giusta par condicio: non può distruggere solo la Lombardia.

Sala trucco. “La mia svolta green. Vado con i Verdi europei” (Giuseppe Sala, ex commissario di Expo Milano 2015, sindaco Pd di Milano, Repubblica, 12.3). Ché quelli italiani potrebbero riconoscerlo.

ControSenso. “Il voto è dibattito; Le regole non sono scritte per gli amici; La formazione è la madre della competenza; Rinnovare vuole dire evolvere; Uno non vale l’altro; La piramide è rovesciata; La comunità è maggiore della somma delle sue parti; Il sogno non è utopia; L’esempio è cambiamento; La felicità è partecipazione; Nessun limite all’immaginazione” (le dieci regole del manifesto “ControVento lanciato da Davide Casaleggio ed Enrica Sabatini per l’associazione Rousseau, 10.3). Ma anche: Non calpestare le aiuole; Non sporgersi dai finestrini; Non lanciare oggetti; Non parlare al conducente; Non ci sono più le mezze stagioni.

L’identikit/1. “Boschi in Procura: ‘C’è uno stalker che mi perseguita” (Messaggero, 10.3). Non dirlo a noi.

L’identikit/2. “Il mio stalker era ovunque” (Maria Elena Boschi, deputata Iv, Messaggero, 11.3). Noi una mezza idea ce l’avremmo.

Agenzia Sticazzi. “Draghi segreto. Macché Palazzo Chigi! Ogni sera torna a casa dalla sua Serenella” (Oggi, 1.3). Apperò.

MojitoZeneca. “Sì, ho detto che avrei aiutato Speranza. Sto cercando i vaccini” (Salvini, 3.3). Ecco, bravo, metti un annuncio sul giornale.

Good news. “Un lockdown per ripartire” (Repubblica, 8.3). “Da luglio ripartono i licenziamenti, ma solo per le grandi aziende in crisi” (Repubblica, 12.3). Ah beh allora.

Agendine. “Sicurezza, ristori e vaccini: i pilastri dell’agenda Draghi” (Repubblica, 11.3). Allora mi sa che è l’agenda del 2020.

Pompe funebri/1. “Industria, sport, editoria e arte. L’Italia celebra il secolo dell’Avvocato” ( Stampa, 12.3). Ecco cos’erano ieri tutti quegli assembramenti nelle piazze.

Pompe funebri/2. “Henry Kissinger: ‘Gianni Agnelli era un uomo del Rinascimento’” (intervista di Maurizio Molinari, Repubblica, 11.3). Però i giornalisti non li faceva tagliare a pezzi: si limitava a comprarli.

Pompe funebri/3. “L’Avvocato. Prevalenza dell’occhio, accelerazione, sintesi estrema erano i suoi dati caratteristici. Angelli capì molto prima di tanti le implicazioni, non solo economiche, della globalizzazione, nel Paese che già il nonno considerava piccolo” (Marcello Sorgi, La Stampa, 12.3). Ecco perchè nascondeva miliardi all’estero: l’Italia gli stava stretta.

Piano con le parole. “Mio nonno, un Draghi. Lapo Elkann e Gianni Agnelli: ‘C’è soltanto un italiano che mi ricorda lui: Draghi’” (Lapo Elkann a Francesco Merlo, Venerdì di Repubblica,12.3). Ora si spera che il premier non lo quereli.

Sei anni e non sentirli. “L’accusa è inventata. Ma i giudici incarcerano il regista antimafia. Il fratello: ‘Come Tortora’” (Luca Fazzo, Giornale, 12.3). “Crespi: un altro innocente va in carcere. E la giustizia nella tomba” (Piero Sansonetti sulla condanna a 6 anni in primo, secondo grado e Cassazione per Ambrogio Crespi per concorso esterno in associazione mafiosa, Riformista, 17.3). Se li assolvono sono innocenti, se li prescrivono sono innocenti, se li condannano sono innocenti. Ma che deve fare uno per essere colpevole?

La Migliora. “Vezzali sottosegretaria. Sullo sport la scelta pop del governo dei migliori” (Repubblica, 12.3). In effetti, quand’era deputata, era fra i migliori assenteisti.

L’importanza di chiamarsi. “Rispunta la battaglia per una donna leader del Pd” (Repubblica, 11.3). Infatti Letta finisce con la a.

Gorgoglio e pregiudizio. “Un pregiudizio devastante ha ridotto il politico a sinonimo di criminale” (Luciano Violante, ex giudice, ex deputato Pci-Pds-Ds-Pd, ex presidente Camera, ora presidente Fondazione di Leonardo-Finmeccanica, Il Dubbio, 12.3). Ma tu guarda che stranezza.

Di Lotti e di governo. “Autonomi anche dal M5S: i dem recuperino identità” (Luca Lotti, deputato Pd, Messaggero, 13.3). Nei cassetti della Consip dev’esserne rimasta un po’.

Il titolo della settimana/1. “Il ministro della Salute non è neppure infermiere” (Pietro Senaldi, Libero, 11.3). E, quel che è peggio, il ministro dei Trasporti non è neppure tramviere.

Il titolo della settimana/2. “Antigone: investire su un modello di pena e non su nuove carceri” (Il Dubbio, 12.3). Quel modello di pena che, in pratica, te ne vai a spasso come prima.

Il titolo della settimana/3. “Draghi spinge sulle dosi” (Giornale, 12.3). E senza neppure una goccia di Dolce Euchessina.

“Bella ciao”, cappelletti, migranti e guerre: per Baru, l’identità si paga “A caro prezzo”

Non è facile parlare di un libro come A caro prezzo, scritto e disegnato dal francese Baru e pubblicato in Italia da Oblomov. Come non sono mai “facili” i libri di questa casa editrice fondata da Igor Tuvieri, in arte Igort e a sua volta fumettista dei più raffinati e complessi (Quaderni ucraini, Quaderni russi, 5 è il numero perfetto). In un mercato in crescita come quello del graphic novel in Italia, bulimico spesso a discapito della qualità, Oblomov è un angolo tranquillo in cui le storie sono scelte con cura e in cui puoi trovare libri come A caro prezzo. Ma quindi: un “caro prezzo” per cosa?

La risposta non è “facile”. In questo libro, primo di una trilogia, ci sono storie che si svolgono su piani temporali diversi e si affastellano senza costrutto, proprio come fanno i ricordi. La prima è un episodio di sangue avvenuto nel 1893 in Francia, quando un gruppo di immigrati italiani fu lapidato da lavoratori francesi furibondi con gli stranieri “ladri di lavoro”. Le storie successive hanno per protagonisti le seconde generazioni; c’è la storia che dà il titolo all’edizione francese del libro, Bella ciao, che ricostruisce le origini di questo canto di rivolta e c’è la storia del nonno dell’autore, emigrato dall’Italia e che acconsentì alla naturalizzazione francese solo per non dover servire nell’esercito fascista di Mussolini; c’è la storia del comunista bambino, zio dell’autore, che da grande morì partigiano in Spagna nel 1938 e c’è – in chiusura, disegnata quasi come un appunto preso al volo su un quaderno – la “ricetta dei cappelletti”.

Il segno grafico cambia continuamente: l’episodio del 1893 è in bianco e nero e ha ampie inquadrature, con scene in cui la dinamicità della rissa e degli inseguimenti sono così nitidi da farti sentire in bocca il sapore del sangue. Le storie successive sono invece ambientate in case più o meno borghesi e raccontate con colori tenui: la violenza è passata, i personaggi sono attorno a una tavola imbandita, litigano e discutono in francese ma cantano in italiano, la loro lingua d’origine. In alcuni momenti la violenza della guerra traspare ancora, intrecciata alla malinconia per le origini, e quindi i toni virano sul grigio ma sono sprazzi, sempre più radi, man mano che si stemperano nella serenità della vita nuova.

Quindi, alla fine, qual è questo “caro prezzo” e chi lo paga? Lo si capisce conoscendo meglio Baru: pseudonimo di Hervé Barulea, nato da padre italiano e madre bretone, vincitore nel 2010 del Grand Prix de la ville d’Angoulême (insieme ad autori come Moebius, Pratt, Eisner e Spiegelman). Figlio di emigrati, ha fatto di questa tematica la colonna della sua intera produzione (basti leggere Gli anni Sputnik, Quequette blues e Verso l’america). E forse è questo il “caro prezzo”: quello che uno straniero, in ogni epoca, deve pagare per costruire una nuova identità in una cultura diversa, cercando di non dimenticare le proprie origini. Il prezzo pagato per non essere più straniero, ma senza perdere la propria ricetta per i cappelletti.

Ultimo liscio a Cesena: ciao Raoul, re di Romagna

Era rimasto un burdél, un ragazzo, anche dopo gli 80. Giurava di non aver paura del tempo che correva in avanti, e se avesse potuto scegliere un modo per andarsene, a Raoul non sarebbe dispiaciuto chiudere gli occhi nuotando in mare aperto.

Citava Marchesi: “L’importante è che la morte ci colga vivi”. Peccato, allora, che il burdél se lo sia portato via quel patàca del Covid, attaccato a un respiratore all’ospedale Bufalini di Cesena, e non un’onda malandrina. Del resto, per annegare in riviera devi proprio volerlo, con l’acqua che resta bassa per chilometri dopo la riva. C’è sempre qualcuno che ti aiuterà, in quell’acqua e in quella terra dove non puoi mai sentirti solo. Anzi, quasi mai. Perché è il perfetto, amarissimo finale per un immaginario film di Avati che Casadei se ne vada alla vigilia di un lockdown, con le spiagge romagnole condannate al vuoto e al silenzio, e nessuno che possa prenotare sulla balera galleggiante, la Nave del Sole, con gli strumenti dell’Orchestra Spettacolo confinati nelle custodie. Gli adolescenti di oggi, se proprio hanno voglia di ballare, pretendono il reggaeton e i Caraibi, mica il liscio adriatico.

Il “liscio”, parola magica. L’aveva inventata Raoul, per caso. In una serata a Garlasco dove tutto, raccontava, “filava liscio come l’olio davanti al palco, e allora dissi: vai col liscio!”. Un marchio da esportare ovunque si andasse, per più di 365 concerti l’anno, pomeriggio e sera, e se il locale non era proprio in culo al mondo si tornava a casa con il pullman, al mattino dopo si ripartiva. Raoul al comando dell’azienda per quarant’anni (a lungo il suo braccio destro è stato Moreno Conficconi, il “biondo” degli Extraliscio dell’ultimo Sanremo). Un’impresa di famiglia, quella dei Casadei, che dal Duemila è passata in carico al figlio Mirko, costretto dai tempi nuovi a “contaminare” il liscio con lo ska, e che prima di Raoul era stata messa su dallo zio Secondo, autore di mille canzoni, tra queste la monumentale Romagna mia. Che era croce e delizia per il nipote: a dispetto del successo da centinaia di migliaia di copie delle sue Ciao mare o Simpatia o del terzo posto al Festivalbar, il Nostro non avrebbe mai potuto prendere le distanze dall’Inno che è stato intonato da Orietta Berti e Claudio Villa, Gloria Gaynor e Jovanotti, i Deep Purple e Pavarotti, Nilla Pizzi e Gigi Proietti.

Persino Giovanni Paolo II restò ammaliato da Romagna mia e spesso la salmodiava tra sé, cambiandone il titolo in Polonia mia. In Israele ne fecero una versione dedicata al Lago di Tiberiade. La Romagna multiproprietà del cuore, anche quando non le appartieni. Quindici anni fa, i turisti furono coinvolti nel coro più lungo del mondo, dandosi la mano sulla battigia tra Gatteo e Cattolica. Impossibile, per Raoul, oscurare l’ombra di zio Secondo, il capostipite dell’Orchestra, i Casadei con il loro tilt genealogico da trovatelli che si erano fatti una posizione come sarti, e per quello li trovavi sul palco in divisa, impeccabili come neanche alla Carnegie Hall. Cent’anni a suonare, dapprima le quadriglie e il dixie, poi il foxtrot, le mazurche e i valzer, repertorio da balli “strusciati”, un po’ per i piedi sul pavimento, un po’ per l’adesione popolarescamente sexy dei corpi. Sangiovese e piadina, gli slanci truffaldini degli amori estivi, le promesse di rivedersi l’anno dopo, ma una volta passato il Rubicone ciao ciao mare e tanti saluti a Cesare e Garibaldi.

Era nato ovviamente a Ferragosto, Raoul. Zio Secondo gli regalò la chitarra quand’era ragazzetto, ma Raoul diventò maestro elementare in Puglia, e ai suoi alunni non assegnava compiti: parlava con loro finché non si appassionavano. Come sul palco.

Il Covid lo ha preteso per sé, dopo aver contagiato quasi tutta la famiglia nella casa di Cesenatico, il “Recinto Casadei”. E che atroce beffa per l’Orchestra, dopo tanti funerali in cui era chiamata per dispensare allegria, non poter suonare anche solo la Polka atomica per il suo burdél.

 

“I sogni con Guadagnino, le prime recite in piazza e i complimenti di Riina”

Un po’ Pirandello, un po’ Sciascia, un po’ Brancati, un po’ Camilleri, insomma sotto il filone dell’alta letteratura siciliana, dove verità e apparenza non sempre coincidono, dove il giallo non è solo una variante cromatica, ma quel pizzico di sapore dentro l’esistenza di ognuno.

Claudio Gioè sta lì.

Allo stesso modo, sotto quelle tonalità, gioca con le risposte, a volte si cela, in altre si palesa, in altre ancora aspetta di capire se la copertura costruita al momento, regge; se la maschera è quella giusta, o se, semplicemente, l’interlocutore è in grado di capire.

Così è, se vi pare.

“Una volta ho dichiarato che avrei voluto diventare astronauta. Ci hanno creduto”. Caso strano, vuoi la nemesi, vuoi la catarsi, l’ipotesi “astronauta” torna anche nei desiderata di Claudio Gioè nei panni di Saverio Lamanna (“Ma davvero? Non lo ricordavo”) in Màkari, miniserie in onda da domani su Rai1, basata sui romanzi di Gaetano Savatteri, in cui Gioè diventa un giornalista-investigatore tra le maglie della natia Sicilia. “Però sono un abbonato del Fatto, e dalla prima ora”.

Insomma, astronauta.

È tipico dei palermitani diventare “cazzari” quando si trovano di fronte alle domande difficili, magari quelle esistenziali, del tipo: ‘Cosa avresti fatto nella vita oltre l’attore?’; a volte me lo chiedono ancora.

Risposta?

Mi vergogno un po’ ad ammettere di non aver mai avuto dubbi sulla mia voglia e passione rispetto alla recitazione; per questo in alcune occasioni mi sono inventato qualche piano B credibile o assurdo, come nel caso dello sceriffo o dell’astronauta.

Però lei si è iscritto alla facoltà di Lettere. Sembra un piano B…

Sì, prima di partire per Roma: allora vivevo a Palermo e quell’estate ero a San Vito; a quel tempo sognavo di entrare in Accademia… C’era un palchetto al centro della piazza, dove di notte, con la birra in mano, ragionavo di futuro con gli amici.

Cosa recitava?

Ricorda con rabbia di John Osborne, un testo inglese degli anni Cinquanta che poi ho portato in Accademia per il provino; ero iscritto a Lettere perché non ci pensavo proprio, tutti quanti mi dicevano che era impossibile passare la selezione; (cambia tono) è un po’ un’assurdità del nostro sistema didattico: è come se ci fosse un unico conservatorio per chi vuole imparare a suonare il violino e con soli quindici posti disponibili all’anno.

A Roma cosa ha trovato?

Sono arrivato nella Capitale con gli occhi totalmente sgranati dalla curiosità di capire: quella realtà sterminata in qualche momento mi ha suscitato timore; anche solo trovare posteggio per l’auto era, per me, un’impresa di ore…

Però…

Sono rimasto sorpreso dalla tempesta culturale: passavano spettacoli lontanissimi dalla realtà palermitana, spettacoli esaltanti come quelli di Carmelo Bene, di Luca Ronconi o di Leo de Berardinis…

Bene lo ha conosciuto?

Ci ha ricevuti in camerino.

Non vi ha insultato?

Era avvolto da una vestaglia rossa damascata, al centro del petto aveva lunghe cicatrici che raccontavano la sua lotta con la salute; mi sorprese la sua estrema umiltà, con noi imbarazzati perché non trovavamo le parole giuste per esprimere la nostra ammirazione.

Bene umile?

Si schermiva, dava i meriti al testo.

Torniamo a Palermo: quando era ragazzo un luogo di culto era la videoteca di Maresco e Ciprì…

Ci andavo, ma senza frequentazione assidua e privilegiata come quella di Luca (Guadagnino); (sorride) probabilmente, già a 13 o 14 anni, Luca discuteva con loro di cinema coreano, mentre io mi limitavo ad affittare qualche blockbuster.

È il protagonista del primo corto di Guadagnino, ma è nel cassetto perché non firma la liberatoria.

Non è vero.

Lo sostiene Guadagnino.

Ne abbiamo parlato a Los Angeles e gli ho dato il via libera; (cambia tono) all’inizio abbiamo sognato insieme questo lavoro, e lui era già così, era già un candidato all’Oscar, o almeno era mentalmente nelle dinamiche di Los Angeles, senza che alcun dubbio lo pervadesse.

Addirittura.

Da critico cinematografico qual è, aveva grande lucidità, conosceva perfettamente la geografia artistica, sapeva dove puntare da regista, eppure intorno lo prendevano per pazzo o mitomane.

Anche lei?

Partecipavo ai suoi film, mi piaceva la sua visione critica nei confronti del cinema mondiale e per me è stata un’iniziazione alla macchina da presa, perché venivo dal teatro, ero asciutto rispetto a certe coordinate; Luca, in qualche modo, è stato un mentore, e insieme andavamo a vedere film rari, preziosi, belli.

Se Guadagnino era proiettato all’Oscar, di sé cosa pensava?

Amavo la recitazione e non avevo chiara la direzione, quindi scrivevo per il teatro e facevo regie; il mio mondo era un piccola compagnia, un’associazione culturale con la quale mi divertivo e puntavo su ciò che mi piaceva; (sorride) un giorno Luca tracciò una visione di me: “Sarai il nuovo Montalbano”.

Risposta?

“Tu sei pazzo”.

Molti suoi colleghi, da Valentina Cervi a Sonia Bergamasco, da Claudio Castrogiovanni allo stesso Guadagnino la considerano un fuoriclasse.

(Inizia a rallentare l’emissione di vocaboli e a grattarsi la spalla) Li ringrazio.

Imbarazzato?

Devo ancora imparare a ricevere i complimenti; (per “salvarsi” torna a prima) con Luca ci ha accomunato una passione, una passione tale da mettere in secondo piano tutto il resto.

A cosa ha rinunciato?

È stata una forma di vocazione monacale, dove tagli legami, affetti e tutto quello che non rientra in quel cono visuale.

Il lato B dei complimenti di prima è che ha ottenuto meno di quel che doveva.

Per carità, ringrazio il cielo per quello che ho realizzato; ho rischiato con ruoli di personaggi brutti, antipatici, cattivi, ma l’arte deve restare selvaggia, senza regole, di rottura rispetto alle connessioni delle società; dall’altra parte la vita privata deve restare tale, mentre l’arte è senza freni, e bisogna essere pronti a donarsi totalmente, altrimenti il gioco diventa uno scherzo.

Riesce sempre a separare arte e vita?

Siamo una categoria un po’ a rischio, siamo frutto di una grande patologia psicologica ma è spesso l’unico modo nel quale riusciamo a esprimere qualcosa di noi; poi sono un po’ cinico, e mantengo una divisione netta tra le due facce dell’esistenza.

Come?

Attraverso uno sguardo ironico.

Più Depardieu o De Niro?

Il primo.

Bicchiere di vino prima di entrare in scena?

Per aiutarmi è capitato, magari interpretavo un ubriaco; comunque, finita la scena, tolgo la maschera.

Molti attori si avvicinano alla recitazione come forma di psicoanalisi.

Se la finalità è risparmiare i soldi dello psicologo, qualcosa non va; ma è innegabile che il teatro ha una potenza terapeutica sia in chi lo esercita sia in chi lo osserva, altrimenti non si spiegherebbe la longevità di questa arte.

In questo anno di stop, le è mancato più il palco o il ciak?

Il palco, mi manca quello spirito di collettività.

Per Lavia il teatro è soprattutto il dopo spettacolo.

La domanda di molti attori prima di entrare in scena è: ‘Dove si va a cena dopo? Hai prenotato?’; mi sono trovato in spettacoli, con la regia proprio di Lavia, in cui il primo attore saltava pezzi di monologo sennò chiudeva il ristorante; in tournée succede di tutto, è letteratura.

Nella serie è un uomo-seduttore…

Per questo è forse il ruolo più difficile della mia carriera; comunque Saverio Lamanna, nei romanzi, è un femminaro, un piacione, tutte le donne che incontra gli vanno dietro; con la recitazione ho cercato di sopperire alla mia reale indole.

Per Valentina Cervi lei a 20 anni ne dimostrava 50.

È vero, non mi riconoscevo molto nella mia generazione, vivevo in un mondo tutto mio, anche come abbigliamento: vestivo con i pantaloni con le pence, le bretelle, capelli lunghi e tutto il repertorio del giovane teatrante.

Secondo la Bergamasco La meglio gioventù ha unito un gruppo di attori…

Sì, perché quella stagione cinematografica ha provato a descrivere un Paese che cercava di uscire dalle pastoie degli anni Novanta; è stata un’esperienza che ci ha amalgamato, e il mio personaggio ha regalato molte soddisfazioni, ancora oggi mi fermano per i complimenti.

Per quali ruoli la riconoscono?

In primis per Riina (ne Il capo dei capi), poi per I cento passi, e per bilanciare aggiungo il Tredicesimo apostolo, gran successo, soprattutto tra le signore.

Un cinepanettone no?

Non credo di essere un nome appetibile.

Ha ricevuto i complimenti da Riina stesso…

Attraverso i suoi legali; uno di loro una volta mi ha fermato in aeroporto, in un altro caso, ed era un legale differente, in un ristorante: “Le faccio i complimenti per come ha interpretato il mio cliente”. “Chi è lei?”. “Sono l’avvocato”. “Allora chieda a Riina se mi racconta tutti i segreti della trattativa Stato-Mafia”.

E loro?

Un sorriso come risposta; (cambia tono) così ho aggiunto: “Se Riina si è riconosciuto nel personaggio, allora, di fatto, ha ammesso, per la prima volta, di essere il capo dei capi. Avvocato, che mi dice?”. “Non è così, non è così”. “Avvocato, ripeto: se si riconosce nella fiction, allora non è il manovale che sostiene di essere”. Ed è finita lì.

Come andava a scuola?

Bene al ginnasio, poi mi sono spaventato, temevo di passare per secchione e venir escluso da tutto; ho puntato al sei.

Scherza…

Diciamo che mi sono lasciato prendere dal cazzeggio.

Cosa legge?

Negli ultimi anni ho un po’ abbandonato la letteratura, per dedicarmi alla saggistica: epistemologia, cibernetica, teoria delle informazioni, per me sono affascinanti quanto un romanzo di vita, perché riguardano l’intimo, le modalità di come apprendiamo, quali sono i processi mentali e cognitivi. Libri che ti sbarellano la testa.

Con chi ne parla?

Con nessuno.

Si sente mai in missione per conto di Dio?

Capita, ma è un lavoro appeso al nulla, quindi è inevitabile per sopravvivere; il nostro status di precari è insito nel mestiere. Mi ricordo quando alla fine del turbocapitalismo americano degli anni Novanta è arrivata questa precarietà diffusa, anche per il posto fisso, e lì ho pensato: benvenuti nella condizione dei teatranti.

Che poster aveva nella sua camera da ragazzo?

Nessuno.

I suoi miti a 14 anni?

(Pausa lunghissima) È un’epoca troppo fumosa.

Tenta la lotteria?

Non ho questo vizio.

Gioca a Natale?

Al massimo perdevo, ma in quelle tavolate natalizie partecipavo più per le ragazze.

Le donne l’hanno distratta?

Sempre, se non fosse così, chissà dove sarei oggi.

Scherza.

È una battuta alla Lamanna.

Oroscopo.

In passato mi prendevo il lusso di leggerlo, oggi no.

Chiesa.

Sono stato chierichetto, assistente alla messa; ricordo quegli spettacoli straordinari, era come stare a teatro.

La messa come spettacolo?

Si citano le parole di Cristo, quindi è una rappresentazione sacra, è un archetipo teatrale, e il mio primo costume di scena è stato quello di chierichetto.

La descrivono come poco tecnologico.

A volte il mio è uno schermo per evitare le rotture; però non sto sui social, non ho molta familiarità con certi meccanismi, ma ne conosco i pericoli.

Chi è lei?

Sto cercando ancora di capirlo, e in questo percorso il teatro mi sarà amico.

(Luigi Pirandello ne l’Enrico IV: “Confidarsi con qualcuno, questo sì, è veramente da pazzo!”)

“Siamo tutte Sarah”: Londra scopre la paura della polizia

La notte del 3 marzo, verso le 21, Sarah Everard, 33 anni, ha salutato un’amica nel quartiere londinese di Clapham e si è avviata a piedi verso casa a Brixton. Non è mai arrivata.

L’allarme è stato dato poco dopo, e il 5 il suo volto sorridente girava sui social e su Whatsapp: è scomparsa, cerchiamo informazioni, l’avete vista? Giorni di ricerche, mobilitazione sul campo della polizia e, sui social, di donne inferocite, parlamentari e ragazze comuni, che ancora urlano la rabbia di dover vivere nel terrore sempre, organizzano veglie fisiche e virtuali, reclamano il diritto di camminare in pubblico, di uscire di notte, senza essere ammazzate. Venerdì la fine di ogni speranza: sono di Sarah i resti trovati in un acquitrino in Kent. L’hanno riconosciuta dai denti. Ma la storia è più orribile di così, perché l’unico sospettato di rapimento e omicidio è Wayne Couzens, 48 anni, poliziotto del servizio di protezione di politici e diplomatici, curriculum impeccabile, sposato, due figli. Un agente con porto d’armi, assegnato alla sicurezza dell’ambasciata americana. Forse Sarah si è fidata del tesserino. Ma poi emerge che contro Couzens c’erano due denunce per “condotta indecente”, esibizionismo, in un McDonald’s, solo 4 giorni prima della scomparsa di Sarah. Il vice capo della polizia Nick Ephgrave ha dichiarato: “So che il pubblico si sente ferito e arrabbiato. Sono sentimenti che condivido e so che li condividono anche i miei colleghi a Scotland Yard e in tutto il corpo di polizia”. In custodia Couzens si è ferito alla testa due volte, per due volte è finito in ospedale, e non si sa se siano ferite auto-inflitte o provocate dalla rabbia dei colleghi. Ma qualcosa è andato storto nella catena di comando. L’ente indipendente di controllo sull’operato della polizia ha già avviato un’inchiesta sui molti punti oscuri: perché nessuno sia intervenuto dopo l’episodio del McDonald’s, se sia stato fatto tutto il necessario nella fase delle ricerche, le circostanze del ripetuto ferimento in carcere, se sia stato arrestato troppo tardi. È chiaro che questa storia non finisce qui.

“Contro Morales fu golpe”. Arrestata la sostituta Áñez

Per Jeanine Áñez si tratta di “vendetta”. Per Evo Morales di “giustizia”. Fatto sta che in Bolivia, a un anno e mezzo dalle accuse di brogli all’indirizzo dell’allora presidente – costretto a scappare – è scattata di nuovo la macchina della giustizia. Questa volta in carcere è finita lei, l’ex capo di Stato ad interim dopo l’esilio di Morales, sostituita a ottobre dal pupillo del Movimiento al Socialismo (Mas), il partito dell’ex presidente che ha vinto le elezioni con Luis Arce. Le accuse a carico di Áñez sono di “terrorismo, sedizione e cospirazione” per gli eventi del novembre del 2019 che si conclusero con la fuga di Morales.

Con lei –trovata nascosta nel telaio di un letto sommier a casa di parenti a Trinidad e trasportata a La Paz per testimoniare – sono finiti in carcere anche i suoi ministri, tra cui l’ex ministro della Difesa, più due capi di Stato maggiore e il capo della polizia, Vladimir Yuri Calderón, in una caccia ai colpevoli del golpe iniziata già venerdì con il mandato di cattura da parte dell’ufficio del procuratore generale dello Stato. Un comportamento che denota “abuso e persecuzione”, ha accusato l’ex senatrice in un tweet in cui denuncia Mas di abuso di potere. “Sono stata accusata di coinvolgimento in un colpo di Stato che non c’è mai stato”, ha scritto Áñez. “Le mie preghiere per la Bolivia e per tutti i boliviani”. Un atto necessario gli arresti, invece, secondo Morales: “per dare giustizia e verità alle 36 vittime, gli oltre 800 feriti e gli oltre 1.500 detenuti illegalmente nel colpo di Stato, che gli autori e complici della dittatura che ha saccheggiato l’economia e ha attaccato la vita e la democrazia in Bolivia siano indagati e puniti”, ha risposto su Twitter. Dalla parte di quest’ultimo, ieri si è schierato il direttore di Human Rights Watch, José Miguel Vivanco, che ha dichiarato che in Bolivia c’è stato un colpo di Stato nel 2019 causato da precedenti come l’insubordinazione delle Forze armate che hanno suggerito che il presidente Morales si dimettesse dal suo incarico. “Il fatto che il capo delle Forze armate suggerisca al presidente costituzionale boliviano, Evo Morales, che era ora di dimettersi, secondo me, è tecnicamente un colpo di Stato, perché c’è un fatto, un atto di insubordinazione da parte di un militare”, ha detto Vivanco in un’intervista alla Cnn. Per questo e perché le dimissioni di Morales “sono state indubbiamente motivate e direi addirittura costrette dall’autorità militare”, secondo il capo dell’organizzazione, quanto accaduto “deve essere indagato a fondo, pur nel rispetto del giusto processo, della trasparenza e della credibilità”.

L’inchiesta, denominata “colpo di Stato” e aperta a dicembre dal procuratore generale, indaga anche sul “coordinamento tra Forze armate e Polizia per portare a termine la repressione durante le manifestazioni pro-Morales del novembre del 2019 che poi portarono alle dimissioni di Evo Morales”, ha fatto sapere la Procura. “Si sta giudicando un fatto molto chiaro: come è possibile che un partito con il 4% sia riuscito a prendere il potere del Paese (il partito di Áñez, Fronte di Unità Nazionale ndr). Dato che l’incarico lo ha ottenuto senza il voto del Parlamento e dalle mani di un militare, si tratta di un colpo di Stato che ha avuto delle conseguenze: massacri, omicidi e torture. Ora deve essere fatta giustizia”, ha spiegato Iván Lima Magne, ministro della Giustizia. Áñez che ieri è stata ascoltata dal Procuratore, “è giudicata come ex senatrice, non come ex presidente”, ha chiarito Lima sottolineando che in Bolivia “il sistema è garantista, con giusto processo e che tutto si è svolto sotto il controllo giudiziario. Sono stati loro ad arrestare le persone e poi aprire le inchieste. Non noi”.