75 volte Vespa, da Pontedera al MoMa

Era il 1946, l’Italia post-bellica doveva essere ricostruita e all’orizzonte c’era il boom economico. A Pontedera (Pisa) Enrico Piaggio e Corradino D’Ascanio s’incontravano per dar vita a quello che sarebbe diventato un emblema del design industriale italiano, oggi esposto anche al MoMa di New York.

La storia della Vespa era appena iniziata e – incredibile – non sarebbe terminata neanche 75 anni dopo, in un mondo completamente diverso da quello che l’aveva vista nascere, ma pur sempre in un’Italia che risorge ciclicamente dalle proprie ceneri, qualsiasi esse siano.

Lo scooter Piaggio, nato dall’intuito dell’omonimo imprenditore toscano e dal guizzo stilistico dell’ingegnere aeronautico D’Ascanio, ha saputo attraversare il tempo e le generazioni, grazie alla capacità di rinnovarsi sempre e sempre restando fedele alla propria identità originaria. Quella di un mezzo piccolo, comodo per tutti e soprattutto capace di rimettere in moto, letteralmente, una società afflitta ma allo stesso tempo piena di entusiasmo e voglia di riscatto.

L’iconica Vespa festeggia quest’anno il 75esimo anniversario con un’edizione speciale in vendita solo per il 2021, nelle varianti Primavera e GTS; per l’occasione vestirà una scocca di color giallo metallizzato, eco dello stile anni ’40, mentre giallo opaco sarà la “cravatta” anteriore. Ricca di dettagli, dal sellino in nabuk grigio alla borsa che riprende la forma del contenitore per la ruota di scorta, e alla strumentazione colorata digitale, la Vespa 75th sarà equipaggiata anche con una targa vintage.

Un allestimento esclusivo, pensato per rendere omaggio alle due ruote diventate negli anni vero e proprio fenomeno culturale, anche per la consacrazione che ne ha fatto il cinema: impossibile pensare a una Vespa senza immaginare una giovanissima coppia Hepburn-Peck, sognante, in sella a un modello 125, o ai paparazzi felliniani che si lanciano alla rincorsa della dolce vita, fino a un Nanni Moretti che si gode la quiete estiva di una Roma dei primi anni Duemila, con la sua 125 blu.

100 anni di Moto Guzzi Così il Made in Italy viaggia su due ruote

C’è un marchio italiano di cui vale la pena parlare: Moto Guzzi, presente sul mercato, prima nazionale e poi globale, dal 15 marzo 1921. Perché se ora è più facile contare i gioielli ceduti ad aziende o fondi esteri, la casa di Mandello del Lario è ancora tricolore. Cento anni fa iniziava la storia di Emanuele Vittorio Parodi, Carlo Guzzi e Gianni Ravelli, che presero a fabbricare moto da competizione. La Società Anonima Moto Guzzi, attenzione, non nacque lombarda, ma ligure con sede a Genova. Solo in seguito si spostò a Mandello, dove nello storico stabilimento dal 6 al 12 settembre si celebrerà il centenario.

Guzzi non è più nelle corse ufficialmente dal 1957, ma fino a quando ha messo le ruote in pista ha conquistato 3.234 vittorie in gare ufficiali e 11 al TT, con 14 titoli mondiali. Il motore a 8 cilindri a V, una vera e propria opera di orologeria meccanica, ha fatto la storia della tecnologia motociclistica, così come altre innovazioni della casa italiana.

Nel 1967 passò nelle mani della Seimm, Società Esercizi Industrie Moto Meccaniche, per la crisi del mercato seguita al boom del dopo guerra. Guzzi all’epoca aveva fatto la sua fortuna commerciale con le Falcone 500, lo scooter “ante litteram” Galletto, la Airone 250 ed il motofurgone Ercole. Ma nel 1973 le esigenze degli italiani erano altre e l’azienda non ebbe pace fino all’arrivo di Alejandro De Tomaso. L’imprenditore argentino prese un’azienda in emergenza, ma in grado comunque di mettere sul mercato la V7, una moto essenziale capace di spingersi fino a 200 km/h.

La V7 del 1971 fu la base della produzione nell’era De Tomaso, costellata di modelli iconici come la California del 1974 (destinata al mondo cruiser americano) e le sportive Imola, Le Mans, Daytona e Centauro. Il due cilindri a V, ancora oggi l’emblema caratteriale delle moto di Mandello, è passato attraverso varie crisi aziendali: la più recente quella con Ivano Beggio, l’industriale veneto patron di Aprilia che rileva il marchio nel 2000. Dopo 4 anni, la gestione passa nelle mani di Roberto Colaninno, quando la Piaggio acquisisce i marchi Aprilia, Moto Guzzi e Laverda.

A Mandello è iniziato un nuovo corso fatto di innovazioni, non di rivoluzioni. Ora deve il suo successo commerciale all’odierna V7, un 850cc con iniezione elettronica, motore euro5 e trasmissione cardanica, che assieme alla V85 e alla V9 è disponibile anche nella livrea centenario abbellita, nei fianchetti, dal classico verde delle storiche moto da corsa Guzzi. Una memoria che è presente e riconosciuta in tutto il mondo e che sì, può ancora mettere il tricolore sotto il marchio. Perché è davvero Made in Italy.

Videogiochi da leggere. La letteratura ispira i game

“Ma tu chi sei che avanzando nel buio della notte inciampi nei miei più segreti pensieri?”. La risposta è inesorabile, più di quattro secoli dopo: “Sono il primo videogioco dedicato a Romeo e Giulietta”. La tecnologia avanza, guarda indietro, si ammanta di emozioni vere, classiche, senza tempo. Ancorandosi alla letteratura, nella fattispecie al più grande di tutti. Si intitola Shakespeare Showdown il nuovo videogame made in Italy ispirato a una delle meraviglie sempreverdi del Bardo e animato non da avatar, ma da attori autentici in carne e ossa, rielaborati con la tecnica retrò della pixel art. Tra loro, alcuni dei migliori interpreti del teatro contemporaneo come Iaia Forte, Tindaro Granata ed Emanuela Mandracchia. L’obiettivo manifesto è di “tornare a far sognare le nuove generazioni con una storia d’amore immortale, raccontata attraverso una successione di immagini elettroniche e cinematiche”.

Qui i quadri sono luoghi misteriosi e arcigni, dove tutto è possibile. Il giocatore deve superare diversi ostacoli iniziatici, attraversando mondi ignoti e rovesciati, per provare a svelare la sciarada su cui poggia, dalla notte dei giorni, la galassia: l’amore eterno esiste davvero? Disponibile dal 27 marzo per pc, il game è servito anche a sopperire all’assenza forzosa di prosa dal vivo nell’ultimo anno: i suoi ideatori, Francesca Montanino, Mauro Parrinello e Matteo Sintucci, sono infatti tre attori teatrali, della compagnia torinese Enchiridion. “L’amore è la nebbia che si forma con il vapore dei sospiri”, scriveva nell’opera il William universale. Non la condensa sul display a cui colleghiamo la Playstation, o le altre piattaforme del cuore.

Ma sono ormai numerosi i videogame legati a doppio filo ai testi letterari, pur di qualità, giocoforza, inferiore al Predetto. I “media del Terzo millennio” cannibalizzano e centrifugano le arti preesistenti, un po’ come fecero il cinema e la televisione nel Novecento. Le tre versioni di Witcher immesse sul mercato dal 2007 al 2015 devono, per esempio, la loro ragion d’essere concettuale alla saga medieval-fantasy imbastita dallo scrittore polacco Andrzej Sapkowski. Al centro di un palcoscenico di tenebre e creature mitologiche, c’è il Continente, terra di gnomi e guerre sanguinarie. Ritenuto un caposaldo della storia videoludica, due anni fa ne è stata tratta una serie tv di successo. I racconti proto-horror di H. P. Lovecraft sono il canone intorno al quale ha preso forma Call of Cthulhu: Dark Corners of the Earth, pubblicato nel 2005. Il post-apocalittico Metro 2033 (uscito nel 2010), ambientato in una Mosca sotterranea vent’anni dopo l’Armageddon nucleare, è modellato sul libro di culto del russo Dimitry Glukhovsky. “Niente è reale, tutto è lecito”, salmodiano i membri della Confraternita in Assassin’s Creed, uno dei più venduti in assoluto: anche in questo caso ne affiorano di continuo le radici narrative, e il volume di riferimento è Alamut, vergato dallo sloveno Vladimir Bartol nel 1938. Tra l’altro il secondo episodio dell’epopea, Assassin’s Creed 2, è collocato tra Venezia, Roma, Firenze, Forlì, San Gimignano e dintorni. E milioni di persone hanno scoperto l’Italia rinascimentale. Una ricerca del 2016 ha stabilito che il 16 per cento dei turisti sopraggiunti in loco aveva conosciuto il borgo toscano di Monteriggioni smanettando.

Un’altra pietra angolare è Dante’s Inferno: per console dal 2010, nel mezzo del cammino dall’alba del nuovo millennio, è una costola della Divina Commedia. Solo che invece di essere un poeta armato di nuda penna coreografica, il Nostro è un reduce della terza crociata, rincasato per rincontrare Beatrice. La sua amata, ideale sentimentale tout-court, è stata ammazzata e la sua anima razziata da Lucifero. Ecco la genesi, inedita, della sua discesa all’inferno, col solito Virgilio: bisogna salvarne lo spirito.

Il fenomeno è in corso sin dagli anni Ottanta, ma allora le parole d’autore si intrecciavano a fantasmagorie in 8, al massimo 16 bit. Guida galattica per autostoppisti venne creato nel 1984 dallo stesso Douglas Adams, insieme a un esperto della materia, e fu un trionfo commerciale, con 350 mila esemplari andati a ruba. Pure Ray Bradbury in persona collaborò alla realizzazione del game-replicante della sua opera più famosa, Fahrenheit 451, alla metà degli anni Ottanta. Così come nel 1988 trovò spazio, e non avrebbe potuto essere altrimenti, il cyberpunk di William Gibson (Neuromancer). Pare che il più riprodotto di sempre sia l’eroe originario dei romanzi dell’inglese Ian Fleming. “Si vive solo due volte: una volta quando si nasce e rinasce al cinema, e una volta quando si diventa un videogioco” avrebbe detto il suo Bond, James Bond.

Da Berlino a oggi, l’Onu stavolta si è mossa. Draghi chiama il premier

È unanime la soddisfazione per il nuovo governo in Libia. La decisione dell’altroieri del Parlamento riunito a Sirte potrebbe in effetti costituire una prima svolta nella situazione di stallo che la guerra libica determina ormai da dieci anni.
Per il momento, nessuno ha messo il cappello sopra il nuovo assetto che vedrà come premier l’imprenditore Abdul Hamid Dbeibah, così come nessuno vuole dare risalto all’indiscrezione circa i voti che lo stesso avrebbe comprato per la sua nomina. Il nuovo esecutivo, frutto di una delicata alchimia che tenta di accontentare le complicate parti in conflitto, cercherà di far valere anche l’immagine di un ministro degli Esteri donna, la docente Najlaa al-Manqoush che potrebbe rappresentare una Libia diversa.
L’analisi sul campo dice chiaramente che l’accordo vede una certa prevalenza di Turchia e Russia, che incassano la cospicua presenza militare, anche con “mercenari” come la Wagner per Mosca. Dbeibah è sicuramente amico di Ankara e quindi al momento realizza un equilibrio che premia chi ha voluto esercitare un intervento armato come quello dell’ultimo anno. E per questo condiviso.
Ma la primazia russo-turca che, in una efficace cartina pubblicata dalla rivista Limes è rappresentata dalle basi dei contractor russi attorno alla zona del petrolio e quelle militari turche sulla costa tra Tripoli e Misurata, non deve ingannare e non rappresenta l’unica realtà.
Gli Stati Uniti si sono impegnati come dimostra l’apprezzamento del Segretario di Stato, Anthony Blinken, che ha subito inviato le sue “congratulazioni” al nuovo governo. E molto ha contato l’Onu che non ha disperso la tanto bistrattata conferenza di Berlino del gennaio 2020 da cui, un po’ alla volta, è nato quel Forum di dialogo composto da 75 membri, tra cui non solo politici ma anche giuristi e attivisti, che ha fatto nascere l’accordo unitario e creato le premesse per le elezioni del 24 dicembre. L’Italia in quel processo ha creduto e seguendo questa linea, ieri il premier Mario Draghi ha potuto chiamare il primo ministro libico per esprimere il pieno sostegno italiano al processo di pace. Chi deve sempre fare le pulci al governo Conte dirà che è solo una vittoria russa e turca, ma gli attori in campo sono di più e l’Italia, che ora conta sull’Amministrazione Biden, ha ancora un ruolo da giocare nel processo di pacificazione.

“L’Algeria ha solo cambiato padrone: ora è l’élite corrotta”

Il presidente francese Macron ha tolto il segreto sugli archivi nazionali fino al 1970, compresi quelli relativi alla guerra d’Algeria. Una settimana fa ha riconosciuto l’assassinio del nazionalista Ali Boumendjel da parte dell’esercito francese nel 1957 secondo i suggerimenti dello storico Benjamin Stora. A quasi sessant’anni dalla fine del conflitto (1954-1962), mentre in Algeria i giovani del movimento di protesta Hirak sono tornati nelle strade e la Francia, dove la colonizzazione riguarda più di sette milioni di persone, conosce profonde fratture, la guerra d’Algeria continua a creare attriti. Per la storica franco-algerina Karima Dirèche, ricercatrice all’Istituto di studi sul mondo arabo e musulmano di Aix-en-Provence, “entrare negli archivi permetterà di fare luce su episodi ancora avvolti dal mistero. Per esempio sul massacro del 1955 a El Halia, un villaggio vicino a quella che all’epoca era Philippeville, oggi Skikda. Militanti del Fronte di Liberazione Nazionale attaccarono le abitazioni uccidendo una trentina di europei. La repressione dell’esercito francese fu spaventosa. Già all’epoca si parlò di mille vittime. Oggi si pensa che più di diecimila algerini furono uccisi in ritorsione a quei fatti, ma il numero esatto non si è mai saputo”.

È un reale passo in avanti?

Se la Francia entra davvero in una politica di desecretazione sistematica degli archivi, sì. Macron prende un rischio a voler mettere a nudo gli orrori della decolonizzazione, ma è un rischio calcolato, con le Presidenziali che si avvicinano. Sta corteggiando un potenziale elettorato di diverse centinaia di migliaia di persone. Spero che lo faccia anche in un’ottica di calmare gli animi dopo il dibattito distruttivo sul separatismo. Il passo che ha compiuto va nella buona direzione, ma si può fare di più.

Per esempio?

Si potrebbero aprire gli archivi sui test nucleari, effettuati dalla Francia fino al 1966, cioè dopo gli accordi di Evian, con il via libera di Algeri. La nube radioattiva coprì 26 paesi africani e raggiunse le coste spagnole e siciliane. L’Oms ha accertato legami tra radioattività e certe patologie diffuse. Riconoscere l’assassinio di Ali Boumendjel è importante, ma si resta rivolti al passato. Se Parigi e Algeri decidessero di affrontare i demoni comuni e agissero insieme per decontaminare i siti, si farebbe un gesto concreto per il presente e per il futuro.

Il rapporto Stora è molto criticato in Algeria. C’è chi chiede scuse ufficiali che la Francia non intende concedere…

Come molti storici algerini condivido l’idea che la verità conta più delle scuse. E poi a chiedere le scuse è solo il governo algerino, in una logica di denuncia e colpevolizzazione. In Algeria più della metà della popolazione ha meno di 24 anni e per i giovani la colonizzazione è storia passata. Da due anni, anzi, accusano proprio il governo nato dall’Algeria libera di aver confiscato quell’indipendenza per cui tanti giovani come loro sono morti negli anni 60. I valori rivoluzionari di quell’epoca confluiscono nel movimento dell’Hirak. Ci si chiede: a cosa sono serviti quei morti, se ci ritroviamo, sessant’anni dopo, sotto un’altra forma di dominazione, non di uno Stato coloniale, ma di un’élite corrotta?

Si parla molto di cosa può fare la Francia per favorire la “riconciliazione delle memorie”. Cosa potrebbe fare l’Algeria?

Intanto la “riconciliazione” auspicata da Stora per me non è necessaria, e forse neanche auspicabile. Non serve riconciliarsi per firmare contratti economici, decidere politiche migratorie comuni e sorvegliare le frontiere del Sahel. E poi, di che memoria parliamo? Finora conosciamo solo la versione della Francia. Gli algerini dovrebbero innanzi tutto cominciare a scrivere la loro storia della colonizzazione. Non il racconto di propaganda con martiri e eroi che si insegna a scuola, ma una vera storia sociale. A quel punto le due versioni si potranno incrociare e se ne potrà discutere. Ma in Algeria la storia non è una disciplina libera e l’accesso agli archivi è vietato. Dopo il rapporto Stora, si sta ancora aspettando quello di Abdelmadjid Chikhi, direttore degli archivi algerini, che probabilmente non vedremo mai.

Uno, nessuno e Vittorio Feltri

Poiché le autorità ci impediscono tutto, la sera vedo cassette di vecchi talk e mi sono imbattuto in un “Uno contro tutti” del Costanzo Show, dove “l’uno” era Vittorio Feltri. Che splendido Feltri era quello su cui non era ancora passata la pesante ala di Berlusconi.

Anche fisicamente (sono passati quasi trent’anni ed entrambi, coetanei, ci siamo logorati in tante battaglie che ci hanno visto prima fianco a fianco e poi duramente contrapposti), ma soprattutto intellettualmente. Ha impartito, con eleganza, garbo e persino un pizzico di umiltà, una vera lezione di giornalismo, anche dal punto di vista puramente tecnico, ma ovviamente non solo di giornalismo, alla ristretta platea di “nani e ballerine” che doveva fargli il contropelo (Margherita Boniver, Pecoraro Scanio, Sandro Curzi, Marco Giusti fra i tanti). A chi gli contestava di essere troppo vicino alla Lega di Bossi ha spiegato che quando compare un fenomeno nuovo, magari anche allarmante, il primo dovere di un giornalista è cercare di capirlo e di analizzarlo senza preconcette demonizzazioni. Ha difeso Antonio Di Pietro (che Berlusconi, che diventerà poi il padrone del Giornale, definirà “un uomo che mi fa orrore”) e la magistratura. Ha affermato: “Io sono garantista, ma sono garantista per tutti, non solamente per i politici, i quali si accorgono che è necessario essere garantisti solamente adesso che sono colpiti, e questo è macroscopicamente ingiusto”.

Era questo il Feltri dell’Indipendente, passato sotto la sua direzione dalle 19.500 copie cui l’aveva lasciato l’ectoplasma simil-anglosassone Ricardo Franco Levi alle 120.000, un record ineguagliato nel giornalismo italiano del dopoguerra. Del resto anche all’Europeo, che aveva diretto prima di affrontare l’avventura dell’Indipendente, aveva fatto benissimo: da 78.000 copie a 120.000, se non ricordo male.

Non pensi il lettore che io voglia elogiare il giovane Feltri a spese del vecchio. Non è questo. Il mio è un rimpianto. Il rimpianto di un’occasione mancata e dell’irripetibile stagione di Mani Pulite di cui, oltre a Feltri, e in questo caso più di Feltri, furono protagonisti Di Pietro, Bossi, Gianfranco Funari. Una stagione che avrebbe potuto cambiare la storia del nostro Paese, che invece mancò l’obbiettivo perché, nel giro di soli due anni, tutti i poteri forti dell’Ancien régime, partitici ed economici, ripresero il controllo della situazione.

L’Indipendente fu favorito da parecchie circostanze, alcune esterne e addirittura lontane, e altre interne. Il collasso dell’Urss, quindi la minaccia dell’“orso russo” non c’era più, non valeva più il “turatevi il naso” di Indro Montanelli, e molti voti che erano stati democristiani, ma anche di altri partiti, confluirono sulla nascente Lega. E la comparsa della Lega, cioè di una vera forza di opposizione, poiché il Pci, poi diventato Pds, si era associato al potere, liberò le mani dei magistrati di Mani Pulite, che presero ad arrestare centinaia di politici corrotti. Nell’Indi c’era una redazione giovane, molto motivata, vogliosa di riscatto, e il vice di Feltri era Maurizio Belpietro, un formidabile “secondo” (in seguito dimostrerà di essere anche un buon direttore). Nei primi tempi io accompagnavo in giro Feltri per propagandare il nostro fragile giornale (60 dipendenti in tutto). Nella giornata, Vittorio faceva una sola telefonata a Belpietro, verso le sei, e Belpietro sapeva interpretare alla perfezione le intenzioni del direttore. Tutto andava bene ed eravamo già in fase di sorpasso del Giornale e se Montanelli se ne fosse andato via, com’era pressoché certo, perché aleggiava già la figura di Berlusconi non più imprenditore ma divenuto uomo politico, ci sarebbero arrivate 40 o 50.000 copie senza colpo ferire. Inoltre né Feltri né io, che ho avuto una parte in quella storia, eravamo compromessi coi partiti dell’Ancien régime, mentre gli altri giornali, che in quella schiuma sporca avevano nuotato, dovevano andarci molto cauti, dovevano scrivere col freno a mano tirato (“Dieci domande a Tonino”, editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera). Nonostante la malinconia di fondo che è ciò che più intimamente ci unisce, parlo di Feltri e di me, per una volta eravamo davvero felici.

Una sera d’agosto del 1993 Feltri mi invita a cena. Non nei luoghi esclusivi che in seguito gli sarebbe piaciuto frequentare, ma in una pizzeria sotto casa mia. E mi fa la terrificante domanda: “Se vado al Giornale, vieni con me?”. Gli dissi di no e cercai di spiegargli che era un errore professionale, politico e anche personale: “Guarda che la libertà che abbiamo oggi non la ritroveremo mai più”. Finita la cena, un po’ brilli, alzammo i calici e Vittorio esclamò: “In culo al Berlusca, restiamo all’Indi”. Questa scena si ripeterà altre due o tre volte. L’ultima, il giorno dopo, firmò per il Giornale e si portò via tutti i migliori editorialisti, e la struttura portante. Io che ero rimasto cocciutamente all’Indi, gli davo del “traditore”, del “voltagabbana”, ma lui, che pur è permalosissimo come tutti i polemisti, non se la prese più di tanto. Una sera, quando aveva già lasciato l’Indipendente per il Giornale, cioè per Berlusconi, ci trovavamo a Bergamo, la sua città, e il pubblico che era tutto di parte leghista prese a insultarlo pesantemente. Intervenni e dissi: “Non potete dimenticare quanto Feltri ha fatto per la Lega”. Sottobanco, Vittorio mi prese la mano e me la strinse. Io, che sono romantico, questo episodio lo ricordo, lui non so. Ma anche dopo, seppur in un modo molto ondivago, continuammo ad avere rapporti. Se avevo un articolo che nessuno avrebbe osato pubblicare, telefonavo a Vittorio. A una durissima inchiesta sul commendevole gruppo Rizzoli-Corriere della Sera diede due colonne di spalla in prima pagina e due pagine all’interno. Ogni riga, se non fosse stata veritiera, era da querela. Ma nessuno del commendevole gruppo alzò orecchia. Il 31 maggio 2007, quando dirigeva Libero, gli inviai un pezzo che iniziava così: “Vorrei essere un talebano, avere valori fortissimi che santificano il sacrificio della vita, propria e altrui. Vorrei essere, per lo stesso motivo, un kamikaze islamico. Vorrei essere un afghano, un iracheno, un ceceno, che si batte per la libertà del proprio Paese dall’occupante, arrogante e stupido. Avrei voluto essere un bolscevico, un fascista, un nazista che credeva in quello che faceva. O un ebreo che, nel lager, lotta con tutte le sue forze interiori per rimanere un uomo… Vorrei essere e vorrei essere stato tutto, tranne quello che sono e sono stato per sessant’anni e passa: un uomo che ha vissuto nella democrazia italiana”.

Tutto si può dire di Vittorio Feltri, tranne che non abbia un intuito giornalistico. Un intuito che non è semplicemente narcisistico, autoreferenziale, alla Oriana Fallaci, ma che è sempre messo al servizio del giornale e dei suoi lettori. A parer mio Vittorio Feltri è stato il miglior Direttore della sua, e mia, generazione, e anche di un paio di quelle precedenti.

Negli ultimi tempi ci siamo irrimediabilmente guastati. Mi ha attaccato e fatto attaccare con prose così vili e sciocche da far disonore a chi le firma. Però, nonostante tutto questo, voglio dire qui: grazie Vittorio.

 

Eni e Renzi T.: notizie poco gradite ai giornaloni

Ci sono notizie che la grande stampa ignora, o nasconde negli anfratti più reconditi dei suoi giornali. È un mistero. Sul Fatto di ieri abbiamo raccontato le intercettazioni dei vertici di Autostrade per l’Italia e le manovre per evitare la revoca della concessione dopo il crollo di Ponte Morandi. Gli altri giornali le hanno snobbate. È perché noi siamo più bravi? No: è perché gli altri non ne vogliono parlare. La Stampa, per dire, ha pubblicato un articoletto su Aspi un giorno prima del Fatto, ma l’ha nascosto in un minuscolo boxino in pagina 11. Il titolo era deflagrante (“Autostrade, le risate dei manager al telefono”, “Passare nelle gallerie? Meglio prendere l’aereo”), ma la collocazione era talmente inoffensiva che la notizia è passata inosservata. Lo stesso, ieri, con la condanna di Eni per i veleni del Centro Oli di Viggiano: una confisca da 44 milioni nell’inchiesta che fece dimettere la ministra Federica Guidi (mai indagata) ai tempi del governo Renzi. Sul Fatto potete leggerlo, sui giornaloni purtroppo no. A proposito di Renzi, come avranno dato la notizia del rinvio a giudizio del babbo e della mamma di Matteo per bancarotta fraudolenta? Sul Corriere c’è un pezzettino in pagina 17, su Stampa e Repubblica due mini box (rispettivamente a pag. 11 e 13).

Anche la Bce ha “l’effetto Draghi”

Del cosiddetto “effetto Draghi” non vorremmo dovercene occupare, ma ogni giorno la grande stampa ci delizia con nuove versioni di un fenomeno che spazia ad ampio raggio, dallo spread all’economia fino al piano vaccini. In attesa di un’interpretazione scientifica, ci affidiamo al Corriere della Sera, uno dei più autorevoli osservatori dell’effetto. Prendiamo lo spread. Siccome l’arrivo di Draghi, e quindi la fine della crisi politica aperta da Matteo Renzi, ha avuto l’inevitabile effetto di ridurlo intorno ai 90 punti, rimettendolo nel trend discendente che aveva prima della caduta del governo Conte, ma poi nelle ultime settimane si è riportato ai 100 punti di inizio gennaio, il Corsera ha avuto un attimo di sbandamento. Che da qualche giorno ha però risolto con un pezzo online dal titolo “L’effetto Draghi e le mini risalite (ma la storia continua…)” in cui spiega che sì, in effetti lo spread è risalito, ma comunque è sceso dall’inizio della crisi politica. Incredibile! Il tutto accompagnato da una infografica interattiva che mostra questo banale concetto. Ecco, per dire, ieri l’annuncio che la Bce intensificherà gli acquisti di titoli ha fatto “crollare” lo spread a 93 punti. Conta Francoforte, non il premier italiano. Ma vuoi mettere il fascino dell’”effetto Draghi”?

Le vaccinazioni sotto i riflettori della tv

Anche noi, come l’intero circo mediatico, e come il nostro direttore Marco Travaglio, siamo rimasti impressionati dalla performance del capo dello Stato Sergio Mattarella, che si è recato a fare il vaccino all’ospedale Spallanzani “come un cittadino qualsiasi”. Complimenti al presidente: prima di tutto per aver fatto il vaccino; dopodiché, per aver avere aspettato il proprio turno in fila munito di regolare mascherina, per essersi seduto placidamente in astanteria, per avere atteso in via precauzionale i quindici minuti successivi alla somministrazione senza fare una piega (questo gli riesce particolarmente bene). “Possibile che fosse davvero Mattarella? Così, senza corazzieri?”; lo stupore di Travaglio è anche il nostro.

Ma quale normalità, diranno i soliti malevoli, quello dello Spallanzani era uno spot pensato a tavolino non solo per la vaccinazione, ma anche per “il Presidente qualsiasi”. Di certo, da cittadini qualsiasi come siamo, qualche dubbio rimane. Quando andremo a fare il vaccino, per chiudere il cerchio troveremo anche noi lo stesso tam-tam, a dimostrazione che il cittadino qualsiasi non ha nulla da invidiare al suo presidente e che il suo non era uno spot?

Come per i Dpcm, sarebbe meglio saperlo con un po’ di anticipo. Non vorremmo farci prendere alla sprovvista da tutti quei riflettori; non siamo abituati a essere i protagonisti di un servizio di apertura del telegiornale. La fotografia è il meno, visto che anche per il presidente ne è stata autorizzata una sola. Ci basterà scegliere il profilo migliore. Più complicati arrivo e partenza dallo Spallanzani, dove si rischia di incontrare le troupe desiderose di documentare la nostra ambita vaccinazione qualsiasi. Domanda: in sede di prenotazione al vaccino, si potranno scegliere anche le testate? Che so, AstraZeneca più Tg5, più La Stampa? Oppure, Sputnik più Tg3, più Corriere della Sera? Fateci sapere, non lasciateci ancora una volta nell’incertezza.

Tutti dovrebbero saltare la fila

Anche noi giornalisti chiediamo giustamente di poter usufruire di una corsia preferenziale (si chiama “saltare la coda”) per essere vaccinati prima degli altri dopo che ne avranno usufruito medici, infermieri, malati gravi, ultracentenari, ultraottantenni, maestri, professori e alunni. I giornalisti sono molto esposti al contagio, loro che consumano le scarpe girando per tutta Italia alla ricerca di notizie. E inoltre, che cosa succederebbe se si ammalassero tutti di Covid? Ne andrebbe della libertà e della completezza dell’informazione.

Vi immaginate le edicole senza giornali? I canali tv senza talk show e telegiornali? Di fatto tutte le categorie stanno chiedendo di saltare la fila. D’altra parte anche i politici, stante la effettiva importanza del loro ruolo dovrebbero giustamente essere vaccinati prima se non l’hanno già fatto di straforo. Niente più consigli comunali? Niente più leggi? Niente più congressi e assemblee del Pd? Niente più viaggi a Dubai? E vogliamo parlare dei vigili urbani? Vi immaginate gli ingorghi che si creerebbero senza la loro meritoria e indispensabile attività? E gli ingegneri? E gli architetti? Se finissero tutti in terapia intensiva non oso pensare che cosa succederebbe ai ponti e ai viadotti. E i militari? Vogliamo rischiare l’anarchia e il disordine? E i calciatori? Fine del campionato?

Giusto peraltro consentire ai commercianti di ricevere il vaccino prima degli altri. Sono a rischio a causa dei continui contatti col pubblico, come gli autisti, come i postini, come gli agricoltori e gli allevatori senza i quali nessuno di noi potrebbe più mangiare insalate e bistecche. Aggiungerei che non possiamo rischiare di bloccare le attività amministrative che fanno funzionare lo Stato. I dipendenti pubblici andrebbero vaccinati prima di tutti. E anche i lavoratori del settore privato, per salvare l’economia.

In poche parole: tutti dovrebbero saltare la fila. Tutti prima di tutti. Il che equivale a nessuno prima di nessuno.

Ah, dimenticavo i poveri in canna, i mendicanti, i barboni. Tranquilli. Quelli li possiamo vaccinare per ultimi.