Afghanistan, Biden indugia sul ritiro. Prima si firmi la pace

Donald Trump aveva una sua priorità: rispettare le promesse del 2016, riportare a casa ‘i ragazzi’ dai teatri delle guerre infinite degli Stati Uniti, l’Afghanistan, l’Iraq, la Siria; e poco gl’importava quel che poteva accadere dopo la loro partenza. Joe Biden sta, invece, valutando le conseguenze dell’abbandono dell’Afghanistan da parte delle truppe Usa e dei loro alleati: si rischia di consegnare il Paese alle ritorsioni dei talebani, considerata l’inefficienza e la corruzione dell’attuale ‘diarchia’ tra il presidente Ashraf Ghani e il suo principale rivale, e attualmente presidente dell’Alto Consiglio per la conciliazione nazionale, Abdullah Abdullah.

Secondo quanto scrive il Washington Post, gli Stati Uniti potrebbero posticipare il ritiro delle truppe dall’Afghanistan oltre la scadenza del 1° Maggio concordata con i talebani a fine febbraio 2020, senza un accordo di riconciliazione tra i talebani e il governo di Kabul – intesa che manca tuttora –. L’ipotesi che circola a Washington è che l’Amministrazione posticipi il ritiro totale per avere il tempo di elaborare una proposta che superi lo stallo delle trattative fra studenti islamici e governo afghano. Confusione e incertezza regnano, in Afghanistan e negli Usa. Pochi giorni fa, il segretario di Stato Antony Blinken aveva prospettato una serie d’iniziative per disincagliare i negoziati, confermando però la scadenza del 1° maggio per il “completo ritiro” dei circa 2.500 soldati statunitensi nel Paese.

In una lettera a Ghani, Blinken scriveva che Washington vuole un cessate il fuoco “completo e permanente”. Tra le iniziative progettate, la richiesta all’Onu di riunire i ministri degli Esteri di Usa, Russia, Cina, Pakistan, Iran, India per “discutere un approccio unificato per la pace in Afghanistan”. I negoziati tra governo e talebani, apertisi in settembre nel Qatar, non sono finora approdati a nulla di concreto. Ora, la Turchia cerca d’inserirsi nei giochi e propone di ospitare in aprile a Istanbul colloqui di pace che – sostiene il ministro degli Esteri di Ankara Mevlut Cavusoglu – non sarebbero “un’alternativa al processo in corso in Qatar”, ma dovrebbero “sostenerlo”. E pure la Russia ospiterà giovedì prossimo una conferenza sull’Afghanistan. Kabul assicura la sua presenza a tutti i tavoli, ma respinge l’idea di un esecutivo ad interim con la partecipazione dei talebani. La prospettiva di un abbandono dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati – se ne vanno gli ultimi militari americani, se ne andranno pure quelli rimanenti della missione Nato Resolute Support, 9.500 uomini in tutto, fra cui il contingente italiano (800 uomini circa) – è vista con preoccupazione da molti afghani, specie dalle donne, che rischiano di perdere quanto, in termini di emancipazione, hanno guadagnato in questi anni.

Giorni fa, di fronte al numero allarmante di attacchi deliberatamente rivolti ai civili in Afghanistan, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu “ha condannato con la massima fermezza” tali atti. Il Paese continua a essere terreno di violenze dei talebani, che tendono a colpire le forze di sicurezza lealiste; ma vi sono pure attive frange di Al Qaida e miliziani dell’Isis, con azioni terroristiche. Ieri sera, un’autobomba è esplosa a Herat, nell’Ovest del Paese, facendo almeno otto morti e una cinquantina di feriti. L’esplosione ha devastato una sede della polizia, danneggiando decine d’abitazioni e di negozi: fra le vittime, bambini, donne, personale della sicurezza. Un portavoce dei talebani ha negato ogni responsabilità, anche se gli studenti sono attivi nell’area e vi hanno recentemente condotto attacchi contro le forze governative afghane. Il presidente Ghani ha invece accusato i talebani, sostenendo in un comunicato che essi “continuano una guerra illegittima e violenta contro il nostro popolo” e “dimostrano ancora una volta di non volere risolvere pacificamente la crisi attuale”. Questo mese, altri attacchi hanno ucciso almeno sette lavoratori agricoli della comunità sciita Hazara, nella provincia di Nangarhar, nell’Est del Paese – forse, una faida tribale e religiosa: gli Hazari sono da tempo perseguitati –. Una ginecologa è stata uccisa da un ordigno piazzato sotto la sua auto nella città di Jalalabad, sempre nell’Est, dove due giorni prima tre donne dipendenti d’una televisione privata erano state attaccate e ammazzate da uomini armati. Azioni, queste, rivendicate dall’Isis, secondo cui la ginecologa era “un elemento apostata dell’intelligence afghana”.

 

Letta, il capoclasse del fritto misto mette in riga il Pd-Tafazzi

Dunque, ha imparato a decidere e ha detto: “Eccomi, ci sono”. Immaginiamola così: con la musica in crescendo, il buio che si squarcia, le lame e i denti che lampeggiano, ecco il finalissimo degno di Dario Argento, ora che il povero Enrico Letta, glabro, allampanato e solo, ha fatto il passo avanti, finendo nel tranello dei suoi sicari, le grinfie letali delle correnti democratiche, capaci di masticare qualunque segretario. Per fame. Per crudeltà. O anche solo per il dispetto di inghiottirne un altro. L’ottavo in 14 anni.

Oppure tutto il contrario. È Enrico Letta, per niente solo, ma persino nipote dell’astuto zio Gianni esperto in labirinti del potere, pupillo di Mattarella, ammiratore ricambiato di Mario Draghi, che torna a cavallo di una trita documenti, dopo il rapimento della campanella di Palazzo Chigi, a pareggiare i conti con il senatore semplice di Rignano, le umiliazioni romane, l’esilio francese. Mandato anche lui dai plenipotenziari di Bruxelles in qualità di capoclasse, per mettere ordine alla ricreazione delle correnti, sculacciarle, e finalmente affiancare Draghi, il preside d’Italia, prima che arrivino i 209 miliardi di pasti caldi in refettorio.

Che sia tragedia o commedia, Enrico Letta ha biografia sufficiente per farsi vittima e insieme carnefice di quel che resta del partito non più comunista, non più democristiano, ma sarchiapone democratico a sei zampe che da un quarto di secolo – incantato dal potere – prova a fare del bene, facendosi del male. A salvare il Paese dall’anomia berlusconiana, dagli egoismi sovranisti, per poi accordarsi con l’uno o con l’altro, tanto per martellarsi nel punto più dolente, alla maniera di Tafazzi.

Enrico viene da quell’indole un poco penitente, un poco masochista, del compromesso al ribasso per alti ideali, che si impara nelle coltivazioni del cattolicesimo sociale tra le liquerizie dell’oratorio, specie in terra rossa pisana dove nacque nell’anno 1966, famiglia borghese, il padre Giorgio, docente di Matematica, accademico dei Lincei, esperto (come il figlio fattosi adulto) in Calcolo delle probabilità, che poi sarebbe la versione aritmetica della politica.

Da ragazzino Enrico vive e studia per tre anni a Strasburgo, per via del padre, visiting professor, e nella nascente Europa impara il francese e l’inglese: “Stare all’estero mi ha aiutato a capire il mondo”. Torna a Roma nell’anno del rapimento Moro: “Mio padre ci portò a vedere via Fani e quel giorno decisi che da grande avrei fatto politica”. Nel frattempo, legge fumetti d’avventura e tifa Milan. Si laurea in Diritto internazionale. Entra nel pensatoio bolognese del Mulino. Prima dei trent’anni lo pesca il grande Beniamino Andreatta, ministro degli Esteri del governo Ciampi, per affidargli la sua segreteria: “Gli devo molto, mi ha dato fiducia e responsabilità”. Da lì sale in verticale. Ministro per le Politiche comunitarie a 32 anni, nel governo D’Alema. Poi nel governo Amato. Quindi sottosegretario del premier Romano Prodi, il suo secondo maestro. Quando sfiorisce la Margherita, lui rifiorisce nel Partito democratico, fa il vice di Luigi Bersani in segreteria. E intanto coltiva la sua creatura “Vedrò”, workshop per quarantenni che si addestrano “al ricambio generazionale”, in chiave rigorosamente cattolica, progressista, educata, pettinata. Talmente moderata che piace persino a destra. E che in effetti non disdegna nessuno, mai il Quirinale governato da Napolitano, mai il dialogo con i bossiani e gli arcoriani, mai il governo Monti. Tutti potabili per irrigare l’Italia delle riforme sempre future, tranne i Cinque Stelle che ai tempi del 2012, considerava “voti a perdere”, meglio votare il Pdl, come disse sventuratamente, salvo aggiungere che “il ritorno di Berlusconi era patetico come quello di un pugile suonato”.

Tolta qualche turbolenza nella vita privata – sposato a 24 anni, divorziato a 31, risposato a 37, pazienza per il mormorio interiore del buon cattolico – la sua avventura pubblica è quella di un tecnico con scienza politica incorporata e di un politico con scorta di sorrisi tecnici. Sale a Palazzo Chigi nell’aprile del 2013, dopo le elezioni senza vincitori, in una primavera così ampia da contenere la prima grande coalizione, detta anche “il fritto misto”, con il Pd di Bersani, il Pdl di Berlusconi, la Scelta civica di Monti, i Radicali di Emma Bonino, qualche socialista in transito e il mitico Angelino Alfano, addirittura vicepremier. Durerà meno di un anno, 300 giorni, incaricandosi del misfatto il nuovissimo segretario dei democratici, un Matteo Renzi che già studia da saudita, offrendo l’abbraccio del celebre “#enricostaisereno”, mentre pregusta l’agguato e il serramanico al telefono con il generale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi: “Letta non è cattivo, ma non è capace. Non è proprio capace”.

Andò come doveva. Era il 14 febbraio 2014, giorno di San Valentino. Enrico non uscì da Palazzo Chigi fatto a pezzi in una valigia, ma con un biglietto aereo in tasca per Parigi, un addio tra l’indifferenza generale dei suoi compagni, destinazione la cattedra al Sciences Po, l’Istituto di studi politici. Restituì la tessera del Partito democratico. Si dimise da parlamentare. Pubblicò gli ultimi 5 dei suoi 18 saggi politici, uno all’anno. E solo ogni tanto tornava sulla riva del fiume italiano a controllare i cadaveri in transito, come avrebbe fatto il suo eroe, Dylan Dog, ma con molta più malinconia.

Nel frattempo, ha appoggiato il referendum sul taglio dei parlamentari. Ha legato con Giuseppe Conte. E grazie alle morbidezze di Zingaretti, ha ripreso la tessera e ha messo in archivio l’elenco di quelli che gli avevano voltato le spalle, i Franceschini, i Bettini, gli Orfini. Gli stessi che oggi strillano dal naufragio. Stavolta non avrà Renzi tra i piedi. E non andrà a sedersi davanti agli occhi lisergici di Barbara D’Urso per trovare il suo X Factor. È già qualcosa per ricominciare.

Più elementi ci sono più si ride: l’effetto esplosivo delle gag

Come abbiamo visto nella puntata precedente, dato un testo (linguistico, visivo, gestuale, musicale, filmico, &C.), i modelli interpretativi più vantaggiosi per un comico sono quelli che ne delineano gli elementi, le strutture, le funzioni e le regole a livello micro e macro, poiché le gag (linguistiche, visive, gestuali, musicali, filmiche, &C.) ne sono un sabotaggio. Più elementi, strutture, funzioni e regole conosci, più il tuo sabotaggio comico può essere direzionato, diversificato, divertente e devastante.

LA PSICOLOGIA DELLA FORMA

La Gestaltpsychologie, nata in Germania agli inizi del ‘900, studiava i processi cognitivi e la percezione visiva. Approfondì il principio secondo cui “il tutto è diverso dalla somma delle singole parti” (Kurt Koffka, 1935), che oggi fonda l’indagine sulle proprietà emergenti (le molecole d’acqua non sono umide, ma l’acqua sì: l’umidità è una proprietà emergente); ed elencò gli 8 fattori in base ai quali il cervello organizza gli elementi percepiti:

1) pregnanza (percepiamo più facilmente l’elemento più semplice, simmetrico, regolare, omogeneo, coeso);

2) vicinanza (percepiamo come unità gli elementi vicini);

3) somiglianza (percepiamo come unità gli elementi simili per colore, forma e dimensione);

4) chiusura (percepiamo come unità le figure interrotte, completando le parti mancanti; e come complete le forme coperte parzialmente da altre);

5) continuità di direzione (fra linee intersecate, percepiamo come unità quelle che cambiano meno direzione);

6) figura-sfondo (nel campo visivo tendiamo a distinguere la figura, cioè la forma che attrae l’attenzione, dallo sfondo indifferenziato su cui si staglia. In un tipo di ambiguità visiva, figura e sfondo cambiano classe a seconda di dove dirigiamo la nostra attenzione, e non riusciamo a vederli contemporaneamente, cfr. Qc# 13);

7) destino comune (percepiamo come unità gli elementi con lo stesso movimento);

8) esperienza passata (percepiamo linee separate come unità tramite lo schema di forme già viste).

Queste 8 regole sono molto utili non solo per escogitare gag, ma anche per esibirne al meglio i materiali.

La chiarezza di una gag è della massima importanza per l’effetto esplosivo. Guardate qui (shorturl.at/horJT), a 2’33”, le due versioni, riprese da angolazioni diverse, di una stessa gag di Buster Keaton. La seconda versione funziona molto meglio perché segue le regole della Gestalt.

Keaton organizza un’isotopia visiva attivando i fattori 1, 2, 3 e 6, e la infrange attivando il fattore 7: in tal modo, crea una non-pertinenza percettiva che sorprende. Qui (shorturl.at/afuAQ), a 1’53”, la gag crea l’isotopia “automobile” attivando i fattori 2, 3, 4 e 7, e per infrangerla li disattiva portando alla luce ciò che il buio rendeva ambiguo. A 2’00”, un’altra gag illustra la regola 7: vediamo la creazione dell’isotopia “colonna” e la sua dissoluzione. La gag a 3’40”, celeberrima, gioca con la regola 6 nel modo più clamoroso: la figura di Keaton viene messa in pericolo (traffico, rupe, leoni, treno) dal cambiamento continuo dello sfondo.

Le gag di Keaton sono di due tipi: quelle che risolvono un pericolo, di solito con un’acrobazia; e quelle surreali, che lui definiva “cartoon gag”. In entrambi i tipi, l’effetto comico è talmente impossibile che ha del gioco di prestigio. Sia i giochi di prestigio che le gag visive attivano nello spettatore le aree cerebrali che processano i conflitti cognitivi (Watson & al, 2007; Parris & al., 2009).

Vedendolo incolume dopo uno spaventoso capitombolo giù per le scale, Harry Houdini, un amico di famiglia, chiamò il piccolo Keaton “Buster” (“ruzzolone”): l’aneddoto quasi simboleggia la vicinanza fra illusionismo e comicità (cfr. Non c’è di che, 11 e 16 febbraio). Qui (shorturl.at/afuAQ), a 1’21”, un esempio di gag acrobatica. Un altro esempio è a 0’55”, dove Keaton porta al parossismo la più vecchia gag del cinema, l’innaffiatore innaffiato dei fratelli Lumière.

Una semplice, meravigliosa gag surreale è a 4’40”. A 4’51”, una gag che è un gioco di prestigio da vaudeville. Qui (shorturl.at/horJT), a 4’51”, la gag comica è su un gioco di prestigio. Altra stupenda gag surreale qui (shorturl.at/hCRXZ) a 3’12”. Buon divertimento!

(47. Continua)

Le mani dei clan sulla politica in Val d’Aosta. Tre ex presidenti di Regione verso il processo

Voti in cambio di appalti e lavori pubblici, soprattutto nell’edilizia. Arriva ai vertici della Regione l’inchiesta “Egomnia”, condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Torino sulle infiltrazioni della ’ndrangheta in Val d’Aosta. Secondo i pm Stefano Castellani e Valerio Longi i clan calabresi erano in grado di condizionare i livelli più alti della politica regionale. Ieri mattina, con la chiusura delle indagini, sono stati notificati otto avvisi di garanzia per concorso in scambio elettorale politico mafioso: tra i destinatari, anche i tre ex presidenti della Regione Valle d’Aosta Antonio Fosson (ex senatore), Laurent Viérin e Renzo Testolin. Indagati anche Stefano Borrello, ex assessore alle Opere pubbliche, e Luca Bianchi, ex consigliere regionale ed ex sindaco del Comune di Pollein.

Le contestazioni della Procura si riferiscono al periodo che precede le elezioni regionali del 2018: è in questa fase che, secondo gli inquirenti, vengono stabiliti gli accordi tra i candidati e i clan calabresi. L’esistenza as Aosta di una locale di ’ndrangheta (struttura radicata sul territorio che raccoglie più famiglie mafiose) è stata accertata per la prima volta pochi mesi fa, nell’ambito del processo Geenna. L’inchiesta aveva portato allo scioglimento del Comune di Saint-Pierre (rappresentato dall’avvocato Giulio Calosso).

Questo nuovo filone si concentra in modo specifico sui condizionamenti elettorali. Per chi indaga, i politici hanno chiesto voti fra aprile e maggio del 2018 a tre emissari delle ’ndrine: Antonio Raso, ritenuto il boss dell’organizzazione criminale ad Aosta; Alessandro Giachino, dipendente del casinò di Saint-Vincent (difeso dall’avvocata Silvia Alvares); Roberto Alex Di Donato, operaio. Tutti e tre sono già stati condannati in primo grado per associazione mafiosa. Raso gestiva un locale molto noto ad Aosta, il ristorante “La Rotonda”, punto di ritrovo di molti politici. Fosson, governatore in carica fino a due anni fa, si era dimesso nel dicembre del 2019 dopo aver saputo di essere indagato. Lo scandalo giudiziario aveva scatenato dimissioni a catena. Negli stessi giorni si erano fatti da parte Viérin, in quel momento assessore regionale, Bianchi (come Viérin eletto con l’Union Valdôtaine Progressiste), e Borrello (entrato in consiglio con Stella alpina). L’avviso di garanzia è una novità invece per Renzo Testolin, ex vice di Fosson, dal 2020 consigliere regionale.

Uccide a coltellate l’ex moglie: scappa e poi si costituisce

Ha confermato la propria confessione anche davanti al pm, nel corso dell’interrogatorio che si è svolto ieri pomeriggio a Terni, Pinotto Iacomino, il quarantatreenne di Napoli accusato dell’omicidio della ex moglie Ornella Pinto (40 anni), uccisa con 12 coltellate venerdì notte nel capoluogo campano. Il delitto – in base a quanto si apprende da fonti investigative – sarebbe avvenuto dopo una lite. In casa, al momento dell’omicidio, era presente anche il figlio minorenne della coppia. L’uomo dopo l’aggressione è fuggito in auto verso l’Umbria, mentre la donna è riuscita a chiamare al telefono la sorella. In una manciata di minuti l’arrivo dell’ambulanza e la corsa verso il pronto soccorso dell’ospedale Cardarelli, dove è poi morta.

Un femminicidio mancato “per miracolo, perché pioveva troppo” è invece quello raccontato da Chi l’ha visto che ha mandato in onda le immagini sconvolgenti di un uomo che tentava di arrampicarsi ed entrare in casa della suocera in provincia di Napoli, per raggiungere l’ex moglie.

La parabola della spianata di Montorso: dai Papa boys alla mega antenna per il 5G

La sottile linea di confine tra fede e business. Dalle folle dei raduni papali a sito strategico dove piazzare un “obelisco” per irradiare la rete di telefonia cellulare. Non sono certo tempi per organizzare raduni e assembramenti questi, ma chi non ricorda il fiume di giovani che rese unica la giornata dei giovani EurHope sulla spianata di Montorso, all’ombra del Santuario della Santa Casa di Loreto? Era il 9 settembre del 1995 e oltre 400mila persone scrissero una pagina di storia memorabile, pendendo dalle labbra di Papa Giovanni Paolo II.

Nel 2007 sarebbe poi toccato a Papa Ratzinger essere al centro della Visita Pastorale a Loreto. Adesso la piana di Montorso torna d’attualità, ma non per un evento religioso quanto per la decisione presa dalla Delegazione Pontificia che, senza dare alcun avviso, ha preso accordi con la compagnia telefonica Iliad. Tra il 17 e il 18 febbraio i residenti della zona, in ville e abitazioni di pregio al margine della suggestiva spianata, hanno notato qualcosa di strano: “Pensavamo si trattasse di lavori ordinari, ma da un giorno all’altro ci siamo trovati di fronte al fatto compiuto e l’antenna di 32 metri davanti agli occhi – attacca la presidente del neonato Comitato ‘Antenna Montorso’, Cristiana Matassini –. Un anfiteatro naturale votato soltanto ad uso agricolo rovinato dalla tecnologia. Sia chiaro, il 5G va migliorato e il cellulare ormai lo usano tutti, ma c’è modo e modo. Dispiace sapere che la Delegazione Pontificia abbia affittato quel fazzoletto di terra per erigere quel mostro che ci illuminerà ogni giorno da qui ai prossimi anni. Tutto per il Dio denaro, per poche migliaia di euro. Non ci aspettavamo dall’arcivescovo Dal Cin, persona squisita e con profondi valori etici, una simile decisione, siamo frastornati”.

I 4 ripetitori con 12 parabole complessive della Iliad non sono ancora attivi, ma lo saranno presto ed è curioso che a goderne gli effetti sarà soprattutto la confinante Porto Recanati: “L’antenna è un monumento all’incompetenza e andrebbe spostata – aggiungono Matassini e Iginio Straffi, patron della Rainbow, azienda di animazione da cui sono nate le fatine Winx che vive nella zona dell’antenna e che fa parte del Comitato –. Con la stesura dello statuto e la registrazione all’Agenzia delle Entrate siamo pronti a combattere, anche se dispiace sapere che il nostro problema potrebbe diventare quello di altri”.

Addio a Gastel, fotografo della grande moda

Il fotografo Giovanni Gastel è morto a Milano per Covid, era ricoverato nell’ospedale della ex Fiera. Aveva 65 anni. Ultimo di sette figli di Giuseppe Gastel e Ida Visconti di Modrone, nipote del regista Luchino Visconti, ha iniziato la sua carriera di fotografo a Milano verso la fine degli anni Settanta, per poi avvicinarsi al mondo della moda. Nel 1975 inizia alla casa d’aste londinese Christie’s, ma è cinque anni dopo che spicca il volo. Negli anni Ottanta, grazie alla sua agente Carla Ghiglieri, entra nel mondo della moda. Sue le campagne pubblicitarie per alcune delle più prestigiose case di moda italiane, tra cui Versace, Missoni, Tod’s, Trussardi, Krizia e Ferragamo. Negli anni Novanta ha lavorato anche all’estero, a Parigi, nel Regno Unito e in Spagna.

Nel 1997 la Triennale di Milano gli ha dedicato una personale curata dal critico d’arte Germano Celant. Oltre alla fotografia di moda, Gastel si è dedicato al ritratto. Alcuni dei ritratti più famosi includono Barack Obama, Ettore Sottsass e Roberto Bolle.

Mail Box

 

Virus, chi l’ha avuto potrebbe essere immune

Per più di tre milioni di italiani che hanno già fatto il Covid, manca qualsiasi informazione. Per la letteratura scientifica sono immuni almeno quanto i vaccinati, ma come questi sono soggetti agli stessi durissimi vincoli dei non vaccinati, pur non essendo pericolosi. Non sembra un trattamento né giusto né ragionevole.

Marco Ponti

 

Il governo dei migliori come una saga Marvel

Quando Draghi è stato incaricato pensavo: “Bisogna concedergli il beneficio del dubbio”. Ma presto, con il susseguirsi di Avengers ai vari incarichi e con l’arrivo dell’Iron Man alla gestione della crisi sanitaria, alla “veneranda” età di 27 anni ho capito che le sorprese di cabaret della politica italiana sono davvero infinite come i finali del kolossal Marvel Endgame.

Nicola Francavilla

 

Le questioni importanti delle indagini sulle Ong

Caro Travaglio, capisco che le leggi vadano rispettate, ma ci sono leggi e leggi (anche i nazisti rispettavano le loro). A mio parere è più importante capire se quei miserabili trasportati dalle Ong fossero veramente bisognosi di aiuto o dei delinquenti.

Mario Bellani

 

Caro Bellani, forse non le è chiara la situazione. Stiamo parlando non di migranti delinquenti, ma di alcuni volontari e dirigenti di alcune Ong che si mettono d’accordo con gli scafisti, non muovono un dito quando picchiano i migranti e poi non li denunciano, anzi favoriscono i loro traffici di esseri umani. A lei va bene così? A me no.

M. Trav.

 

Chi pagherà per i ritardi negli aiuti ai ristoratori?

Mi chiedo se non è il caso di attivare una class action verso i politici che han fatto cadere Conte, visto che sono due mesi che ristoratori &C. non ricevono niente. Cambiato governo, chi se ne frega se la gente muore di fame.

Andrea Gusmini

 

Il supporto a priori a Draghi è inspiegabile

Non capisco ancora con quali argomenti sia il Pd che soprattutto il M5S abbiano detto sì a scatola chiusa al governo Draghi. Lei che idea si è fatto sul punto?

Lorenzo Salieri

 

Caro Lorenzo, anche per me rimane un mistero.

M. Trav.

 

C’erano una volta festival e città dei fiori

Propongo a “mamma Rai” di ricordare le edizioni storiche di Sanremo presentate da Mike Bongiorno, Pippo Baudo o addirittura Nunzio Filogamo, con palcoscenico pieno di fiori. Quello era il Festival di Sanremo, città dei fiori!

Rino Borghetto

 

L’Innominabile querela e allora io mi abbono

Le querele dell’Innominabile contro contro il Fatto mi hanno convinto ad abbonarmi.

Ivan Duina

 

Chiarimenti sul lavoro di Cantone all’Anac

Vorrei sapere quante corruzioni ha evitato ex ante Cantone e quante ne ha punite ex post.

Massimo Giorgi

 

Come disse Davigo, “l’Anac è un ente inutile”.

M. Trav.

 

Grazie a Natangelo per l’irresistibile gioco

Non ho resistito alla tentazione di plastificare la doppia di Natangelo. Complimenti.

Marco Gambarini

 

Se il ricordo di Conte diventa un “pregiudizio”

Ho l’impressione che quando il governo Draghi fa cose giuste, copia quelle di Conte; e quando fa scelte diverse (o opposte), in genere sbaglia: sono prevenuto?

Andrea Carlesi

 

Letta deve stare attento alla “carica dei 101”

Speriamo che al momento della verità Enrico Letta non sia coinvolto in qualche strano caso già visto, come l’indimenticabile votazione dei 101 su Prodi…

Fabio De Bartoli

Un anno di Covid. La consolazione di Dio ci vuole rendere “combattivi”

Il virus non molla, anzi ci costringe a nuove e severe limitazioni. Dopo un anno passato sull’altalena dei contagi, siamo un po’ tutti allo stremo, lo sono in particolare i più giovani per i quali il contatto fisico è vita, nient’altro che vita. I momenti e le espressioni di solidarietà e di consolazione collettiva della scorsa primavera, dopo la scossa violenta dell’arrivo della pandemia e della prima, lunga, chiusura generalizzata, avevano prodotto un forte senso di coesione sociale di fronte al pericolo comune. Dopo un anno non è più così, ricordiamo quelle manifestazioni di speranza con un po’ di nostalgia ma anche come frutto di un’ingenuità che non abbiamo più. Oggi il nostro bisogno di consolazione è più esigente.

“Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra afflizione, affinché, mediante la consolazione con la quale siamo noi stessi da Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione”, scrive l’apostolo Paolo in II Corinzi 1,3-4. Di quale “consolazione” si parla qui? Non certo di quella prodotta da una religiosità, appunto, “consolatoria”, cioè superficiale, distratta, disimpegnata, e perciò inefficace, che molti ricordano nelle loro esperienze personali, magari di tanto tempo fa. Che cosa è dunque la consolazione “cristiana”? Non è solo una “buona parola”, balsamica e rassicurante. Non è solo una calda espressione di solidarietà e di comprensione come quando abbracciamo qualcuno o gli stringiamo affettuosamente la mano. Non è solo quella vicinanza, magari silenziosa e discreta, che segnala che, comunque, non si è soli nella sofferenza. Certamente è anche tutto questo, ma soprattutto è l’Evangelo, cioè la Buona Notizia di Gesù Cristo che è per te, di Dio che è per te e accanto a te, sempre. È qualcosa che le altre consolazioni non hanno o hanno in modo diverso.

Negli “Articoli di Smalcalda” – preparati da Lutero nel 1537 per esprimere la confessione di fede riformata davanti all’annuncio di un Concilio generale, quello che sarà poi il Concilio di Trento a cui i protestanti non saranno messi in condizione di partecipare – al cap. 4 si dice che l’Evangelo può essere annunciato attraverso la predicazione, il battesimo, la santa cena (eucaristia), il perdono dei peccati e anche per mezzo della reciproca consolazione fraterna. La “consolazione cristiana” è dunque sempre la parola dell’evangelo per te. È quella parola che, purtroppo, non impedisce la sofferenza – che è un dato ineliminabile della vecchia creazione che geme ed è in travaglio e, con noi, attende la redenzione (Romani 8,21-23) – ma che, pur nella sofferenza, non ti lascia solo nel tuo dolore e nel tuo orizzonte chiuso e buio; che è con te, ti apre e illumina l’orizzonte con la liberazione e la speranza dell’Evangelo.

La consolazione di Dio ci vuole rendere “combattivi”, ci vuole impegnare affinché anche noi facciamo la nostra parte perché gli eventi e il mondo intero abbiano un esito diverso. In qualsiasi situazione ci troviamo, anche nella più disperata, l’Evangelo ci invita a sperare e a ricercare un diverso ritmo vitale, una diversa possibilità di essere e di amare, di dare e di ricevere. Affinché il dolore, la sofferenza e la morte non abbiano il sopravvento, non abbiano l’ultima parola. La specificità della consolazione cristiana, dunque, è di consolare senza essere “consolatoria”. Affrontiamo perciò anche questa strettoia esistenziale che è la pandemia impegnandoci a costruire un futuro migliore, per noi e per gli altri.

*Già moderatore della Tavola Valdese

 

Bimbi in Dad, per la scuola (e le famiglie) è finita male

Pare sia stato creato anche l’acronimo “lead”, “legame educativo e affettivo a distanza”, a indicare la Dad per le scuole materne. Come se il lavoretto di un bambino di tre anni con colla, forbici e colori si potesse fare con il tablet. Come se insegnare a un neonato di pochi mesi a sorridere, toccare, assaggiare si potesse fare su Zoom. Ma tant’è. Se Conte aveva messo una barriera protettiva sui piccoli e piccolissimi, lasciando le scuole aperte fino agli undici anni anche in zona rossa, col primo Dpcm Draghi tutte le solenni promesse di una scuola riaperta si sono infrante. Peggio. A casa ci sono andati tutti, anche quelli che non possono fare nulla, da soli e senza chiarezza sui dati del contagio in queste fasce di bambini. In alcune regioni, a casa i neonati ci stanno anche se i negozi sono aperti, perché Draghi ha lasciato mano libera ai governatori, quelli che in questi mesi si sono accaniti contro la scuola con ordinanze fantasiose e infondate, sempre smontate da quei Tar che ormai sono l’unico riferimento di famiglie stremate. Si dirà, almeno sono stati varati massicci aiuti per i genitori. Macché. Niente congedo parentale (comunque con stipendio dimezzato) per chi lavora in smart working, come se uno potesse davvero lavorare e badare a un bambino che magari gattona. Bonus baby sitter (per ora) solo per pochi lavoratori e 100 euro a settimana, l’equivalente di una decina di ore di aiuto. E quelli che volevano le scuole aperte tanto che hanno fatto cadere pure un governo? Silenzio. Il futuro della scuola oggi non c’è. Per i genitori, ormai, l’unica speranza non si chiama politica ma Corte costituzionale. Perché il diritto all’istruzione, e a conciliare lavoro e famiglia, non può essere cancellato a colpi di decreto. Specie sulle pelle di chi ancora non ha imparato a camminare, figuriamoci a maneggiare un tablet.