Alzano, l’addetta alle pulizie: “L’ospedale non fu sanificato”

Oggi abbiamo un tassello in più sulla strage in Val Seriana: il 23 febbraio 2020 non vennero mai chieste ore di lavoro straordinario alla ditta esterna incaricata alle pulizie dell’ospedale di Alzano Lombardo, la Markas. Quella domenica i dipendenti della ditta si occuparono di disinfettare solo la shock room, la stanza in cui sostò il paziente sospetto Covid (F.C., entrato in pronto soccorso alle 11 del mattino), prima del suo trasferimento al Papa Giovanni XXIII di Bergamo alle 14.56.

C’erano tre persone di turno quel pomeriggio. Nessuno chiese loro di sanificare il pronto soccorso e i reparti in cui erano ricoverati i primi due pazienti risultati positivi. A raccontare per la prima volta i dettagli sulla “sanificazione” del “Pesenti Fenaroli” di Alzano è una fonte che quella domenica si occupò personalmente della pulizia dell’ospedale.

“Il 23 febbraio ho lavorato dalle 14.30 alle 17.30 – spiega al Fatto – ci è stato chiesto di sanificare la shock room, dove aveva sostato un paziente sospetto Covid. Abbiamo seguito i protocolli per le malattie infettive e indossato camice, guanti e mascherina. La procedura prevede di usare delle pastiglie di cloro che sciogliamo nell’acqua e con cui disinfettiamo. Ci abbiamo impiegato un’oretta. Non ci hanno chiesto di fare straordinari e in pronto soccorso non siamo riuscite a entrare, perché c’erano persone dentro. C’era un caos totale, dopo le pulizie ci hanno spostato nella chiesetta dell’ospedale, fino a quando alle 18.30 una responsabile ci ha comunicato che potevamo andare a casa. Quel giorno nessuno ci ha fatto il tampone. Il primo tampone mi è stato fatto a maggio, il secondo a settembre, per fortuna il mio test è sempre risultato negativo”.

La sanificazione dell’ospedale di Alzano è uno degli aspetti cruciali su cui sta indagando la Procura di Bergamo. Il direttore generale della Asst Bergamo est, Francesco Locati, e quello sanitario, Roberto Cosentina (responsabili del “Pesenti Fenaroli”) sono indagati per epidemia colposa e per falso, per aver attestato “in atti pubblici fatti non rispondenti al vero” rispetto proprio alla sanificazione e ai tamponi.

Agli atti risulta che il 23 febbraio solo una dozzina di persone sarebbero state testate. In due relazioni trasmesse alla Direzione Generale Welfare di Regione Lombardia l’8 e il 10 aprile 2020, Francesco Locati dichiarava che nel breve lasso di tempo in cui il presidio di Alzano è stato chiuso il 23 febbraio “si è provveduto alla sanificazione degli ambienti con l’adozione di tutte le misure previste dal protocollo vigente specifico per pulizia e sanificazione Covid19” e che sono stati fatti tamponi “a tutti i pazienti, ai contatti stretti e a tutto il personale presente”. Falso, secondo quanto risulterebbe dalle indagini sinora condotte.

Di sanificazione abbiamo parlato anche con una responsabile dell’igiene ospedaliera di Alzano, che preferisce restare anonima: “L’appalto con la Markas è stato avviato il 16 febbraio 2020 – racconta – il protocollo in vigore il 23 febbraio prevedeva che in caso di malattia infettiva si sanificasse l’ambiente di degenza del paziente, ma non quello in cui ha transitato. I protocolli non hanno mai previsto di sanificare anche i percorsi, le sale di attesa, gli ascensori e i corridoi in cui potesse aver transitato il paziente infetto. Non abbiamo mentalità e formazione in tal senso. Il pronto soccorso e la sala d’attesa, gremita di utenti, hanno avuto solo il ripasso della domenica. Così come i reparti di Medicina e Chirurgia, dove c’è stata solo una pulizia ordinaria al mattino, a eccezione della stanza del deceduto (Ernesto Ravelli), che venne sanificata. Col senno di poi è chiaro che il pronto soccorso era da svuotare, chiudere, bisognava sanificare tutto e fare i tamponi. Io posso sanificare un’area sgombra, ma con i pazienti all’interno non è possibile farlo”.

Se è vero, come dice quest’ultima fonte, che il 23 febbraio sarebbero stati applicati ad Alzano i protocolli di sanificazione previsti dal Ministero della Salute, è altrettanto vero che quelle procedure erano inadeguate a contenere la diffusione del contagio. Quale protocollo sanitario può davvero prevedere di disinfettare la stanza in cui un malato infetto è stato ricoverato e non, ad esempio, la radiologia dove è stato sottoposto ad esami diagnostici o l’ascensore che lo ha trasportato in reparto? Quale protocollo potrebbe mai disporre la sanificazione di un intero ospedale in un’ora? Dove si è agito seguendo il principio della massima precauzione, come accaduto a Schiavonia, in Veneto, si chiuse e sanificò tutto l’ospedale e le persone testate furono 700: il focolaio così si spense. Lombardia e Veneto seguivano forse protocolli ministeriali diversi? Di certo c’è che quella maledetta domenica di un anno fa, all’ospedale di Alzano, il pronto soccorso e i reparti non vennero sanificati. Ma la Regione Lombardia ordinò ugualmente di riaprire tutto.

Roma, vincono gli ambulanti: destre e Pd anti-Raggi votano la mozione pro-Tredicine

Il braccio di ferro va avanti da settimane. E ha trovato il suo culmine lunedì scorso quando 150 furgoni dei venditori ambulanti romani hanno bloccato piazza Venezia per protesta contro il Campidoglio. Lo scontro tra gli ambulanti e la sindaca Virginia Raggi riguarda la sospensione da parte del Comune della proroga delle licenze di vendita fino al 2032, per rimettere a gara i permessi. Il provvedimento è ispirato alla direttiva europea Bolkestein, che dispone la messa a bando dei servizi erogati su area pubblica. Sul tema è intervenuta poi una legge dello Stato che ha prorogato tutte le attuali licenze in scadenza per altri 12 anni. La sindaca, però, nel segno della sua battaglia per la legalità e la trasparenza, ha bloccato la proroga grazie a un parere dell’Antitrust secondo cui il provvedimento dello Stato è illegittimo. La questione riguarda circa 10 mila ambulanti romani, di cui 3 mila a rotazione. L’ultimo capitolo è andato in scena ieri, con una mozione pro-ambulanti che ha ottenuto la maggioranza in Campidoglio con 17 voti su 17 presenti, scatenando la bagarre in aula. “Si tratta solo di una mozione per fare notizia, ma noi andiamo avanti convinti di essere nel giusto”, il commento dell’assessore al commercio, Andrea Coia.

Va ricordato che Roma è invasa dalle bancarelle, non solo nelle zone turistiche e archeologiche, ma pure in quelle ad alta densità di shopping. Come via Cola di Rienzo, in Prati, dove da anni i negozianti combattono con le decine di ambulanti che invadono i marciapiedi di fronte alle vetrine. “Almeno 600 licenze sono fuorilegge. In questi giorni si è molto parlato di chi tra loro rischia di perdere il lavoro. Ma nessuno pensa a chi invece un lavoro vorrebbe costruirselo e invece non può perché quel settore è bloccato…”, continua Coia. I bandi di gara saranno diversificati per tipologia e non riguarderanno i banchi fissi dei mercati rionali e le edicole.

Quando si parla di ambulanti e camion bar il pensiero va subito alla famiglia Tredicine, che detiene o controlla un centinaio di licenze, finita negli anni al centro di inchieste. E ora sono sul piede di guerra. In questo contesto va inquadrato l’incontro tra Giordano Tredicine (ex consigliere comunale forzista condannato a 2 anni e 6 mesi nel processo Mondo di Mezzo) e Maurizio Gasparri (FI), sabato 27 febbraio al mercato di Serpentara, (periferia nord) di cui il Fatto ha pubblicato un’immagine. Martedì, il giorno dopo la protesta, con una lunga nota, Gasparri si è schierato a difesa degli ambulanti, accusando la sindaca di “comportamento scorretto” e parlando di “colpo al cuore” per la categoria.

Il Consiglio di Stato lascia accesi (per ora) gli impianti ex Ilva: accolto il ricorso di Mittal

Gli impianti dell’ex Ilva di Taranto non dovranno essere spenti immediatamente. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato che ha accolto la richiesta di ArcelorMittal di sospendere fino al 13 maggio l’efficacia della sentenza del Tar di Lecce che imponeva lo spegnimento degli impianti inquinanti dell’area a caldo entro 60 giorni. Il futuro dello stabilimento siderurgico resta nel limbo fino al prossimo maggio, quando il Consiglio di Stato dovrà decidere se confermare o meno la decisione del Tar salentino di fermare gli impianti. La vicenda è partita dall’ordinanza emessa dal sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, che dopo una serie di fenomeni emissivi e odorigeni aveva disposto la chiusura dell’area a caldo a tutela della salute dei cittadini. “Lascia esterrefatti” la costituzione di Invitalia al fianco di Arcelor, ha commentato Melucci. “Un pezzo di Stato – ha detto – con tanti interessi a Taranto, che opera in maniera non trasparente e si associa ad ArcelorMittal” oltre che “un grave danno di credibilità al governo della transizione ecologica del premier Draghi”.

Consulta dà torto ai consiglieri regionali sospesi

La legge Severino regge a tutti i vagli della Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi ripetutamente perché i politici condannati in primo grado per reati contro la pubblica amministrazione non ci stanno a essere sospesi dal loro incarico. L’ultimo caso, respinto, è quello dell’allora consigliere regionale ligure Matteo Rosso (ex Pdl, oggi Fdi), condannato a Genova, il 30 maggio 2019, a 3 anni e 2 mesi per peculato (la vicenda riguarda il filone delle cosiddette “spese pazze”). La Corte, relatrice la giudice Daria de Pretis, ha stabilito che la sospensione automatica dalla carica pubblica prevista anche per i consiglieri regionali, in caso di condanna in primo grado per reati contro la pubblica amministrazione o di particolare gravità, non contrasta con l’articolo 3 del protocollo addizionale alla Cedu di Strasburgo sulla tutela del diritto di voto attivo e passivo. Ed è per questo che la Consulta ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal tribunale di Genova, davanti al quale è stato impugnato il provvedimento di sospensione del consigliere regionale ligure. “I legislatori nazionali – si legge nelle motivazioni – godono di un ampio margine di apprezzamento nella disciplina del diritto di elettorato passivo”, se c’è in gioco la tutela e la difesa dell’interesse pubblico. “È il caso della disposizione censurata che, con la previsione di determinati requisiti di onorabilità degli eletti, mira a garantire l’integrità del processo democratico nonché la trasparenza e la tutela dell’immagine dell’amministrazione”. Nella sentenza la Corte ha anche negato che vi sia stata violazione del principio di leale collaborazione fra Stato e Regioni per l’esistenza di una competenza regionale in materia di ineleggibilità e incompatibilità dei consiglieri regionali poiché “il nucleo essenziale” della norma sulla sospensione “va ricondotto alla materia di competenza statale esclusiva ‘ordine pubblico e sicurezza’”.

Bilanci in rosso, rinviato a giudizio ex sindaco Bianco

Il bilancio del Comune di Catania sarebbe stato falsato per anni. E i suoi amministratori ne avrebbero coperto il dissesto finanziario. Per questo il giudice per l’udienza preliminare ha rinviato a giudizio l’ex sindaco Pd Enzo Bianco, già ministro dell’Interno, e i suoi più stretti collaboratori. Secondo l’inchiesta della Procura di Catania, guidata da Carmelo Zuccaro, l’amministrazione Bianco da una parte avrebbe “falsamente attestato la veridicità delle previsioni di entrata” dei bilanci tra il 2013 e il 2018, dall’altra avrebbe “sottostimato i debiti scaturiti dai rapporti con le società partecipate (Sidra, Asec, Trade, Amt, Catania Multiservizi)”. Inoltre avrebbe anche “dolosamente omesso l’iscrizione nell’atto contabile di somme sufficienti a finanziare gli ingenti debiti fuori bilancio”. Sono 29 gli indagati, l’accusa è di falso ideologico. Con Bianco sono coinvolti tutti i componenti della sua giunta comunale, i dirigenti, i ragionieri e i revisori che hanno approvato negli anni i bilanci.

“Prendiamo atto, con il dovuto rispetto, della decisione del tribunale – ha commentato l’ex primo cittadino – avremo modo, speriamo presto, di dimostrare l’assoluta correttezza del comportamento mio e della giunta”. Sulla stessa vicenda la Corte dei conti della Sicilia aveva già condannato Bianco a un risarcimento di 48 mila euro e all’interdittiva legale per 10 anni. Gli assessori sono stati condanni a risarcire dai 14 mila ai 51 mila euro. Secondo la relazione dei revisori contabili, Bianco e la sua giunta avevano “contribuito al verificarsi del dissesto finanziario” dell’Ente.

Sull’ex ministro pende anche l’accusa di turbata di libertà del procedimento di scelta del contraente, perché Bianco avrebbe “istigato” e “sollecitato” gli ex rettori dell’Ateneo di Catania, Giacomo Pignataro e Francesco Basile, a far ottenere una cattedra al suo assessore Orazio Licandro, tra i rinviati a giudizio per il dissesto finanziario. La decisione del gup è attesa la settimana prossima.

Il commissario sotto inchiesta si dimette: la sanità del Molise nelle mani di Draghi

Della disastrosa situazione in Molise avevamo scritto giorni fa e, com’era prevedibile, ora va peggio: secondo il rapporto Altems di ieri, la piccola Regione del Sud ha il dato peggiore quanto a mortalità (8,3%) e rapporto decessi/positivi (11,6%): la media nazionale è rispettivamente 3,04 e 3,26%.

I posti di terapia intensiva sono pieni (18 su 25) e i malati continuano a venir spostati in altre Regioni, almeno quelli che hanno la fortuna di arrivare vivi in ospedale: ovviamente tutti gli altri servizi sanitari sono fermi (da mesi). Anche delle bizzarrie – o scandali – delle vaccinazioni abbiamo scritto: basti dire che a ieri risultavano vaccinati 12.787 operatori sanitari o sociosanitari quando in Regione, a un conto a spanne, non ce ne sono neanche la metà; gli over 80 vaccinati invece erano 4.305 su una popolazione di 24mila abbondanti.

È in questo contesto – il frutto avvelenato di 12 anni di commissariamento, inazione, subalternità al privato e conflitti istituzionali – che è deflagrata l’inchiesta della Procura di Campobasso per omissioni di atti d’ufficio e abuso d’ufficio ai danni proprio del commissario governativo alla Sanità: Angelo Giustini, generale in pensione della Guardia di Finanza, si è dimesso ieri e martedì sarà sentito dagli inquirenti.

L’ipotesi d’accusa è che non abbia fatto quel che doveva per assicurare un’assistenza adeguata ai molisani e, anzi, abbia illegittimamente nominato il dg dell’Azienda sanitaria regionale (Asrem), Oreste Florenzano, quale commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, incarico – secondo i pm – “di sua pertinenza e non derogabile ad altri”.

Sicuramente l’uomo nominato a Roma nel dicembre 2018 per continuare a tagliare la sanità in Molise non ha dato grande prova di sé durante la pandemia, eppure nominare un sostituto, anche il più bravo sulla piazza, potrebbe non bastare. Il problema è che il Molise è l’unica Regione rimasta in una situazione che porta al disastro: c’è il commissario, ma i vertici della sanità li nomina il presidente di Regione (Donato Toma, centrodestra), che siede pure nella cabina di regia sull’emergenza Covid in quanto autorità di Protezione civile. Insomma, non si sa chi comanda e infatti nessuno lo fa: né il commissario, né il governatore.

Per la Calabria, che era nella stessa situazione, fu varato un apposito decreto a novembre che tagliava la testa al toro assegnando tutti i poteri al commissario (è il testo grazie a cui è stato coinvolto Gino Strada): non si capisce perché il Molise non sia stata inclusa in quel decreto, la cui estensione è richiesta da mesi a gran voce da istituzioni e associazioni locali. Adesso sarebbe la volta buona, ma pare che al momento i partiti stiano più che altro litigando sul sostituto di Giustini…

Caso AstraZeneca 10% di dosi ritirate. E l’Ad è indagato

Oltre 24 mila dosi di vaccino AstraZeneca sequestrate e un’indagine giudiziaria, quella della Procura di Siracusa, che ha messo nel mirino i piani alti dell’azienda, iscrivendo nel registro degli indagati il manager Lorenzo Wittum. Dopo il decesso di Stefano Paternò, sottufficiale della Marina militare stroncato da un arresto cardiaco alcune ore dopo aver ricevuto il vaccino, le verifiche dei carabinieri del Nas riguardano il lotto ABV2856 – quello dal quale è partita la fiala iniettata a Paternò – e le modalità di conservazione e somministrazione delle dosi. Intanto i pm di Siracusa hanno iscritto – nell’ambito del fascicolo sul decesso di Paternò – l’ad di AstraZeneca Italia Lorenzo Wittum per omicidio colposo. Stesso reato contestato ad altre tre persone: l’infermiere, il medico dell’ospedale militare di Augusta dove è stata inoculata la dose vaccinale, e il medico del 118 che era intervenuto la notte del decesso. I pm, inoltre, hanno programmato per oggi l’autopsia, nominando 4 consulenti, tra cui un esperto in emostasi e trombosi. Proprio queste ultime due patologie potrebbero essere correlate alla sospensione dei lotti, verificata in Italia e Europa, dei vaccini di AstraZeneca.

Un caso analogo inoltre si è verificato il 6 marzo a Catania, dove è deceduto il poliziotto Davide Villa, per emorragia cerebrale, provocata da una trombosi venosa profonda. L’indagine è stata trasferita a Messina. Sono invece in ripresa le condizioni di un appuntato della Finanza vaccinato il 26 febbraio e poi ricoverato in rianimazione a Taranto, per problemi neurologici.

Intanto 24.700 dosi di vaccino AstraZeneca sono state sequestrate in tutta Italia, mentre i carabinieri del Nas hanno ritirato oltre 2.200 fiale del siero anti Covid prodotto dalla società anglo-svedese. Ogni fiala corrisponde a 10-11 dosi. Si tratta di circa il 10% delle 250mila porzioni relative al lotto ABV2856, per il quale giovedì scorso l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, ha disposto la sospensione. In realtà, la gran parte delle dosi erano già state somministrate. Nel Lazio, ad esempio, quelle rimaste erano appena 231, sulle oltre 20mila già iniettate (a Roma non sono state registrate criticità). Per ora, solo la Calabria ha deciso di contattare le persone che hanno ricevuto i vaccini sotto osservazione.

Intanto c’è apprensione in Campania per due casi avvenuti nei giorni scorsi. L’ultimo ad Afragola (Napoli), dove un bidello di 58 anni è deceduto tre giorni dopo aver ricevuto la dose del lotto ABV6096. Sulla vicenda indaga la Procura di Nola. A scopo precauzionale, la Regione ha sospeso la somministrazione del lotto. Tutto ciò mentre ieri la Spagna ha sospeso un ulteriore lotto, l’ABV5300 per “una trentina di casi di trombosi”.

Intanto, secondo fonti ministeriali, non si è registrato alcun fuggi-fuggi dal vaccino e ieri solo “qualche centinaio” di persone non hanno risposto alle convocazioni. AstraZeneca ieri ha ribadito che “non ci sono prove di un aumento del rischio di un coagulo del sangue a causa del vaccino”.

Tutti chiusi in casa. Da lunedì (quasi) lockdown. “Vaccino prodotto in Italia”

Si cambia. Il Dpcm dopo una settimana è già vecchio. Il governo ha varato le nuove restrizioni chieste dal ministro della Salute Roberto Speranza, sollecitate da settimane dal Comitato tecnico scientifico: zona rossa anche con 250 casi a settimana ogni 100 mila abitanti (o Rt a 1,25 come già accade), le Regioni gialle da lunedì passano in arancione fino a Pasqua, il Nord tutto in rosso meno Bolzano, Valle d’Aosta e Liguria; il Lazio addirittura dal giallo al rosso ed è la prima volta che va in rosso (escluso Natale). Si salva la Sardegna: resta bianca. A Pasqua tutta l’Italia in rosso il 3, il 4 e il 5 aprile, negli altri weekend ogni Regione segue il suo colore. Fino ad allora niente bar e niente ristoranti anche a pranzo e non si esce dai Comuni salvo motivi di lavoro, salute e altre necessità. Del resto i contagi crescono con le terapie intensive già piene: l’8 gennaio scorso il Cts chiedeva la regola dei 250 nuovi infetti a settimana ogni 100 mila; il 26 gennaio avvisava che la variante inglese avrebbe moltiplicato i contagi; il 23 febbraio ha detto che le zone gialle non bastavano più. Come con la prima e la seconda ondata si è perso un po’ di tempo.

Al governo di unità nazionale tocca il decreto più duro dalla fine del lockdown 2020, un decreto legge e non un Dpcm così la discontinuità formale è salva. Il centrodestra che (in parte) gridava alla “dittatura sanitaria” non sembra nemmeno essersi opposto, ieri mattina Giancarlo Giorgetti ha contestato il limite di una sola visita al giorno a parenti e amici (nel Comune) ma insomma tutti d’accordo, anche i presidenti delle Regioni, sollevati che sia lo Stato a chiudere per quanto tocchi ancora a loro sulle zone rosse subregionali. E stavolta Mario Draghi ha parlato, sia pure senza rispondere a domande. È andato al grande hub di Fiumicino, dove la Regione Lazio da un mese fa fino a 2.000 vaccini al giorno con le primule di Domenico Arcuri che ancora spuntano qua e là, ha fatto il giro della struttura con il dottor Valerio Mogini della Croce rossa, ha scambiato due parole con le persone in osservazione post-iniezione. Poi ha detto alla Draghi quello che Giuseppe Conte diceva alla Conte: ha ricordato che le infezioni sono aumentate del 15% in una settimana e i ricoverati di 5.000 unità nei reparti ordinari e 650 nelle terapie intensive in 15 giorni, ha invocato la “massima cautela per limitare il numero di morti e impedire la saturazione delle strutture sanitarie”, ha spiegato che le misure sono “necessarie per evitare un peggioramento che renderebbe inevitabili provvedimenti ancora più stringenti”. Draghi ha promesso l’accelerazione sui vaccini, che in parte c’è già visto che ci avviciniamo alle 200 mila iniezioni al giorno ma “bisogna triplicarle”, ha rassicurato su AstraZeneca, ha dato notizia di un primo accordo per produrre in Italia i vaccini: è stato già trovato l’accordo con la Patheon Thermo Fisher, che ha uno stabilimento a Monza, per produrre, non è ancora chiaro, Pfizer o AstraZeneca. E ha poi annunciato lo scostamento di bilancio per i ristori che ora si chiamano sostegni, compresi “il diritto allo smart working per chi ha i figli a casa, i congedi parentali e l’indennità di baby sitting”. Ma per il decreto Sostegni manca ancora una settimana.

La speranza è che il Paese regga e che 20 giorni di stretta siano sufficienti. Conforta guardare l’Umbria e Bolzano, ma anche l’Abruzzo, dove le varianti hanno fatto disastri, ma le restrizioni hanno funzionato e i numeri scendono, come ha rilevato ieri il professor Silvio Brusaferro dell’Istituto superiore di sanità. Il tasso di riproduzione Rt passa da 1,06 a 1,16 (range 1,02-1,24 nei 14 giorni fino al 2 marzo). L’Italia diventa rossa per oltre metà, undici Regioni, 42,6 milioni di abitanti su 60 milioni: Piemonte (Rt a 1,41), Lombardia (1,3), Trento (1,04), Veneto (1,28), Friuli-Venezia Giulia (1,39), Emilia-Romagna (1,34), Marche (1,08), Puglia (1,23) e Lazio (1,31) si aggiungono a Campania (1,5) e Basilicata (1,53 ma secondo la Regione è sceso); torna arancione il Molise (1,07) insieme a Bolzano (0,61), Val d’Aosta (1,4), Liguria, Toscana (1,23 e tre province rosse), Umbria (0,82), Abruzzo (1,05), Calabria (0,83) e Sicilia (1). La Sardegna (0,89) resta bianca con qualche merito del professor Andrea Crisanti.

Il report sottolinea “l’importante accelerazione nell’aumento dell’incidenza” dai 194,87 nuovi casi per 100.000 abitanti (fino al 28 febbraio) a 225,64 (fino al 7 marzo) secondo il flusso, in ritardo perché più completo, dell’Iss: in quello giornaliero ieri eravamo già a 253. Le terapie intensive sono al 32%, sopra la soglia del 30% oltre la quale gli ospedali devono rinviare gli interventi chirurgici. In 7 giorni, quasi 10 mila casi in più “non riconducibili a catene di trasmissione note”, per quanto le Regioni dichiarino “indagini epidemiologiche” per oltre l’80% dei contagi.

Maggioranze linguistiche

Sono combattuto. Leggo il tweet di Selvaggia Lucarelli: “Non chiedo il vaccino, però questa cosa che i giornalisti siano nella lista delle categorie non utili a detta degli stessi giornalisti mi dispiace. In questo anno di paura, siamo stati noi a raccontare alla gente cosa succedeva, a denunciare, siamo stati non utili. Necessari”. E mi sembra di essere d’accordo. Poi arrivano vari “colleghi” a insultarla e, visti i nomi (c’è persino il mèchato), do ragione a loro: a esser generosi, sono inutili. Compulso con la consueta avidità i miei svaghi preferiti, Libero e il Foglio, e scopro che: secondo Brunella Bolloli, Selvaggia “vuole farsi inoculare” (battutona); secondo Salvatore Merlo, “richiede per sé il vaccino” e, in quanto giurata di Ballando con le stelle, è una “paragiornalista” (come dimostra la sua fotografia in décolleté sul sito del Foglio) e, con simpatico giro di parole, pure una “cretina”. Ricontrollo il suo tweet, ma niente, ha scritto proprio così: “Non chiedo il vaccino”. Quindi mi spiace, ma Selvaggia ha torto: i giornalisti, almeno quei due, non sono inutili, ma dannosi perché non solo non sanno scrivere, ma neppure leggere.

Poi però ci ripenso: della Bolloli non so, ma del Merlo minor (il maior è lo zio Francesco, che lecca abitualmente su Rep) non posso proprio fare a meno. Nelle giornate uggiose, essendo meteopatico, vado a rileggermi le sue interviste bocca-a-bocca con Montezemolo e Malagò. Del primo esaltò rapito il “largo sorriso malizioso”, “l’occhio liquido”, “la capigliatura da insidiatore di femmine”, il “leggero profumo maschio al limone” (l’aveva pure annusato, in ossequio al giornalismo watchdog all’anglosassone), “le dita delle mani sottili, delicate e nervose” (nessuna notizia di quelle dei piedi) che “fanno pensare al poker, alla roulette, a sapienti contatti con porcellane, pergamene, morbide automobili” (la Ferrari Peluche, cose così). Di Malagò lo arraparono “la struttura atletica di 55enne ben conservato” (tipo il latte pastorizzato) e “l’intelaiatura dei tendini e dei muscoli” (lì, oltre all’olfatto, aveva attivato anche il tatto). Solo una volta s’imbatté in una notizia: “L’email che dimostra il controllo di Casaleggio sulle vite dei grillini”, il “Watergate grillino”, “Casaleggio spione”. Ma niente paura: era falsa (Casaleggio non era mai entrato in una casella postale che non fosse la sua). Infatti il Merlo minor non ci riprovò mai più e tornò alla postura precedente. L’altro giorno ha gettato la lingua oltre l’ostacolo per inumidire l’incolpevole SuperMario: “La parola è d’argento, il silenzio è Draghi”. Ma la faccia resta di bronzo. Quindi no, cara Selvaggia, hai torto marcio. I giornalisti non si dividono soltanto fra necessari e superflui. C’è pure chi unisce l’inutile al vomitevole.

La transizione verde “gonfiata dai generosi incentivi statali

Mentre in Italia celebriamo anniversari di nomi pesanti come Moto Guzzi e Vespa, a Bruxelles si continuano a tenere i riflettori puntati sulle auto elettriche. Se non altro per la controtendenza rispetto a un mercato che causa pandemia nel 2020 ha perso in totale 3,8 milioni di immatricolazioni a livello continentale, ma ha premiato le vetture a elettroni con un +106% nelle vendite, per un totale di 733 mila pezzi. Un risultato ad onor del vero “gonfiato” dagli incentivi statali, elargiti a profusione nel vecchio continente. Non contenti, tuttavia, nove Stati Ue (Austria, Belgio, Danimarca, Grecia, Irlanda, Lituania, Lussemburgo, Malta e Olanda) hanno chiesto alla Commissione europea di fare di più. Nella fattispecie, di stabilire una data entro la quale in tutti gli Stati membri non sarà più consentita la vendita di veicoli con motori endotermici, ovvero benzina e diesel. Una richiesta forte, dettata dalla necessità di “accelerare la transizione verde del trasporto stradale e, nella veste di legislatori, inviare segnali chiari ai produttori di automobili e ai consumatori di tutta l’Unione europea”, come ha spiegato Dan Jørgensen, il ministro per il Clima e l’Energia della Danimarca. Il rischio, tuttavia, è che continuando ad accelerare si lasci indietro chi le auto elettriche le deve comprare, ovvero i consumatori. Che ora sono supportati economicamente da Stati e costruttori, ma che quando ecobonus e affini spariranno resteranno soli di fronte a listini che nella maggior parte dei casi di popolare hanno ben poco.