Il “Confine incerto” dentro la tragedia pedopornografica

Muro contro muro? No, una crepa nel muro. Un confine incerto. Ci vuole sensibilità e sprezzo del pericolo per fare un film programmaticamente ambiguo su un tema (ultra)sensibile. In quella crepa Isabella Sandri infila la macchina da presa, per inquadrare con liminare irresolutezza un’aberrazione: la pedopornografia. Lo fa fotografando il luogo e insieme il tempo del delitto, il più atroce, “uccidere la tenerezza che l’essere umano ha dentro: il bambino”.

Classe 1957, in carnet, tra gli altri, Maquilas del 2004 e Per questi stretti morire (Cartografia di una passione) del 2010 co-diretti con Giuseppe Gaudino, qui produttore, Sandri ha dimestichezza con i più piccoli, “dai profughi palestinesi in Libano agli orfani delle bombe intelligenti in Afghanistan, dai figli dei lavoratori delle maquilas messicane, alle bambine sopravvissute alle stragi in Ruanda, o ai piccoli indios sterminati dall’arrivo dei bianchi nella Terra del Fuoco e in Patagonia”, ma qui accorcia le distanze e ci guarda in casa, sia con la vittima che con il carnefice. Interpretato da Cosmina Stratan, Moisè Curia, Valeria Golino, Salvatore Cantalupo e la debuttante Anna Malfatti, accoglie in un camper parcheggiato nella Foresta Nera una strana coppia: il ragazzo Richi (Curia, perfetto) e la bambina “Sputo” (Malfatti). Le domande non sono peregrine, bensì pericolose: che ci fanno lì, che rapporto li lega, che sono quei video che fanno? Questioni penalmente rilevanti, che rimbalzano a Roma dove l’agente della Polizia Postale Milia Demez (la romena Stratan, Palma d’oro a Cannes per Oltre le colline di Cristian Mungiu) indaga su una rete di pedofili: che c’azzeccano Richi e “Sputo”? Milia rintraccia in un filmato la piccola Magdalena Senoner, scomparsa in Sud Tirolo, e la sua conoscenza del ladino si rivelerà cruciale: il cerchio si stringe, ma il collo nel cappio di chi è? Se il peccato sta nell’occhio di chi guarda, qual è il confine tra relazione e prodotto, vita e video, sentimento e pornografia? La trattazione di Sandri è consapevole, non stolida, decisa, però plurale: lontana dall’agenda del politicamente corretto, la sua camera ha la posizione morale dell’ascolto, e della comprensione.

Il racconto, elementare ma non sciatto, assiste la storia, senza menomarsi: non è un tema, la pedopornografia, bensì un film, e le ellissi, i fuoricampo, l’evocazione di Sandri ne sono parte integrante, e fondamentale. Il passo a due di Richi e “Sputo” è portato sull’orlo dell’abisso evitando l’enfasi, per sottrazione: ci sovverte, ci chiama fuori, consegnandoci nel mentre immagini destinate a rimanere, come gli orchi che indossano a mo’ di passamontagna delle magliettine di bambino. Più scontate, pastorizzate e affabulatorie, diremmo “italiane”, le dinamiche poliziesche sull’asse Stratan (disconnessa oltre copione), Golino e Cantalupo, ma rimane il respiro europeo, la serietà poetica, il coraggio umanistico: lo trovate online su #iorestoinsala con Cineteca di Bologna.

 

“Caro compagno Pertini, aiutami a pubblicare”

Pubblichiamo stralci di “Lettere e biglietti” di Goliarda Sapienza, in libreria con La nave di Teseo.

Caro Sandro (Pertini, ndr), non avrei mai voluto rubarti del tempo prezioso ma mi trovo, purtroppo, in una situazione che non temo di definire angosciosa, e che mi spinge con vera ritrosia, credimi, a rivolgermi a te. Se non fosse per la forza della mia causa che so giusta quanto quella della tua vita, avrei di molto preferito non chiederti mai niente. Avrei preferito poter pensare soltanto alla gioia immensa che mi dà saperti il nostro compagno presidente che difende la libertà di tutti gli italiani, e basta.

Tu sai che ho pubblicato due libri con Garzanti, che hanno avuto un lusinghiero successo di critica. Quei due libri sono il risultato migliore dell’educazione socialista che ho ricevuto da mio padre, Giuseppe Sapienza, e da mia madre, Maria Giudice. Da artista serio, non in cerca di facili successi, quale ho l’orgoglio di essere, mi sono dedicata per dieci anni alla stesura di un romanzo che racchiudesse la nostra ragione di vita… Ho combattuto contro i più penosi bisogni economici pur di portare a termine quest’opera che vuole essere un vero romanzo popolare delle nostre idee che tanto ci hanno sorretto durante tutto il fascismo. L’arte della gioia è il titolo del mio libro: la gioia laica della lotta della protagonista contro tutti i fascismi che impediscono la sua crescita e la sua libertà. È un romanzo storico, anche nel senso che vi è rappresentata la vita di una famiglia antifascista profondamente impegnata nella storia. Il manoscritto è a tua disposizione, anche se non ti chiedo di leggerlo perché so quanto poco tempo hai.

Da due anni cerco di pubblicare questo mio lavoro, ma da tutte le parti mi viene detto che l’editoria è cambiata, che ormai si pubblicano solo libri che devono essere un sicuro successo di cassetta, scritti solo dietro richiesta dell’editore e dopo indagini di mercato: una nuova specie di fascismo culturale contro il quale mi trovo a lottare con poche forze… Presto il libro verrà confezionato come un qualsiasi prodotto dell’industria, in un laboratorio diretto da una squadra di tecnici abili solo nell’accontentare il gusto corrente, che consente grandi e facili guadagni. Io mi ero rassegnata a non lottare più, ad accettare che la mia opera venisse pubblicata – forse – soltanto dopo la mia morte. Ma tutti mi esortano a denunciare a te questo malcostume che lentamente ma inesorabilmente sta distruggendo le nostre lettere. E sono uomini di grande autorità e cultura, i quali mi sostengono e mi hanno consigliato di rivolgermi a te dopo che anche loro si sono visti rifiutare il mio libro. Parlo del poeta Attilio Bertolucci, del critico e scrittore Enzo Siciliano, della scrittrice Adele Cambria… Il mio romanzo è troppo artistico e profondo per consentire i guadagni che oggi una casa editrice deve pretendere. Per tutto questo, e per le gravi ristrettezze economiche in cui verso a causa della crisi del cinema, e che rasentano la miseria, ti chiedo, con vero dolore un tuo intervento risolutivo di cui porterò il ricordo per sempre… Sandro, credimi, non avrei mai voluto chiederti questo. Speravo e mi auguravo che non ce ne sarebbe mai stato bisogno…

Enzo caro (Siciliano, ndr), ti ho pensato spesso, ma non ho avuto il coraggio di scriverti. Decisamente ci sono molte cose (in me) nel nostro rapporto che non funzionano. Eppure tengo a te così tanto che a volte me ne meraviglio. I tanti fratelli che ho avuto e che ho amato così profondamente da lasciare in me (in ogni nuovo incontro maschile) come una fame insaziata? Certo l’amore è così: solo se l’hai conosciuto lo ricerchi. Le tante perdite che in questi anni ho subito per mano di natura o per incomprensioni?… Certo è che se ti telefono mi assale come il timore di aver lasciato andare alla deriva qualcosa di prezioso. Probabilmente tutto dipende solo da differenza di carattere e dal modo nel quale il nostro rapporto è nato. Il tuo venirmi incontro, allora, mi si è configurato, o meglio, ha strutturato in me la tua immagine in qualcuno che sa e che può dare delle risposte. Anche perché tu per me rappresenti la libertà poetica in un contesto troppo ideologicamente oppressivo… Dette tutte queste cose serissime (appunto) spero tanto di vederti.

Piera cara (Degli Esposti, ndr), non sai la gioia che mi ha dato vederti ieri sera ridere e giocare nel vostro modo ironico e infantile che sempre mi stupisce e incanta. Se la spinta a scrivere nel dolore è necessaria, questo desiderio di comunicarti la mia commozione e felicità nel rivedere le tue guance che hanno ripreso l’ondulato pieno della giovinezza è ancora più necessaria in me… Sono felice Piera e spero che il vederti, col tempo, mi aiuti a uscire da questa durezza e chiusura verso gli altri che s’è impossessata di me. Mi aiuterai? Credo di sì. Ti voglio bene e sempre voglio vederti nella nostra “cucina” a mangiucchiare…

©Archivio Sapienza-Pellegrino

Il rapper Sasy e il video sexy che fa arrabbiare gli ayatollah

In Iran, dove la musica pop è simbolo della “decadenza occidentale”, è finito nel mirino della giustizia l’ultimo video del cantante rap Sasy, giudicato immorale. In “Teheran Tokyo”, che ha avuto 18 milioni di visualizzazioni, si vedono tavoli da gioco e ballerine in kimono. Entra poi in scena Alexis Texas, pornostar americana, capelli biondi liberi e sensuali, abiti-guaina. Niente che nei paesi occidentali farebbe scandalo. Ma in Iran le donne hanno l’obbligo di indossare il velo e non possono né cantare né ballare in pubblico. I media iraniani hanno confermato diversi arresti, tra cui i fratelli Mohsen e Behrouz Manouchehri, accusati di aver prodotto una musica “anti-culturale”. Come ha reso noto il manager di Sasy, Farshid Rafe Rafahi, della EMH Productions con sede a Los Angeles, la polizia ha fatto irruzione nel loro studio di Shiraz. Un’inchiesta è stata aperta anche sulla app Rubika, che aveva pubblicato una anteprima dal 2 marzo. Contro Sasy, che vive negli Stati Uniti, Teheran farà appello alle istanze internazionali. Decine di giovani hanno postato balletti girati al ritmo di “Téheran Tokyo”. Non è noto se ci siano stati arresti tra gli internauti. Nel 2014 alcuni ragazzi furono arrestati per aver ballato sulle note di “Happy” di Pharrell Williams. Sasan Heidari Yafteh, alias Sasy, 31 anni, è diventato una star in Iran negli ambienti della musica underground, prima di auto esiliarsi negli Usa nel 2009. Non è la prima volta che la sua musica fa scalpore in Iran anche se le sue canzoni non sono autorizzate. You Tube, Whatsapp o Facebook sono vietati, ma i giovani aggirano la censura.

Cuomo all’angolo: “Io non lascio”

Un anno fa, c’era chi lo invocava come il ‘salvatore’ dei democratici allo sbando, l’unico sulla carta capace di tenere testa a Donald Trump. Adesso, tutti, o quasi, gli chiedono di andarsene: il sindaco di New York, Bill DeBlasio, che non lo ha mai amato, i parlamentari dello Stato e i deputati e senatori newyorchesi al Congresso federale. Andrew Cuomo è sull’orlo dell’impeachment: l’alternativa sono le dimissioni. Lui bolla le accuse come infondate e rifiuta l’idea di farsi da parte. “Non mi dimetto, non ho fatto ciò di cui mi accusano. Punto. Spesso dietro le denunce ci sono altre motivazioni”.

A metterlo nell’angolo, i numeri truccati sulle morti da coronavirus nelle case di riposo dello Stato e uno stillicidio di accuse di molestie. Finora, sono sei le donne uscite allo scoperto per denunciare abusi o comportamenti inappropriati del governatore democratico. La Procura di New York ha già avviato un’indagine indipendente. Negli anni Ottanta, il padre di Andrew, Mario, anch’egli governatore dello Stato, tenne nel cassetto le ambizioni presidenziali, temendo forse chiacchiere su collusioni mafiose – stereotipo inevitabile, se sei un italo-americano a New York –; adesso, il figlio paga asserite intemperanze sessuali, oltre che i modi spicci di trattare collaboratori e interlocutori.

“Il governatore Cuomo ha perso la fiducia della gente dello Stato di New York”, dicono all’unisono i deputati Jerrold Nadler, presidente della Commissione Giustizia, uno che di impeachment se ne intende, avendo istruito i due di Trump andati a vuoto, e la deputata Alexandria Ocasio-Cortez, icona della sinistra democratica, insieme al neo-eletto Jamaal Bowman. Il Parlamento dello Stato, a maggioranza democratica, avvia un procedimento di impeachment contro il governatore, affidando alla Commissione Giustizia il compito di indagare sulle accuse. Se l’iter andrà avanti, sarà la prima volta in oltre un secolo che un governatore di New York finisce sotto impeachment. Lo speaker dell’Assemblea, Carl E. Heastie, democratico, giudica “gravi” le notizie delle accuse; e 59 esponenti democratici del Parlamento statale, circa il 40% del totale, sollecitano, con una nota, a Cuomo le dimissioni immediate.

La vicenda agita i democratici a Washington. Cuomo è personaggio di alto profilo ed era pure finito nella ‘short list’ dei possibili segretari alla Giustizia di Joe Biden. Ora, il presidente avalla l’indagine sulle accuse. Quando lo scandalo sul numero delle morti nelle case di riposo sottostimato pareva placarsi, è arrivata la raffica di denunce da parte di donne molestate: il governatore s’è così ritrovato declassato da paladino della lotta alla pandemia a predatore sessuale.

La retata dei giornalisti che “fomentano disordini”

La realtà e la finzione. Il sangue della popolazione che muore resistendo e le accuse create a tavolino di procedimenti fantoccio da un governo illegittimo. Nel mirino civili, attivisti, ora anche i giornalisti: come Thein Zaw, 32anni, fotografo di Associated Press, uno dei nove cronisti in carcere dal 27 febbraio per aver documentato le violenze del regime. Ieri la sua detenzione preventiva è stata estesa, senza possibilità di cauzione, almeno fino alla prossima udienza, il 24 marzo. Quando è stato immobilizzato e arrestato stava fotografando una carica della polizia contro i manifestanti a Yangon: è accusato di violazione di ordine pubblico, rischia tre anni.

Secondo l’Assistance Association for Political Prisoners sono 38 i giornalisti arrestati dal giorno del golpe, 19 ancora in prigione. Subiscono procedimenti fantoccio, come quello in corso alla leader de facto Aung San Suu Kyi, 75 anni, al Presidente deposto U Win Myint, entrambi in arresto dal giorno del golpe, il 1 febbraio scorso, a una serie di ex ministri della National League for Democracy, il partito uscito trionfatore dalle ultime elezioni che hanno ridimensionato il potere dei militari, scatenandone la reazione. Le accuse vanno dalla detenzione illegale di walkie-talkie all’istigazione di violenze alla corruzione; reati puntiti con 15-20 anni di carcere. L’obiettivo di una condanna scontata, oltre alla detenzione, è l’ineleggibilità alle nuove elezioni, promesse dal regime in data non specificata. Fuori, la rivolta non si ferma: la repressione è feroce ma visibile al mondo, grazie al flusso continuo di immagini sui social, che aggirano i tentativi di censura governativa.

È seguendo hashtag in inglese come #WhatsHappeningInMyanmar che il mondo finora ha potuto assistere quasi in tempo reale alla violenza del regime: pestaggi, esecuzioni di civili disarmati, arresti indiscriminati, perquisizioni brutali: e, dall’altra parte, grandi manifestazioni di protesta, barricate improvvisate, gesti di dissenso e dignità, sberleffi, come la distribuzione sul terreno di fotografie di Min Aung Hlaing, ex capo delle Forze Armate diventato dittatore, davanti ai soldati che per avanzare dovrebbero calpestarne l’immagine. E poi le figure iconiche. La prima vittima, la ventenne Mya Thwet Thwet Khaing colpita con un proiettile alla testa mentre manifestava e morta il 20 febbraio in ospedale. Angel, 19 anni, la ragazza ritratta fra le barricate improvvisate di Mandalay in jeans e maglietta “andrà tutto bene”, caduta anche lei poco dopo.

O Ann Rose Nu Tawng, la suora che a Myitkyina ha sfidato i soldati inginocchiandosi, chiedendo pietà per i manifestanti, proponendo loro uno scambio, prendete me ma risparmiate i bambini. Una resistenza che fa breccia in tutti i settori della società: sono decine i poliziotti che rifiutano di partecipare alla repressione e piuttosto fuggono con le loro famiglie in India. A girare e pubblicare queste immagini è una popolazione giovane, cresciuta con gli smartphone in mano e con una idea di libertà inconciliabile con il ritorno di un regime che ha oppresso Myanmar per i decenni precedenti la transizione democratica e la fine della censura di stato, nel 2012. Se i loro genitori mirano, con scioperi a oltranza, a mettere in ginocchio l’economia del paese, i ragazzi birmani adottano metodi e tattiche mutuate dalle proteste degli attivisti pro democrazia di Hong Kong, Taiwan, Thailandia. Gettano i semi di una nuova classe dirigente, se ce la faranno a resistere e se la comunità internazionale non gli volterà le spalle.

 

Siria, la torta di Russia e Turchia

Intorno al tavolo dove ieri si decideva del futuro della Siria c’erano tre bandiere: quella della Turchia, della Russia e del Qatar. Nel deserto di Doha, dove si sono susseguiti i negoziati tra i tre Paesi, la grande è stata proprio Damasco. L’Iran resta dietro le spalle dell’orso russo. Per mettere fine al conflitto scoppiato nel 2011, che lunedì 15 marzo celebrerà il suo decimo, funesto anniversario, è iniziato “un processo negoziale triangolato, per far convergere gli sforzi verso una soluzione politica duratura in Siria”, uno Stato che deve “preservare la sua sovranità, indipendenza, unità e integrità territoriale”, ha detto il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu.

È stato l’omologo russo Serghey Lavrov a ribadire che “sono benvenuti i desideri del Qatar, volenteroso di contribuire alla tragica situazione”. Il Paese arabo si è impegnato a spedire aiuti umanitari verso ogni regione, ha promesso il ministero degli Esteri Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al Thani: “Necessario diminuire la sofferenza dei siriani”. La dichiarazione congiunta della troika di ministri include anche un allarme indirizzato a Nazioni Unite e Oms, Organizzazione Sanitaria mondiale: bisogna provvedere ad arginare la pandemia spedendo verso Homs, Latakia, Damasco e altre maggiori città siriane, dosi di vaccini contro il Covid-19, per alleviare il dolore di una terra dove non hanno smesso di deflagrare bombe. In questo contesto gli Stati Uniti mantengono la posizione di osservatori: Washington non ha intenzione di normalizzare i rapporti con la Siria guidata dal presidente Bashar al Assad, e non riconosce la legittimità del suo governo. “Assad non ha fatto assolutamente nulla per ripristinare la legittimità che ha perso a causa del trattamento brutale riservato alla sua stessa gente. È al centro delle sofferenze del popolo siriano, e non vi sono prospettive per gli Stati Uniti di normalizzare le relazioni nel breve termine”, ha dichiarato il portavoce del Dipartimento di Stato, Ned Price.

Parole di condanna che non fermano l’escalation sul campo, laggiù in Siria. Russia e Turchia rimangono pacifiche al tavolo per discutere della fine del conflitto davanti alle telecamere, ma sono su fronti opposti. Per favorire l’alleato Assad, piovono bombe di Mosca in territori dove si agitano milizie supportate, in maniera diretta o indiretta, da Doha e Ankara. Missili Tochka e Uragan sono partiti dalle navi russe nel Mediterraneo per cadere a Jarablus e Apello est: il bombardamento russo aveva l’obiettivo di radere al suolo le raffinerie di al Hamran, in un territorio dove ancora ha margine d’azione l’opposizione che condivide i luoghi con le formazioni di al Qaeda. Nel villaggio di Tarhin ci sono volute venti ore per domare un fuoco che fatto saltare in aria 20 camion colmi di greggio, causando miliardi di dollari di danni. Non tardando a denunciare l’uso di bombe a grappolo, vietate dalla comunità internazionale, la Coalizione nazionale siriana delle Forze d’opposizione ha bollato l’operazione russa come “puro terrorismo di Stato, dalla natura crudele”. La Sna, formazione militare supportata dalla Turchia, ha riferito che sono 20 le raffinerie andate distrutte e che “obiettivo dell’attacco era indebolire l’economia della regione”. Fuori uso anche ospedali, negozi di generi alimentari, e altre strutture di rifornimento di beni primari; né Damasco né Mosca hanno reclamato responsabilità. Del resto Assad per avere al suo fianco alleati forti ha rinunciato al controllo dell’85% della nazione; lo ricorda il Washington Institute che definisce la Siria nelle mani del “triumvirato di Astana” (Turchia, Russia e Iran). La Siria ha anche un altro dramma irrisolto, quello degli sfollati. Per il Consiglio rifugiati norvegese, dal 2011, quasi due milioni e mezzo di siriani ogni anno sono diventati profughi, dentro e fuori i confini del Paese.

Nella terra dove prima della guerra abitavano 23 milioni di persone oggi ce ne sono sei milioni in meno: fuggiti all’estero, forse non compiranno mai il tragitto di ritorno. La stessa cifra è quella degli sfollati interni, lontani da anni dalle loro case, seppure all’interno delle frontiere patrie. La cifra dei morti è incalcolabile ma si stima che mezzo milione di persone abbia perso la vita. Tra loro ci sono circa 12mila bambini, deceduti o rimasti feriti, secondo Unicef. È la stessa agenzia a riferire che almeno 750mila minori hanno abbandonato la scuola nell’ultimo decennio. Migliaia di siriani sono intrappolati in campi profughi sovraffollati in Grecia. Altri, più fortunati, hanno trovato rifugio in Europa del nord. Per molti l’unica, nuova patria a disposizione, è una tenda di plastica nella valle della Bekaa, poco lontana dal confine di Damasco. Da uno Stato che esplode a uno che implode: un milione di siriani rimane da anni in Libano, un Paese oggi in bancarotta. Un numero pari di bambini è nato in esilio: sono venuti alla luce lontano dalla terra dei loro genitori ed è molto difficile immaginare che un giorno, tra molti anni, potranno tornare a casa.

 

Le tante “unità” di un’Italia divisa

Dieci anni fa, in questi giorni, Torino era affollata di tricolori. Ci fu qualcuno che allora si prese la briga di contarli arrivando a circa 100 mila, disseminati sui balconi e alle finestre, in centro, prevalentemente, ma anche in periferia, quasi ad azzerare, per una volta, le differenze tra le “due città”. Si ricordava in quei giorni il 150° anniversario dell’Unità d’Italia e Torino era al centro del programma delle “celebrazioni”.

Nei padiglioni immensi delle OGR (Officine Grandi Riparazioni) si inaugurò una grande mostra (Fare gli italiani) che alla fine avrebbe fatto registrare più di 600 mila visitatori. Arrivò il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e i torinesi lo accolsero invadendo le strade e le piazze, rinnovando il rito comunitario delle “notti bianche” delle Olimpiadi invernali del 2006. C’era un incubo da scacciare e quei tricolori lo testimoniavano. Nel dibattito politico teneva banco la “disunità d’Italia”. Al Sud, erano forti le pulsioni neo borboniche sulla cui inconsistenza storica è intervenuto proprio in questo giorni un bel libro di Dino Messina (Italiani per forza. Le leggende contro l’Unità d’Italia che è ora di sfatare, Solferino, 2021). Ma erano soprattutto le spinte secessioniste del Nord, alimentate dalla Lega di Umberto Bossi, a rendere plausibile il rischio di “cessare di essere nazione”.

“Cosa ci guadagniamo a essere italiani?” era l’interrogativo ricorrente tra le file leghiste e proprio la proposta di “una cittadinanza bancomat” era l’aspetto più devastante di quelle posizioni: italiani lo si era solo per convenienza e per interesse; tutto il resto, “i valori”, erano anticaglie ottocentesche, reminiscenze risorgimentali che il mercato, i consumi, le condizioni materiali avevano reso anacronistiche, ridicole quasi.

Era la prima volta che le celebrazioni unitarie si inserivano in un contesto di questo tipo.

In occasione del cinquantenario, nel 1911, sempre a Torino, l’Esposizione Internazionale sull’industria e sul lavoro era stata l’orgogliosa ostentazione di una identità ritrovata: in quei padiglioni l’esperienza della nuova città industriale sorta dalle ceneri della vecchia Capitale sabauda apparve come un elemento che dava forza, vitalità e coesione al variegato intreccio economico e sociale della Torino di allora. La scelta della sede fu carica di significati simbolici: nell’area del parco del Valentino, dedicata ai riti del nascente tempo libero, era già scoccato l’ora scandita dal tempo della produzione ed erano sorti gli stabilimenti industriali, automobilistici, che avrebbero segnato la dimensione novecentesca dell’esistenza collettiva cittadina. Quanto al passato messo in scena, l’intero processo che aveva portato alla costruzione dello Stato unitario fu letto in chiave dinastica e attraverso i Savoia si celebrò una nazione giovane ma già saldamente proiettata vero un “destino” di grande potenza, in grado di partecipare alla “spartizione del mondo” coloniale, fiera di un “decollo” che l’aveva proiettata, come protagonista, negli scenari inediti dischiusi dalla Seconda rivoluzione industriale.

Nel 1961, poi, in occasione del “centenario”, ancora Torino si propose come capitale delle celebrazioni, specchiandosi compiaciuta in un Paese trasformatosi completamente nei dieci, tumultuosi anni del boom economico. La grande mostra di Italia ’61 fu meta di un vero pellegrinaggio di gente venuta da ogni parte d’Italia, in uno slancio di autoesaltazione in cui aveva uno spazio notevole anche il ricordo degli sforzi e dei sacrifici sopportati dal Nord e dal Sud nella lunga vicenda che aveva portato all’unificazione nazionale. Si allestì uno spettacolo di ricchezza e di opulenza che celebrava contemporaneamente sia l’Italia protagonista del miracolo economico sia la Torino capitale dell’auto. E al passato si guardò proponendo una storia lineare e pacificata del processo risorgimentale, costruendo un piccolo pantheon dei padri della patria (Vittorio Emanuele II, Cavour, Mazzini, Garibaldi) in cui uomini e idee dislocati su fronti irriducibilmente contrapposti vennero riproposti in una sintesi forzatamente unitaria. Per la prima volta poi, lo spazio riservato alle singole Regioni proponeva un’attenzione alle istanze di potere locale (politiche ed economiche) del tutto assente nella visione centralizzata e “monarchica” del 1911. Gli storici si interrogarono sul significato profondo dell’“unità” e sulla sua reale efficacia nell’avviare forme condivise di integrazione sociale e istituzionale; le classi dirigenti vi si confrontarono all’insegna di una esplicita opzione verso il modello di sviluppo industriale di cui si celebravano i fasti: Stato+industrializzazione sembrò allora la ricetta più ovvia per sanare le antiche piaghe dell’“arretratezza” del Sud e orientare la sfida per il futuro.

Nel 2011, l’“unità” celebrata fu quella raggiunta attraverso un progressivo processo di “inclusione”: senza nasconderle, il superamento delle varie fratture della nostra storia (Nord/Sud, città/campagna, laici/cattolici, borghesi/proletari, centro/periferia, etc..) venne presentato come un cammino irto di difficoltà ma mai ripiegato sul passato.

C’era anche il futuro in quelle celebrazioni del 2011. Così come c’era nel 1911 e nel 1961. E come non c’è oggi, quando la pandemia ci sta schiacciando su un presente carico di angoscia. Sembra davvero che sia cambiato tutto. La Lega di Salvini, dimentica di “Prima il nord”, si è scoperta italiana ed europea, con una serie di giravolte troppo brusche per non essere strumentali. E, quanto a Torino, i suoi balconi sono oggi deserti. Nel marzo del 2020, all’inizio del primo lockdown, su qualcuno erano stati issati cartelli con lo slogan “andrà tutto bene”; scomparvero in fretta. Alle elezioni comunali del 2016 le “due città” erano riemerse, irriducibilmente contrapposte: il centro votò per il Pd, le periferie premiarono i 5 Stelle. E da allora non si sono unite pur condividendo lo stesso smarrimento, la stessa afasia, la stessa incapacità di progettare il futuro.

 

San Gianni l’avvocato vergine e martire

Estratti dalle Vite di San Giovanni Agnelli l’Avvocato, vergine e martire pubblicate ieri a giornali unificati. Era “campione mondiale di stile” (Gazzetta dello Sport), portò “estro e fantasia al potere” (Il Tempo), aveva pure “l’unico cane al mondo amante dei profumi” (Il Giornale). Per farla breve “è stato il più grande industriale italiano, il capo riconosciuto di una delle maggiori famiglie imprenditoriali italiane, tra le poche ad aver attraversato due secoli di storia senza uscire di scena, e anzi conquistando, sotto la guida del nipote John Elkann, una dimensione mondiale”. Ce lo garantisce La Stampa, giornale che amava con una “passione che contagerà il nipote, John Elkann” (per la cronaca l’editore della Stampa è citato in questo pezzo anche una terza volta, sempre del tutto disinteressatamente). Ma com’era San Giovanni l’Avvocato? “Era un uomo del Rinascimento, aveva molti interessi e voleva sempre andare alla radice delle questioni”, ci informa su Repubblica Henry Kissinger, già ministro degli Esteri di Nixon con una passionaccia per instaurare dittature in mezzo mondo (come uomo del Rinascimento va riconosciuto ad Agnelli, se non altro, che magari li comprava, ma non faceva fare a pezzi i giornalisti come il suo successore saudita). E come padrone com’era? “Un interlocutore attento agli aspetti sociali, un uomo del dialogo”, dice sempre a Repubblica l’ex Uil Giorgio Benvenuto, forse ignorando che “sulla scrivania aveva una foto della polizia a cavallo che carica i dimostranti” (Corriere della Sera). Le sue innumerevoli qualità le aveva esercitate – ci assicura La Stampa – anche nei “vent’anni in cui, dopo la fine della guerra, si diverte, si svaga” in giro per il mondo – e chi non si svaga una ventina d’anni nella vita? – ma senza mai dimenticare le sue radici: “Da Torino, dalla città-fabbrica traeva la propria forza” (CorSera), un po’ come Rossella dalla rossa terra di Tara in Via col vento. Poteva mancare Draghi? “L’Avvocato lo conosceva bene” e ne “avrebbe salutato con soddisfazione l’approdo a Palazzo Chigi” (La Stampa). Col che, nel centenario della nascita, si conclude il passaggio dalla “fotocopia di un vero signore” (Fortebraccio) alla copia sbiancata a secco del vero Agnelli, San Giovanni l’Avvocato.

Mail box

 

Quante gag involontarie nei dibattiti parlamentari

I dibattiti parlamentari sono spesso involontariamente divertenti. Ci sono esemplari gag dei protagonisti. Francesco Paolo Sisto, neo sottosegretario alla Giustizia: “La giustizia deve ricercare la verità, non i colpevoli”. Loro li lasciamo liberi? E la Lega: dice che i Dpcm non sono più necessari perché non ci sono più né urgenza né emergenza. Poi però l’emergenza torna, per chiedere l’estensione dei vaccini a categorie sin qui non previste. Intanto qualcuno glielo fa sapere che i dati del contagio cambiano ogni 24 ore?

Melquiades

 

Governo, cosa sarebbe successo senza i 5S?

Pensando alla scelta del M5S di entrare nel governo Draghi, a oggi la considero una scelta responsabile, perché in qualche modo hanno cercato di non sacrificare quanto di buono era stato fatto dai governi Conte, tentando nel frattempo di creare con le altre forze di centrosinistra dei punti condivisi per la nascita di una coalizione che possa contrastare la destra alle future elezioni.

Flavio

Caro Flavio, se il M5S non fosse entrato, il governo Draghi verosimilmente non sarebbe neppure partito e il governo Conte avrebbe potuto essere rinviato alle Camere per ottenere la fiducia. E credo che, con la paura delle elezioni, l’avrebbe ottenuta anche al Senato.

M. Trav.

 

L’aumento dei poveri è colpa della politica

L’Istat ha accertato l’aumento di 1 milione di poveri assoluti. Finché i nostri politici continueranno a essere pagati o sponsorizzati dai ricchi, non faranno mai gli interessi dei poveri. Secondo il nuovo Vocabolario Draghi della bravissima Fornario, i soldi ai disoccupati sono solo “Debito Cattivo”.

Claudio Trevisan

 

McKinsey, poco credibile il contratto a 25mila euro

Ma davvero vogliamo credere alla favola del contratto da 25mila euro per McKinsey &C.? Durante la mia attività lavorativa, ho interagito con consulenti nel farmaceutico: per lavori non paragonabili a quello di McKinsey, con meno di 25mila neanche si sedevano. Per favore, non abbassate la guardia.

Ferruccio Agrimi

 

Il silenzio dei partiti al cospetto di Draghi

Tutto questo silenzio dei partiti sul modo di agire di Draghi è da intendersi come un atto di reverenziale rispetto? Perché a Conte l’hanno messo alla berlina un giorno sì e l’altro pure?

Flavio Caponata

 

Ancora un regalo ai furbi delle cartelle esattoriali

Un grazie a Draghi per l’ennesimo regalo fatto ai soliti furbetti delle cartelle esattoriali.

Lucbisa

 

Qualche consiglio per il nuovo Movimento

Alcuni consigli a Conte per riformare il M5S: cercare di essere il mezzo attraverso cui la società civile possa farsi sentire e risolvere i veri problemi delle persone. In caso di cambio nome, propongo “Unità Costituzionale”, così il partito potrà essere votato da chi si riconosce nei principi costituzionali.

Orlando Murray

 

Pd, va sciolto il nodo dei renziani rimasti

È tempo che l’Area Riformista del Pd trovi la giusta collocazione insieme a M.R.. Oppure, gli altri “pidini” lascino il partito per creare una nuova “cosa” assieme a 5S, LeU, Sardine e società civile. Così le categorie più deboli saranno finalmente rappresentate

Gabriele Canton

 

Un grazie a Esposito per il suo grande lavoro

Ho letto il vostro paginone sul successo giudiziario di Esposito contro i giornali di Berlusconi che lo hanno diffamato, sono felicissimo. Finalmente un grande fatto di giustizia! Ringrazio Esposito e tutti i magistrati come Davigo, Gratteri e Woodcock. Siamo in tanti a seguirli e sostenerli per il bene dell’Italia!

Franco Rinaldin

 

DIRITTO DI REPLICA

Non è vero quanto dichiarato dal sindacato in merito al mancato confronto: si sono svolti due incontri nel mese di gennaio. Riguardo quello svoltosi mercoledì con Assoespressi, ci teniamo a sottolineare che, per le consegne ai clienti, Amazon Logistics si avvale di fornitori terzi. Perciò riteniamo che i corretti interlocutori siano i fornitori di servizi di consegna, nonché le Associazioni di Categoria che li rappresentano.

Amazon Italia

Grazie per l’intervento. Nell’articolo si dava notizia degli incontri di gennaio, i quali però – come riferiscono i sindacati – pare non abbiano avuto seguito. I lavoratori delle imprese fornitrici di servizi di consegna, inoltre, chiedono che Amazon assuma un ruolo anche nella loro trattativa, affinché garantisca parità di trattamento in tutta la filiera.

Rob. Rot.

Il Covid e i vaccini. Non è il caso di precettare le case farmaceutiche?

Sono un’italiana residente a Londra e guardo con orrore a quello che sta succedendo in Italia e in Europa riguardo ai vaccini. Certamente l’Europa ha fatto dei contratti inadeguati con le industrie farmaceutiche (peraltro dopo aver sovvenzionato la ricerca). A questo punto è tempo che qualcuno si rimbocchi le maniche e si attivi per risolvere il problema. Mi pare impossibile che 27 Stati europei siano alla mercé di due case farmaceutiche. È possibile che in un momento (che dura un anno!) di emergenza nazionale non si possano precettare le aziende farmaceutiche e arginare un’epidemia con un numero di morti in ascesa e l’economia in ginocchio? Che altro deve succedere perché la classe politica prenda in mano la situazione con un’azione mirata e risolutiva a salvare la popolazione che a questo punto è: vaccinazione. Perché non si fanno queste domande sui giornali? Manca la volontà politica? Qualcuno ci guadagna? Mi sembra ora di andare a prendere almeno ciò che è già stato pagato.

Sandra Bufano

 

Gentile Signora, le questioni che pone sono di grande importanza e per fortuna vengono trattate quasi quotidianamente dal nostro e da altri giornali. Lei propone di “precettare” le aziende farmaceutiche, ma così credo che non si risolverebbe comunque il problema principale, cioè la disponibilità di vaccini nel mondo. Mi spiego meglio. In teoria, l’Italia potrebbe, tramite qualche forma di pressione (blocco delle esportazioni) o di incentivo (pagare di più), ottenere dalle aziende la consegna dei vaccini nei tempi stabiliti. In questo modo noi avremmo le “nostre” dosi, ma a discapito di qualche altra nazione. È lo stesso meccanismo per cui oggi in Israele o nel Regno Unito sono arrivati più vaccini che nell’Ue. Al netto del fatto che in Italia ci sono milioni di dosi inutilizzate e che quindi c’è evidentemente un problema di organizzazione, la scarsa disponibilità di vaccini può essere risolta solo aumentandone la produzione. Lei dice che la politica non sta prendendo in mano la situazione. Mi permetto di dissentire. Da ormai cinque mesi India, Sudafrica e molti altri Paesi poveri del mondo, generalmente quelli dove i vaccini arrivano con il contagocce, stanno proponendo presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio di sospendere temporaneamente i brevetti così da allargare la platea dei potenziali produttori. Regno Unito, Svizzera, Stati Uniti, Unione europea (quindi Italia inclusa) e tanti altri finora si sono opposti. Lo hanno fatto perché molte delle aziende proprietarie dei brevetti sono basate in quei Paesi? Non lo so, ma di certo opporsi alla liberalizzazione dei brevetti è una decisione politica.

Stefano Vergine