Il clima si protegge anche a tavola: meno carni e sprechi

In Italia – Protagonisti della settimana sono stati i forti rovesci dalla Sardegna al Centro per effetto di una depressione mediterranea. Allagamenti in Lazio e Campania (52 mm di pioggia martedì a Napoli), copiosa grandinata mercoledì in Gallura, e belle nevicate sull’Appennino anche sotto i 1.000 metri, come all’Aquila. Pausa più soleggiata giovedì, in attesa dei venti nord-occidentali che ora portano variabilità e acquazzoni. Nonostante l’episodio freddo di metà mese, secondo il Cnr-Isac febbraio 2021 in Italia è stato il settimo più caldo nella serie dal 1800 con 2,2 °C sopra media, e anche l’intero inverno (dicembre-febbraio) si è sbilanciato verso il caldo con 1,1 °C di troppo a livello nazionale, all’ottavo posto in oltre due secoli di misure. Tiepida pure la prima metà di marzo, ma tornerà freddo nella seconda parte di questa settimana: niente di che, rientra nel consueto saliscendi termico che ogni anno caratterizza il passaggio dall’inverno alla primavera.

Nel mondo – Febbraio 2021 si è distinto per il gelo straordinario in Nord America (1,8 °C sotto media negli Stati Uniti, febbraio più freddo dal 1989) e dal Baltico alla Russia settentrionale. Tuttavia a livello planetario questi rigori di fine inverno sono stati sovrastati dal caldo anomalo di altre zone (Canada orientale, Mediterraneo, Asia centrale), tanto che secondo l’agenzia meteo americana Noaa si è superata di 0,65 °C la media globale del ventesimo secolo. Analogamente il trimestre dicembre-febbraio è stato nel complesso l’ottavo più caldo dal 1880 (+0,7 °C). L’inizio della primavera meteorologica è rimasto gelido dalla Finlandia alla Siberia (record marzolino di -44,8 °C a Egvekinot), caldo precoce invece sulla costa Est degli Usa con 26 °C a Washington, ma ora è in corso una recrudescenza invernale sotto la tempesta Xylia con bufere di neve a partire dalle Montagne Rocciose. Weekend burrascoso anche in Europa centrale, venti dall’Atlantico talora oltre 100 km/h, temporali e mareggiate. Gravi alluvioni, strade interrotte ed evacuazioni alle Hawaii (quasi 500 mm di pioggia in due giorni), ma anche nel Sud della Spagna e in Algeria, dove sabato 6 marzo lo straripamento di un “uadi” quasi sempre asciutto ha causato dieci vittime. D’altronde il riscaldamento globale accelera il ciclo dell’acqua e permette inoltre all’aria di contenere più vapore, alimentando così gli estremi di precipitazione: lo ribadisce uno studio del MetOffice su Atmospheric Science Letters (Record‐breaking daily rainfall and the role of anthropogenic forcings). Nel Regno Unito rovinosi diluvi come quello del 3 ottobre 2020 (lo stesso giorno delle alluvioni tra Nizzardo e Italia Nord-Ovest, tempesta Alex) nel clima naturale si vedevano in media ogni tre secoli, oggi la loro frequenza è già passata a una volta al secolo, e in futuro potremo aspettarceli ogni trent’anni, anche in uno scenario intermedio di emissioni di gas serra. A queste ultime contribuiscono non solo industrie, automobili e caldaie, ma anche i sistemi alimentari, che liberano nell’aria circa 18 gigatonnellate di CO2 equivalente all’anno, circa un terzo del totale. Una quantità veramente rilevante che deriva dalla deforestazione e dal cambiamento d’uso dei suoli, dai fertilizzanti (che rilasciano ossido di diazoto), da allevamenti intensivi (produttori di metano), lavorazione, distribuzione e conservazione dei cibi tramite l’energivora catena del freddo, nonché imballaggi e gestione dei rifiuti, sempre più voluminosi e assurdi. Lo dice una ricerca Fao (Food systems are responsible for a third of global anthropogenic Ghg emissions) sulla rivista Nature Food. I primi passi, facili da fare perché partono dalle nostre tavole, sono azzerare lo spreco di cibo e consumare meno carne.

 

Noi fragili, vulnerabili e a serio rischio fascismi

C’è molto fascismo in giro, molti diversi modi di picchiare, uccidere o limitarsi a mostrare violenza e invocare la Patria. Su questo grumo fertile di movimenti e gang, psicologia e sociologia hanno fallito o hanno rinunciato, non solo in Italia. Qualcuno negli Stati Uniti ha fatto sapere di voler studiare l’aggressione di una massa distruttiva e organizzata al palazzo del Congresso (Capitol Hill) il 6 gennaio scorso a Washington? Qualcuno in Italia ha mostrato segni di voler sapere di più delle giovani e giovanissime gang inquadrate e addestrate alla caccia degli “stranieri”, “ronde nere” in civili città come Vicenza?

Eppure ci sono segni esterni (le divise o la formazione dei ranghi), e tratti interiori (stati d’animo, persuasioni, credenze, fede) che offrono un grande repertorio del pericolo. I due estremi sembrano essere il fascismo che uccide senza un’idea, senza una cosciente militanza. E un’idea di uccidere come prova e rappresentazione di una fede antica che forse risale a un impero. C’è il caso in cui la divisa identifica il gruppo (felpa nera, cappuccio nero, modo di schierarsi) e si estende il caso dei corpi come divisa (addestramento, esibizione, esecuzione). È il fascismo nudo.

Per esempio i fratelli Bianchi, che hanno massacrato e ucciso il ragazzino nero Willy Monteiro Duarte, per esempio il giovanissimo Benno di Bolzano, ragazzi palestrati che agiscono “ridendo in faccia a monna morte ed al destino” anche se “il primo obiettivo è dare la morte ad altri.”

Il ragazzo Benno strangola e getta nell’Adige i genitori con determinazione mentale e fisica di quello che sta facendo, anche se non sa di essere il personaggio perfetto di una precedente generazione fascista e delle sue canzoni (“una maschia gioventù con romana volontà combatterà”) Dite che il fascismo in certi casi non c’entra? Ma il fascismo è azione. L’impulso all’azione senza mediazione della ragione è fascismo. E non esiste fascismo “bianco”, senza nemici e senza morte.

Stranamente, in questa fase della storia non c’è un duce che agita le folle. Ci sono folle (non sappiamo ancora quanto grandi) che cercano il duce di un fascismo. Orbán, capo del fascismo ungherese, ne è così consapevole che ha abbandonato il solido gruppo europeo di centro per non essere scambiato per uno che rispetta persone e leggi. Salvini ha notato. Salvini si aggira inquieto fuori da quello che sarebbe il suo operoso luogo di lavoro, il governo italiano di cui ha accettato (“con tutti”) di far parte, ma evidentemente non gli importa. Gli importa molto di più il coraggio di Orbán che è fascista, lo dice e lo fa. Salvini non sa esattamente che cosa sia il fascismo, ma ha nostalgia dei “pieni poteri” che invocava nelle notti di agosto (2019), e tenta di consolarsi con la mascherina metà tricolore e metà padana. Ma certo non gli piace che la Meloni si sia messa, allo stesso livello di Orbán, accettando di presiedere una associazione di 40 partiti conservatori europei (esaminati a uno a uno, in questo gruppo “conservatori” vuol dire fascisti, come in Polonia).

Meloni dà uno schiaffo in più al suo ex alleato e complice del Paese democratico in cui sono stati eletti con l’intento di combatterlo. Definisce “patriottica la sua opposizione” . Questa frase meriterebbe più attenzione di quanta finora ne abbia avuta sia dai media che dalla sua controparte istituzionale.

Ai media sarebbe toccato di ottenere una spiegazione chiara e adulta. “Opposizione patriottica” è una espressione drammatica. Implica un governo che agisce contro gli interessi della patria e dunque verso il quale possono non esserci limiti di azione “per amor di patria”. Alla controparte istituzionale spetta il compito di chiedere conto di quella pericolosa parola d’ordine che Meloni ripete di frequente e con leggerezza, come se fosse il motto di una buona scuola. Ma nessuno fiata. E quella scuola guadagna consenso, eppure non promette benessere, lavoro ma fuga dall’Europa e vita alla polacca, con risorse sempre minori, lontano dal mondo. Forse resta la Russia, ma non è detto che i Fratelli d’Italia conoscano il tariffario aggiornato di Putin. Nonostante ciò il fascismo cresce nelle sue forme scoperte e in quelle illegali ma vivacissime delle ronde e del pericoloso fascismo da palestra. E tutto ciò tra distrazione e disattenzione, salvo quattro o cinque carabinieri volenterosi e qualche protesta dell’Anpi.

 

Piduismo perenne, Stato infedele

 

“C’è il piduismo perenne di uno Stato infedele. Quel sistema è un’architettura su cui ancora oggi si costruisce il potere. Finché tolleriamo che ci siano spazi di segreto… la democrazia ha bisogno della luce del sole per recuperare energia”.

Sandra Bonsanti, autrice con Stefania Limiti del libro “Colpevoli” (chiarelettere)

 

Mentre scoccano i 40 anni dal 17 marzo del 1981, giorno della scoperta a Castiglion Fibocchi degli elenchi della Loggia P2 di Licio Gelli, ci s’interroga sulla natura di quella cospirazione che contiene tutti i generi dell’italico teatro: tragedia, commedia, avanspettacolo. La domanda fondamentale è se quei veleni continuino tuttora a intossicare le vene della Repubblica. Non esistono risposte assolute, ma, se il piduismo come motore golpista sembra essersi esaurito con la stagione delle stragi, non altrettanto si può dire con il “sistema” corrotto del potere. L’incessante generatore di clan, camarille e mafie che continuano a operare soprattutto nei gangli delle pubbliche istituzioni.

“Al nemico la legge all’amico il favor” è del resto la regola imperitura che precede la P2, e di cui anzi la “dottrina Gelli” si è nutrita per costruire la piramide degli “amici” e per spianare a essi la strada delle carriere e dunque delle complicità intrecciate. È l’“architettura” di cui parla Sandra Bonsanti che può operare silenziosamente nell’alta burocrazia, ai vertici delle Forze Armate e della Sicurezza, nella Magistratura (Palamara docet), negli Atenei e nei tanti mondi di mezzo dove una mano (sporca) lava l’altra.

Un modello esemplare di piduismo costante e di come esso sappia agire in profondità, con i suoi meccanismi, la sua “morale”, il suo linguaggio, è contenuto nell’articolo di Antonio Massari sul “Fatto” di venerdì scorso dal titolo: “Firenze, l’università dei baratti: ‘Qui non prevalgono i migliori’”. Dove si descrive compiutamente come attraverso “lo scambio dei favori” si assegnino ai propri “clientes” posti di ricercatore e di professore ordinario e associato. Un’occupazione sistematica, quasi militare di cui a Careggi sono protagonisti illustri cattedratici che considerano l’università “cosa propria”. A queste valutazioni – scrivono i magistrati Tescaroli e Nastasi autori dell’indagine – “deve aggiungersi la sicumera di impunità degli indagati i quali hanno agito con dispregio delle regole di legalità, oltre che dei principi istituzionali di efficienza e imparzialità nell’azione amministrativa”. A leggere le conversazioni tra i professoroni che “predeterminano i vincitori della procedura concorsuale” c’è da piangere ma anche da ridere alla luce dei sermoni che i vari “competenti” e “migliori” in giro per lo Stivale ci propinano ogni giorno. A proposito del merito come unico criterio regolatore nella selezione nei ruoli apicali e non dello Stato e del privato. Sì, il merito di scegliersi il protettore giusto.

L’errore capitale di Licio Gelli, travolto dal senso di onnipotenza e di impunità (la stessa dominante a Careggi), fu quello di tesserare i suoi adepti permettendo alla Guardia di Finanza, su ordine dei giudici Giuliano Turone e Gherardo Colombo (a cui la democrazia italiana non finirà di essere grata) di scoperchiare la fetida pentola carte alla mano.

Oggi il piduismo perenne si è fatto furbo e cerca di non lasciare le impronte dei suoi maneggi. Perciò, come dice Sandra, occorre assolutamente mantenere la luce accesa per limitare quegli spazi segreti dove i Colpevoli possono complottare e occultarsi.

 

Il lupo vantone, l’orso sensale e il coniglio birbone: viva gli sposi

Dai racconti apocrifi di Andrej Belyj. C’era una volta un contadino con una figlia incantevole. Aveva per occhi due tentazioni verdi, e mostrava un décolleté di un’audacia ultra-moderna: pareva le si spaccasse il corpetto sotto la forza delle poppe. E i suoi riccioli! Mai visti così neri e ricciolosi. Ti veniva voglia di metterle due ciliegie alle orecchie! Un giorno, la ragazza tornava dal fiume sui suoi zoccoletti dalla canora suola di legno, con due secchi d’acqua pendenti dal giogo sulle spalle, le macchie nere delle ascelle brillanti di sudore, quando un coniglio birbone la vide. “Oh, poter dare un morsino a quelle poppe!” pensò languido. E se ne invaghì a tal punto che decise di sposarla. Un suo amico orso faceva il sensale: lo inviò alla fattoria. Udita la proposta del coniglio, la ragazza, sdegnosa, rifiutò. “Perché?”. “Perché ha la coda troppo corta”. “Ma, mia cara, la lunghezza non conta. Conta la qualità. Credimi, ho visto quel coniglio far contorcere le donne dall’estasi”. “Nei miei sogni ho visto la coda che desidero. È lunga, del tutto diversa dal cespuglietto di quel coniglio. Non parliamone più. Addio, signor Orso”. Che smacco, per il suo prestigio di sensale! Fra gli animali si sparse la voce, e raggiunse le orecchie aguzze del lupo vantone. “Se l’incantevole figlia del contadino non sposa il coniglio perché ha la coda troppo corta, allora di certo sposerà me, che ce l’ho lunga e nerboruta. Non c’è ragazza nella contea che rifiuta di farci un giretto!”. Anche lui inviò l’orso sensale. “Conosco un altro pretendente la cui coda è molto più lunga e vigorosa”, le disse l’orso, assumendo una posa e una mimica di circostanza. “Chi sarebbe?” domandò la curiosa. “Il lupo. È un personaggio importante, e la sua coda nera è enorme”, disse, descrivendo nell’aria una spirale con la zampa per esprimere l’esagerazione. “Lo sposeresti?” “Bè, dovrei vedere per credere”. “Molto bene. Vai alla finestra: il lupo sta passando per l’aia col suo codone diritto”. La ragazza si affacciò, sentendosi avvampare dal desiderio. “Non lo vedo”. “Sporgiti, mia cara”. La ragazza si piegò in avanti, poggiando le poppe sul davanzale, il culetto verso l’alto. E mentre il lupo, dabbasso, s’aggirava per l’aia spaventando le galline, il codone eretto in bella vista, l’orso, che odiava perdere le partite, fece entrare lesto il coniglio nella stanza e lo infilò sotto la gonna della giovane. “Oooh!” gemette la figlia del contadino, mordendosi le labbra tumide, quando il coniglietto dal pelo soffice cominciò a strofinarsi rapido sul suo pallino. “Nota il codone del lupo, mia cara”, le sussurrò l’orso all’orecchio, aprendosi a sua volta un varco fra le gonne per scivolare nel suo culetto sodo. La ragazza recitò la stupefazione: dietro, l’orso la teneva per i fianchi scuotendo il corpaccione a destra e a sinistra; davanti, il coniglio andava su e giù. “Mmmmmmmm!” mugolava la ragazza, gli occhi senza più volontà. Il lupo, frattanto, schioccava la sua coda di qua e di là come una frusta, tronfio: “L’ho proprio affascinata. Guarda come si dimena!”.

Illuso? Ingenuo? Grullo? Il dizionario ha migliaia di vocaboli esatti, il sistema metrico dispone di misure di ogni genere, ma al di fuori dei dizionari, e di tutte le misure metriche, c’è quel “non so che”. Quando due si sentono attratti l’uno verso l’altra, quella simpatia è nata da un “non so che” non ancora chiaramente individuato dagli psicologi e dagli elettrotecnici. Insomma, la ragazza se li sposò tutt’e tre: il lupo vantone, l’orso sensale e il coniglio birbone. Da quel giorno la buona gente del villaggio provò invidia per i gemiti di piacere che, alle ore più impensate, salivano dal casale del contadino: perché è la qualità, ma anche la quantità.

 

La semplicità di Mario salva pure l’italiano

 

• Titolo: “L’orgoglio ritrovato dell’italiano di Draghi”. Svolgimento: “Draghi ha cercato di dire la verità, senza indorare la pillola, sui sacrifici richiesti. E lo ha fatto con una retorica di tipo classico, secca, conforme al meglio della tradizione italiana”.

Il Messaggero

 

• Titolo: “’Basta inglesismi’. E l’uomo d’Europa parlò da Mario”. Svolgimento: “Le parole ci sono. Basta ricordarle. Magazzino vi evoca troppo il màxzan arabo? Si può usare fulcro, snodo, perno, ganglio. Mario Draghi lo ha chiamato semplicemente centro. Centro vaccinale”.

Il Giornale

 

• Titolo: “Il formidabile liberalsocialismo conservatore di Mario Draghi”. Svolgimento: “Con un linguaggio matematico, diremmo che in un colpo solo Draghi oggettivamente ha ristretto il raggio ideologico e programmatico dei partiti”.

Linkiesta

Se parla Scaccabarozzi urge sottopancia

“Il vaccino Johnson & Johnson è un’impresa epocale”. “Funziona bene contro le varianti brasiliana e sudafricana”. “Nella fase di emergenza basterà una sola dose”. “Per l’Europa sono in arrivo 200 milioni di fiale, di cui 27 in Italia”. A parlare, con legittimo orgoglio, è Massimo Scaccabarozzi, presidente e ceo di Janssen, società che per la Johnson & Johnson ha messo a punto il vaccino. Fin qui tutto normale, anzi una buona notizia. L’unica nota che stride è il fatto che il capo di Janssen è anche presidente di Farmindustria, l’associazione delle imprese del farmaco,
che conta circa 200 aziende associate, tra cui pure J&J e Janssen. Ci permettiamo di osservare che, ultimamente, i due ruoli si sono più volte sovrapposti in modo poco elegante. Un po’ come se il presidente di Confindustria Bonomi parlasse sempre della Synopo, la sua azienda di apparecchiature biomedicali. E quando il capo di Farmindustria parla di altre aziende (“Lo stop ad AstraZeneca dimostra che i controlli funzionano”) può far sorgere il dubbio che vi sia un qualche interesse, anche se non c’è. Un bel cartello sopra la testa, per capire a che titolo parla nelle diverse occasioni, aiuterebbe.

Tutte le cose non fatte a sinistra (che ne hanno segnato la sorte)

Pasolini morì il 2 novembre 1975. Nei mesi precedenti, tra il primo agosto e il 28 settembre, aveva pubblicato sul Corriere e sul Mondo sette articoli centrati sulla necessità di un processo al gruppo dirigente della Democrazia Cristiana, da Moro a Zaccagnini, da Andreotti a Fanfani. Sulla falsariga di quel carteggio, e sulla base di analoghe imputazioni, nell’anno 2000 proposi su Micromega un analogo processo a cinque leader della sinistra – Bertinotti, Cofferati, Cossutta, D’Alema e Veltroni – ognuno dei quali aveva ereditato un protettorato politico in floride condizioni e lo aveva ridotto in macerie. Mi chiedo oggi se non sia il caso che si riprenda l’idea luterana di Pasolini sottoponendo a un pubblico processo gli attuali esponenti del Pd, che ne hanno fatto scempio. Intendo i leader in blocco, perché tutti insieme, chi più chi meno, hanno provocato, o almeno non hanno impedito, questo tragico disastro godendo di un potere superiore alle loro capacità e di uno stipendio superiore ai loro meriti.

Questi esponenti hanno dilapidato un patrimonio immenso di lotte, esperienze, ideali e speranze tradendo spudoratamente quel popolo di emarginati, precari, proletari e proletarizzati che cresce proprio mentre il Pd, suo naturale difensore, scende ai minimi storici. Il fatto che Zingaretti abbia messo a nudo il fallimento del Pd proprio nello stesso giorno in cui l’Istat annunziava la crescita esponenziale dei poveri (cioè dei potenziali, naturali, legittimi militanti di sinistra) dimostra il divorzio dalla massa sconfinata degli sfruttati che il Partito Democratico ha sciaguratamente provocato per flirtare con gli sfruttatori, potenti ma pochi e infidi per definizione.

Non ho la caratura intellettuale, la potenza retorica e la risonanza mediatica di Pasolini. Ma riesco a vedere in tutta la sua gravità il triplice décalage tra la statura dei Moro e dei Fanfani nel 1975, quella dei Veltroni e dei D’Alema nel 2000 e, ora, quella degli attuali esponenti del Pd. Come pure, mi sembra chiaro il crescendo di omertà che questi ultimi hanno chiesto ai cosiddetti intellettuali di sinistra, ottenendolo.

Del fitto elenco di imputazioni che Pasolini esibiva quarantasei anni fa contro i leader democristiani, oggi molte potrebbero essere ascritte pari pari ai leader del Pd, ormai incistati nel governo: disprezzo per i loro elettori e per i cittadini tutti; contributo alla degradazione antropologica degli italiani; disinvolta manipolazione del denaro pubblico; intrallazzo con gli industriali e i banchieri; distribuzione borbonica delle cariche pubbliche; corresponsabilità nella delittuosa stupidità della televisione, nel collasso della scuola, della sanità e della cultura.

A questi capi d’accusa pasoliniani, altri dovremmo aggiungerne a nostra volta: aver ripudiato categorie potenti come classe, proletariato, rivoluzione; avere liquidato giornali, riviste, sedi e simboli della sinistra; avere abiurato la sua storia, le sue teorie e i suoi “classici”; aver secondato la distruzione dell’ambiente; avere affidato cariche delicatissime a inetti; aver garantito posti di governo e di comando a farabutti; avere cospirato contro i Marino e i Bassolino; aver trattato con ebete spocchia i potenziali alleati; avere varato interi pacchetti di leggi contro i lavoratori; avere delegato ai lager libici e turchi il contenimento dell’emigrazione; aver costruito in Italia altri lager in cui stivare gli immigrati; aver consentito l’incancrenirsi della condizione carceraria; avere abdicato al ruolo pedagogico del partito, lasciando in balia dell’apostolato leghista e fascista la classe in sé dei proletari vecchi e nuovi; avere sprecato tutti questi anni senza reclutare e preparare una giovane classe dirigente, rilanciare una contestazione intransigente, reinventare le forme di partecipazione e di consenso. Insomma, avere consentito in Italia, o non avere ostacolato a sufficienza, il trionfo del neo-liberismo.

Dietro tutto ciò resta l’incapacità di questi leader di capire che la forma “industriale” di potere da essi incarnato è del tutto inadeguato alla società “postindustriale”, e che i nuovi poteri finanziari globalizzati più non sanno che farsene di loro perché ormai gli occorrono i Draghi in salsa gollista.

Se, dunque, la colpa principale dei tracotanti leader democristiani era di essere corrotti, questa degli scialbi leader del Pd è di essere inetti, incapaci di capire che, nella sua contrapposizione epocale alla socialdemocrazia, il neo-liberismo provoca l’aumento spaventoso delle disuguaglianze e la proletarizzazione della classe media offrendo a un partito autenticamente progressista la grande occasione di scovare, formare, organizzare e guidare una massa immensa di vittime del progresso, da scagliare contro i suoi sfruttatori.

Ma c’è di più. Il socialismo reale sapeva distribuire la ricchezza ma non la sapeva produrre; il capitalismo attuale sa produrre la ricchezza ma non la sa distribuire. Inoltre l’economia disarciona la politica e la finanza disarciona l’economia. Dunque, se anche i leader del Pd, nei loro molti anni di governo, fossero riusciti a creare scuole efficienti come in Inghilterra, un welfare generoso come in Scandinavia, un tasso di occupazione elevato come in Germania, tuttavia avrebbero mancato il vero bersaglio storico della sinistra se non avessero trasformato il nostro Paese in un laboratorio capace di concepire un nuovo modello politicamente giusto di socialdemocrazia postindustriale, da sperimentare qui e da proporre al mondo intero. Così, nel primo articolo della Costituzione e nella pratica quotidiana di ogni italiano, “vita attiva” e “felicità” avrebbero preso il posto oggi occupato dalla parola “lavoro”.

È necessario lottare – purché con durezza intransigente preparata in anni di militanza – per l’equità fiscale, la riforma della Pubblica Amministrazione, il reddito di cittadinanza, il blocco dei licenziamenti, la giustizia, i vaccini, ecc. Ma si tratta, comunque, di altrettanti tasselli parziali di un mosaico necessario e tuttavia inesistente. Il compito che toccherebbe al Pd va ben oltre e consiste nel disegnare il mosaico tutto intero per tradurlo in una ideologia incandescente da prospettare alla massa degli sfruttati come una road map della marcia necessaria per uscire dalla marginalità rapidamente, nei tempi umani di una rivoluzione, non in quelli infiniti delle riforme.

Ma per elaborare un simile modello-ideologia, indispensabile e salvifico per il Pd come per la società tutta intera, sarebbe necessario un fecondo rapporto sinergico con intellettuali generosi e visionari. Invece questo Pd – a differenza del Pci di Gramsci e di Togliatti – non ha mai alimentato un simile rapporto, ben sapendo la sua cricca dirigente che l’adesione a un modello di tale potenza innovativa avrebbe comportato l’azzeramento di se stessa.

Eppure, solo dopo questo azzeramento, accelerato da un processo ai responsabili dell’attuale, tragico, imperdonabile fallimento della sinistra, la sinistra può riconoscersi e reinventarsi.

La rifondazione di Beppe riparte dal “no” alla tivvù

Ordina il silenzio come negli anni del M5S barricadero, “perché o parliamo di temi o è meglio stare zitti”. Chiama tutti e a tutti risponde, dopo un’era in cui rispondeva a pochissimi. Detta la linea per voce e per iscritto a colpi di post quotidiani. E se è necessario parla direttamente con l’ex nemico a cui ha voluto dire sì, Mario Draghi. In attesa che Giuseppe Conte presenti la sua rifondazione, il Movimento che ha perso in un amen (altre) decine di parlamentari e un bel pezzo di identità è quasi tutto lui, è quasi tutto Beppe Grillo. Ed è un ritorno al futuro.

Innanzitutto, perché erano secoli che il Garante non prendeva il telefono per sollecitare bocche cucite e “niente tv”, almeno per qualche giorno. Ordine che nasce principalmente dalla preoccupazione di non dare fiato allo scontro con Davide Casaleggio, l’erede con cui Grillo voleva a tutti i costi una tregua e invece no, “ormai si tratta solamente di stabilire quanti soldi dovremo dargli per chiudere questa storia” ripetono vari graduati del M5S. Però meglio non dirlo in pubblico, “noi dobbiamo parlare di temi, della transizione, di futuro” esorta Grillo, elencando quelle parole come un esorcismo contro il tracollo.

E anche qui siamo al passato che ritorna come una boa a cui aggrapparsi, “perché in fondo siamo nati innanzitutto per quello, per difendere l’ambiente” confermano diversi 5Stelle, di nuovo grillini pure per inerzia. Di sicuro il Garante è il vertice: provvisorio magari, visto che Conte sarà presto capo, con una segreteria o qualcosa del genere a sgravarlo di rogne e a provare con dei consigli. O meglio, dirà l’ultima parola, dopo averne discusso con Grillo, che tutta questa voglia di tornarsene nelle retrovie da padre nobile a naso non ce l’ha. Ci ha preso gusto a indicare di nuovo la direzione come fece nel 2019, obbligando i suoi ad accettare il governo con il Pd. E figurarsi negli anni in cui il Movimento predicava “uno vale uno” e la democrazia diretta era Verità con la V alta, tanto poi a ogni tornante erano lui e Gianroberto Casaleggio a decidere e a tagliare teste come ciliegie.

Diversi grillini degli esordi pagarono con la cacciata pochi minuti in tv. “I talk show sono il vostro punto G” manganellò nel 2012 Grillo, furibondo con la consigliera comunale bolognese Federica Salsi, rea di aver parlato a Ballarò. “Il dissenso non è concepito nel Movimento” replicò con parecchie ragioni Salsi, poco prima di essere espulsi. Nove anni dopo si torna lì, anche se è tutta un’altra storia e un altro clima. Il fondatore, giurano, ha calato le consegne senza i toni militari del tempo che fu. Ha “caldamente consigliato” di schivare i programmi per un po’, almeno finché non verrà sciolto il nodo Rousseau. Però Grillo resta Grillo, il fondatore e volto, che se necessario dispone, e tutti devono adattarsi. Per esempio non si è peritato di ordinare al reggente Vito Crimi di consegnare a Draghi la lista dei sottosegretari, quando i 5Stelle temporeggiavano per provare a ottenere di più.

D’altronde il presidente del Consiglio lo ha capito in fretta con chi dover parlare per tenere dentro il M5S nel suo esecutivo. Per questo, su consiglio di Roberto Fico, chiamò Grillo prima delle consultazioni. Due ore di colloquio, decisive per portare dalla sua parte l’artista genovese e quindi i 5Stelle. Draghi ovviamente ha ripercorso la via del colloquio diretto con il Garante, più volte. Tanto da arrivare a scherzare, con Grillo: “Buongiorno, cercavo l’Elevato…”. Più in alto degli altri 5Stelle, ovvio. Aspettando che lassù al vertice lo raggiunga l’avvocato Conte. Indispensabile anche a lui, Beppe Grillo.

Ecco le “dimissioni operose” di Zinga: il colpo di reni dell’ex

E la crisi di nervi? E lo scatto d’ira, e quella parola pronunciata? Vergogna, anzi: vergognatevi! Più precisamente: il mio partito dovrebbe vergognarsi delle opere e omissioni. Della ricerca ossessiva delle poltrone, di una devianza senile verso il governismo, il potere affine solo al potere. Mai più sgraziate, cioè adirate e feroci, furono le dimissioni che la settimana scorsa Nicola Zingaretti ha gettato in faccia al suo partito. E mai più operosi e fecondi i postumi della apparente debacle.

Il paradosso è che Zingaretti stia raccogliendo vittorie più da ex che da segretario nella pienezza delle funzioni. Il suo addio doloroso ha ridotto al silenzio i suoi avversari, a cui ora tocca applaudire Enrico Letta, e messo fuori gioco il competitore principe, un po’ molestatore e un po’ antagonista: l’emiliano Stefano Bonaccini. Renziano di nascita, Bonaccini si è presto autonomizzato al punto che la vetta scalata, la riconquista della Regione avvenuta nell’età del salvinismo vincente (poco più di un anno fa), gli è parsa il predellino magico per raggiungere addirittura il Nazareno. Rientrato da sinistra nel ristretto numero di governatori del Pd, si è presto affrancato dall’aiuto decisivo delle sardine (che infatti con lui adesso ce l’hanno a morte) e si è dedicato nell’anno della pandemia a sgonfiare il già floscio pallone di Zingaretti.

Un tweet dopo l’altro – una critica alle mollezze governative e alle confuse timidezze di Nicola – conducevano il suo nome al rango dell’alternativa di sistema. Un Pd diverso, con alleati diversi verso un’orizzonte distinto da quella fragile e impapocchiata alleanza con i Cinquestelle.

Di botto, bum, Bonaccini è invece sparito. Risucchiato dalla pandemia emiliana, la stessa che gli aveva concesso visibilità e popolarità, e soprattutto addolorato per queste dimissioni così anticipate, così prive di eleganza e soprattutto così scortesi verso il suo progetto. Due giorni di silenzio, poi un breve comunicato di solidarietà a Zingaretti e il ritorno nei ranghi bolognesi.

E l’ex segretario invece di dirsi soddisfatto e fermarsi si è mosso oltre le necessità. Perché la chiamata di Letta è un po’ anche opera sua, e che opera! Ha rimesso al comando del partito delle correnti e degli infiltrati renziani il più odiato da Matteo Renzi e senza nemmeno bisogno di un congresso, di acquisire i voti delle correnti e organizzargli la claque. Letta è imperatore e basta. Un po’ come Draghi, che infatti ha chiesto a Letta di farsi incoronare subito.

E così queste dimissioni così operose che nessuno mai avrebbe potuto soltanto immaginare, hanno segnato altri avanzamenti di linea. Zingaretti, senza ritenere di aver bisogno né di un consiglio né di una obiezione, ha immesso i Cinquestelle nel fortino del governo del Lazio, e la chiamata in giunta, senza nemmeno passare per la vidimazione di Rousseau a cui i grillini erano devoti, ha il significato del cambio di passo, della definizione di una alleanza strategica, non di un accordicchio emergenziale.

Finito, direte? Macchè. Zingaretti ha spiegato che pur vergognandosene non solo non lascia il partito ma raddoppia. Il collegio da deputato in Toscana l’aspetta, forse. O – forse – la candidatura a sindaco di Roma oppure, forse, l’ingresso al governo che sarà, se un domani vittorioso ci sarà.

E due giorni fa, davanti a Mario Draghi (al quale non aveva anticipato l’addio che però aveva comunicato a Giuseppe Conte) il discorso tutto zuccherino sulla magnificenza dell’attuale premier. Che ha restituito le cortesie parlando del “Lazio dei record”. In effetti l’organizzazione sanitaria, l’efficienza del sistema, l’applicazione quotidiana a produrre un modulo vincente è già un fatto. Il Lazio, rispetto al papocchio delle altre regioni, fa corsa in solitaria.

La costruzione del modello Lazio chi aiuta se non il suo governatore?

E allora? Scatto di nervi o scatto di reni?

Tutti per Letta: oggi lo acclamano quelli che lo hanno fatto fuori

I pallottolieri del Pd (da tradizione, uno per ogni corrente) divergono in qualche dettaglio, ma convergono nella sostanza: oggi l’Assemblea dirà sì a Enrico Letta segretario se non all’unanimità, quasi. Voto lampo e candidato unico. Zingaretti ha complessivamente 733 delegati: circa 330 fanno capo direttamente a lui (e a Goffredo Bettini), il resto sono divisi tra Dario Franceschini e Andrea Orlando, con una componente di Gianni Cuperlo. Circa 120 fanno riferimento all’area Graziano Delrio-Maurizio Martina, un centinaio a Base Riformista di Luca Lotti e Lorenzo Guerini, altri 100 ad Anna Ascani e una trentina a Matteo Orfini. Zingaretti è il più entusiasta di tutti e si prepara a fondare una sua area. Potrebbe avere più successo come capo corrente che come segretario: problemi in vista per il successore. Se Orlando la carta Letta l’ha subita, Franceschini se l’è rivenduta, ma in reatà la considera un compromesso necessario. Il poco entusiasmo di Br l’ha ribadito tra le righe Lotti al Messaggero. Il complotto è sempre dietro l’angolo. Magari dopo le prossime amministrative.

In fondo, basta tornare a quei giorni decisivi del 2014: quelli che lo incoroneranno oggi sono gli stessi che lo tradirono allora. Il countdown per il governo Letta iniziò quando Franceschini scelse di sostenere Renzi al congresso. E fu dopo un incontro con l’allora ministro dei Rapporti con il Parlamento che l’ex premier capì che era finita, che Dario lavorava per Matteo. Il 13 febbraio del 2014 la direzione dem gli votò la sfiducia (136 sì, 16 no e 2 astenuti). Erano andati a comunicargliela in mattinata Guerini, Roberto Speranza e Luigi Zanda. Il primo stava nella war room del fu Rottamatore. Zanda era capogruppo in Senato, vicino a Franceschini. Speranza, allora ancora nel Pd, capogruppo alla Camera, oggi fa parte degli scissionisti di Leu che puntano a rientrare. Quel giorno, ci fu anche una riunione della minoranza dem. C’erano Massimo D’Alema, Orfini, Orlando, Cuperlo. La linea accolta fu quella del sì. Intervenne Cuperlo in direzione, insistendo sui rischi della scelta, ma senza contraddirla (“si voti, ma non oggi”, disse). Solo Civati mise agli atti il suo no, ma di fatto nessuno intervenne in difesa del premier. I pochi lettiani rimasti, Marco Meloni, Paola De Micheli e la Ascani (che nel giro di pochissimo poi salì sul carro di Renzi), lasciarono il Nazareno prima del voto per raggiungere il loro leader a Palazzo Chigi, che guardava in tv la sua defenestrazione. E che il giorno dopo si dimise.

Sarà di certo anche per questo che ieri il segretario in pectore è ripartito dal suo circolo di Testaccio, che lo ha accolto con lo striscione “Daje Enrico. Ripigliamose ‘sti cocci”. Lo stesso che dopo il famoso passaggio della campanella era andato sotto casa sua con un altro striscione “Grazie Enrico”.

Oggi torna al Pd dopo 7 anni: l’ultima volta era stata la direzione prima di quella che lo sfiduciò. Il lato personale si unisce a quello politico. Che il partito così com’è non va bene, l’ha vissuto sulla pelle. Dirà, infatti, che il Pd non può parlare solo di se stesso. Indicherà forme alternative per stimolare la partecipazione e organizzarla, per coinvolgere energie e realtà. Parlerà di un centrosinistra dei liberaldemocratici (da Calenda a Leu), alleato al M5s di Conte: niente amalgama, piuttosto una competizione all’interno della coalizione. Rivendicherà un sostegno convinto a Draghi, con il ruolo da architrave del Pd. Concetto chiave, la competitività nella sostenibilità: tenere insieme attenzione ai temi sociali e sviluppo industriale, mondo delle imprese e mondo del sindacato. Stasera andrà in tv a Che tempo che fa. A diventare più leader di quanto non sia mai stato, Enrico ci sta provando. Pd permettendo.