Wto, i Paesi più ricchi se ne infischiano: “No ai brevetti liberi”

Se ne riparlerà, forse, il prossimo giugno. L’ultima riunione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto), andata in scena giovedì scorso, ha fotografato in modo chiaro la spaccatura tra Paesi poveri e Paesi ricchi del mondo. Tema: la sospensione dei brevetti sui vaccini anti Covid, pensata per aumentare la produzione di dosi e riuscire così ad immunizzare il più rapidamente possibile la popolazione globale. Lanciata nell’ottobre scorso da India e Sudafrica, la proposta aveva il sostegno di circa 80 Stati del Sud del Mondo: quelli del continente africano, più varie altre nazioni di Asia e Sud America. Tutti Paesi dove i vaccini finora sono arrivati con il contagocce. Le deroghe richieste al trattato internazionale che tutela la proprietà intellettuale, cioè i brevetti, non sono però nemmeno state discusse al Wto.

Senza consenso tra tutti i partecipanti, il Consiglio TRIPs – l’organo speciale che si occupa di queste questioni – non può infatti neppure avviare formalmente i negoziati sul testo di una proposta. A negare il consenso sono stati proprio i Paesi che hanno oggi la maggiore disponibilità di vaccini: Stati Uniti, Regno Unito, Svizzera, Canada, Giappone. Le stesse nazioni dove sono basate alcune delle compagnie proprietarie dei brevetti. A schierarsi per il no alla liberalizzazione dei brevetti è stata anche la Commissione europea, che rappresenta la posizione concordata con i governi dei 27 Stati membri. “Il problema dell’accesso ai vaccini non verrà risolto sospendendo i brevetti. I problemi sono legati alla mancanza di una capacità produttiva sufficiente a realizzare le quantità necessarie”, è stata la motivazione fornita dalla Commissione attraverso Miriam Garcìa Ferrer, portavoce per le questioni commerciali.

La stessa tesi era stata espressa qualche giorno prima in Italia da Lucia Aleotti, numero uno di Menarini: “La carenza di vaccini non dipende dai brevetti, ma dalle limitate dimensioni e potenzialità degli impianti”. La linea dell’Ue sembra dunque coincidere con quella delle aziende farmaceutiche. E prevede di puntare sui cosiddetti “accordi di licenza”. È quello che si appresta a fare, ad esempio, il governo Draghi, che ha fatto sapere di essersi accordato con la Patheon Thermo Fisher: la multinazionale americana dovrebbe produrre in uno dei suoi stabilimenti italiani (uno in Lombardia e uno nel Lazio) il vaccino della tedesca Curevac in base a un accordo in conto terzi. La differenza sostanziale rispetto alla proposta di India e Sudafrica è che con gli “accordi in conto terzi” il pallino resta in mano alle case farmaceutiche proprietarie dei brevetti, che subappaltano parte della produzione a terzi che tuttavia non possono produrre e distribuire il vaccino in modo autonomo.

Intanto anche i partiti italiani si dividono sulla questione dei brevetti. La spaccatura è emersa giovedì scorso a Bruxelles. Il Parlamento europeo ha votato un emendamento, proposto dal Movimento 5 Stelle, per chiedere alla Commissione di “superare gli ostacoli e le restrizioni derivanti dai brevetti” sui vaccini anti-Covid.

Nessuna sospensione dei brevetti, dunque, solo una esortazione politica priva di effetti vincolanti. Eppure, l’emendamento non ha trovato l’appoggio di tutti gli europarlamentari. Il testo è stato approvato con 291 a favore, 195 contro e 204 astenuti. Hanno votato no quasi tutti i liberali di Renew Europe (Italia Viva) e i conservatori di Ecr (Fratelli d’Italia). A favore si è schierata buona parte di S&D (Pd), Verdi, The Left e un pezzo di Identità e Democrazia (nella fattispecie la Lega). Solo l’astensione dei popolari del Ppe (Forza Italia), che detengono la maggioranza a Bruxelles, ha permesso infine l’approvazione.

Vaccini, fuga da AstraZeneca. Il nuovo piano pare il vecchio

A Milano il 10% delle persone prenotate, per lo più insegnanti e operatori della scuola, non si è presentato. In Toscana hanno disdetto in oltre 4.000, il 15% dei prenotati per il vaccino AstraZeneca. A Treviso mancavano insegnanti e appartenenti alle forze di polizia, circa 1.000 su 3.600, così hanno chiamato i giornalisti, che però erano pochi.

Nonostante le rassicurazioni dell’agenzia europea Ema, dell’italiana Aifa e di numerosi specialisti, che invitano ad attendere dati certi sui presunti eventi avversi e sul lotto ritirato, si è diffusa una certa diffidenza sul vaccino dell’azienda anglo-svedese. Che ieri ha confermato un’ulteriore riduzione delle consegne. “AstraZeneca è lontana dalle dosi che avrebbe dovuto distribuire. Non crediamo che stia facendo di tutto” e quindi, dicono dalla Commissione Ue, “analizziamo tutte le possibili misure da prendere”.

A Roma intanto il nuovo commissario anti-Covid, generale Francesco Paolo Figliuolo, ha reso noto il suo piano vaccinale: l’obiettivo, che poi era lo stesso di Domenico Arcuri fin da dicembre, è vaccinare il 60% della popolazione a fine luglio, il 70% a fine agosto e l’80% a fine settembre. I vaccinabili sono gli over 16 (51 milioni), la percentuale si calcola sull’intera popolazione (60 milioni). Nei prossimi giorni si dovrebbe passare dalle attuali 170 mila somministrazioni giornaliere a 210 mila, quindi a 300 mila a fine marzo e a 500 mila a metà aprile. I numeri, però, dipendono dalle consegne. Si prevedono otto milioni di dosi entro i primi di aprile (in aggiunta a circa 7,8 milioni già distribuite e per l’80% somministrate), oltre 52 milioni tra aprile e giugno, altre 84 milioni tra luglio e settembre. Ora però, l’ultimo vaccino approvato, Janssen di Johnson & Johnson, dovrebbe arrivare ad aprile ma l’azienda ha già annunciato ritardi, quindi la fornitura potrebbe essere inferiore alle 7,3 milioni di dosi previste entro giugno; Astrazeneca potrebbe consegnarne un terzo in meno delle sue (10 milioni) e Curevac (7,3 milioni) non ha ancora l’ok delle agenzie regolatorie.

Le dosi disponibili tra aprile e giugno potrebbero essere meno di 52 milioni, ma anche meno delle 36,8 milioni stimate giorni fa da Palazzo Chigi. Però potrebbe arrivare il russo Sputnik. E i vaccini più disponibili tra qualche settimana potrebbero essere quelli di Pfizer/Biontech, utilizzati finora solo per gli operatori sanitari, Rsa, over 80 e malati gravi. Non è chiaro a chi li daranno dopo le categorie indicate.

Il piano prevede consegne alle Regioni in proporzione alla popolazione. Le priorità, con AstraZeneca somministrabile fino a 79 anni, non vanno più per categorie ma per fasce d’età, salvo le persone affette da una serie di patologie meno gravi delle precedenti, indicate dal ministero della Salute, che passano davanti agli under 60. Il piano, che in questi termini non era mai stato elaborato, prevede “il coordinamento da parte del commissario di tutte le attività” con il coinvolgimento di Interni, Difesa, Mef, Salute, Protezione Civile e Croce Rossa ma anche “piani regionali”; una “catena snella” come piace ai militari e in genere funziona; approvvigionamento e distribuzione affidati a Poste Italiane e forze armate come già avviene; l’impiego di 1.700 medici e infermieri vaccinatori assunti con il bando di Arcuri e di altri se necessario, e soprattutto fino a 45 mila medici di famiglia, fino a 60 mila dentisti e fino a 25 mila medici specializzandi, più farmacisti, medici sportivi e del lavoro secondo gli accordi firmati o in discussione al ministero della Salute; interventi mirati sulle Regioni in difficoltà, fin qui non previsti, come già avviene in Calabria; una scorta dell’1,5%, altra novità, non distribuita agli hub regionali “per fronteggiare con immediatezza esigenze impreviste” ed eventuali “team mobili”. Grandi hub per fare economie di scala in caserme, palestre, scuole, aziende, strutture associative o ecclesiastiche, ma anche “capillarizzazione della somministrazione”. I punti vaccinali sono 1.733 e aumentano.

Quante dosi, Figliuolo?

Se Gozzano fosse vivo, aggiornerebbe il catalogo del salotto di nonna Speranza. “Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone, i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto!)… i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, un qualche raro balocco…”. E poi il Mes e la prescrizione (ah le mozioni italovive in Parlamento!). I Dpcm incostituzionali di Cassese (oh la sentenza della Consulta che ora li giudica doverosi!). Il Sussidistan del sciùr Bonomi (ieri così incazzoso sui bonus e, ora che ne arrivano altri 50 miliardi, quasi impagliato come il Loreto!). L’orrido Ecobonus dell’incompetente Fraccaro (ora meravigliosa per il Sole 24 ore, evviva!). La fetida task force del Recovery (brutta con Conte perché aveva 300 tecnici, troppi; bella con Draghi perché ne ha 500, troppo pochi!). La strage degli innocenti nelle carceri perpetrata dal troglodita Bonafede (ora elogiato pure da Antigone su Rep, oh gioia e tripudio!). I videomessaggi del tiranno Giuseppi, novello Pinochet o Chàvez, che per ben due volte non chiamò i giornalisti (ora inutili intralci ai democratici monologhi del Sempre Sia Lodato!).

Però che palle ‘sto salotto di nonno Mario. Usciamo a prendere un po’ d’aria. E chi ti incontriamo? Il Gen. Comm. Grand’Uff. Francesco Paolo Figliuolo. Si vede subito che è un tipo sveglio: a lui non la si fa. Infatti spiega in esclusiva al Corriere “la strategia ‘in due pilastri’ studiata dal governo” per le vaccinazioni. E i due pilastri – tenetevi forte – sono: “da una parte la disponibilità e l’afflusso dei vaccini; e dall’altra la capacità di somministrarli”. Esattamente in quest’ordine, casomai a qualcuno venisse in mente di iniettarli prima di riceverli. Non a caso lui “ha tre lauree e ha comandato le truppe in Afghanistan e Kosovo”. Sennò magari non ci pensava che i vaccini, se non li ricevi, non puoi somministrarli. Il Foglio nota

“una discontinuità col predecessore Arcuri (una laurea e zero guerre, nda). Figliuolo tende a sottolineare un altro aspetto: ‘L’importante non sono io, ma lo Stato. Vedrete, vincerà l’Italia’”. Non il Madagascar, come diceva sempre quell’altro. Altro pilastro: “Puntiamo a chiudere la campagna entro l’estate, se faremo prima saremo stati più bravi”. Se faranno dopo, un po’ meno. Questo sì che si chiama programmare. “La chiave è: comando accentrato, esecuzione decentrata”. A meno che non riesca a fare 100 milioni di punture tutte da solo. Ma attenzione: “Johnson&Johnson ci consegnerà 25 milioni di dosi e, poiché se ne fa una soltanto, è come se ne arrivassero 50 milioni” (una delle tre lauree dev’essere in matematica). Non so voi, ma io mi sento già molto meglio. Con un fastidioso effetto collaterale, però: un’inspiegabile nostalgia per Giulio Gallera.

Le 4 generazioni di Francoforte: viaggio avventuroso nella Teoria critica

Non c’è solo la Francoforte cara a Mario Draghi, ma anche quella affascinante e complessa della Scuola che ha dato vita alla Teoria critica. In Ritorno a Francoforte, Giorgio Fazio si incarica di ricostruire la storia di una tradizione filosofica, politica, sociologica, psicologica che ha dato moltissimo al pensiero occidentale tra gli anni Trenta e la fine del secolo e che, qui, il prezioso lavoro del libro, continua ancora. Ha moltiplicato di “generazione in generazione” le sue premesse fondative, rivedendole, destrutturandole e poi rianimandole.

Fazio indica quattro generazioni della Teoria critica: la prima, la celebre corrente inaugurata dai nomi celebri di Adorno, Horkheimer, Marcuse (ma anche Erich Fromm, Walter Benjamin, Franz Neumann). La scuola nasce nel gelo degli anni Trenta, ma riesce a cogliere, nonostante l’orrore del nazismo, tendenze più di fondo, l’irrigidimento e la natura “unidimensionale” del tardo-capitalismo. Intuizioni profonde che, ad esempio nel caso di Marcuse, si collegheranno ai movimenti di massa del ’68. Jürgen Habermas compie il “parricidio” e inaugura la seconda generazione, uscendo da un’impasse pessimistica della prima fase che coglie solo la pietrificazione della ragione strumentale, offrendo invece una possibilità razionale tramite l’agire comunicativo. Una opzione razionale che sa di moderazione o perlomeno di “formalismo”. E allora ancora una svolta, diciamo a sinistra, con Axel Honneth e la rivalutazione del concetto hegeliano di “riconoscimento” (tra l’altro impiegato da Francis Fukuyama per analizzare il moderno populismo). Fino alla quarta generazione, di Rahel Jaeggi, Hartmut Rosa e di Nancy Fraser. Fazio ricostruisce con entusiasmo una genealogia, individuando in quel modello critico, che cerca nelle tensioni e nelle crisi immanenti le potenzialità di un’emancipazione, un punto di riferimento per una critica della società. In vista di una sua trasformazione. Un ritorno rigenerante.

 

 

“Ho più bisogno d’amore che di cibo”

“La donna più attraente è quella che non riusciamo mai a trovare in un caffè affollato, quando la cerchiamo, è quella a cui si deve dare la caccia, e scovare sotto i travestimenti delle sue storie”. Citazione tratta dalla raccolta Il delta di Venere che è un vestito cucito addosso alla sua stessa autrice, Anaïs Nin.

Per capire chi era davvero – “La vita ordinaria non mi interessa, cerco solo i grandi momenti”; “respingo la morte a furia di vivere, soffrire, sbagliare, rischiare, dare e perdere”; “ho più bisogno d’amore che di cibo” – bisogna (in)seguirla dentro le pagine del suo monumentale Diario perché è lì che si rivela tra forza e fragilità, dubbi e passione, sospesa tra sogno e realtà, poliedrica e complessa. Snobbata in vita dagli editori che non la pubblicarono (si autopubblicò, infatti) neanche quando finanziò scrittori e artisti coi soldi del banchiere Guiler che sposò ventenne, erroneamente relegata al solo ruolo di autrice di racconti erotici scandalosi o mito femminista, è stata soprattutto una donna che ha avuto l’ardire di essere ciò che desiderava spaccando gli argini, non solo di un sistema patriarcale, ma soprattutto del suo inconscio in cui s’immerse totalmente. Chissà se la sua parabola sarebbe stata diversa se suo padre non l’avesse abbandonata quando aveva 11 anni per seguire una giovane allieva. È quando lui si eclissa che lei, nel viaggio da Parigi a New York con la madre e i due fratelli, comincia a riversarsi su carta. Lo fa scrivendogli una lettera in cui immagina lui sia con lei, a guardare le cose coi suoi stessi occhi. L’abbandono sarà sempre ferita aperta, “se mio padre se n’è andato, se non mi amava, dev’essere perché non ero amabile”, tanto che, ispirata dalla psicoanalisi cui s’avvicina dopo aver conosciuto Otto Rank, allievo di Freud con cui ha una relazione, si concede al padre (lo racconta in Incesto ma non è certo sia davvero accaduto), forse per sanare l’antico dolore, alternando le visite al suo letto con fughe dai suoi molti amanti, uno tra tutti Henry Miller.

Quanto è sicuro è che Nin voleva vivere i suoi desideri sessuali-emozionali con lo stesso abbandono che gli uomini hanno sempre rivendicato come diritto esclusivo e credeva che il più grande errore per una donna fosse “aspettarsi che l’uomo costruisca il mondo che essa desidera, invece di crearselo da sola”. Due gli incontri folgoranti e rivelatori: la lettura di L’amante di Lady Chatterley di Lawrence, primo romanzo a concepire il desiderio sessuale come prerogativa non solo maschile, che le ispirò un saggio a tema, e l’incontro con Miller, appunto, conosciuto dopo il rientro a Parigi nel ’29, quando non era ancora il celebre autore di Tropico del Cancro.

Nella sua casa di Louveciennes, alle porte di Parigi, Nin accoglie grandi artisti dell’epoca come Artaud, Breton, Vidal, Dalì, Picasso, Duchamp e mentre Hugo fa i soldi, lei, che con lui si annoia da sempre, trova la propria strada cioè esplorare e scrivere di sé e della sessualità femminile mai intesa come atto meccanico perché “solo i battiti uniti del sesso e del cuore insieme possono creare l’estasi”. Miller la incanta, “ha occhi azzurri, freddi e attenti, ma la sua bocca rivela emotiva vulnerabilità”, con lui intreccia una relazione simbiotica che permette a entrambi di conoscersi a fondo e mettere a fuoco e frutto il loro talento e quando la moglie di Miller, la danzatrice statunitense June Mansfield li raggiunge, la liaison si fa triangolo.

Per Anaïs, che era grafomane, il Diario, a coprire il periodo 1931-66, è un talismano, “è il mio kief, il mio hashish, la mia pipa d’oppio, la mia droga e il mio vizio”, è il luogo sicuro, segreto, in cui rifugiarsi quando il mondo le fa paura, è terapia per riconnettere i frammenti attraverso l’introspezione analitica, è l’emanazione del suo io più intimo che nei romanzi, sempre incentrati su tormentate storie d’amore e seduzione, emerge con meno incisività. Quasi perduti durante la Seconda guerra mondiale, pubblicati censurati nel ’66, i diari diventano solo vent’anni dopo l’opera libera, seppur postuma, che garantisce a Nin un posto tra i classici. D’altronde scrivere è stato per lei vivere. “Quando non scrivo, sento che il mio mondo si restringe. Sento che ho perso il mio fuoco e il mio colore”, si legge in La mistica del sesso. “Deve essere una necessità, come il mare ha bisogno di incresparsi, e io questo lo chiamo respirare”.

Due gialli in uno: magistrale omaggio ad Agatha Christie (ovviamente inglese)

Cara vecchia Agatha, immortale e amatissima. Questo giallo è christianesimo puro, diciamo pure ortodosso. Una vera dichiarazione d’amore: “Sono cresciuta divorando Agatha Christie e quando viaggio in aereo o sono in spiaggia leggo soltanto gialli. Ho visto in televisione ogni singolo episodio di Poirot e dell’Ispettore Barnaby. Non indovino mai il colpevole e attendo con ansia il momento in cui il detective riunisce tutti gli indiziati in una stanza e, come un mago fa comparire una colomba dal cilindro, finalmente dà un senso al tutto”. È il cuore della liturgia christiana – la riunione plenaria dei sospettati – dove i frammenti del Caos (gli indizi) vengono ricondotti all’unità della Verità.

A parlare è Susan Ryeland, editor di Londra, che ha scoperto Alan Conway, l’inventore del detective Atticus Pünd, greco-teutonico che assomiglia al Ben Kingsley di Schindler’s List. Ché il magistrale I delitti della gazza ladra è due gialli in uno, una matrioska di enigmi che parte dall’ultimo manoscritto di Conway con Pünd protagonista, Appuntamento con la morte (244 pagine), e destinato a cambiare la vita di Susan, altre 247 pagine. Anthony Horowitz è come uno di quei copisti di talento, il cui genio talvolta supera l’originale imitato. Del resto, a parte la fortunata serie di Alex Rider, lo scrittore e sceneggiatore è stato il felice prosecutore delle avventure di James Bond e delle inchieste di Sherlock Holmes. E adesso c’è l’omaggio ad Agatha Christie, la più grande di tutti. Nonché l’ennesima dimostrazione che non c’è posto migliore di un villaggio albionico, con i suoi manieri antichi e le villette e i giardini e i pub dove rappresentare il furore omicida dell’uomo.

 

 

“Il libro delle case”, visura catastale delle imperfezioni

Appena prendi in mano il romanzo, subito si affollano i ricordi delle case letterarie. Quelle che guardavi con il naso all’insù nelle visite guidate di scuola (a Ferrara, la parva domus dell’Ariosto “piccola, ma sufficiente, decorosa e comprata con denaro mio) o quella di Rossini in strada Maggiore a Bologna, di ciceroniana memoria (“Non è il padrone che deve inorgoglirsi della casa, ma la casa del padrone”). Iscrizioni che calzano benissimo, entrambe, a un viaggio dove l’Io narrante è il padrone di una casa che si chiama esistere.

Poi apri Il libro delle case – romanzo destrutturato, popolato di personaggi che hanno il nome della loro funzione – e t’imbatti in una citazione del più bello tra i titoli di Milan Kundera, La vita è altrove: “Le disse che lui stesso non aveva una casa, che la sua casa erano i suoi passi, nel suo andare, nei suoi viaggi. Che la sua casa era là dove apparivano orizzonti sconosciuti”. Ed è il perfetto ingresso in questo racconto – un eterno altrove di case che sono, necessariamente, transitorie – e il suo autore. Andrea Bajani – scrittore giramondo, tra i più talentuosi del nostro panorama – maneggia parole e sentimenti con una precisione spudorata e a tratti impietosa, come un giocoliere che ha sempre gli occhi sulla palla e non si cura degli applausi. Del consenso del lettore, ormai addomesticato da narrazioni benevole, quasi sempre bugiarde e a pelo d’acqua, non gli interessa affatto. L’autore cerca la verità e se, come dovrebbe essere, i romanzi si giudicano da quanto sono autentici, dobbiamo dire che Il libro delle case è la splendida visura catastale di un’anima inquieta, condannata alla sincerità.

Spiegare cosa sia questo romanzo-non romanzo è complicato ed è molto meglio attraversarlo che farselo raccontare. La narrazione procede per capitoli che si svolgono in case diverse e raccontano tutte un pezzo di storia, non in ordine cronologico. Ogni capitolo è il pezzo di una trama in cui fanno capolino anche pezzi della storia d’Italia (la casa del prigioniero, Aldo Moro). Incontriamo bagni, tinelli, materassi, divani e androni. Finestre, scrivanie, cassettiere: luoghi familiari e così facili da immaginare che – a portata di mano come sono nella realtà e nella fantasia, nei ricordi e nei sogni – ci fanno scoprire protagonisti che hanno contorni indefiniti e però restano solo apparentemente sconosciuti: Io, moglie, bambina, sorella, padre. Di nuovo cambio casa, ed è tutto scarnificato, tutto ridotto all’osso, tranne i luoghi e le relazioni tra persone che non si parlano mai (non ci sono dialoghi). Ma è “dalla conchiglia che si può capire il mollusco” (Hugo) e dunque gli ambienti in cui succedono le cose, in cui si consumano gli amori e gli addii, in cui si tradisce e si suda, si trema di fronte alla propria inadeguatezza o alla consapevolezza della fine, sono la cassa di risonanza di rapporti imperfetti, più spesso “speranze che ipotesi”. I segni sui mobili sono l’avvenire già avvenuto, la polvere dell’imperfezione, cioè del nostro tentativo di stare al mondo meglio che possiamo.

Chissà se lo Strega è ancora vivo? Se lo vincesse un romanzo scritto meravigliosamente, di un autore allergico ai salotti (compresi quelli dei giornali) e che non vuole insegnare a nessuno a mangiare la verdura, sarebbe una meravigliosa notizia. Per il premio e per la nostra letteratura.

 

“Il leader”, 10 episodi in presa diretta tra droga, faide, periferia e musica

Per Franck è un lavoro come tanti: filmare un rapper nel suo ambiente naturale per realizzare il video della sua ultima canzone. Tony però non è un rapper come gli altri. È il boss della droga della zona. E il regista si ritrova nel bel mezzo di una faida tra gang rivali. Il leader (Netflix) appartiene al genere found footage: gli eventi sono raccontati attraverso le immagini mosse e tremolanti riprese in tempo reale dalle telecamere del protagonista. In questo modo lo spettatore ha l’impressione di vivere gli avvenimenti in prima persona. Anche il formato è particolare: dieci episodi da dieci minuti circa l’uno, come un film da 100 minuti spezzettato in dieci puntate.

Siamo a Marsiglia, in un quartiere che somiglia a Scampia in Gomorra. Transenne all’ingresso, ragazzini che fanno i pali, chili di fumo e cocaina. Franck e il suo operatore Thomas vengono accolti da un gruppo di giovani armati e capiscono subito che non sarà un lavoro come gli altri. Il regista all’inizio ha paura, poi capisce che quel video potrebbe permettergli finalmente di svoltare. Capisce anche che Tony, il duro che picchia i suoi scagnozzi ma rimane in silenzio quando la sorella lo sgrida, è un personaggio più tormentato di quanto non voglia far apparire. Da quando l’ha contattato una casa discografica non si sente più a suo agio nel ruolo di boss della droga. Per la prima volta nella sua vita si è accorto che esiste un’alternativa ma sa bene che cambiare vita non sarà semplice. Soprattutto ora che Steve, il capo di una gang rivale, minaccia di travolgere gli equilibri del quartiere.

Il leader, titolo originale Caïd, è una serie francese di Nicolás López e Ange Basterga tratta da un omonimo film del 2017. È molto immersiva e non perde mai la sua energia iniziale: chi inizierà a guardarla difficilmente la mollerà. Il problema, semmai, è la coerenza con la scelta di assumere il punto di vista di Franck e Thomas. Durante l’escalation di violenza delle ultime due mini-puntate diventa davvero difficile credere che le telecamere abbiano potuto filmare tutto quello che si vede.

 

“Quiz”, il colpo di tosse da truffa milionaria

Se non avete mai sentito parlare del “cough scandal”, lo scandalo della tosse, c’è una ragione ben precisa: è avvenuto a cavallo dell’11 settembre 2001 e in quel periodo giornali e televisioni avevano altro di cui occuparsi. D’altra parte sapete certamente che cos’è Chi vuol essere milionario?, un programma televisivo che per anni ha impazzato in tutto il mondo, Italia compresa, e che tra le altre cose ha ispirato il film The Millionaire vincitore di ben otto premi Oscar. Ora una miniserie in tre episodi intitolata Quiz, disponibile su Timvision dal 16 marzo, ricostruisce la fortunata storia del programma e il più famoso scandalo che lo riguarda: quello che ha come protagonista Charles Ingram, che nel 2001 vinse un milione di sterline e poi fu accusato insieme alla moglie di aver barato.

A dispetto dei nomi che fanno subito venire in mente la Royal family, Charles e Diana Ingram sono due perfetti rappresentanti della middle class. Lui è un maggiore dell’esercito britannico, lei si occupa delle tre figlie e condivide con il padre e il fratello Adrian la passione molto british per i quiz pub, i quiz a squadre organizzati al bar con i concorrenti che misurano la loro cultura generale davanti a una pinta di birra. Quando la Itv comincia a mandare in onda Who wants to be a millionaire?, versione televisiva del quiz pub, senza birre ma con tanti soldi in palio, per i due fratelli partecipare diventa una questione di vita o di morte. Tanto da elaborare un complesso sistema per aumentare le possibilità di accomodarsi sulla mitica sedia del programma.

Prima Adrian e poi Diana ci riescono, ma non superano quota 32 mila sterline. L’ultima possibilità è Charles, che per i quiz non ha mai mostrato particolare interesse né talento ma che per far piacere alla moglie decide comunque di mettersi in gioco. L’inizio è stentato, la tattica incomprensibile, eppure il maggiore Ingram arriva fino in fondo: un milione di sterline! Sembra la storia di un successo inaspettato finché qualcuno, all’interno della rete televisiva, si accorge che le risposte di Charles sono arrivate dopo strani colpi di tosse. Il premio viene congelato, i coniugi Ingram finiscono a processo insieme a un altro concorrente. Come finirà? Per scoprirlo dovete guardare le tre puntate della miniserie oppure digitare su Google “cough scandal” (durante la messa in onda di Quiz nel Regno Unito il profilo Wikipedia di Charles Ingram è stato uno dei più letti in assoluto).

Creata da James Graham e girata da Stephen Frears, il regista di The Queen e di A Very English Scandal, Quiz è tratta da uno spettacolo teatrale e dal teatro riprende la struttura in tre atti. Primo episodio: le origini di Who wants to be a millionaire?, la passione di Diana Ingram e di suo fratello Adrian per i quiz, il successo del programma e il sottobosco di giocatori professionisti che gli cresce intorno. Secondo episodio: l’incredibile cavalcata di Charles, che in maniera apparentemente causale inanella una risposta giusta dopo l’altra. Terzo episodio: il processo che deve stabilire se gli Ingram hanno barato oppure no. Fino alla fine la serie riesce a tenere lo spettatore in bilico, indeciso se schierarsi dalla parte dei colpevolisti o se invece credere alla versione degli Ingram.

Il protagonista di Quiz è Matthew Macfayden, già visto in Succession e qui nella parte del maggiore Charles Ingram. La moglie Diana ha il volto di Sian Clifford, attrice teatrale conosciuta soprattutto per Fleabag (è la sorella bacchettona di Fleabag). Nel cast compare anche il gallese Michael Sheen, visto di recente in Good Omens, che aveva già lavorato con Stephen Frears in The Queen: interpreta Chris Tarrant, il celebre conduttore della versione britannica di Chi vuol essere milionario?. Nella parte dell’avvocato difensore degli Ingram c’è invece Helen McCrory, pure lei in The Queen oltre che nella saga di Harry Potter e nella celebratissima serie tv Peaky Blinders (è la zia Polly).

 

Con Bellucci e De Luigi, la Befana viene ancora di notte

Sono iniziate le riprese di La Befana vien di notte 2 – Le origini, un fantasy prodotto da Lucky Red con Rai Cinema in collaborazione con Sky, diretto da Paola Randi e sceneggiato da Nicola Guaglianone e Menotti annunciato come un “prequel” della commedia di successo di un paio di anni fa. Interpretato da Fabio De Luigi, Monica Bellucci, Alessandro Haber, Herbert Ballerina e Corrado Guzzanti e ambientato nel 18esimo secolo, vede in scena una ragazzina di strada truffaldina, Paola (la giovanissima influencer Zoe Massenti) che si trova a intralciare i piani del terribile Barone De Michelis (De Luigi), un omuncolo con una sconfinata sete di potere e uno smisurato odio verso le streghe. L’intervento della dolce e potentissima Dolores, una strega buona che dedica la sua vita ai bambini (Bellucci) salverà Paola da un rogo già acceso e tra apprendistati magici, incredibili trasformazioni e tanti guai, il destino avrà in serbo per lei qualcosa di davvero speciale.

Un’ulteriore produzione targata Lucky Red e Rai Cinema sul set è La donna per me, una commedia di Marco Martani in cui recitano Andrea Arcangeli, Alessandra Mastronardi, Stefano Fresi, Cristiano Caccamo, Eduardo Scarpetta e Francesco Gabbani. Alla vigilia delle nozze con la sua compagna Laura, il trentenne Andrea è preda di troppi dubbi e si risveglia ogni mattina nei panni di un se stesso diverso, scoprendo le tante declinazioni che la sua vita avrebbe potuto prendere. Si accorgerà presto però anche della mancanza di Laura e cercherà di rompere l’incantesimo.

Dopo I peggiori e Gli uomini d’oro , Vincenzo Alfieri girerà il suo terzo lungomentraggio per la IIF dal titolo Il confine, un noir ambientato in Maremma ispirato al libro omonimo di Giorgio Glaviano che avrà come protagonista Edoardo Pesce.