“Quanto al denaro pubblico, la Rai con il Festival ci guadagna, come testimoniano le continue interruzioni pubblicitarie”
(Aldo Cazzullo – Corriere della Sera, 5 marzo 2021 – pag. 33)
Bisogna riconoscere che la Rai ha fatto un grande sforzo, organizzativo e mediatico, per proporre ai telespettatori questo 71° Festival di Sanremo, offrendo agli italiani una parentesi di leggerezza e allegria in un periodo così cupo per tutti noi. E va dato atto ad Amadeus e a Fiorello, ai cantanti, agli orchestrali e ai tecnici, di essere riusciti a svolgere un compito particolarmente impegnativo in un teatro deserto con le poltrone vuote. Ma, al di là dello spettacolo e dell’audience, la questione è un’altra: una kermesse di questo genere, cinque serate per circa 25 ore di trasmissione, è un prodotto da servizio pubblico? È ancora il caso, cioè, di allestire un maxi-festival di tali dimensioni? Non potrebbero bastare magari tre serate con meno spese, meno compensi e meno spot pubblicitari?
Non c’era bisogno di scomodare l’acume e la penna di Aldo Cazzullo, citato nel distico qui sopra, per sapere che “la Rai con il Festival ci guadagna”. Ospite abituale di Amadeus nei Soliti ignoti per presentare i propri libri, il nostro collega non sembra preoccuparsi più di tanto di quelle che lui stesso chiama le “continue interruzioni pubblicitarie”. Ma il problema invece sta proprio qui. Vale a dire nel profluvio di spot che infarciscono le serate del Festival, a scapito dei telespettatori, dei giornali e di tutti gli altri media, per allestire un mega-show che ha sempre meno a che fare con una gara di musica e canzoni.
Coperti dal business secret (segreto aziendale) i compensi per il mattatore Fiorello, per il direttore artistico Amadeus e la sua gentile consorte Giovanna Civitillo ingaggiata per le anteprime, neppure i consiglieri di amministrazione sanno esattamente quanto spende e quanto incassa la Rai con le “continue interruzioni pubblicitarie”, le varie sponsorizzazioni, promozioni e telepromozioni. A quanto pare, rispetto all’edizione precedente, quest’anno il bilancio si chiude con un milione di euro in più per le casse dell’azienda, nonostante che nelle prime tre serate – secondo Il Sole 24 Ore – avesse registrato un -18% dei contatti pubblicitari. Trasmesso in eurovisione e seguito anche all’estero, il Festival rende però un’immagine distorta di un Paese che, oltre alle vittime dell’epidemia, piange miseria da Nord a Sud; invoca i vaccini che non arrivano; accusa un aumento drammatico della disoccupazione; accumula un debito pubblico spaventoso e aspetta i finanziamenti dell’Ue – in parte a fondo perduto e in parte a prestito – come la manna dal cielo.
Non è il caso di fare qui discorsi moralistici. Né tantomeno di disquisire sulle capacità dei conduttori, sulle performance canore, sulle scenografie o sulle coreografie, sugli ospiti o sui loro soliloqui. Si tratta piuttosto di rispondere a qualche domanda non retorica: vale proprio la pena fare il Festival in questo modo? Impegnare cinque lunghe serate sulla “rete ammiraglia” della televisione pubblica e su Radio2? E tutto ciò per imbottire le trasmissioni di spot, a favore di un’azienda che incassa già quasi 2 miliardi dal canone d’abbonamento, imposto per legge e addebitato direttamente nella bolletta elettrica?
Chi ha sostenuto da sempre la necessità che il canone fosse effettivamente obbligatorio, proprio per affrancare il servizio pubblico dalla sudditanza all’audience e alla pubblicità, non può che rammaricarsi. Sì, “Sanremo è Sanremo”. Ma così il Festival non è più il Festival.