La manovra a tenaglia spacca in due il nemico

L’esercito russo ha aperto tre fronti contemporaneamente: a Nord dal confine bielorusso, a Est nel Donbass, a sud in Crimea. I movimenti delle truppe di Mosca sono iniziati ieri poco prima dell’alba. Subito le autorità ucraine hanno immaginato la portata dell’attacco. Ma quando le sirene antiaeree hanno suonato nella capitale si è capito che i piani di contenimento fatti dal ministero della difesa ucraino non erano sufficienti. Oltre a Kiev il Cremlino ha fatto bombardare altre sei grandi città del paese. Oltre 100 gli attacchi andati a segno. Ci sono stati lanci di missili da terra, acqua e cielo. Secondo fonti ufficiali russe l’invasione sarebbe diretta solo a infrastrutture militari, ma già nella tarda mattinata di ieri venivano registrati morti tra i civili. Il primo sembra essere stato un adolescente Kharkhiv, nella parte orientale del paese. L’appartamento dove viveva è stato colpito da un colpo di mortaio.

Le previsioni sui possibili scenari circolati nei giorni scorsi davano quasi per certo l’ingresso delle truppe russe dalla Crimea a sud e da est nell’area controllata dai separatisti del Donetsk e Lugansk. Le armi e le truppe posizionate a nord, in Bielorussia, erano considerate quasi puro deterrente. Ma la distanza da quelle installazioni militari alla capitale può essere coperta con i missili Cruise. E il presidente russo ne ha fatti lanciare molti. Subito dopo due colonne militari hanno attraversato il confine e sono entrate in Ucraina. Lo scontro con le forze di Kiev si è consumato per tutto il pomeriggio nelle vicinanze di Chernobyl. La zona della centrale nucleare è chiusa da decenni, ma lì accanto passa la strada che collega il confine con la capitale, un tragitto che in auto si compie in meno di due ore. Le truppe del Cremlino poco dopo il tramonto hanno preso il controllo dell’impianto dove sono stoccate le scorie nucleari. I tecnici sono stati fatti prigionieri. Mentre i carri armati russi avanzavano verso sud l’aviazione del Cremlino ha colpito prima vicino Kiev, poi tre città a ovest. Solo Leopoli è stata risparmiata dai raid aerei. Lì, a poche decine di chilometri dal confine polacco, si sta dirigendo una coda interminabile di auto e furgoni. Sono le persone in fuga da tutto il paese. Vogliono arrivare in Europa per chiedere asilo, almeno temporaneamente.

Il primo sconfinamento in territorio ucraino è avvenuto però a sud. Nella penisola di Crimea, dopo l’annessione e il referendum, Putin sta concentrando risorse del ministero della difesa. Già nella notte di mercoledì alcuni video diffusi su Twitter mostravano una colonna chilometrica di mezzi verso l’Ucraina. L’ingresso all’alba è avvenuto in due direzioni: una parte si è mossa verso est con il tentativo di raggiungere le altre truppe di stanza a Donetsk e Lugansk. Mentre l’altra ha iniziato a procedere prima verso Cherson e poi Odessa. Qui c’è stato un sussulto della difesa ucraina. Intanto dal mare le navi russe colpivano a est il porto di Mariupol e a ovest quello di Odessa.

Nell’est separatista la linea del fronte ha tenuto: il comando militare di Kiev ha accusato i russi di aver colpito un ospedale a Vuhledar, nella regione di Donetsk: 4 morti e 10 feriti, tra cui 6 medici. Poco più a nord vicino la frontiera di Sumy è stata scena di scontri per tutta la giornata. Dai movimenti delle forze russe si può desumere che il loro piano sai ricompattarsi nel centro del paese. E poi da lì proseguire forse fino all’estremo Ovest.

Donbass, le infermiere in trincea: “Sentiamo già i loro kalashnikov”

“Fottuti bombardamenti. I loro kalashnikov sono già qui in città. Dobbiamo ammazzarli in fretta e per sempre”. Nadijka, 34 anni, volontaria para-medico nel corpo in mimetica degli “Hospitalers”, è all’ospedale di Avdiivka, una delle città che si trovano lungo i 450 chilometri di linea di confine in Donbas. Alla sua famiglia, a Lviv, preferisce non dire dove si trova: sotto fuoco russo in camice bianco nella regione di guerra ad est di Kiev. Con la sua sacca di pronto soccorso sempre attaccata alla gamba e uno zainetto sulle spalle, attende nelle retrovie che arrivino i primi feriti dalla linea di contatto. Le strade della cittadina sono deserte, mentre il suo Paese sta combattendo alle periferie. Ha trascorso le sue ultime notti a raccogliere materiale medico, bende elastiche, lacci emostatici, cerotti, polvere cicatrizzante: le distribuirà ad ogni divisa ucraina che tornerà ferita da piombo russo in arrivo. Impossibile quantificare il numero reale delle vittime ad Avdiivka: si continua a sparare e l’attacco è continuo. Sanguinoso e funesto è il viavai dal fronte. Anche Kramatorsk si è svegliata ieri sotto attacco e, intorno alle 5 del mattino, l’aeroporto della città è stato colpito. Due forti esplosioni, il cui boato ha viaggiato per chilometri, hanno decretato la fine dell’attesa e la conferma dell’inizio di una guerra su vasta scala.

I civili a Kramatorsk sono per strada, fanno la spesa e si mettono in fila per prelevare i pochi contanti che la banca mette a disposizione: non più di 2000 grivne, ma solo finché ci sono soldi e alcune banche hanno già terminato le loro riserve. Si ammassa cibo e beni di prima necessità, ma senza isteria: la gente attende, forse rassegnata, a quello che inesorabilmente succede irrefrenabile. Davanti alla farmacia gli ucraini attendono il proprio turno mentre le file diventano sempre più lunghe. I farmaci salva vita iniziano a scarseggiare e i problemi di mobilità non fanno che peggiorare le cose. Chi può, cerca di spostarsi e di raggiungere i propri cari: chi la fidanzata, chi la madre, chi la famiglia. Sono le voci rotte di un popolo che cerca unità ma che, dopo otto anni di conflitto, è anche assuefatto all’incertezza e all’instabilità. La paura delle rivolte, degli assalti ai supermercati o alle banche, ha messo in allerta la polizia militare della città che è pronta ad intervenire in caso di disordini. Anche nella base segreta militare di Avdiivka i soldati sono in attesa e si preparano da anni ad ogni evenienza. I mezzi in cortile sono stati camuffati con delle reti mimetiche: un sottufficiale dalla stazza imponente spiega che hanno paura di essere individuati con i satelliti. Gli ucraini puliscono i fucili e attendono ordini. A Kiev il presidente ha chiesto di donare il sangue “per l’Ucraina”, ma all’ospedale di queste cittadine di confine dicono che ogni giorno si presentano solo una quarantina di persone, come tutti gli altri giorni. “Forse domani cambierà qualcosa”, suggerisce una dottoressa, ma per ora pensare “a domani” è molto faticoso, quando anche i minuti faticano a passare.

Le serrande di molti negozi non si sono alzate, qualcuno cerca di acquistare un biglietto per lasciare il Donbas, ma più passano le ore e più è chiaro che l’attacco è totale: le forze russe hanno attaccato via terra, mare e aria. I negozi di articoli militari e le rivendite di armi sono chiusi e nessuno, almeno per ora, distribuisce fucili agli abitanti nonostante la promessa del presidente in tv.

Via tutti. Gran parte dei giornalisti che alloggiavano in città ha iniziato a ripiegare fuori dall’oblast, regione di Donetsk e alcuni stanno cercando di raggiungere Kiev. Nell’ufficio improvvisato nella hall del Kramatorsk hotel gli ultimi reporter seguono le agenzie ora per ora mentre le truppe russe conquistano sempre più territorio da ogni lato del Paese. Non si sa per quanto altro tempo ancora qui sventolerà la bandiera gialloblu. Che le truppe russe arriveranno non è un’ipotesi, ma un’evenienza sempre più concreta, mentre gli ucraini studiano piani di evacuazione e temono l’arrivo del buio.

L’obiettivo è Kiev: l’armata russa vuol cacciare il governo filo-Nato

Una eco lontana di tuono e una voce metallica dalla reception: “Scendere immediatamente al piano -2”. Non è ancora l’alba e Kiev si sveglia con le sirene che precedono di poco le esplosioni alla periferia, saltano i depositi di armi. Quando sulla capitale dell’Ucraina scende di nuovo la notte le truppe di Putin sono ormai vicine: fonti dell’intelligence occidentale ieri sera annunciavano la caduta di Kiev già “nelle prossime ore”. L’obiettivo non dichiarato ma ormai evidente è la rimozione del governo di Volodymyr Zelensky, il “nemico” del Cremlino filo-Nato. Tanto che in serata uno dei consiglieri del presidente lancia l’allarme di un possibile golpe. I raid aerei e missilistici si sono in effetti intensificati soprattutto all’est, primo obiettivo dell’invasione programmata dal Cremlino.

La guerra nel cuore dell’Europa è iniziata nel buio pieno, come accade spesso, soprattutto quando il demone della paranoia si impossessa degli autocrati che si sentono sul viale del tramonto e preferiscono nascondersi dietro il buio della menzogna con lo slogan: “Vogliamo denazificare Kiev”. Quando, in realtà, a combattere dalla parte dei separatisti del Donbass ci sono fior fiore di neonazisti da tutte le parti del mondo.

Primo obiettivo dei missili e poi dei paracadutisti delle forze speciali russe era la conqusita dell’aeroporto di Hostomel, il più vicino dal centro-città, testa di ponte per poter accedere rapidamente ai palazzi governativi.

Contro tutti i pronostici degli analisti, la maggior parte estimatori della supposta razionalità e intelligenza che dominerebbe da sempre la personalità del presidente Putin, alle 4.30 del mattino l’aeroporto di Kiev è stata colpito da missili Iskander lanciati probabilmente appena dietro il confine settentrionale ucraino. Ormai ci si aspettava l’attacco, anche e soprattutto, su Kiev, ma non nel giro di poche ore, mentre le truppe russe sfondavano la linea di difesa ucraina nella città settentrionale di Kharkiv, iniziando combattimenti che continuano da 24 ore così come sta avvenendo nel porto sud orientale di Mariupol, scossa da centinaia di esplosioni. L’esercito ucraino sta vendendo cara la pelle: per tutta la giornata ha dato filo da torcere alle equipaggiatissime truppe putiniane a Kherson, nel sud, e a nord, a Cernobyl. Morti e feriti stanno aumentando, anche se non è chiaro il numero. In serata Kherson e Cernobyl sono cadute. Anche a Odessa verso sera sono iniziati i bombardamenti della marina russa. Intanto, dalla base militare dell’enclave de facto russa della Transnistria, in Moldavia, sono stati lanciati altri missili che hanno colpito obiettivi strategici a Ivano Francisk.

Ma a Putin preme tagliare il più velocemente possibile la testa al governo ucraino “fantoccio degli Stati Uniti”, come lo ha definito nei giorni scorsi.

Il presidente Zelensky non ha voluto essere portato con i suoi ministri a Leopoli, a ovest, al confine con la Polonia, però, al netto della gravitas che sta mostrando, sembra aver sbagliato strategia, forse mal consigliato dal capo di stato maggiore : nel Donbass i soldati ucraini continuano a resistere e morire, ma Kiev pare sguarnita. Ci si domanda come sia possibile che gli strateghi ucraini abbiano deciso di inviare così tanti soldati nel Donbass, lasciando meno protetta Kiev.

Dopo aver messo fuori uso l’aeroporto principale di Kiev e quello di Hostomel, a 40 chilometri dalla capitale, elicotteri e aerei russi hanno cominciato a bombardare la sede dei servizi segreti ucraini nel cuore della città.

Ciò che vedremo forse già questa mattina potrebbe essere cadaveri accanto a Santa Sofia, la cattedrale simbolo di Kiev ma anche delle chiese ortodosse. Il presidente Zelensky chiedendo sanzioni ancora più dure da parte dell’Occidente dimostra di non avere più alcuna speranza di fermare l’avanzata russa su Kiev – i soldati sono giá nella omonima regione- che sembra un deserto di ghiaccio dopo il coprifuoco imposto per la prima volta ieri. Nelle strade si aggirano però ancora figure solitarie. Fantasmi, in questa seconda notte di guerra surreale eppur reale.

Zitti e Mosca

L’attacco criminale di Putin all’Ucraina è un post scriptum degli imperialismi del XX secolo, totalmente fuori sincrono rispetto al comune sentire delle opinioni pubbliche mondiali. Non solo per le nuove generazioni che la guerra, fredda o guerreggiata che fosse, l’hanno letta sui libri di storia, ma anche per quelle che l’hanno vissuta e poi archiviata. Per questo lascia la gente senza parole e rende false e vuote le parole dei governanti che ne sono prodighi. Quelli che menano le danze, Putin e Biden, sono due cascami del Novecento che stanno per compiere 70 e 80 anni, formattati mentalmente nel vecchio mondo che ora rispunta dalla tomba come gli zombi. Con una differenza: Putin parla a un popolo che non dimentica nulla, tantomeno la sua vocazione nazionalista ancora frustrata dal crollo dell’Urss e dalle provocazioni dell’Occidente che ha fatto di tutto per umiliarlo, violando l’impegno di non allargare la Nato a Est; Biden parla a un popolo che non ricorda quasi nulla, salvo i tributi di sangue pagati a far guerre in giro per il mondo, perdendole drasticamente tutte dal 1945. Quindi la guerra non toglie consensi a Putin (a meno che la perda), ma ne toglierebbe parecchi a Biden (che già ne ha pochi) col rischio che ne approfitti la terza potenza, quella tragicamente più al passo coi tempi: la Cina. Quanto a noi, cittadini della cosiddetta Europa, pagheremo il solito tributo di soldi per conto terzi, passando da uno stato d’emergenza (sanitario) a un altro (bellico). Con l’aggravante – per noi italiani – di doverci pure sorbire il cinepanettone delle Sturmtruppen in servizio permanente effettivo, che trasformano le peggiori tragedie nell’eterna commedia all’italiana.

“Noi l’avevamo detto”. È il mantra dei Nando Mericoni a mezzo stampa (“Pronto-Amerega-me-senti?”), che da tre mesi si calano l’elmetto sul capino e rilanciano ogni giorno le veline della Cia sull’invasione russa “tra oggi e domani” e ora, dopo aver fatto e rifatto lo stesso titolo fasullo, si vantano di averci azzeccato. Come se il compito dell’informazione fosse ripetere cento volte una fake news sotto dettatura (“oggi piove”) e poi, quando la centunesima volta si avvera, fingere che fosse sempre stata vera (“visto che oggi piove?”). E come se drammatizzare urlando “Al lupo! Al lupo!” non fosse il modo migliore per sdrammatizzare: un regalo al lupo che, quando arriva, non ci crede o non si scandalizza più nessuno. Ora semmai qualcuno si chiede come mai l’amico americano, se sapeva tutto da mesi, ha lasciato l’Ucraina così impreparata e sola dinanzi all’attacco.

“Legalità internazionale”. Bei tempi quando qualche governo poteva insegnarla agli altri.

Oggi non ci sono “buoni” titolati a dare lezioni ai “cattivi” russi, visto che Usa e Ue si sono macchiati di guerre illegali e criminali (peggio ancora se avallate dall’Onu) in ex-Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Somalia e via bombardando.

“Ci vorrebbe l’Europa”. Fa il paio col “non ci sono più le mezze stagioni”. L’Europa politica e militare non è mai nata per non dispiacere al residuato bellico della Nato (a 31 anni dalla fine del Patto di Varsavia), con alleati indecenti come la Turchia (impegnata a sterminare i curdi nel silenzio degli atlantisti). Finché accetteremo che lo Zio Sam faccia casini in giro lasciandoci il conto da pagare, in termini di migranti (Libia e Afghanistan), terrorismo (Iraq), affari mancati (Cina) e bollette (Ucraina), resteremo il vaso di coccio fra due potenze che si rafforzano a scapito nostro. E piangere sull’Europa che non c’è non sarà solo inutile: sarà ridicolo.

“Tremenda vendetta!”. Posto che, in base ai trattati, la Nato non può inviare truppe in Ucraina, la reazione sarà in forma di parole e di sanzioni. Le parole abbondano e mettono tutti d’accordo. Ma Putin lesnobba, anzi le capitalizza agli occhi del suo popolo e del suo establishment(che l’altroieri era tutt’altro che allineato e coperto). Altra cosa sono le sanzioni, che per la Ue escludono gas e banche, per gli Usa no. Su questo conta Mosca: quando si passerà dalle parole ai fatti, il fronte occidentale si rivelerà pura finzione.

“Abbasso i putiniani!”. La caccia agli amici di Putin scatenata dai giornaloni e dal Pd c’entra poco con la guerra in Ucraina e molto con le guerricciole da buvette di Montecitorio: serve a screditare Salvini (che con e sulla Russia ne ha dette e fatte di tutti i colori, ma Putin manco lo conosce) e Conte (reo di un approccio multilaterale in politica estera, peraltro in linea con la tradizione diplomatica italiana, da Moro ad Andreotti, da Prodi a D’Alema allo stesso Frattini). Altrimenti sul banco degli imputati ci sarebbe anzitutto B., quello dei festini con l’amico Vlady nella dacia e a villa Certosa, delle sceneggiate a base di lettoni e plaid trapuntati, delle leccatine alle democrazie-modello di Putin e Lukashenko. Invece è tutto prescritto, in vista del campo largo di Letta (zio e nipote).

“Finché c’è guerra non si tratta”. È la linea di Biden, dunque di Draghi. Ma quando si dovrebbe trattare: in tempo di pace? I negoziati servono quando si combatte, per ottenere tregue e poi trattati. E a mediare non è adatto chi è intruppato in una fazione. Perciò servirebbe, in Europa, qualcuno che tenga una postura più terza e meno appiattita sugli Usa. O almeno che si levi l’elmetto, guardi al di là del proprio naso e scopra ciò che è ovvio dalla notte dei tempi: gli amici te li puoi scegliere, i nemici no.

Gli slip di “Ragno”, le fughe dalle cene e i canti napoletani sull’autostrada

Lucio Dalla è – splendidamente – ovunque. In anni di interviste è il più citato tra i colleghi e per ognuno di loro rappresenta un qualcosa di speciale e palpabile. Di seguito alcuni di questi ricordi.

Tosca: “Rido quando lo vogliono far passare come un santino, mentre era tremendo ed era il suo bello: era un dissacratore, un imprevedibile; ci ho lavorato due anni: mi spiazzava continuamente; (ride) ero uno dei soggetti per i suoi scherzi. Dormivo a casa sua, una notte sento della musica, così la mattina gli domando: ‘Questa notte hai suonato?’. ‘No’. Insisto, ma nega. Poi lancia uno sguardo ai suoi inservienti: ‘Allora è tornato! Morandi lo ha visto nello specchio mentre si tagliava la barba’. ‘Ma chi?’, intervengo io. ‘Il fantasma!’. ‘Non ti offendere ma vado in hotel’”. Un modo garbato per mandarla via? “Ci ho pensato, ma qualche giorno dopo mi chiama Morandi: ‘Ho saputo che hai sentito il fantasma suonare’”. (Pausa, ci pensa) “Ogni suo soundcheck era una lezione di vita e forse non sarei quella che sono se non avessi conosciuto Lucio”.

Donatella Rettore: “A chi dico grazie? A Lucio Dalla, uomo ironico, spiritoso e di grandissimo talento; sono stata l’unica donna che ha amato, ma solo perché mi considerava un maschiaccio… Non avevo una lira e lui mi coinvolse nei concerti in Veneto e riuscì a togliere i dubbi a mia madre con una frase lapidaria: ‘Signora deve solo cantare, non fare la troia’”. Risposta di mamma? “È già piena di grilli per la testa”. E Dalla: “Risolviamo così: sua figlia canta e lei va a dire un paio di preghiere”.

Michele Torpedine: “A sedici anni già suonavamo insieme alla Festa de l’Unità di Bologna, poi giravamo la città, e piano piano è diventato ‘Ragno’”. Il suo soprannome. “Inevitabile vista la quantità di peli mai nascosta, anzi esibita: quando andavamo a casa sua, era facile trovarlo vestito appena da un piccolo slip”.

Luca Barbarossa: “Ti presentava mille persone, non solo legate al mondo della musica, anche artisti, attori di teatro, ti presentava nuovi talenti… Una sera Lucio si avvicina: ‘Ascoltalo, è bravissimo’, e mi ritrovo davanti un ragazzo al piano: era Samuele Bersani che canta Il mostro”.

Ron: “Chi lo conosceva veramente era abituato alle sue dipartite: era imprevedibile, a volte impalpabile; era in grado di organizzare una cena, alzarsi con una scusa dopo appena quindici minuti, e non tornare più a tavola; era in grado di stare a cena con Gianni Agnelli e subito dopo fermarsi per due ore per strada a parlare con un barbone. Ah, i viaggi in autostrada con lui erano unici…”. Correva in auto? “No, non per questo: quando si fermava agli autogrill capitava, sempre, che venisse fermato dai fan. Lui felice. Una volta l’ho visto su un piazzale a cantare canzoni napoletane con un gruppo di signori campani in gita”. Chi era Lucio Dalla? “Un uomo unico, non c’è nessuno simile. Nessuno”.

Renato Zero: “Con Lucio ho vissuto delle grandi affinità caratteriali, direi anche psicosomatiche: in fondo eravamo due clown, e nel deserto di essere emarginati dal contesto generale, vedevo in lui una rivalsa, non mi sentivo solo”.

David Zard: “Mi ha salvato la vita. Avevo paura del trapianto (di fegato). Così mi portò da un medico di Bologna. Il professore mi disse: ‘O ti operi o non hai speranze’. Io niente. La sera stessa Lucio mi invita nella sua casa di Bologna. Siamo in strada e arriva un tizio. Lo ferma. E rivolto a me: ‘Vedi lui? Ha avuto i tuoi stessi problemi. Gli hanno trapiantato il fegato. Raccontagli com’è andata’. E il tizio: ‘Operato quattro settimane fa, e sono già così’. Bene, lo scorso anno ero al funerale di Dalla. Incontro la stessa persona. ‘Come stai?’ E lui: ‘Bene, perché?’ ‘Il fegato’. La risposta mi ha fulminato: ‘Ma ancora ci credi? Fu tutta una sceneggiata di Lucio per spronarti’”.

“Gli infami e quel genio di Lucio”. 10 anni fa moriva l’artista

“Non si venne a sapere”. Cosa? “Che Lucio aveva cantato Gesubambino al Teatro Duse, nel dicembre 1970”. Prima di Sanremo. L’avrebbero squalificato. “Ma furono proprio quegli applausi a convincere la RCA a proporre la canzone al Festival. La bellezza del violino e il resto…”.

Testo scritto da lei, cara Paola Pallottino.

A Bologna, e non alle Tremiti come inventava lui. Gli portai la poesiola e trovò subito la melodia. Io ero ossessionata dalla metrica. Non cambiò una virgola.

Ci pensò la censura.

Un’ostinazione demente, ma anche quegli infamoni dei discografici premevano per la cautela. Niente madonne e puttane, telefonate a valanga con la Rai. Dalla, sfinito, cambiò il titolo e i versi scomodi. Il brano fu ripescato in gara grazie all’insistenza di Alberto Bevilacqua e del regista Piero Vivarelli.

4 marzo 1943. La svolta.

Avevano stampato poche copie, sparirono in un baleno. Improvvisamente, per la RCA, Lucio non era più l’ultima ruota del carro.

Lei era in platea.

Tobia, il guardaspalle che accompagnava Dalla a riscuotere dagli impresari furbastri, si alzò tra i battimani e urlò: ‘Ora basta subire’. Il tempo delle vessazioni era finito.

Canzone umiliata ed esaltata.

I censori ne avevano mutilato il testo, che però vinse un premio. Mario Soldati, illuminato presidente della giuria di qualità, mi raccontò delle proteste di chi non ne aveva afferrato il senso, interpretandolo come un incesto. Soldati disse: ‘Certa gente soffre di recepimento intermittente. Ascoltano l’inizio e la fine e non capiscono niente in mezzo’.

Lei voleva scrivere del padre di Lucio.

Era rimasto orfano a sette anni, il mio doveva essere un risarcimento da una come me, che ha avuto un papà ingombrante, illustre etruscologo. Mi uscì un pezzo su una madre, certo trasfigurata.

Quella di Dalla era Iole, la sarta.

Che antipatica. Stava sempre lì a squadrarti dalla testa ai piedi, valutando quanto risultassi utile al figliolo. Dopo il terzo posto di Sanremo mi soffiò gelida: ‘Sei contenta, Pallottino?’. E io: ‘Dovremmo esserlo in due’.

Vivevano insieme: mamma lo controllava…

Poiché cominciavano a circolare chiacchiere sul conto di Lucio, lo faceva accompagnare da presunte fidanzate, aspiranti mogli segrete. Scrissi Anna Bellanna. Mi ero ispirata a una sua deliziosa amica, bionda e bellissima, sorella del povero manager Renzo Cremonini.

A Bologna parlavano.

Dicevano cose orrende. Busone, schifoso, puzzolente, nano maledetto. Pure lavorare con lui diventava sospetto. Dopo la sua morte la città si riempì di vedovi inconsolabili, accorsi al megagalattico funerale-passerella dove non si trovò un posto per me.

Criticarono Marco Alemanno perché aveva pianto in chiesa, dopo aver visto morire Lucio tra le sue braccia.

È l’unico che avrebbe diritto alla vedovanza. Marco, ragazzo civilissimo, in un amen si è visto sbattuto fuori dalla casa di via D’Azeglio dove conviveva con Lucio. Serratura cambiata, i familiari del ramo materno di Dalla si sono ritrovati tra le mani un’eredità enorme e ne hanno estromesso Alemanno. Che è tornato a Lecce per stare lontano da giochini e fondazioni. Lucio era stato imprudente a non far testamento in suo favore.

A un certo punto lei, Paola, litigò con Dalla.

Per Il Gigante e la bambina. L’avevo pensata per la sua voce. Lucio, con ostinazione incrollabile, voleva la cantasse un ragazzino come Ron. Io insistevo: solo tu puoi dar luce a un tema così. Niente da fare. Dissi che era un pazzo e gli tolsi il saluto.

Una canzone spesso fraintesa.

Mi aveva colpito il fatto di cronaca di un uomo che, a Cavalese, aveva rapito una piccola, ma non le aveva fatto niente. Un disturbato, però innocuo. Non un pedofilo. Invece nella mia storia il personaggio uccide la ragazzina, come a proteggerne l’innocenza. Immagini i morbosi esami clinici una volta liberata. Ron che c’entrava?

Pallottino, lei è una storica dell’illustrazione italiana e nel ’74 lavorò a un disco sulla condizione femminile, Donna Circo, che ora torna in una nuova versione. Per Dalla ha scritto nove canzoni. Nel libro di Massimo Londini spunta il provino de La ragazza e l’eremita.

Una versione registrata in studio da Lucio. Da sempre ero persuasa non avesse musicato il mio testo, che a un certo punto affidai ad Angelo Branduardi. Dalle stesse parole era uscito fuori un brano diverso.

Primo marzo 2012, la morte improvvisa di Dalla, profetizzata in Cara. Il mattino sereno, il treno che si ferma: l’esatta scena che stava vedendo dalla finestra d’albergo. E buonanotte anima mia, adesso spengo la luce e così sia.

Lui vedeva e negava la morte. Anche in un paio di miei pezzi, Un uomo come me e soprattutto Convento di pianura, dove uno bussa per farsi aprire e non sa da dove parta il colpo fatale.

Quando vi vedeste per l’ultima volta?

Mesi prima. In via D’Azeglio, su due divanetti a raccontarci tante cose. Il merlo fischiava. Avevamo rifatto famiglia. Anche quel giorno il cielo era bellissimo.

Giustizia cieca: ruba scamorza e pancetta, 2 anni di processo

“Avvocato, e cosa si rischia con l’accusa di furto aggravato?”. Era Rita, poco più che ventenne, che chiedeva del destino di sua madre, già molto oltre la sessantina, per via di quella scamorza da 200 grammi e delle due vaschette di cubetti di pancetta. “Il furto aggravato è punito con la reclusione da due a sei anni, più una multa in danaro”. Due anni di galera per la scamorzetta? “Era oltre l’immaginabile anche per me quel rinvio a giudizio, ed era il segno di come la giustizia percuotesse la propria credibilità e reputazione per una pigrizia procedurale, per la scelta burocratica di non vedere la realtà, di non avere alcuna cura della dimensione della questione che si sarebbe voluta giudicare e soprattutto della persona che si sarebbe dovuta condannare”, mi dice l’avvocato Giuseppe Maria Ingrassia, rileggendo la sentenza di piena assoluzione della sua assistita emessa dal tribunale di Trapani il 18 febbraio scorso, dopo due anni, diciamo così, di indagini.

I fatti. Sono le 16 del pomeriggio di un mercoledì di due anni fa. È dicembre e la signora Angelina entra nel supermercato del suo rione, alla periferia della città. Da quando è sola ma soprattutto da quando ha chiuso la sua attività commerciale, Angelina non ha impegni di sorta. I figli al lavoro per cercare di cambiare di segno la disgrazia che li ha travolti: il fallimento dell’attività con tutto quel che ne era conseguito. Decreti ingiuntivi a raffica, i conti correnti prosciugati e bloccati, una voragine di debiti a cui far fronte. Bisognava trovare il modo per venirne fuori. Perciò la signora era sempre sola e la casa vuota. Il resto della famiglia era al lavoro.

Quel giorno ha voglia di cucinare i rigatoni con un sugo di pancetta e provola. Va al supermercato. Si dirige al bancone del frigo alimentare e – tacendo a sé la disperata scelta di quello che sta per fare. È la sua prima volta ma pensa che in fin dei conti nemmeno può chiamarsi furto – sgraffigna due confezioni piccole di pancetta a cubetti (marca Beretta) da euro 3,19 e una scamorzina, pesa due etti e costa 2,75 euro. Le ripone lesta in borsa e s’avvia alla cassa. Paga quel poco che ha nel cestello, nasconde quel che tiene in borsa. Il servizio di vigilanza la blocca all’uscita. Le telecamere di servizio avevano infatti già ripreso tutto il male che Angelina aveva fatto a se stessa quella sera. La scamorza e la pancetta rimessi sul tavolo nell’ufficetto del dirigente del negozio, poi i documenti e: “Un attimo signora che dobbiamo stendere il verbale”.

Appena giunta a casa aveva già voluto dimenticare quella disperata e un po’ tragica scena, il vigilantes che le rovista la borsa, lei che si scusa, rimette sul tavolo i due pezzi e si scusa ancora e poi ancora…

Trapani è una città che mille volte è sbarcata nel telegiornale della sera e sempre per i suoi mille guai, per i clan che l’affamano, per le cosche che si muovono padrone, per le morti bianche. Nella provincia, il vessillo di big mafiosi della taglia di Matteo Messina Denaro, l’uomo del vento per via dei suoi investimenti nelle torri dell’eolico, l’energia pulita, diciamo così. Questo per riferire che la Procura della città avrebbe da fare e anche tanto. Ma tra il tanto che la storia e la delinquenza organizzata offrono, prende posto il nulla della vicenda triste di Angelina: due etti di pancetta e altrettanti di scamorza, valore di poco superiore ai 5 euro, di molto al di sotto dei 10. Eppure… “Eppure – ricorda l’avvocato Ingrassia – la mia cliente è accusata di furto aggravato. Deve risponderne davanti al tribunale”.

Allo studio legale mette piede la figlia di Angelina. Sua madre le ha dato l’atto giudiziario che le è stato notificato: è presbite e purtroppo avanza con l’età la cataratta: “Vedi tu che c’è scritto qua”.

Rita, che due anni fa ha preso la maturità, legge e capisce che deve correre da un avvocato. Anche lei lavora, ha trovato un impegno part time da precaria. Non dice nulla alla madre, non vuole coinvolgerla e sa che per lei sarebbe una pena troppo grande, una vergogna troppo grande.

“Io non ho mai conosciuto l’accusata – racconta il legale – i contatti con me li tiene la figlia”. Neanche il giorno del giudizio l’accusata si presenterà. “Abbiamo chiesto il rito abbreviato. Non c’era da negare nulla, soltanto da invocare la speciale tenuità del fatto. E più tenue di quel furto, meno di 10 euro, commesso da una persona spinta dalla necessità, cosa c’è? Il giudice ha accolto la nostra tesi. Ma chiedo: possibile che ci sia stato bisogno di un processo?”.

Firenze, biblioteche e archivi in agitazione contro i tagli. Ma il Comune nega tutto

Avevano iniziato a mobilitarsi nell’estate del 2021, contro la scelta di tenerli a lungo in cassa integrazione dopo le riaperture. Si erano dati un nome e un’organizzazione, avevano ottenuto rassicurazioni dal Comune. Poi, dopo che quelle rassicurazioni sembravano svanite, sono entrati in stato di agitazione il 6 dicembre e l’8 febbraio hanno scioperato: una rarità assoluta per le biblioteche e gli archivi, sul piano nazionale. Si tratta dei “BiblioArchiPrecari” di Firenze, come si sono definiti: circa 90 lavoratori delle biblioteche e i 10 dell’archivio civico del capoluogo toscano, che da mesi denunciano i tagli che presto saranno costretti a subire. Lavorano già oggi in condizioni poco dignitose, come usuale per i servizi culturali: diversi contratti, diverse cooperative che offrono gli stessi servizi. La maggior lavora con il contratto del Commercio e con il sistema della “banca ore”: hanno un numero minimo di ore garantite a settimana (12, 16, anche 8) ma possono lavorarne fino a 40, senza straordinari. Per i più fortunati si arriva a 1.200 euro al mese. Si sono mobilitati quando su quella già precaria prospettiva lavorativa si è abbattuta la scure di nuovi tagli, ventilati e poi confermati dal bando pubblicato. Bando che prevede, per la prima volta, una divisione tra servizi “primari” e “opzionabili”, questi ultimi da fornire solo quando il Comune ne abbia la possibilità. Servizi come aperture serali, pomeridiane, domenicali, assistenza digitale. Uniti a un bilancio che prevede, a oggi, due milioni in meno, per i BiblioArchiPrecari sembra chiaro che ciò si tradurrebbe in “430 ore e 17 fulltime in meno”. L’amministrazione – rappresentata dall’assessore al Personale, perché Firenze non ha un assessore alla Cultura – nega i tagli e parla di prossime assunzioni. Ma per ora i documenti dicono altro. “Assunzioni per le biblioteche, nel piano del Comune, non ci risultano”, spiega Alessio Nencioni dei Cobas, portavoce del gruppo di bibliotecari e archivisti “si stanno assumendo amministrativi, e la nostra paura, dato il bilancio attuale, è che diversi di loro, senza competenze specifiche, vengano spostati a lavorare nelle biblioteche”. Per questo chiedono ai consiglieri comunali di non votare il bilancio proposto e sono tornati in piazza anche il 21 febbraio, pochi giorni dopo la pubblicazione del bando che confermava i loro timori. Riuscendo a ottenere l’appoggio di una larga parte della cittadinanza: la petizione lanciata dall’Associazione dei Lettori della Biblioteca Nazionale di Firenze, rivolta al sindaco Nardella, ha visto le sottoscrizioni di decine di intellettuali, accademici e personaggi molto noti in città. Difficile che l’amministrazione possa ignorare una simile mobilitazione arroccandosi sulla presunta assenza dei tagli denunciati.

“A giudizio Miccichè (FI) e Scoma (Lega)”

Rischiadi finire a processo per finanziamento illecito ai partiti il presidente dell’Assemblea regionale siciliana, Gianfranco Miccichè. L’alfiere di Silvio Berlusconi nell’isola è tra le 48 persone sui cui pende la richiesta di rinvio a giudizio della Procura di Agrigento – con l’aggiunto Salvatore Vella e il pool di sostituti composto da Antonella Pandolfi, Paola Vetro e Sara Varazzi –, nell’inchiesta “Waterloo” della Dia sulla gestione della Girgenti Acque Spa, concessionaria del servizio idrico agrigentino. Miccichè avrebbe ricevuto più di 8 mila euro, per spese di viaggi e soggiorni come contributi elettorali alle Regionali del 2017, dalla società gestita dall’imprenditore Marco Campione, accusato di essere il promotore dell’associazione per delinquere che avrebbe commesso innumerevoli reati contro la Pubblica amministrazione. Soldi che non risulterebbero a bilancio della società, e per questo è indagato anche il deputato leghista Francesco Scoma, all’epoca in Forza Italia, che in qualità di mandatario della campagna elettorale di Miccichè, avrebbe attestato falsamente di aver ricevuto la somma di 5 mila euro, mentre la somma sarebbe di 8 mila euro.

Ricciardi, Big pharma e le regole mancanti

Gli interessi potenzialmente in conflitto c’erano. Non c’è dubbio che il professor Gualtiero detto Walter Ricciardi, docente alla Cattolica, già a capo dell’Istituto superiore di Sanità e rappresentante italiano all’Oms, ora consulente del ministro Roberto Speranza, abbia svolto incarichi per aziende produttrici di vaccini e farmaci da Menarini a Pfizer a Glaxo a Isba tra il 2007 il 2012; e il Dipartimento di Sanità pubblica della Cattolica per Abbvie Srl. Quindi ci si poteva anche attendere che Ricciardi rimanesse fuori dalla Commissione che elaborò il piano vaccinale 2016-2018, relativo agli obblighi introdotti con la legge Lorenzin. Ma all’Iss non c’erano norme che lo obbligassero a dichiarare le attività potenzialmente in conflitto o ad astenersi. L’Autorità anticorruzione (Anac) chiuderà il procedimento senza sanzioni ma potrebbe raccomandare all’Iss di adottare regole stringenti sui conflitti di interessi.

La questione è sorta dopo che il Consiglio di Stato, lo scorso 2 aprile ha accolto l’appello presentato dagli avvocati Gino Giuliano e Carlo Rienzi, quest’ultimo fondatore e presidente del Codacons, per conto dell’Associazione per i diritti del malato, a seguito di una prima pronuncia di improcedibilità del Tar Lazio sul ricorso contro la delibera Anac del 2018 che escludeva conflitti di interessi. L’Anac ha poi chiesto la documentazione all’Iss e a Ricciardi, con il risultato che abbiamo detto. Conflitti potenziali sì, ma nessuno li aveva vietati.