5S, nuova piattaforma Grillo: “Ora niente tv”

La trattativa con l’avversario quasi di tutti, cioè con Davide Casaleggio, c’è ancora. “Ma è lenta” sussurra un 5Stelle di primo piano: un esercizio di stile, portato avanti più che altro per compiacere Beppe Grillo, l’ultimo rimasto a volere un accordo che tenga ancora dentro il figlio di Gianroberto, almeno come prestatore di servizi.

Ma già si fa largo il probabile futuro, già si parla di una nuova piattaforma web al posto di Rousseau. “È grossomodo pronta, bisogna solo aspettare che la situazione con Casaleggio si chiarisca definitivamente” spiegano un paio di grillini di peso. Ossia che si arrivi all’obiettivo della stragrande maggioranza dei 5Stelle, a un conguaglio economico per “liquidare” il manager milanese, e poi ognuno per la sua strada. Tanto che si sussurra anche di un nuovo conto dove depositare le restituzioni. Difficile ormai che possa succedere qualcosa d’altro. Non più, con la socia di Rousseau, Enrica Sabatini, che lo ripete da giorni: “Siamo pronti a offrire la piattaforma ad altre forze politiche”.

Sentirlo non deve aver fatto piacere al Garante, cioè a Grillo. Tanto preoccupato che è arrivato a chiedere ai suoi ciò che non chiedeva da tanti anni, ovvero di non andare in tv per due o tre giorni, “così evitiamo di dover rispondere su Rousseau e non facciamo polemiche, mentre dobbiamo occuparci di temi e della transizione ecologica”. Nel frattempo l’accordo tra Pd e M5S nel Lazio, con le grilline Roberta Lombardi e Valentina Corrado ufficialmente entrate nella giunta del dem Nicola Zingaretti, è stato approvato proprio dal Garante (e da Conte, debitamente consultato). Mentre gli iscritti voteranno sull’intesa “non appena possibile”. Quando, e soprattutto dove, non è ancora dato sapere. Ma la questione Rousseau va risolta, e in fretta. Lo ha detto dritto anche Giuseppe Conte in alcuni colloqui, nelle ultime ore: non prenderà le redini del Movimento, se prima non si sarà arrivati all’epilogo di una guerra che si trascina ormai da un anno. Nell’attesa, l’avvocato lavora al nuovo M5S. Con una struttura, ramificata anche sui territori. E con lui, il rifondatore, al vertice, certo. Ma non da solo. “Ho bisogno di alcune persone che mi affianchino per reggere, non voglio essere un capo che decide in solitudine” è il ragionamento dell’avvocato. Quindi un organo collegiale arriverà. Ma non con un voto sulla base di candidature.

A scegliere sarà comunque Conte, che vuole una segreteria non inzeppata di big. Un organo che dovrebbe essere ratificato dagli iscritti, nel quale, contrariamente ad alcune indiscrezioni, non è prevista la sindaca di Roma, Virginia Raggi. Ma molto va ancora chiarito. L’ex presidente del Consiglio ha confermato di volersi prendere altro tempo, forse fino alla fine del mese, per definire il suo progetto. Però la direzione politica quella resta, verso il centrosinistra. Enrico Letta politicamente va benissimo a Conte, anche per il suo essere un anti-renziano doc. E gode di simpatie diffuse dentro i 5Stelle. Pochi però sanno di un giudizio espresso su di lui dall’altro Casaleggio, Gianroberto, parecchi anni fa: “Letta è l’unica persona che stimo nel Pd”. Altri tempi.

“Zitti, fa tutto lui”: il metodo Draghi anche per Vezzali

A Mario Draghi decidere piace. Sa come si fa ed è abituato a farlo, ai massimi livelli. Parlare e discutere invece no: perlomeno non ora che siede a Palazzo Chigi. Di sicuro non con i giornalisti, perché ieri nella terza uscita pubblica in un mese da presidente del Consiglio ha evitato ancora di sottoporsi a domande. Ma l’economista è parco di sillabe anche con i ministri. A cui dice lo stretto necessario, e talvolta neanche quello. Per esempio non li aveva avvisati del benservito all’ex Commissario all’emergenza, Domenico Arcuri. E nulla ha anticipato neppure sulla nomina a sottosegretario allo Sport di Valentina Vezzali.

Della scelta, ufficializzata ieri in Consiglio dei ministri, era di certo all’oscuro il M5S che, dopo aver tenuto la delega con Vincenzo Spadafora durante il Conte II, aveva chiesto a Draghi almeno di essere coinvolto nella decisione. Magari sperando che la delega fosse assegnata al ministro delle Politiche giovanili, Fabiana Dadone. Ma neppure Matteo Salvini, dicono, ne era stato informato. Tanto che giovedì pomeriggio i suoi pretoriani in Senato si affannavano con i colleghi di maggioranza per chiedere conferme sulla nomina di Vezzali, che cominciava a circolare su agenzie e siti. “Sapevamo che c’era qualche nome in ballo ma non si è mai fatto quello di Vezzali” sussurra un leghista vicino al segretario. Fonti qualificate raccontano che della nomina della schermitrice – ex deputata di Scelta Civica – Draghi avesse parlato solo con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli, con Gianni Letta e con il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti. Anzi, sarebbe stato il leghista a fare il nome di Vezzali al premier. Un fatto che mette in luce un problema tutto interno alla Lega: il numero due del Carroccio che non avverte il segretario di una nomina rilevante.

Da giorni sulla delega allo Sport si stava consumando un duello proprio tra Letta-Malagò e Giorgetti, che da sottosegretario a Chigi del Conte I con la delega allo Sport aveva fatto approvare una riforma in cui era stato riorganizzato il Coni, con una divisione tra il Comitato Olimpico e Coni Servizi, poi sostituito da Sport e Salute. Il 32 per cento delle entrate fiscali derivate dallo sport, che lo Stato versa ogni anno al Coni, viene ora diviso tra Coni e Sport e Salute. Così, per avere il controllo sui soldi e sulla governance del movimento sportivo, Giorgetti e Malagò si sono fatti la guerra per far nominare un fedelissimo. Malagò avrebbe voluto la sua “delfina” Diana Bianchedi mentre Giorgetti puntava su Manuela Di Centa. Alla fine si è arrivati a un punto di caduta con Vezzali, senza esperienza in materia. Ergo, ora Giorgetti-Malagò si sfideranno anche per piazzare i propri uomini nel suo staff. Ma quella di ieri è solo l’ultima decisione su cui Draghi non ha coinvolto i partiti. Era già successo con le nomine di ministri e sottosegretari, e con la sostituzione di Angelo Borrelli con Fabrizio Curcio alla Protezione civile. E, ovviamente, con l’allontanamento di Arcuri.

Il giorno prima, mentre i giornali davano per certo il siluramento dell’ad di Invitalia, si erano mossi tre ministri di peso. Roberto Speranza, Dario Franceschini e Stefano Patuanelli avevano telefonato al premier, sostenendo che sarebbe stato pericoloso rimuovere in 24 ore il commissario straordinario. Se non altro, perché il suo ufficio avrebbe avuto grossi problemi ad andare avanti visto che molti funzionari erano stati portati da Invitalia. Draghi aveva fatto trapelare di non aver ancora deciso nulla. La mattina dopo ha convocato Arcuri per mezz’ora a Chigi prima di sostituirlo con il generale Francesco Paolo Figliuolo. “Del resto lui fa così” sussurra un ministro, che racconta: “Anche nell’ultimo vertice sull’emergenza Covid, mercoledì, Draghi ha dato la parola a Brusaferro del Cts e poi al ministro della Salute, Speranza. Poi ha fatto fare il classico giro di tavolo e ha concluso alla sua maniera: “Ok, grazie”. In sintesi, il metodo Draghi, già mostrato durante le consultazioni con i partiti. Volto impassibile, parole quasi zero. “Magari fa così perché è al debutto in politica” dissero dentro i Palazzi. Invece no, Draghi così ha iniziato. E così continua.

Il virus Mario contagia Letta: video di un minuto per dire sì

Un selfie al Ghetto, ricordando le parole di Liliana Segre “non siate indifferenti”: sullo sfondo del primo piano di Enrico Letta si vedono le sbarre. Evocano i campi di concentramento e anche l’antifascismo, ma provocano una sorta di corto circuito: la guida del Pd è di per sé pure una galera. Dopo il tweet, l’annuncio è rimandato al video messaggio.

Sarà pure un caso, ma sa tanto di stile draghiano: lunedì aveva scelto questo metodo il premier, in una delle sue prime comunicazioni alla nazione. Maglioncino grigio, colletto bianco e occhialetti, dietro una bandiera dell’Italia, Letta parla per 1 minuto e 20. Trasmette entusiasmo, ma senza enfasi. Anche qui, è lo spirito dei tempi. Dice l’essenziale. Parla di “amore per la politica”, “passione per i valori democratici”. E annuncia un intervento per l’assemblea Pd di domani. “Io credo nel valore della parola”, chiarisce. In qualche modo, echeggia il potere trasformativo del “Whatever it takes”, le parole di Draghi. Ringrazia Zingaretti. Poi, un passaggio psicologicamente centrale: “Non cerco l’unanimità, ma la verità”. Il Pd in particolare non ne è esattamente un emblema. All’unanimità probabilmente ci andrà vicino: ieri anche Base Riformista, la corrente di Luca Lotti e Lorenzo Guerini ha deciso per il sì. Dopodiché fa sapere che avvierà una sorta di consultazione dei circoli, della cosiddetta base, sul suo programma. È la ricerca della legittimazione, anche nel nome delle radici uliviste.

Che il suo schema sarà quello di un centrosinistra largo (da Conte a Calenda, magari includendo persino qualche fuoriuscito di Forza Italia), che il suo Pd andrà oltre quello di questi anni, magari richiamando gli scissionisti di Leu, che sosterrà il governo in maniera convinta pur se dialettica e che lavorerà per un’Europa più giusta e anche più compiuta, è a questo punto già chiaro. Ma mentre si aspetta l’incoronazione di domani, non si contano le reazioni di felicità da parte dei big dem. Inizia Dario Franceschini e poi parlano uno dopo l’altro. Paolo Gentiloni, Nicola Zingaretti, Roberto Gualtieri, Enzo Amendola. Ma anche Guerini, Francesco Boccia. In attesa dell’incoronazione, viene in mente per paradosso una doppia immagine. La prima è del 12 febbraio del 2014. Mentre tutti ormai lavoravano per il governo Renzi, si svolse una scena fuori sincrono: Letta che a Palazzo Chigi, nella Sala dei Galeoni, illustrava alla stampa, con tanto di cartelline, il suo programma, “Impegno Italia”.

La seconda è del giorno dopo, la direzione Pd, in cui, molti di quelli che ora lo salutano come il Salvatore della Patria votarono la sfiducia al suo governo. Certo è storia, ma una storia che può pesare sul volto del Pd a trazione lettiana, nei ruoli e nei rapporti. Così come gli anni passati a Parigi, a consolidare rapporti internazionali. “Nessuna rivincita”, ci ha tenuto a dire lui. Ma intanto nel Pd di fedelissimi in senso stretto non ce ne sono praticamente più. Lo erano Boccia, Paola De Micheli, Anna Ascani, che poi hanno seguito altre strade. Sono dentro Arel e la sua Scuola di politiche le persone a cui si è appoggiato in questi anni e alle quali continuerà ad appoggiarsi. Monica Nardi, sua portavoce da sempre, Marco Meloni, ex deputato dem, consigliere politico e direttore della Scuola. Tra le new entry, il 29enne cremonese Michele Bellini, ex allievo della School of International Affairs di Sciences-Po, suo assistente a Parigi. Per capire i legami con Draghi e con Sergio Mattarella, basta qualche nome: viene dalla Scuola di Politiche Alessandro Aresu, ora tra i consiglieri del premier. Ed è a lui vicino anche Roberto Garofoli, sottosegretario a Palazzo Chigi. Al Quirinale, c’è il suo amico Simone Guerrini, direttore della segreteria del Presidente. Un mondo di rapporti che magari entreranno in conflitto con le inestinguibili correnti del Pd.

Il cdm approva i congedi Covid al 50%: validi dal 1° gennaio

Scaduti lo scorso 31 dicembre, i congedi Covid per i genitori con figli under 14 in quarantena o alle prese con la didattica a distanza sono usciti dal dl Sostegni per entrare nel nuovo decreto Covid approvato ieri dal Consiglio dei ministri. Il governo ha così messo una pezza all’annosa questione che da tre mesi ha messo in ginocchio migliaia di famiglie che a causa dei numerosi passaggi in zona rossa si sono ritrovati con le scuole chiuse e i figli a casa senza poter contare sui congedi che garantiscono il 50% della retribuzione. Così, dopo innumerevoli pressioni, anche da parte delle Regioni, il governo ha deciso di rendere subito operativa la proposta avanzata dalla ministra della Famiglia, Elena Bonetti, che prevede l’accesso ai congedi parentali straordinari per tutti i genitori ai quali non è garantito il diritto allo smart working. Insomma, i nuovi congedi diventano immediatamente utilizzabili anche retroattivamente già da domani con la nuova stretta delle misure anti Covid che hanno portato mezza Italia in zona rossa con le scuole chiuse.Per le misure sono stati stanziati 290 milioni di euro che serviranno a riattivare i congedi parentali che saranno così retroattivi dal 1 gennaio 2021 e retribuiti al 50% sotto i 14 anni. Mentre chi ha figli dai 14 ai 16 anni potrà richiedere comunque il congedo, ma in questo caso non sarà retribuito. Tra marzo e agosto, l’Inps ha accolte oltre 310 mila richieste di congedo parentale con causale Covid per la grande maggioranza arrivate da donne. Per i lavoratori autonomi, gli operatori sanitari e le forze dell’ordine è stato invece reintrodotto il bonus baby sitter fino a 100 euro alla settimana. Una misura richiesta in passato da 772.010 genitori.

Ecco come la crisi ha colpito soprattutto le donne lavoratrici

Se qualcuno si è chiesto che stiano facendo le donne che hanno perso il posto per l’emergenza sanitaria, la risposta è nei dati diffusi ieri dall’Istat: le lavoratrici colpite dalla crisi Covid, in modo molto più violento degli uomini, hanno in gran parte rinunciato finanche a cercare un nuovo impiego. Per due ragioni: un po’ perché hanno poca fiducia nel riuscire a trovarlo, un po’ perché sono state costrette a occuparsi delle crescenti faccende familiari molto di più dei loro mariti e compagni. Per farla breve, mentre gli uomini sono quantomeno rimasti appesi alla speranza di ricollocarsi, le donne sono state del tutto espulse dal mercato del lavoro.

La popolazione femminile ha subìto quindi una doppia penalizzazione. Prima di tutto per i numeri: nel 2020, mentre il calo di occupazione tra gli uomini è di 207 mila unità, tra le donne ha raggiunto quota 249 mila. Considerando che i lavoratori sono oltre 13 milioni, mentre le lavoratrici non raggiungono i 10 milioni, l’incidenza di quella cifra è molto più alta per le donne. Come detto, c’è anche il secondo problema: le disparità emergono anche nelle conseguenze che la perdita di occupazione ha provocato, cioè nella condizione in cui sono sprofondate le persone messe alla porta dai propri datori.

La componente femminile sembra essere scivolata nella totale inattività con molta più frequenza rispetto a quella maschile, rimasta aggrappata alle cosiddette “forze di lavoro potenziali”; quelle che, pur non cercando attivamente, restano disponibili a lavorare. L’aumento di inattive è di 310 mila contro i 256 mila registrato tra gli uomini. È il caso di scendere ancora di più nei dettagli, per capire i motivi che hanno spinto tante donne a smettere di cercare un lavoro dopo aver perso il precedente. Prendiamo i dati del terzo trimestre 2020 e confrontiamoli con lo stesso periodo del 2019: la parte “scoraggiata”, che ha tirato i remi in barca poiché ritiene di non riuscire a trovare un nuovo lavoro, risulta aumentata dell’8,3% tra le donne – arrivando a coinvolgere 845 mila persone in totale – mentre la crescita è “solo” del 3,8% tra gli uomini (568 mila individui interessati).

Ancora più clamoroso è il divario che viene fuori se consideriamo la quota inattiva per motivi famigliari: tra le donne è salita del 3,3% arrivando a contare quasi 2,9 milioni; tra gli uomini c’è persino una discesa del 4,8%, e i coinvolti sono appena 131 mila. È la dimostrazione di come, soprattutto durante la pandemia, la distribuzione dei compiti domestici – pensiamo ai figli in didattica a distanza – sia ricaduta ancora sulle spalle delle donne. Quella sproporzione sedimentata nei decenni, in pratica, è stata pure aggravata.

La disuguaglianza della crisi deriva anche dal fatto che non tutti i settori sono stati colpiti allo stesso modo. Nell’ultimo trimestre 2020, l’alloggio e la ristorazione – con alta densità femminile – ha perso un ulteriore 1,9% delle posizioni lavorative; l’industria dell’intrattenimento ha ceduto un altro 5,9%. La manifattura ha invece retto meglio, mentre la logistica ha recuperato l’1,4% negli ultimi tre mesi e questo spiega come gli uomini siano riusciti a più facilmente a “salvarsi”. C’è poi da tenere presenti le tipologie di contratto. Con il blocco dei licenziamenti economici che offre l’ombrello ai dipendenti a tempo indeterminato, sono i precari a pagare il conto. I lavoratori a termine persi nel quarto trimestre 2020 rispetto al 2019 sono 383 mila; 209 mila a tempo pieno e 174 mila part time. Anche tra i cosiddetti “permanenti”, però c’è comunque un calo (-45 mila) dei part time. Anche qui, si tratta generalmente di chi lavora nei servizi, con una significativa quota femminile.

In generale nell’ultimo trimestre dell’anno, che ricorderemo per il Natale in lockdown, è paradossalmente aumentato di 54 mila il numero di occupati, ma le ore lavorate sono scese dell’1,5%: ogni mille ore lavorate, abbiamo avuto 92,5 ore di cassa integrazione, che diventano 114,9 nei servizi di mercato (commercio, trasporti, turismo, finanza e assicurazioni, immobiliare e servizi alle imprese).

“Ormai aspettiamo le briciole, nessuno vuole più ascoltarci”

“Sono passati quasi quattro mesi da quando ci hanno promesso i nuovi ristori. Prima abbiamo aspettato pazientemente la fine della crisi di governo e ora, da un mese, siamo in attesa degli annunci del nuovo esecutivo che continua a far slittare l’approvazione del decreto. Che succederà domani quando chiuderemo tutti?”. Pasquale Rufio, proprietario dell’hotel di famiglia nel Pesarese, racconta bene il dramma che il suo settore, l’hotellerie, vive in queste ore: per loro è tornato l’incubo di un anno fa. Tra 24 ore nella maggioranza delle Regioni scatteranno le chiusure forzata di quasi tutte le attività che, a fatica, negli ultimi mesi hanno cercato di riprendersi. “Se non ci danno subito i ristori, un’impresa su quattro rischia di chiudere”, spiega Tommaso Fiorgini, ristoratore milanese di Quarto Oggiaro. Che aggiunge: “A nessuno sembra più importare della crisi che vivono milioni di famiglie. Noi stiamo qui ad aspettare le briciole dei ristori. Ma se fino a dicembre avevamo almeno una cassa di risonanza in tv e sui giornali, da settimane sembra che abbiamo perso appeal”.

Eppure la crisi è profonda. Secondo l’Istat, nel 2020 solo nel settore della ristorazione sono andati persi 250mila posti di lavoro. Numeri al ribasso viziati dal blocco dei licenziamenti. E chi continua a resistere vede comunque nero: “Con il nuovo calcolo dei ristori è stata abbassata la base imponibile di calcolo allargando così la platea. In altre parole si daranno meno soldi ma a più persone”, spiega Aldo Cursano, vicepresidente di Fipe.

Intanto dalle Dolomiti a Campo Felice i gestori degli impianti di sci hanno perso anche la speranza di ricevere quei ristori immediati promessi il 14 febbraio. I lavoratori fissi da un anno sono in cassa integrazione, mentre gli stagionali, che rappresentano un terzo della forza lavoro, non hanno certezze.

“Siamo disorientati, non capiamo quando arriveranno i ristori. L’ultima tranche è di settembre scorso ed è servita per pagare le bollette”, spiegano da Confesercenti di Milano. La presidente della Confederazione di Bari, Raffaella Altamura, aspetta invece di capire “perché senza aver erogato i ristori di gennaio e febbraio si continui a chiudere i negozi, mentre gli uffici pubblici restano aperti, con percentuali di smart working irrisorie e con inevitabili conseguenze sugli affollamenti di bus e treni”.

Chi “non vuole più essere preso per fondelli” è anche il settore degli eventi, un comparto da oltre 65 miliardi l’anno che dà lavoro a 570mila persone. “Voglio alzare la voce, sono incazzato per questa continua superficialità con cui veniamo trattati. Siamo stati ignorati dal governo”, dice su Instagram il celebre wedding planner Enzo Miccio, portavoce di Feu (Filiera eventi unita). Dopo aver rinviato in blocco i matrimoni dal 2020 al 2021 ora rischiano di perdere anche la stagione che sta per iniziare.

A vivere di stagioni e di lunghe attese sono pure i florovivaisti . “Anche quest’anno le restrizioni rischiano di arrivare nel periodo di maggiore commercializzazione per un settore che fattura da 2,8 miliardi”, racconta Aldo Alberto, presidente dell’associazione di categoria e proprietario di un’azienda a Ceriale in provincia di Savona. “Noi vogliamo lavorare, i ristori – aggiunge – non potranno comunque essere sufficienti a compensare il lavoro che abbiamo fatto negli scorsi mesi”. Intanto si continuano ad aspettare.

Il “sostegno” già non basta: altro extra-deficit ad aprile

Prima di lasciare, peccando di ottimismo, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri aveva avvisato che sarebbe stato “l’ultimo”. E invece il decreto Ristori, ora ribattezzato “Sostegno” e che ancora non ha visto la luce dopo mesi di ritardo, sarà seguito da nuove misure o rimpinguato da altri fondi in fase di conversione in legge. Vale 32 miliardi di nuovo extra-deficit, autorizzato a gennaio. Il governo Draghi, a quasi un mese dall’insediamento, ancora non ha chiuso l’articolato, ma ieri il premier ha confermato che proporrà al Parlamento di autorizzare un nuovo scostamento di bilancio. Lo farà al momento di presentare il Documento di economia e finanza (entro metà aprile). Stando a quanto filtra, è molto probabile che si supereranno i 20 miliardi.

Senza nuovi slittamenti, il testo del decreto sarà licenziato in un Consiglio dei ministri la prossima settimana. Parliamo del provvedimento che contiene i fondi per indennizzare le attività danneggiate dalle restrizioni anti-Covid per i mesi di gennaio e febbraio. Basandosi su un nuovo sistema di calcolo degli indennizzi (non più i codici Ateco delle attività chiuse, ma il doppio del calo medio mensile nel fatturato 2020 rispetto al 2019) richiederà una nuova piattaforma telematica e nuove procedure, e quindi i soldi arriveranno verosimilmente in aprile. È un sistema che permette di tenere in considerazione i veri costi sostenuti, ma comunque offre un ristoro parziale e che potrebbe creare non pochi problemi ora che l’Italia sta entrando di fatto in un lockdown nazionale con molte attività che resteranno chiuse (non limitate) del tutto. Tanto più che la maggioranza preme per indennizzare anche chi nel 2020 è rimasto escluso o scoperto dal sistema dei codici Ateco. Ieri la viceministra all’Economia Laura Castelli ha spiegato che il tetto di fatturato per le attività indennizzabili salirà a 10 milioni. Il capitolo vale in totale circa 12 miliardi (col nuovo scostamento potrebbe salire a 20): servirà a indennizzare 2,8 milioni di attività colpite, ha chiarito Castelli, e comprenderà anche un fondo ad hoc per il turismo invernale e gli impianti sciistici.

Altro capitolo rilevante del testo – da cui ieri è stato spacchettato il capitolo congedi parentali, per quasi 300 milioni di euro – riguarda il lavoro. Viene prorogato il blocco dei licenziamenti, in scadenza a marzo, fino a giugno per tutte le attività e con essa la Cassa integrazione “Covid” (cioè gratuita), entrambi continueranno per i settori più colpiti e le piccole e medie imprese che hanno solo la cassa in deroga fino all’autunno, quando, nelle intenzioni del governo, dovrebbe entrare a regime la riforma degli ammortizzatori sociali. Stando alle bozze, al momento sono impegnati circa 5 miliardi, ma i sindacati chiedono di prorogare tutte le misure (blocco e Cig gratuita) fino alla fine dell’anno.

Sul fronte fiscale manca ancora l’accordo in maggioranza, visto che il mini-condono del “saldo e stralcio” sulle cartelle esattoriali emesse tra il 2000 e il 2015 al momento non ha un tetto massimo. L’ipotesi era di fissarlo a 5mila euro a cartella, soglia che già non piace al Pd e a Leu, e per giunta la Lega, ieri per bocca del sottosegretario all’Economia, Claudio Durigon, chiede di portarla a 10mila euro. Il blocco delle cartelle non verrà invece esteso oltre aprile.

Resta invece confermato l’aumento del finanziamento per il Reddito di cittadinanza per coprire i 700mila percettori in più stimati nel 2021 (per un totale di oltre tre milioni) e del Reddito di emergenza per chi non rientra nei requisiti. Previsti fondi anche per gli enti locali e la sanità di cui 2 miliardi per accelerare il piano vaccini e finanziare il progetto che mira a creare una filiera nazionale di produzione). Ieri Draghi ha detto che i ristori arriveranno presto in Cdm. Si vedrà.

“Mezzo milione versato dal partito alla società privata di Centemero”

Cinquecentoseimila euro versati dalla Lega alla Mdr Stp Srl nel giro di un anno, tra giugno del 2019 e maggio del 2020. Tradotto: soldi del partito amministrato da Giulio Centemero usati per pagare l’impresa privata partecipata dallo stesso Centemero. Lo raccontano alcune segnalazioni di operazioni sospette ricevute dalla Unità d’informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia e analizzate dal Fatto. Documenti che “configurano peraltro un conflitto di interessi a carico di Centemero”, ha scritto ieri l’Ansa spiegando che una di queste segnalazioni – 25 mila euro versati dalla “Lega allo studio Mdr” – è ora inclusa negli atti depositati dalla Procura di Milano per i processi a carico di Francesco Barachetti, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni nella vicenda Lombardia Film Commission.

Barachetti, grande fornitore della Lega, affronterà il rito immediato (prima udienza prevista a metà aprile), mentre i due ex commercialisti del partito, Di Rubba e Manzoni, hanno scelto l’abbreviato (che inizierà a fine aprile). Sullo sfondo resta aperta l’inchiesta madre da cui è scaturito il filone sulla Lombardia Film Commission, quella che il procuratore aggiunto Eugenio Fusco e il sostituto Stefano Civardi stanno conducendo da tempo sulle finanze leghiste, con almeno dieci indagati per vari reati fiscali e per peculato. La Procura lombarda ribadisce che Centemero non è tra le persone indagate in questo fascicolo. Al di là degli esiti giudiziari, resta però un fatto di interesse pubblico. Secondo le segnalazioni di Banca d’Italia provenienti da vari istituti di credito, il parlamentare leghista – fedelissimo di Matteo Salvini, che lo ha scelto prima come suo assistente al Parlamento europeo e poi come tesoriere del partito – ha ricevuto tramite la sua azienda privata oltre mezzo milione di euro dalla Lega, tra cui i denari che il Carroccio ha ricevuto dai sostenitori attraverso il 2 x 1000.

È andata così. Il 19 ottobre 2018 a Bergamo è stata fondata la “Manzoni & Di Rubba – Società tra professionisti a responsabilità limitata”. In sigla: Mdr Stp Srl, appunto. Gli azionisti sono quattro. A detenere le quote di maggioranza sono Di Rubba e Manzoni, entrambi titolari del 48 per cento delle azioni. Anche il restante 4 per cento è suddiviso in parti uguali, ma tra due politici. Uno è Centemero, già allora deputato e amministratore federale di Lega Salvini Premier e Lega Nord. L’altro è Stefano Borghesi, senatore del Carroccio e presidente della Commissione Affari costituzionali. Sono tutti e quattro commercialisti, e infatti la società si occupa di servizi contabili. Colpisce però notare chi ha beneficiato di questi servizi. Perché gli incassi della società bergamasca, secondo la Uif, sono arrivati in gran parte dalla stessa Lega. Un po’ come se un’associazione girasse i soldi donati dai suoi sostenitori ai capi della stessa associazione. Con l’aggravante che quella associazione (Lega Nord) ha un debito con lo Stato (49 milioni) ma dice di non poterlo saldare subito (la famosa rateizzazione in quasi 80 anni). Da giugno del 2019 a maggio del 2020 la Mdr ha ricevuto infatti 316mila euro da Lega Salvini Premier, 123mila euro da Lega Nord e altri 67mila euro da Radio Padania, la storica emittente del Carroccio. Totale: 506mila euro. Tutti bonificati con causale “saldo fatture”.

I documenti di Banca d’Italia raccontano anche che fine ha fatto parte del denaro incassato dalla Mdr.

Le segnalazioni di operazioni sospette dicono infatti che dell’oltre mezzo milione incassato, 113mila euro sono finiti alla Partecipazioni Srl. È una società con sede legale a Clusone, Bergamo, che si occupa di “elaborazione di dati contabili”. Il proprietario? Di Rubba, sempre lui, l’uomo al centro di tutte le trame finanziarie leghiste degli ultimi anni, il contabile accusato dalla Procura di Milano di essersi intascato parte dei soldi pubblici della Lombardia Film Commission per comprarsi una villetta sul Lago di Garda. Lo stesso di cui Salvini continua a dire di fidarsi.

Lega, il “Sistema del 15%” finisce davanti alla Consulta

La “retrocessione” del 15 per cento pagata dagli eletti alla Lega che li ha candidati finisce alla Consulta, che ora dovrà dire una volta per tutte se l’impegno sottoscritto dagli aspiranti al seggio a sganciare migliaia di euro impatti per caso sull’articolo 67 della Costituzione. Che, come noto, vieta il vincolo di mandato, a garanzia della libertà piena dei parlamentari.

In questi termini la Commissione Tributaria di Trento ha posto all’attenzione della Consulta l’emendamento di Roberto Calderoli che nel 2014 ha regalato una sanatoria tributaria agli eletti come quelli che, fin dal 2007, hanno pagato 145 mila euro al Carroccio, sotto forma di “erogazioni liberali”, per un posto in Parlamento. Un meccanismo di cui si è avvalso anche Sergio Divina, già maggiorente leghista, a cui l’Agenzia delle Entrate per l’anno fiscale 2008 ha contestato una maggiore imposta Irpef da 8000 mila euro perché si era portato in detrazione al 19 per cento la “donazione” pattuita al tempo con il Carroccio. Che lo aveva candidato ma a patto che, se eletto, riversasse al partito un assegno mensile di oltre 2mila euro: “Appare incontestato che Divina ha stipulato con il partito politico Lega Nord, presso la sede di quel partito, in Milano, via Bellerio, in data 7 marzo 2008, ossia in epoca prossima alla scadenza del termine per la presentazione delle liste per le elezioni politiche del 13-14 aprile 2008, un contratto diretto a realizzare uno scopo diametralmente opposto a quello, essenziale alla causa della donazione” scrivono i giudici tributari che, codice civile alla mano, hanno spiegato che manca lo spirito di liberalità proprio della donazione. Ché, davvero ci fosse stato, avrebbe reso superfluo il contratto ossia l’assunzione di una serie di obblighi utili al partito che “così acquisiva il diritto di agire in giudizio per la condanna del parlamentare al pagamento delle somme pattuite”. Un vincolo che costituisce “fonte di possibili condizionamenti dell’indipendenza del parlamentare nell’espletamento delle sue funzioni”. Per dirla con altre parole “l’esistenza a carico del parlamentare di debiti di natura giuridica nei confronti di un partito politico, con la conseguente responsabilità patrimoniale di natura personale e l’assoggettamento a possibili azioni di esecuzione forzata, introduce nelle relazioni tra parlamentare e partito politico fattori potenzialmente distorsivi in quanto estranei al rapporto rappresentativo”.

L’impegno a versare dell’aspirante parlamentare potrebbe infatti indurlo, aggiungono i giudici tributari, “a una fedeltà forzata al partito politico di cui diventa creditore dissuadendolo dal compiere scelte diverse nel corso dell’espletamento del suo mandato, dato che, in caso contrario, si troverebbe nella situazione paradossale di dover sostenere finanziariamente un partito politico dal quale si è dissociato”.

“Avevamo solo 4 tamponi in tutto”

L’ospedale di Alzano Lombardo, epicentro del focolaio più micidiale d’Italia nella prima ondata, è stato per giorni il fanalino di coda delle liste di distribuzione dei tamponi stilate da Regione Lombardia, a partire dal 24 febbraio di un anno fa. E ora siamo entrati in possesso di documenti che lo dimostrano.

Facciamo un passo indietro. Prima del 23 febbraio 2020 – giorno in cui il pronto soccorso del Pesenti Fenaroli venne chiuso e poi dopo qualche ora riaperto – in tutta la Asst Bergamo est, da cui dipende l’ospedale di Alzano, c’erano solo 50 tamponi per 7 presidi ospedalieri sparsi in tutta la Val Seriana e la Val Cavallina. In Lombardia, all’epoca, c’erano solo tre laboratori abilitati a esaminarli e la Asst Bergamo est non disponeva di laboratori di virologia per processare i tamponi per il Sars-Cov2. In particolare, il 22 febbraio, all’ospedale di Alzano c’erano solo quattro tamponi. Il giorno dopo, racconta il direttore medico del “Pesenti Fenaroli” Giuseppe Marzulli, è lui a portare personalmente ad Alzano altri 13 tamponi racimolati notte tempo dalla direzione di Seriate. Un numero ridicolo: i due casi Covid accertati la mattina del 23, infatti, erano ricoverati già da alcuni giorni e per tracciare tutti i contatti ci sarebbero voluti 600 tamponi. La sera del 23 febbraio, invece, lavoratori e parenti dei ricoverati vengono mandati a casa, i tamponi effettuati sono una quindicina. Nei giorni a seguire la situazione non migliora: i tamponi mancano proprio nel posto in cui ce ne sarebbe più bisogno. E questo è uno dei nodi chiave su cui oggi indagano i pm di Bergamo.

Ma torniamo al 24 febbraio 2020. Quel giorno, l’Azienda regionale per l’innovazione e gli acquisti di Regione Lombardia (Aria), invia un’email alla Diagnostic international distribution (Did) Spa, ordinando l’acquisto di un milione e mezzo di tamponi, operazione che la Regione aveva deciso di centralizzare. Contestualmente viene chiesto di inviare il giorno dopo 5mila tamponi al San Matteo di Pavia e altri 5mila alla Asst di Cremona. Non in Val Seriana. Nella lettera si annuncia la consegna di “240mila tamponi nella settimana corrente, come da lista di distribuzione allegata”. Di certo, però, la settimana successiva al 23 febbraio, ad Alzano, quei tamponi arrivano con il contagocce. Il 25 febbraio l’unico medico del lavoro dell’azienda, Marco Signori, scrive una email disperata alla direzione di Seriate: “Non posso fare sorveglianza sanitaria, sono sprovvisto di tamponi”. Ne supplica l’invio in “numero adeguato”. Il 1° aprile, Signori muore per Covid. Il 7 marzo anche il dg della Asst Bergamo est, Francesco Locati (indagato a Bergamo), scrive alla Regione, lamentando la carenza di tamponi. Come emerge dai documenti in possesso del Fatto, la Asst Bergamo est – e dunque anche l’ospedale di Alzano – dopo il 23 febbraio, erano inserite tra le fasce meno bisognose a ricevere i tamponi. A decidere l’ordine di priorità era la Regione Lombardia. Che evidentemente non considerava la Val Seriana zona a rischio.