Open Arms, Salvini smentito da cento email

Un centinaio di mail, tradotte e depositate nel processo che coinvolge Matteo Salvini, accusato dalla Procura di Palermo di sequestro di persona e abuso d’ufficio per aver impedito per sette giorni lo sbarco dei migranti soccorsi dalla ong. In quelle comunicazioni, secondo i pm, c’è la ricostruzione più fedele di quanto accaduto a bordo della nave Open Arms. E rischia di essere una verità indigesta per l’ex ministro dell’Interno, perché smentisce in parte la versione fornita finora, nonostante sia stato proprio il suo difensore, Giulia Bongiorno, a chiederne la traduzione. I carteggi, oggetto nella prossima udienza del 20 marzo, sono una cronaca dei 19 giorni d’attesa della ong spagnola, al quale è stato negato il Place of safety (Pos) da Malta e Italia.

Un passo indietro. Il leader del Carroccio finora ha sostenuto che Open Arms avrebbe “rifiutato uno sbarco a Malta, un porto in Spagna, e di essere scortata da una nave italiana in Spagna”. Ma la sequenza delle comunicazioni tra l’equipaggio e varie autorità sembra raccontare un’altra storia. L’equipaggio chiede aiuto più volte, senza successo. Tutto comincia fra l’1 e il 2 agosto, quando la nave spagnola effettua due salvataggi. Il primo vicino alla Tunisia. Il secondo in acque maltesi. In tutto vengono recuperati 123 migranti. Open Arms lo comunica al Centro nazionale di coordinamento di salvataggio iberico (Cncs). Madrid indirizza l’ong a La Valletta. Da quel momento inizia un lungo braccio di ferro.

Per giorni Open Arms aspetta invano istruzioni. Da una parte Malta nega il Pos perché, dichiara, non è “l’autorità competente, né l’autorità di coordinamento”. Dall’altra, l’entrata in vigore del decreto Sicurezza bis, voluto da Salvini, impedisce alla nave l’ingresso nelle acque italiane. Le condizioni a bordo dei naufraghi intanto peggiorano. Il comandante riesce a fare evacuare “due donne incinte”. Poi chiede a Roma di sbarcare a Lampedusa, il “porto più vicino”. Da Roma arriva una risposta telegrafica: “La informiamo che la sua richiesta è stata inoltrata alle competenti autorità nazionali italiane”.

Tra il 4 e l’8 agosto la ong invia l’elenco in Excel con tutti i nomi e i dati dei minori a bordo, e informa l’Italia che 89 persone chiedono l’asilo politico. Per Malta la “posizione rimane invariata”, mentre da Roma arriva una risposta copia e incolla. Vi faremo sapere. A questo punto Open Arms presenta ricorso al tribunale dei Minori di Palermo per far sbarcare almeno i minorenni. Nel frattempo, il 9 agosto, raccoglie altre 39 persone alla deriva. La Valletta è pronta a farsi carico “solo dei migranti salvati” in quella circostanza. Lo specifica in neretto. Ma gli spagnoli non accettano. Temono una rivolta a bordo. L’11 agosto vengono evacuati due malati. Il 12 la giustizia minorile dà ragione a Open Arms, il respingimento è illegale. Il giorno dopo il Tar del Lazio sospende il decreto Sicurezza bis e consente alla nave di dirigersi verso l’Italia. La ong chiede lo sbarco urgente. Il 17 agosto il capo missione Anabel Montes scrive al pm di Agrigento Salvatore Vella, a bordo la “situazione è difficile”. Lo stesso giorno sbarcano in 27, tra loro minori non accompagnati. Il 18 agosto Roma si offre di accompagnare Open Arms ad Algeciras, fornendo “cibo, acqua e carburante” per il viaggio. “Impossibile”, è la replica di Open Arms. Sulla nave c’è “gente pronta a “gettarsi in acqua per cercare di raggiungere la riva”. Il 20 agosto la Spagna invia una nave di supporto. Ma quello stesso giorno è la Procura di Agrigento a sbloccare la situazione: i pm sequestrano l’imbarcazione e consentono lo sbarco.

La “bestia” leghista adesso è un agnellino

La mattina dell’8 febbraio, mentre la Lega si apprestava ad entrare nel governo Draghi, la nave Ocean Viking della ong Sos Méditerranée aveva appena salvato 422 migranti al largo della Libia e stava per sbarcare nel porto di Augusta in Sicilia. Ma Matteo Salvini pensava a tutt’altro: una foto della sua camera da bambino, un selfie con Guido Bertolaso e un post sugli italiani che chiedono “salute e lavoro” e non “capricci sulle poltrone”. I video amatoriali degli sbarchi di migranti infreddoliti al porto di Lampedusa erano tutto a un tratto spariti. Le accuse al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese di aver “quadruplicato gli sbarchi” commettendo il reato di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” non c’erano più. Per non parlare dei video dalle piazze di spaccio di Milano contro “la droga di Stato”, gli attacchi all’Europa “dei burocrati”, ai magistrati che indagano lui e non “i mafiosi scafisti” o contro Giuseppe Conte che “si è preso i pieni poteri in silenzio per annegare l’Italia nella palude a colpi di dpcm”.

Sui profili social di Matteo Salvini le parole “immigrazione”, “sicurezza”, “droga”, “Europa” sono solo un lontano ricordo. Da quando la Lega è entrata nel governo di Mario Draghi, la “Bestia” che per anni si è nutrita della retorica anti-immigrati, tutta legge e ordine e contro l’élite di Bruxelles, è diventata un agnellino: i profili social di Salvini e dei suoi fedelissimi sono stati ripuliti. Niente più video di migranti sui barconi, niente post anti-euro contro i “tecnocrati” di Bruxelles e tantomeno manifestazioni in piazza con i ristoratori per aprire “anche a cena”: adesso Salvini e i leghisti parlano solo di vaccini, tasse, lavoro, elogiando l’operato “dei ministri della Lega” e “del governo Draghi”. E se il premier decide di fare tutto da solo anche in contrasto con le idee della Lega, non importa: invece di parlare di politica, Salvini dà in pasto ai suoi follower la maglia di Zlatan Ibrahimovic, i commenti sulle partite del suo Milan e l’elogio dell’esibizione di Orietta Berti a Sanremo.

 

Migranti Ora gli sbarchi non sono più un problema

Il voltafaccia della “Bestia” leghista di Luca Morisi, social media manager di Salvini, ha riguardato soprattutto due temi. La guerra ai migranti e le politiche sanitarie per combattere la pandemia. Da quando, nel settembre 2019, Salvini ha dovuto lasciare il Viminale al prefetto Luciana Lamorgese, il suo obiettivo è stato quello di dimostrare che con i giallorosa al governo era tornata l’epoca degli “scafisti”, dei “trafficanti di esseri umani” e dei “porti aperti”. Così quest’estate attaccava il ministro dell’Interno per aver aiutato “il traffico di esseri umani”, il 10 ottobre su Facebook parlava di “decine di nuovi sbarcati a Lampedusa nel silenzio generale” mentre il 19 novembre l’attuale sottosegretario all’Interno Molteni era chiaro: “Mentre gli italiani sono chiusi in casa, i clandestini sono a spasso”. Oggi quella furia anti-immigrati è sparita. Al governo non c’è più Conte – anche se Lamorgese è stata riconfermata in quota Quirinale – ma Mario Draghi (sostenuto dalla Lega) e Salvini al massimo chiede a bassa voce di “applicare le norme europee” o commenta le ultime inchieste sulle ong. Un silenzio che pesa ancora di più alla luce dei dati sugli sbarchi: secondo il ministero dell’Interno, da inizio anno sulle coste italiane sono arrivati 5.996 migranti contro i 2.610 dello stesso periodo del 2020 (di cui oltre mille solo a marzo). Più del doppio, ma ora la “Bestia” tace perché al governo c’è proprio la Lega.

 

Covid Adesso a Salvini va bene anche il lockdown

Voltafaccia simile sulla retorica “aperturista” sul covid-19. “La libertà non si arresta per decreto” scriveva Salvini su Twitter il 7 luglio scorso prima di presentarsi in Senato a un convegno negazionista senza mascherina (“Non ce l’ho e non la metto”). Poi, in autunno, è arrivata la seconda ondata, ma il leader della Lega proprio non voleva accettarlo. Il 4 novembre protestava su Facebook contro il nuovo dpcm: “Chiudono in casa milioni di Italiani, in diretta tivù, senza preavviso, sulla base di dati vecchi di 10 giorni, senza garantire rimborsi adeguati” diceva annunciando un ricorso al Tar dei governatori e sindaci della Lega. Un mese dopo, nuovo Dpcm del governo Conte per le chiusure natalizie: “Natale su Skype e regali su internet? Non scherziamo!” (18 novembre), “Negare il Natale alle famiglie e ai bambini è una follia” (3 dicembre), “Mi autodenuncio, violerò il dpcm il giorno di Natale” (18 dicembre) scriveva prima di manifestare con i ristoratori di #Ioapro a inizio anno. Per non parlare degli attacchi sui ristori bloccati dalla crisi di governo: sono “una presa in giro” (18 gennaio) e “da approvare subito” (23 febbraio). Peccato che sulle norme anti-covid Draghi – e il ministro Speranza – si siano mossi in perfetta continuità con il governo precedente: chiudere dove necessario e poi un semi lockdown fino a Pasqua. Del decreto Ristori nessuna notizia. Quattro giorni fa il leader della Lega si limitava a definire “punitivo” un nuovo lockdown, poi più niente: adesso ha ingoiato anche la serrata totale.

 

Social Il crollo delle interazioni

Il cambio di strategia comunicativa di Salvini e l’abbandono di temi che avevano fatto la sua fortuna sui social però hanno influito sulla “Bestia” che ora non morde più. E perde consensi. Nell’ultimo mese sulla pagina Facebook del leghista le interazioni si sono dimezzate: da una media di 10 milioni settimanali si è passati a poco più di 5 con il numero di interazioni per post sceso intorno a 95mila. Un crollo evidente se pensiamo che la sua competitor nel centrodestra, Giorgia Meloni, ha una media di 115mila interazioni per post con meno della metà dei follower di Salvini (1,8 milioni contro i 4,5 milioni del leader leghista).

Secondo i dati della piattaforma FanPage Karma, che fornisce gli insight (i dati interni) delle pagine, Salvini nell’ultimo mese ha una percentuale di engagement inferiore a quella di Meloni (5,9% contro 9,5%) ma a preoccupare di più il leader della Lega dovrebbe essere l’indice della performance della sua pagina che somma “mi piace”, commenti e crescita dei seguaci in rapporto al numero di fan: tra i leader politici, Salvini è solo quarto con il 33%, dietro a Meloni (69%), Giuseppe Conte (64%) e Nicola Zingaretti (52%). Inoltre anche la crescita dei follower sta diminuendo e la sua leadership è messa in serio pericolo da Conte che ha 3,7 milioni di fan contro i 4,5 di Salvini: da inizio anno l’ex premier ne ha guadagnato un milione contro i 600 mila del leghista. Salvini ha un solo record, quello del numero di commenti, condivisioni e “reazioni” sulla sua pagina: nell’ultimo mese ne ha avuti 7,4 milioni contro i 4,7 di Meloni e i 3,4 di Conte. Peccato che buona parte di essi siano molto critici nei suoi confronti.

 

Bolloré e B. si sfidano pure a Parigi: in gara per la tv M6-Rtl

La guerra per il riassetto del settore media – che come vi raccontiamo nell’inserto economico di domani si intreccia con quella in corso tra i big delle Tlc e coinvolge il più nazional-popolare dei contenuti, i diritti del calcio – si arricchisce di una bizzarra puntata in terra di Francia, almeno a stare ai giornali d’Oltralpe: un altro capitolo, stavolta in trasferta, dello scontro tra Vivendi e Mediaset.

Entro mercoledì sera, infatti, andavano presentate alla società tedesca Bertelsmann le offerte per assicurarsi il controllo di M6tv e delle radio Rtl: parliamo della seconda emittente privata francese (uno share medio sulle 24 ore che sfiora la doppia cifra e un pubblico più giovane della media) e tre radio accreditate di circa 10 milioni di ascoltatori. I gruppi interessati dovranno sborsare da un miliardo e mezzo di euro in su per il 49% del capitale: nella lista – scrivono quotidiani come Le Figaro e Le Monde – c’è non solo la media company francese di Vincent Bolloré (“il cui desiderio di svilupparsi nei media è noto”), ma anche il Biscione, che riprova a infilarsi nel mercato d’Oltralpe dopo lo schiaffone di “La Cinq”, che Berlusconi fu costretto a vendere da Jacques Chirac, che sostituì François Mitterrand all’Eliseo (all’epoca Silvio coi socialisti aveva un certo feeling) non prima di averlo definito “un bottegaio italiano” in un dibattito.

Questo per M6tv è un duello – da cui peraltro potrebbero uscire entrambe sconfitte, visto che i pretendenti sono molti – assai bizzarro se si pensa che Vivendi detiene il 29% delle azioni di Cologno Monzese. È vero però che almeno fino a giugno i due terzi di quel capitale saranno congelati in un trust senza diritto di voto per effetto dell’ennesima norma “salva-Mediaset”. Ancor più bizzarro questo duello commerciale se si pensa – come ben sanno Berlusconi e Bolloré, pur impegnati l’un contro l’altro in diverse cause legali – che non c’è un modo indolore di andare avanti che non sia un accordo tra le parti. Il Biscione sa di doversi annegare in un gruppo più grande per resistere a Google e soci, ma certo il fu Caimano non intende farlo se non a un prezzo più che conveniente: anche a questo serve presidiare il governo.

L’Antitrust Ue fa fatica a stanare Amazon: algoritmi poco chiari

Due anni di indagini e approfondimenti che potrebbero culminare in un nulla di fatto o comunque in una sanzione a basso impatto: l’Antitrust europea, ha raccontato qualche giorno fa il Financial Times, sarebbe preoccupata per le prove raccolte contro Amazon relative all’accusa di abuso di posizione dominante sul mercato. Per la precisione, sono preoccupati per le prove che non sono riusciti a raccogliere, a causa dell’impenetrabilità degli algoritmi della piattaforma e delle omissioni, legittimate dal segreto industriale, sulle informazioni richieste.

Le indagini preliminari erano iniziate a luglio del 2019, quando l’autorità di regolamentazione per la libera concor–
renza ha accusato il gigante dell’e-commerce mondiale di favorire l’esposizione di propri prodotti a discapito di quelli dei venditori autonomi che utilizzano la piattaforma come “vetrina”, ovviamente pagando la loro quota. Tra le accuse ci sarebbe anche quella sull’utilizzo di dati sensibili dei venditori terzi: vi è il sospetto che l’algoritmo che assegna la buybox (il pulsante “compra ora” dal quale transita l’80% delle vendite) favorisca le offerte di Amazon che infatti – come raccontato qualche mese fa proprio qui sul Fatto – con meno del 10% dei listings genera il 45% dei ricavi, e che dia priorità ai seller che ricorrono ai servizi di spedizione di Amazon (pagano commissioni più alte). A novembre, dunque, è stata ufficializzata l’indagine: Amazon ha 2,3 milioni di venditori globali di terze parti e li utilizzerebbe per ostacolare i concorrenti, nonché per tenere in ostaggio i venditori. “Dobbiamo garantire che le piattaforme a doppio ruolo con potere di mercato, come Amazon, non distorcano la concorrenza – aveva spiegato il commissario europeo alla Concorrenza, Margrethe Vestager – I dati sull’attività di venditori di terze parti non devono essere utilizzati a vantaggio di Amazon quando questa agisce come concorrente degli stessi venditori. Anche le condizioni di concorrenza sulla piattaforma Amazon devono essere eque”. “Non siamo d’accordo con le affermazioni preliminari della Commissione europea e continueremo a impegnarci per assicurare un’accurata comprensione dei fatti” aveva ribattuto l’allora Ceo, Jeff Bezos, da qualche mese passato a occuparsi di come portare Amazon nel futuro.

Eppure, secondo il Financial Times, i funzionari Ue stanno ancora lottando per capire come funziona l’algoritmo, nonostante abbiano inviato domande dettagliate all’azienda sui criteri utilizzati per aumentare la visibilità di un prodotto. Tra i diversi problemi, anche il non riuscire a visualizzare direttamente il codice proprietario del rivenditore a causa delle barriere legali sui segreti commerciali. Insomma, le cosiddette “scatole nere” degli Over the top sono un bel problema. Gli algoritmi sono complessi “per natura” e lo diventano ancora di più in caso di informazioni incomplete. Certo, Bruxelles non ha il compito di dettare le caratteristiche dello strumento (anche se in parte, coi nuovi regolamenti in itinere, è ciò che si prova a fare), l’azienda deve dimostrare che dia risultati equi. Ma se la narrazione dell’azienda appare coerente, diventa difficile controbattere senza prove tangibili.

Molto meno problematico, infatti, è il caso dell’indagine contro Apple: l’Antitrust è pronta a mettere Cupertino formalmente sotto accusa per aver distorto la concorrenza nello streaming di musica. L’indagine, partita da una denuncia della piattaforma di musica online rivale Spotify, sta infatti per essere conclusa. Anche in questo caso si tratta di una inchiesta durata due anni: ad aprile del 2019, la svedese Spotify aveva denunciato Apple per aver limitato l’accesso ai servizi di streaming musicale dei rivali e imposto una royalty del 30% agli sviluppatori di app. I regolatori europei ritengono che le pratiche di Apple possano incidere sui consumatori impedendo loro di accedere a una scelta più ampia e a prezzi più bassi. Si tratta di situazioni difficili da contestare e non dipendenti da automazione o algoritmi insondabili.

Sono le ultime due cartucce esecutive della Vestager su Big Tech, dopo l’ok a Google per l’acquisizione di Fitbit e quindi a una fetta di mercato basata su milioni di utenti che registrano informazioni su forma fisica e abitudini. Nelle scorse ore, la commissaria ha ribadito il suo “interesse” per il sistema di pubblicità di Big G e ricordato di avere sott’occhio anche i dati di Facebook. Accelera invece l’America, con contenziosi aperti da decine di Stati su temi che vanno dalla concorrenza alla privacy e con l’annuncio della fine della clausola del “porto sicuro” che finora li ha protetti dalla regolamentazione più severa degli altri Paesi. Un primo passo verso una web tax che si spera possa diventare globale. Intanto, a giugno, salvo sorprese dovrebbe arrivare una proposta in sede Ocse.

Il Next Generation: la metà di Biden

E se la verità è semplicemente che il Recovery plan non è adeguato? Fin dal marzo del 2020 l’ipotesi di uno sforzo per il recupero dell’economia europea si basava su ben altre cifre. L’iniziale cifra sul tavolo era infatti di 1.500 miliardi, come dal documento del Commissario italiano Paolo Gentiloni e del collega francese Thierry Breton. Alla fine si è scesi a 750 miliardi, anzi nel nocciolo del piano, il Dispositivo per la ricostruzione e la resilienza, a 672,5 miliardi di cui solo 312,5 miliardi in sovvenzioni.

Un’economia dal Pil analogo, gli Stati Uniti, nello stesso tempo ha deliberato un piano da 1.900 miliardi di dollari, 1.590 miliardi di euro al cambio attuale, quindi il doppio. Non solo, quello statunitense è un piano di aiuti nel vero senso della parola: 411 miliardi andranno a finanziare i 1.400 dollari al mese per ogni famiglia con un reddito fino a 75 mila dollari annui; 246 miliardi vanno ai sussidi alla disoccupazione di 300 dollari alla settimana; 360 miliardi di aiuti locali agli Stati, 176 miliardi per la scuola, 124 per nuovi test Covid, 143 miliardi di benefici fiscali destinati ai bambini. Un vero helicopter money, una serie di vituperati “aiuti a pioggia” che farebbero impallidire qualsiasi Sussidistan (anche qui si nota l’imperizia di tanti improvvisati commentatori).

Come nota l’ultimo numero dell’Economist, che definisce quella di Biden “la grande scommessa”, con questa misura, che porta a circa 3.000 miliardi di dollari gli interventi delle ultime due amministrazioni (e a cui si uniscono gli stimoli per le banche e la politica monetaria finalmente più distesa nei confronti dell’inflazione) gli Stati Uniti hanno le carte in regole per portare la disoccupazione al 5% già nel 2021 e per tornare a giocare il ruolo di pivot mondiale. Allo stesso tempo la Cina ha appena varato il suo piano quinquennale e tra aiuti alle imprese, alle banche e alla propria “circolazione interna” non fa mistero di voler dare un impulso alla ripresa.

Con questi competitori, l’Unione si balocca in piani di Ripresa totalmente vincolati a quote pre-definite, a riforme strutturali perennemente invocate e a un dibattito interno che non esclude il ripristino dell’austero Patto di stabilità. Anche dal punto di vista della competizione capitalista, è sicura questa Unione europea di reggere il confronto? Ieri il quotidiano economico tedesco Handelsblatt tuonava contro Biden definendo la sua scommessa non grande ma “audace” ed esprimendo chiaramente il proprio disappunto. Che però andrebbe rivolto non contro Washington, ma contro Bruxelles.

Recovery plan, le 500 pagine che Conte ha lasciato a Draghi

Quando il governo Conte ha iniziato a preparare le schede, in inglese, del Recovery plan da inviare alla Commissione europea non pensava che se ne sarebbe appropriato un nuovo governo. Ma a leggere la maggior parte dei quotidiani sembra che gli autori di queste schede, allegate al Piano nazionale di ricostruzione e resilienza, siano Mario Draghi e il ministro dell’Economia Daniele Franco. Le schede formano un documento molto corposo, di 487 pagine, appena consegnato al Parlamento, la cui lettura dimostra che il Pnrr non era quel documento sciatto e trasandato presentato dal coro di sostegno ai vari Renzi e Calenda.

Contiene, invece, nel dettaglio, piani di riforma – a cominciare da Giustizia e Pubblica amministrazione – scadenze ben precise, “timeline” e “milestone” per ognuna delle 48 Linee di intervento previste dal piano. Insomma, tutto tranne che un piano raffazzonato.

“Forse abbiamo commesso un errore di comunicazione”, si ammette a mezza voce in ambienti del precedente governo, forse si è trattato solo di scrupolo tecnico-professionale di chi, mentre selezionava i progetti del Pnrr preparava le “schede” che sarebbero, e saranno, utili ai fini della valutazione della Commissione europea. Per questo direttamente in inglese.

Piani energetici. Come, ad esempio, ha messo in evidenza il Sole 24 Ore, la misura dell’efficientamento energetico viene chiaramente spiegata con il prolungamento del Superbonus al 110% fino alla fine del 2023 e nella timeline si specifica molto dettagliatamente che “il tempo di implementazione dovrebbe essere nel quarto trimestre del 2023, Nello specifico, la misura si applica alle spese sostenute fino al 30 giugno 2022 e fino al 31 dicembre 2022 per gli Iacp. Può essere richiesto ulteriori sei mesi nei casi di lavori eseguiti da condomini e Iacp quando almeno il 60% dei lavori è stato eseguito prima della data di scadenza del provvedimento”. La citazione così dettagliata serve a comprendere che tipo di lavoro era stato fatto.

Missione digitale. Ma è così per quasi tutti i progetti (in alcuni casi le schede sono in bianco quanto a calcoli finanziari o scadenze da rispettare). Per la “Missione digitale” si specificano le spese per gli 8 miliardi per il turismo (voce aggiunta per far contenta Italia viva), oppure si dà conto delle imprese (60 mila l’anno) che entro il 2026 potrebbero acquistare beni strumentali digitali. Si specifica il progetto PagoPa, l’obiettivo di espandere l’accesso tramite Spid all’amministrazione pubblica e la Carta di identità elettronica.

Impatto green. Oltre all’efficienza energetica, nel comparto “green” si spiega nel dettaglio cosa si farà per l’agricoltura sostenibile con il numero, anno per anno, dei contratti di filiera da sottoscrivere nell’ambito della strategia europea Farm to fork e il termine esatto in cui il programma sarà realizzato. Nel caso dell’Alta velocità si dettagliano i nove progetti prioritari (Napoli-Bari, Palermo-Catania, Salerno-Reggio Calabria, Brescia-Verona-Vicenza, Terzo valico, Verona-Brennero, Roma-Pescara, Orte-Falconara, Taranto-Potenza-Battipaglia) con proiezione della spesa nell’arco degli anni. Vengono indicate le riforme da fare, le scadenze e gli impatti ecologici: “In particolare, gli investimenti relativi alla rete ferroviaria Alta velocità e al rafforzamento dei nodi metropolitani e dei principali collegamenti nazionali ha un impatto verde (clima) del 100%, mentre i restanti investimenti ferroviari hanno un impatto verde (clima) pari al 40%”.

Lavoro e Salute. Sulle politiche attive si specifica che lo stanziamento di 3,5 miliardi per attivare il piano Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori) e l’assegno di ricollocazione prevede di coprire circa 500 mila lavoratori all’anno. Nel comparto Salute si dettaglia l’intervento di “telemedicina” specificando che ci saranno 575 “centrali di coordinamento”, oltre 50 medici con kit adeguati per assistere poco meno di 300 mila pazienti entro il 2026. Per quanto riguarda l’assistenza di prossimità si punta a realizzare 2.564 “case di comunità” in cui far lavorare medici e infermieri per assistere circa 8 milioni di pazienti “cronici mono-patologici” e 5 milioni con più patologie.

Sono solo accenni di un documento molto rilevante e impossibile da riassumere in uno spazio limitato. Il governo Draghi si trova quindi con una certa dose di lavoro avviato, ora spetta al Parlamento leggere tutti i documenti e fare le sue proposte, e al Mef, dove tutto è incardinato, redigere il piano finale. Ci saranno modifiche, ovviamente, alcuni capitoli saranno riscritti, ma dire come viene fatto costantemente, che solo i “migliori” sono in grado di scrivere un piano per l’Europa significa offendere l’intelligenza di molti.

Arcuri un fallimento? Insomma. Tutti i numeri del Commissario

Per il centrodestra aveva troppi incarichi, per Matteo Salvini, che non ha mai perso occasione per attaccarlo, era inefficiente. Ma davvero l’ex commissario all’emergenza Domenico Arcuri era il manager sbagliato per fronteggiare la pandemia? Stando ai numeri le cose non sembrano proprio così, come pare dimostrare l’indagine sulle gare indette lo scorso anno per acquistare i dispositivi di protezione individuale necessari agli operatori sanitari e alla popolazione per proteggersi dal contagio e per reperire le attrezzature per le terapie intensive. È quanto emerge da un’elaborazione curata da Masan, l’Osservatorio sul management degli acquisti e dei contratti in sanità dell’Università Bocconi.

Partiamo dai Dpi, tra mascherine, calzari, visiere, camici, di gare ne sono state fatte 1.539, per un totale a base d’asta di circa 10,5 miliardi. Ma l’importo effettivamente aggiudicato è stato di poco superiore ai 3,3 miliardi. Con alcune sorprese, però. Le aziende sanitarie sono riuscite a portare a casa oltre 300 lotti per un ammontare di poco superiore ai 275 milioni; le centrali d’acquisto delle Regioni si sono fermate a 215 lotti per 457 milioni (e partivano da una base d’asta di oltre 4,1 miliardi). Molto più in là è arrivato l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, con oltre 2,3 miliardi (e partiva da una base di 4,8).

L’indagine di Masan prende in considerazione i dati provenienti da Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione, e dalla stessa struttura commissariale. E anche se il quadro non è del tutto esaustivo, perché le aziende sanitarie e le Regioni avevano già in corso gare indette prima dello scoppio della pandemia, ciò che emerge è significativo. La sezione centrale della Protezione civile, per esempio, sempre per i Dpi ha fatto 56 gare per un importo a base d’asta di poco più di 377 milioni. E dall’elaborazione, come spiega la coordinatrice dell’osservatorio Giuditta Callea, mancano grosso modo metà delle gare indette da Arcuri: “Non dobbiamo dimenticare che tutto è stato fatto nella più assoluta emergenza e nel panico generale, con un proliferare di gare che a volte si sovrapponevano – dice Callea –. Se qualcosa è mancato è stato un forte coordinamento tra le Regioni e la struttura commissariale”.

È capitato così anche che agli ospedali siano stati consegnati ventilatori polmonari, necessari nelle terapie intensive, con istruzioni per il collaudo solo in lingua cinese. “Per questo tante aziende sanitarie non sono riuscite a utilizzarli”, spiega Callea. “Ora – prosegue la coordinatrice di Masan –, si prospetta una gestione maggiormente centralizzata. E va ricordato che non ci troviamo più nella situazione di un anno fa, quando era difficilissimo reperire i dispositivi medici”.

Passiamo alle terapie intensive. In questo caso le gare monitorate sono state in tutto 1.106, in larghissima maggioranza fatte dalle varie aziende sanitarie (1.016) e dalla struttura commissariale di Arcuri (quelle che restano sono da attribuire a Protezione civile, Consip, Regioni).

In questo caso le Asl hanno portato a casa 60,5 milioni di macchinari. Quasi 33, invece, sono arrivati dalla Protezione civile e dal commissario all’emergenza. Arcuri, che venerdì scorso è stato ricevuto al Quirinale dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, aveva ricevuto ampi poteri dall’ex premier Giuseppe Conte, seppure con un incarico a titolo gratuito. Anche la sua struttura, costituita da circa un centinaio di persone, non comportava ulteriori oneri a carico dello Stato. Era composta da giuristi, tecnici, ingegneri. Che però erano tutti dipendenti di Invitalia, di cui Arcuri è amministratore delegato, per i quali era stato disposto il distaccamento. Oppure erano funzionari del ministero della Salute. E ogni genere di acquisto o indicazione sull’organizzazione di un reparto ospedaliero avveniva di fatto sotto dettatura da parte del Cts o del ministero stesso.

Consulta: “Il Dpcm necessario in un momento di emergenza”

Dopo un anno vissuto pericolosamente, la Corte Costituzionale mette la parola fine al ribellismo registrato da parte delle Regioni nella gestione della pandemia da Covid-19. Per la Consulta l’esercizio della competenza statale esclusiva in materia di profilassi internazionale e l’attivazione di strumenti come i Dpcm “capaci di adattarsi alle pieghe di una situazione di crisi in costante divenire” rappresentano – ci perdonerà il professor Cassese – una soluzione consona al contrasto dell’emergenza. Che ha tratti del tutto peculiari che giustificano la scelta “di nuove risposte normative” tarate sull’urgenza di contenere un contagio rapido e imprevedibile. Sono invece illegittime leggi regionali come quella adottata dalla Valle d’Aosta con il chiaro intento di sovrapporre “la catena di regolazione della Regione a quella prescelta dalla competente normativa dello Stato, con conseguente invasione di una sfera di attribuzione” che è sottratta all’intervento del legislatore locale.

Ma cos’era successo? A dicembre 2020 la Regione autonoma aveva varato una legge per impedire di fatto l’immediata e diretta applicabilità delle misure varate dal governo Conte sul territorio valdostano. E Palazzo Chigi aveva dunque chiesto alla Consulta di sterilizzarne gli effetti e i rischi: la legge in questione infatti consentiva attività potenzialmente incompatibili con l’andamento della pandemia e misure ben più blande di quelle adottate a livello nazionale. Imponendo dunque regole autonome e alternative, in pieno contrasto con l’esigenza di una disciplina unitaria, di carattere nazionale, idonea a preservare l’uguaglianza delle persone nell’esercizio del fondamentale diritto alla salute e a tutelare contemporaneamente l’interesse della collettività. “Per quanto fondamentale sia l’apporto dell’organizzazione sanitaria regionale, a mezzo della quale lo Stato stesso può perseguire i propri scopi, il legislatore statale è titolato a prefigurare tutte le misure occorrenti” ha sottolineato la Corte Costituzionale.

Affermando che le norme locali sono legittime nei limiti in cui esse si inseriscano armonicamente nel quadro delle misure straordinarie adottate a livello nazionale, stante il grave pericolo per l’incolumità pubblica. Per essere più espliciti, ciò vuol dire che per quanto siano le strutture sanitarie regionali ad adoperarsi a fini profilattici, “resta fermo che, innanzi a malattie contagiose di livello pandemico, ben può il legislatore statale imporre loro criteri vincolanti di azione, e modalità di conseguimento di obiettivi che la medesima legge statale, e gli atti adottati sulla base di essa, fissano, quando coessenziali al disegno di contrasto di una crisi epidemica”. E ancora. “Ciò che la legge statale permette non è una politica regionale autonoma sulla pandemia, quand’anche di carattere più stringente rispetto a quella statale, ma la sola disciplina (restrittiva o ampliativa che sia), che si dovesse imporre per ragioni manifestatesi dopo l’adozione di un dpcm e prima che sia assunto quello successivo”.

Morti sospette: fiale del lotto “incriminato” a 200 mila italiani

Roberto Speranza invia gli ispettori in Sicilia per fare luce sul caso del sottufficiale della Marina Stefano Paternò, 43 anni, deceduto a Misterbianco (Catania) il giorno dopo aver ricevuto il vaccino AstraZeneca. Sul caso indaga la Procura di Siracusa, che ieri ha ricevuto un’informativa dei Nas. I magistrati siciliani attendono i primi esiti dell’autopsia sul corpo del militare, eseguita ieri. I delegati ministeriali lavorano anche sul fronte della conservazione del farmaco e sulla filiera, con il siero prodotto in Belgio, infialato in Germania e in Italia (in uno stabilimento in provincia di Frosinone) e poi sottoposto a controllo qualità in Olanda.

Intanto, cresce l’apprensione in tutta Europa per i casi di reazione definiti “sospetti”, ma nessuno ancora accertato. La farmacovigilanza ministeriale ha deciso di monitorare le circa 200 mila persone che hanno ricevuto le dosi del lotto Abv2856. Al momento ci sono altre tre inchieste a Messina, Nola e Napoli. Ieri è stato dimesso dalla terapia intensiva di Taranto l’appuntato che aveva accusato un grave malore qualche giorno dopo il vaccino. Nel frattempo, in Sardegna un agente della Polizia penitenziaria di Oristano è stato ricoverato dopo una presunta reazione avversa. Secondo Matteo Bassetti (virologo del San Martino di Genova) “bisogna monitorare gli eventuali effetti collaterali ma non assumere farmaci in via preventiva”. Massimo Galli (Sacco di Milano), invece, consiglia di “fare prima l’esame sierologico” per evitare una “amplificazione infiammatoria della risposta derivata dagli anticorpi”.

“Avanti così e finiremo per buttare via le dosi”

“Si va verso 1 milione di vaccinati e dalla prossima settimana saranno 50 mila al giorno, un record italiano”. È l’ennesima figurina nell’album della propaganda di Regione Lombardia. Ad attaccarla è stato ieri Salvini – in visita all’Ospedale in Fiera – costretto a tornare a Milano per sciogliere una situazione ogni giorno più tesa. I disservizi della piattaforma di Aria per gli appuntamenti avevano spinto persino Guido Bertolaso a prendere le distanze (“è una vergogna”) dopo i 300 anziani spediti a Niguarda per errore. Non solo, tra Bertolaso e l’assessore regionale Caparini, erano volate parole grosse con tanto di mani addosso. E l’intervista rilasciata venerdì da Attilio Fontana secondo cui “Noi non abbiamo commesso errori, è il virus che è complicato”, non ha aiutato, così come l’ammissione che “ci vorranno ancora parecchie settimane per completare la vaccinazione degli over 80”. Intanto la Lombardia scivola in zona rossa, dimostrando che la scelta dell’arancione rinforzato non ha sortito effetti. I numeri sono in impennata: ieri 5.809 nuovi casi (1.426 a Milano), 694 pazienti in terapia intensiva (+25), 6.068 negli altri reparti (+159) e 66 i morti. E ieri l’ospedale di Rho ha dovuto sospendere l’attività chirurgica e ha inviato 35 tra medici e infermieri proprio in Fiera, per 14 nuovi letti di intensiva (90 da lunedì).

Insomma Salvini è stato costretto a intervenire. Ma la propaganda è un conto, la realtà racconta di 187.392 over 80 su 720.000 che hanno ricevuto una dose; 30.641 docenti su 200.000; 400.000 “fragili” e 25 mila disabili gravi che non sanno quando inizieranno ad essere vaccinati.

E i centri vaccinali fanno i salti mortali per evitare di sprecare dosi: “Cerchiamo di scongelare solo le dosi necessarie – dichiara un medico di un ospedale del lecchese –, ma non è facile, ci sono giorni che ci troviamo il doppio dei pazienti previsti. Altri invece siamo pieni di buchi, perché gli anziani non si presentano avendo ricevuto l’sms solo a notte fonda per il giorno dopo”.

I vaccini, infatti, una volta scongelati, devono essere usati entro 5 giorni e ogni boccetta, se diluita, deve essere usata entro 2 ore. Un sudoku del quale ogni centro deve trovare una sua soluzione, perché manca una direttiva generale della Regione su come gestire le eccedenze: “Noi abbiamo deciso di non aprire boccette per pochi pazienti – spiega il medico –, rinviamo gli appuntamenti. Non c’è logica, siamo soli sul territorio”. Si potrebbe aumentare il ritmo di vaccini, ma “andiamo a rilento perché mancano i centri, non per mancanza di dosi, con le scorte non siamo in sofferenza. A gennaio i sindaci avevano indicato gli spazi utilizzabili e le Ats avevano fatto i sopralluoghi, ma poi non si è fatto più nulla”. “L’altro problema è la mancanza delle Usca – aggiunge una volontaria – Mi ero offerta per le domiciliari, ma mi è stato detto che avremmo vaccinato pazienti senza parlare col medico curante, cioè senza anamnesi. Da medico, mi sono rifiutata: come puoi vaccinare anziani, spesso non lucidi, senza un rapporto col medico di famiglia? Chi firma il consenso? È un rischio troppo alto”.