Se ne riparlerà, forse, il prossimo giugno. L’ultima riunione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto), andata in scena giovedì scorso, ha fotografato in modo chiaro la spaccatura tra Paesi poveri e Paesi ricchi del mondo. Tema: la sospensione dei brevetti sui vaccini anti Covid, pensata per aumentare la produzione di dosi e riuscire così ad immunizzare il più rapidamente possibile la popolazione globale. Lanciata nell’ottobre scorso da India e Sudafrica, la proposta aveva il sostegno di circa 80 Stati del Sud del Mondo: quelli del continente africano, più varie altre nazioni di Asia e Sud America. Tutti Paesi dove i vaccini finora sono arrivati con il contagocce. Le deroghe richieste al trattato internazionale che tutela la proprietà intellettuale, cioè i brevetti, non sono però nemmeno state discusse al Wto.
Senza consenso tra tutti i partecipanti, il Consiglio TRIPs – l’organo speciale che si occupa di queste questioni – non può infatti neppure avviare formalmente i negoziati sul testo di una proposta. A negare il consenso sono stati proprio i Paesi che hanno oggi la maggiore disponibilità di vaccini: Stati Uniti, Regno Unito, Svizzera, Canada, Giappone. Le stesse nazioni dove sono basate alcune delle compagnie proprietarie dei brevetti. A schierarsi per il no alla liberalizzazione dei brevetti è stata anche la Commissione europea, che rappresenta la posizione concordata con i governi dei 27 Stati membri. “Il problema dell’accesso ai vaccini non verrà risolto sospendendo i brevetti. I problemi sono legati alla mancanza di una capacità produttiva sufficiente a realizzare le quantità necessarie”, è stata la motivazione fornita dalla Commissione attraverso Miriam Garcìa Ferrer, portavoce per le questioni commerciali.
La stessa tesi era stata espressa qualche giorno prima in Italia da Lucia Aleotti, numero uno di Menarini: “La carenza di vaccini non dipende dai brevetti, ma dalle limitate dimensioni e potenzialità degli impianti”. La linea dell’Ue sembra dunque coincidere con quella delle aziende farmaceutiche. E prevede di puntare sui cosiddetti “accordi di licenza”. È quello che si appresta a fare, ad esempio, il governo Draghi, che ha fatto sapere di essersi accordato con la Patheon Thermo Fisher: la multinazionale americana dovrebbe produrre in uno dei suoi stabilimenti italiani (uno in Lombardia e uno nel Lazio) il vaccino della tedesca Curevac in base a un accordo in conto terzi. La differenza sostanziale rispetto alla proposta di India e Sudafrica è che con gli “accordi in conto terzi” il pallino resta in mano alle case farmaceutiche proprietarie dei brevetti, che subappaltano parte della produzione a terzi che tuttavia non possono produrre e distribuire il vaccino in modo autonomo.
Intanto anche i partiti italiani si dividono sulla questione dei brevetti. La spaccatura è emersa giovedì scorso a Bruxelles. Il Parlamento europeo ha votato un emendamento, proposto dal Movimento 5 Stelle, per chiedere alla Commissione di “superare gli ostacoli e le restrizioni derivanti dai brevetti” sui vaccini anti-Covid.
Nessuna sospensione dei brevetti, dunque, solo una esortazione politica priva di effetti vincolanti. Eppure, l’emendamento non ha trovato l’appoggio di tutti gli europarlamentari. Il testo è stato approvato con 291 a favore, 195 contro e 204 astenuti. Hanno votato no quasi tutti i liberali di Renew Europe (Italia Viva) e i conservatori di Ecr (Fratelli d’Italia). A favore si è schierata buona parte di S&D (Pd), Verdi, The Left e un pezzo di Identità e Democrazia (nella fattispecie la Lega). Solo l’astensione dei popolari del Ppe (Forza Italia), che detengono la maggioranza a Bruxelles, ha permesso infine l’approvazione.