Tria. Ora rivuole la stessa poltrona per cui ha fatto causa a Palazzo Chigi

All’inizio di febbraio c’era chi preparava il vestito buono per le consultazioni con Mario Draghi, e chi già sperava in un posto nel nuovo governo. Giovanni Tria, invece, era dall’avvocato ad affilare le armi per stringere su una questione che gli sta a cuore: ottenere al più presto la fissazione di un’udienza al Consiglio di Stato che deve decidere sul risarcimento di circa 300 mila euro che ha chiesto allo Stato. Motivo? La sua cacciata nel 2016 dalla Scuola nazionale dell’amministrazione, dove giusto a febbraio si è liberato il posto più ambito, quello di presidente, che fu il suo e che non ha mai dimenticato.

E così qualcuno ha cominciato a ipotizzare che le mosse di Tria, neo consulente pro bono di uno dei principali azionisti del governo Draghi, ossia il leghista Giancarlo Giorgetti, servano a riportarlo proprio lì, alla guida dell’istituzione della presidenza del Consiglio deputata a selezionare, reclutare e formare i funzionari e i dirigenti pubblici. Incarico per il quale il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, punta più in alto: il Nobel Christopher Pissarides, esuberante economista cipriota di stanza a Londra.

Fatto sta che Tria pretende giustizia per una vicenda che lo ha ferito nell’onore e pure nel portafogli. Già, perché all’epoca della riforma Madia, il governo aveva deciso di commissariare la Scuola azzerandone i vertici, a partire dal presidente. Tria si era rivolto subito al Tar lamentando la “perdita dei suoi emolumenti e il danno alla reputazione personale e professionale subito”. Arrivando a chiedere che su quella decisione, a suo dire arbitraria, si pronunciasse addirittura la Consulta. Ma i giudici amministrativi, sordi alla sua sofferenza, gli avevano dato torto su tutta la linea ché, per citare le loro parole, “da tale vicenda non risulta alcun nocumento al prestigio e alla considerazione pubblica del ricorrente”. Che infatti di lì a poche settimane, forte del suo ruolo di preside della Facoltà di Economia presso l’Università di Tor Vergata di Roma, sarebbe stato scelto come ministro dell’Economia del governo gialloverde dopo il gran rifiuto del Quirinale a mettere la firma sulla nomina di Paolo Savona.

E la causa da 300 testoni contro lo Stato? Pareva che Tria ci aveva messo una pietra sopra. E invece no. Perché nel frattempo era terminata la sua esperienza al Mef. E così, lasciato a piedi dal governo a settembre 2018, aveva presto riavviato la pratica costituendosi in appello al Consiglio di Stato. Per tornare alla carica con la richiesta di risarcimento nei confronti di Palazzo Chigi, accusato di averlo così gravemente danneggiato con quel maledettissimo commissariamento deciso nel 2016 che lo aveva scalzato dall’incarico assunto fin dal 2010 e quando già aveva ottenuto la riconferma fino al 2017.

Una querelle densa di colpi di scena. Perché poi per tutto il 2019 e il 2020 non è successo nulla. Fino al 9 febbraio di quest’anno, quando Tria ha di nuovo spinto sull’acceleratore presentando un’istanza di prelievo: in soldoni un sollecito al giudice affinché anticipi l’udienza di discussione del ricorso che infatti è stato fissato al Consiglio di Stato il 27 maggio. Ma fino ad allora può succedere qualunque cosa, come ha già dimostrato questa storia. Persino che il governo Draghi lo rimetta in sella alla guida della Sna dopo averlo reclutato come super consulente sui vaccini, gratis et amore Dei.

Per lo Sport c’è la Vezzali, già montiana e berlusconiana

“Presidente, io da lei mi farei toccare”. In pedana di stoccate trionfali Valentina Vezzali ne ha tirate tante, fuori la più famosa resta quella hot a Berlusconi a Porta a Porta nel 2008. Un debutto politico in tempi non sospetti. Oggi, dopo la parentesi con Scelta Civica, l’ex schermitrice da sei ori olimpici diventerà oggi la sottosegretaria allo Sport del governo Draghi.

Era l’unica delega non assegnata, ma ora che il decreto Salva-Coni è stato approvato la nomina è stata fatta. Il profilo è quello giusto: un’ex atleta, che conosce il settore, donna (dopo le polemiche sulle quote rosa). Dunque tecnica, ma anche un po’ politica (è stata deputata con Monti dal 2013 al 2018). C’è chi dice che a fare il suo nome sia stato il leghista Giorgetti. Vezzali è anche poliziotta, stimata dall’ex capo e oggi sottosegretario Franco Gabrielli. In Parlamento fu bollata come assenteista, salvo poi recuperare a fine legislatura per rispondere alle critiche. È sempre stata super competitiva e forse anche per questo non si è fatta molti amici nel suo mondo: nel 2015, quando Matteo Renzi ci fece un pensierino come ministra, ci fu addirittura una petizione contraria di alcune colleghe. Ma negli ultimi tempi si era defilata e per questo non ci sono state grosse obiezioni.

Parlando di schermitrici, in realtà, il Coni ne avrebbe preferita un’altra, Diana Bianchedi, “delfina” di Malagò. Come tutti i campioni, anche Vezzali è di casa al Foro Italico (dove è stata vista di recente), era in prima fila a sostenere le Olimpiadi di Roma 2024 (contro Virginia Raggi), conosce ovviamente Malagò che saprà chi chiamare se avrà un problema, anche se non è una delle sue “pupille” (e già questa è una notizia).

Sarà circondata da uno staff di livello, le servirà perché troverà tanti problemi: non solo lo scontro fra Coni e Sport e Salute, ma soprattutto le difficoltà di un movimento devastato dalla pandemia, le continue richieste di favori del calcio, la grande occasione del Recovery Plan. Sperando che sappia “toccare” i punti giusti.

La lite Lega-FdI: incubo processi

Se la fine del governo Conte e l’arrivo di Mario Draghi non hanno fatto bene all’alleanza Pd-M5S, anche il centrodestra è più diviso che mai. Da una parte c’è Forza Italia, dilaniata tra il gruppo dirigente della coppia Antonio Tajani-Licia Ronzulli e l’ala più liberal che non sopporta più l’appiattimento del partito sulle posizioni di Matteo Salvini e la gestione “dittatoriale” dei fedelissimi di Arcore. Dall’altra Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno ingaggiato una guerra per la leadership del centrodestra sul prossimo gruppo sovranista al Parlamento Ue dopo l’uscita di Viktor Orban dal Ppe ma anche sulla presidenza delle commissioni di garanzia.

Forza Italia mercoledì si è spaccata sul voto del vicepresidente della Camera al posto di Mara Carfagna: grazie a Lega, Pd e M5S, è stato eletto Andrea Mandelli, vicino a Ronzulli, ma buona parte dei berluscones ha votato per Annagrazia Calabria (120 voti) e Stefania Prestigiacomo (8). Così le due donne azzurre si sono sfogate: si racconta di una Calabria in lacrime mentre Prestigiacomo sta minacciando di andarsene. Molti parlamentari sono in rivolta anche contro Tajani – definito “il becchino” per aver fatto perdere molti voti a FI o “il Dudù di Ronzulli” – a cui Berlusconi ha affidato il ruolo di coordinatore del partito per ripagarlo dalla mancata nomina a ministro: peccato che il ruolo di “coordinatore” non esista nello statuto di FI. Così in dieci sarebbero pronti ad andarsene verso il partito di Giovanni Toti: tra questi ci sono Matteo Perego a Simona Vietina, Michaela Biancofiore, Gigi Casciello, Gabriella Giammanco e la stessa Prestigiacomo. Ieri, intanto, l’ex badante di Berlusconi Mariarosaria Rossi – convertita per un mese agli “Europeisti” di Giuseppe Conte – è passata proprio con “Cambiamo!”, il partito di Toti. Tra Salvini e Meloni invece è in corso una guerra per le presidenze delle commissioni di garanzia che spetterebbero all’opposizione, e quindi a Fratelli d’Italia.

I meloniani chiedono il passaggio di consegne al Copasir tra il leghista Raffaele Volpi e Adolfo Urso di FdI ma Salvini sta facendo resistenza perché la sostituzione farebbe partire il risiko delle presidenze di commissione tra cui la Vigilanza Rai (oggi a FI) ma soprattutto la giunta per le Immunità del Senato che deve decidere sulle autorizzazioni a procedere, anche sui processi a Salvini. E il leader della Lega sa che ora in giunta il centrodestra unito più renziani ed ex M5S avrebbero la maggioranza e respingerebbero un’ipotetica richiesta di autorizzazione, al contrario di quello che è successo in passato. Poi avere un presidente “amico” come Maurizio Gasparri è fondamentale. L’ordine di scuderia ai suoi fedelissimi, quindi, è arrivato netto: “troncare, sopire” e “fare le barricate”.

Oggi Letta dice sì al Pd: ex renziani allo sbando

Stamattina Enrico Letta dirà sì alla guida del Pd. È tornato nella sua casa di Testaccio a Roma, ieri. Riunioni via Zoom e dialoghi via telefono con i capi corrente e con i vari big del Pd. L’unico che manca all’appello è Lorenzo Guerini. Oggi Base Riformista farà un’Assemblea per decidere la linea: divisa e confusa al suo interno, difficilmente arriverà a dire no. Forse qualche singolo lo farà, probabilmente una parte si asterrà. La trattativa è su una vice segreteria che possa garantirli sulle liste elettorali per le prossime Politiche. Il futuro segretario – a seconda di quale maggioranza avrà – potrebbe accontentarli. Letta si troverà da subito ad affrontare più di un nodo. L’“identità” del partito, le Amministrative, soprattutto il rapporto con il governo Draghi. E sullo sfondo la partita con il Colle.

L’idea dell’ex premier è quella di un centrosinistra largo, da Conte e Leu fino a Calenda (o addirittura Renzi, sulla carta, ovviamente). Nelle grandi città il tentativo sarà di presentare un candidato unico. Da assegnare ci sono Bologna e Napoli. Giuseppe Sala a Milano si è già candidato e Virginia Raggi e Carlo Calenda a Roma pure. Difficile che il Pd di Letta sostenga il primo cittadino uscente della Capitale. Anche perché c’è una questione tutta interna. Nicola Zingaretti sta manifestando un sostegno entusiasta all’ex premier: l’idea di candidarsi a Roma cresce di giorno in giorno. Nonostante il fatto che Roberto Gualtieri sia già in campo.

È di certo presto per parlare di corsa al Colle, ma non sarà secondaria nell’appoggio che i vari big daranno al segretario. Non è un caso che tra i grandi sponsor di Letta ci siano Paolo Gentiloni e Dario Franceschini: due che nel Quirinale ci sperano e che sono ben felici di aver eliminato uno dei possibili contendenti.

Ma poi c’è il governo. Quello di Letta sarà un sostegno convinto, pur se dialettico. Per molti versi l’agenda di Letta è la stessa di quella del premier. A partire da una questione cruciale a livello europeo. La distinzione tra debito buono e debito cattivo, ovvero tra debito utilizzato a fini produttivi (dagli investimenti nel capitale umano, alle infrastrutture cruciali per la produzione, alla ricerca) o viceversa improduttivi. Letta – che con Draghi ha un rapporto consolidato – però dovrà trovare il modo di portare avanti le ragioni di un partito di centrosinistra (e di una coalizione con dentro Leu) e dunque cercherà di mettere nell’agenda dell’esecutivo il tema delle diseguaglianze sociali. Da vedere come si porrà rispetto ai dossier della lotta al Covid e dei vaccini. Mentre sul Recovery Fund è in linea con l’impianto della Commissione. Con un particolare interesse ai temi della sostenibilità ambientale, che è anche giustizia sociale, che deve essere un modello di sviluppo integrale e trasversale, applicato a ogni linea di policy. Da capire, poi, se andrà in rotta di collisione con la Lega di Matteo Salvini sui temi della migrazione: per superare il Trattato di Dublino a favore di una corretta ridistribuzione dei migranti, ha ipotizzato pure l’uscita momentanea dell’Italia dallo stesso trattato. Una posizione radicale. Ma se i migranti possono funzionare come tema identitario ed etico, non possono certo essere centrali in una fase di estrema difficoltà per la popolazione italiana: c’è da capire soprattutto quanto Letta vorrà e potrà spostare il baricentro dell’esecutivo su istanze più di sinistra. E quanto sarà deciso nella gestione del partito. Ai tempi di Palazzo Chigi gli giocò contro anche una sorta di caparbia volontà di non sfidare Renzi, con i suoi stessi metodi, di non sporcarsi le mani. Lo stesso atteggiamento che potrebbe essere perdente anche questa volta.

 

Antigone il rapporto: “in un anno 12% in meno di detenuti”

Detenuti in calo nell’ultimo anno. Secondo il rapporto di Antigone, l’associazione che da oltre 20 anni si occupa dei diritti di chi sta in carcere, in un anno i detenuti sono diminuiti di circa il 12%: al 28 febbraio 2021 erano 53.697, a fronte di 61.230, al 29 febbraio 2020, pari a 7.533 detenuti in meno. La riduzione ha riportato così l’Italia vicina ai numeri del 2015, quando dopo essere stata messo sotto accusa dai giudici europei avviò un processo di “deflazione”, arrivando a 52mila detenuti. Per risolvere il sovraffollamento Antigone non indica la via dell’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede di costruire anche nuove carceri per garantire sacrosante condizioni dignitose, ma chiede di “deflazionare il sistema” di 4-8mila persone. Nel rapporto “Oltre il virus” si legge che in questo anno condizionato dal Covid, il sovraffollamento, “da condizione oggettiva di trattamento degradante è diventato anche questione di salute pubblica”. Ma se si guardano con oggettività i numeri del Covid, che anche la ministra della Giustizia Marta Cartabia vuole pubblici come il suo predecessore, si comprende che nelle carceri, per fortuna, la situazione non è grave come all’esterno. I numeri parlano da soli. Al 9 marzo, su oltre 53 detenuti i positivi sono 468 di cui la stragrande maggioranza asintomatici (441 su 468, secondo dati del ministero), mentre tra i 36.939 agenti della polizia penitenziaria i positivi sono 612.

Aspi, l’allarme già nel 2013: “Il Morandi rischia il crollo”

C’è un documento che anticipa di cinque anni la strage di Genova. È il 2013 quando Autostrade per l’Italia redige un’analisi del rischio che, letta oggi, fa venire i brividi: “Rischio crollo del viadotto Polcevera per ritardati interventi di manutenzione”. Il Ponte Morandi è l’unica infrastruttura in Italia a essere citata nel catalogo dei rischi. Quell’accostamento – fra un possibile collasso e l’inerzia nell’effettuare interventi strutturali – viene fatto dalla stessa società concessionaria. Il problema è ritenuto talmente serio che Atlantia, la holding che controlla Aspi, lo ricopia fedelmente nel catalogo dei rischi societari di tutto il gruppo.

Negli anni successivi, sul viadotto non viene effettuato alcun tipo di intervento straordinario. Il paradosso è che il rischio, senza che nulla venga fatto, viene ridimensionato. Nel 2015 il riferimento è al “rischio di crollo”, senza alcuna correlazione ai ritardi nelle manutenzioni. Nel dicembre 2016 la nuova versione parla di “perdita di funzionalità statica del viadotto Polcevera”. Il cambiamento della definizione, riporta la relazione del consulente delle parti civili Paolo Rugarli, non è affatto casuale, ma indicherebbe un tentativo di “edulcorazione” dei problemi. Una contestazione che viene mossa ad Autostrade per l’Italia anche dai consulenti delle assicurazioni che coprivano il rischio di collasso: quei cambiamenti, secondo le assicurazioni, sarebbero tra i sintomi che mostrano come alcune informazioni fondamentali sullo stato di salute del Morandi siano state nascoste.

Il tema del catalogo di rischi è uno degli elementi centrali nella ricostruzione della Procura di Genova e della Guardia di Finanza, che stanno per chiudere le indagini sul disastro. E che l’argomento sia caldo emerge anche da alcune intercettazioni, che vedono gli avvocati dell’ufficio legale di Spea (società in house che aveva il compito di monitorare le opere autostradali) impegnati a cercare proprio i riferimenti al rischio di crollo nei cataloghi di rischio, documenti che venivano approvati durante le assemblee dal consiglio d’amministrazione di Aspi e di Atlantia. Il 17 gennaio del 2019 Valentina Maresca, rappresentante dell’ufficio legale di Spea, ne parla con l’avvocato Fabio Freddi: “Mi ha chiesto alcuni documenti tra cui c’è quel documento. Non so se te lo avevo detto, sul portale Aspi fanno riferimento che a un unico ponte a rischio crollo, che era il Polcevera. Nel 2017 intendo, cioè chiusura 2017. Risk assessment 2017, poi risulta come … Catalogo Rischi 2018 di Aspi”. Non è chiaro per quale motivo i consulenti abbiamo avuto accesso solo a documenti che arrivano al 2016. Ma, stando alle intercettazioni, dopo il downgrading del 2016, il rischio sarebbe ritornato a salire, seguendo un’evoluzione fatta di alti e bassi difficile da comprendere. In ogni caso, la valutazione di questo rischio, tagliato su misura proprio su un univo viadotto in Italia, è sempre stata valutata di livello basso: la possibilità effettiva del crollo veniva valutata come remota. Apparentemente una contraddizione. Sebbene le cose siano andate esattamente come indicava, in modo un po’ sinistro, il primo documento di rischio. In ogni caso, l’esistenza di quel documento sembra rivestire un’importanza molto delicata, anche per l’ufficio legale della società: “Secondo te – domanda ancora Maresca – lo posso far girare, non lo posso… perché comunque era venuto fuori anche nell’ambito di una riunione all’Utsa (l’ufficio di sorveglianza delle Autostrade) di Genova”.

Secondo le difese degli indagati, il crollo del ponte era un evento imprevedibile. La tesi sostenuta è che vi fosse un vizio occulto legato alla realizzazione dell’opera, impossibile da prevedere. Questa tesi però si scontra, non solo con il documento di rischio, ma anche con quanto riferito in alcune intercettazioni da Gianni Mion, manager della famiglia Benetton: “Noi sapevamo che il ponte aveva un problema di progettazione. È stata è stata fatto una riunione in cui c’erano tutti i consiglieri di amministrazione di Atlantia, gli amministratori delegati, il direttore generale, il management e loro hanno spiegato che quel ponte lì aveva una difficoltà di progettazione, una peculiarità di progettazione che lo rendeva molto complicato. Negli anni Sessanta tutti gli ingegneri (ride) tutti quelli che insegnavano scienze delle costruzioni portavano questo esempio di questo ponte Morandi come molto originale ma molto problematico. Quando ho chiesto a Castellucci e chi certifica la stabilità del ponte, mi hanno risposto: “Ce lo autocertifichiamo!”. Come è andata a finire, purtroppo, è noto. Il 14 agosto del 2018 la profezia del 2013 si avvera.

Fonti Aspi ricordano che dalla fine del 2018 la società ha attuato un vasto rinnovamento, una radicale ridefinizione della sorveglianza e un piano straordinario di investimenti da 2 miliardi in tre anni.

Firenze, l’università dei baratti: “Qui non prevalgono i migliori”

È un quadro ancora una volta desolante quello che emerge dalle indagini sull’ateneo fiorentino Careggi. Le parole del procuratore aggiunto Luca Tescaroli e del pm Antonino Nastasi sono durissime: “Il dato più significativo che emerge dai risultati investigativi finora conseguiti è l’esistenza di un centro di potere che gestisce la cosa pubblica come se fosse ‘cosa propria’, come se tutto quel che riguarda la vita universitaria debba essere gestito in funzione personale con scambi di favori, facilitando i propri clientes nell’occupazione di posti di ricercatore e di professore ordinario e associato. A queste valutazioni deve aggiungersi la sicumera di impunità degli indagati, i quali hanno agito con dispregio delle regole di legalità, oltre che dei principi istituzionali di efficienza e imparzialità dell’azione amministrativa, nonostante la consapevolezza della sussistenza di plurime investigazioni in atto”. E quindi, nonostante si sapesse delle indagini in corso, secondo l’accusa nulla cambiava all’interno dell’ateneo fiorentino.

Il Fatto è in grado di rivelare alcuni degli episodi e delle conversazioni intercettate che hanno portato la Procura guidata da Giuseppe Creazzo a queste conclusioni, a iscrivere 30 persone nel registro degli indagati e a chiedere l’interdizione del rettore Luigi Dei e altri professori.

Prendiamo per esempio il concorso per “professore ordinario di Chirurgia plastica e ricostruttiva, Chirurgia pediatrica e Urologia” bandito dall’Università Politecnica delle Marche.

Il 14 maggio 2020 viene intercettata una conversazione tra il professore Marco Carini e Andrea Benedetto Galosi “soggetto predeterminato vincitore della procedura concorsuale”. Carini gli riferisce di aver avuto un colloquio con Andrea Giovagnoni (non indagato), professore ordinario e componente del cda dell’università marchigiana. Carini spiega a Galosi che Giovagnoni gli ha chiesto i nomi dei tre commissari: “Ti volevo dire, allora ho parlato con Giovagnoni questa mattina… e mi ha chiesto i tre nomi…”. Il bello però arriva dopo: Carini chiede a Galosi, che è il futuro candidato, di voler condividere con lui la scelta dei tre commissari che lo esamineranno: “Li volevo condividere con te”. E mentre elenca i nomi indica se stesso come presidente del collegio: “Pensavo di andarci io come presidente del collegio… e poi anche per questioni di vicinanza… con Brambilla e Mearini, se tu sei d’accordo…”. Proprio così: “Se tu sei d’accordo”. “Di fatto – scrivono i pm – colui che avrebbe presentato domanda per la partecipazione alla procedura concorsuale veniva coinvolto nella scelta di coloro che avrebbero dovuto esaminarlo”. Il giorno dopo, i due tornano sull’argomento e la conversazione si fa ancora più surreale. “Galosi – annota il Nucleo di polizia economica e finanziaria della Guardia di Finanza di Firenze – contatta nuovamente Carini il quale spiega le motivazioni della scelta dei commissari, ovvero che a questi soggetti difficilmente dovrà ricambiare il favore: “No, ti dico, ti dico la scelta (incomprensibile, ndr) perché secondo me, mmm vorrei renderti più che non devi ringraziare meno persone possibili… nel senso che al di là del fatto diciamo geografico eccetera… però vorrei non metterti in condizioni di dover dire grazie a troppe persone che poi possono chiedere e richiedere cose del genere quindi persone più…”. E nel frattempo, annota sempre la Gdf, chiede a Galosi di “poter intercedere con due membri di una commissione per un concorso di primario di Urologia presso l’ospedale di Grosseto”.

In un’altra occasione, l’8 agosto 2020, Carini viene intercettato mentre parla con Giuseppe Martorana (non indagato), professore e primario di Urologia dell’Università degli Studi di Bologna: “T’ho sistemato Siracusano a L’Aquila – dice Martorana – tra 2 anni va via Vicentini, quindi se lui c’ha un comportamento corretto… fanno una prima fascia, esatto. Quindi… il coso, invece, il tuo ex protetto si è dimesso da… ha mandato una lettera in cui, chiaramente, ha anticipato che lo buttavano fuori, ha detto che si dimetteva lui… e dal primo ottobre riprende servizio a Palermo…”. E Carini risponde: “Ma ancora c’ho… ancora sto… in questo anno… sì, perché volevo sistemare Tor Vergata, volevo sistemare, cedere un attimo se… quello però, io volevo lavorare su Modena, eh… ci lavoro, ci lavoro assolutamente, perché è una cosa che ci tengo. Poi nel 2021 devo concludere con il Meyer, quindi voglio dire, per mettere una prima fascia al Meyer… per Lorenzo… esatto… Masieri…”.

Carini secondo l’accusa “in più di una occasione si è definito un ‘uomo di sistema’, ossia come soggetto facente parte e che si mette a disposizione di un consolidato apparato clientelare”.

Ma non è l’unico. Il professor Francesco Montorsi è ritenuto dagli inquirenti il suo “contraltare” nei concorsi presso le università di Milano e di Brescia. “Montorsi – si legge negli atti – è permeato da una primitiva logica mercantile: il baratto. Costui non è neanche minimamente sfiorato dall’idea che una procedura concorsuale debba premiare il migliore ma è fermamente convinto che debba essere appannaggio di un suo favorito”. Per quanto riguarda il rettore Luigi Dei, l’accusa scrive che ha persino “adottato un regolamento per permettere la chiamata a nomina di un professore straordinario di un soggetto non inserito nel dipartimento universitario”. Il tutto per “rispettare gli accordi illeciti conclusi con l’azienda ospedaliera”.

Consip, s’indaga sul giudice che non archiviò Renzi sr.

Gli scacchisti la chiamano zugzwang. È quella situazione in cui, fatta una mossa, l’avversario può rispondere solo in un modo, e così via, in una sorta di catena che porta a un risultato predeterminato. A quanto pare lo zugzwang avviato da Denis Verdini il 26 ottobre 2020 nella Procura di Roma un risultato l’ha prodotto: è stato sentito dalla Procura di Perugia dove è stato aperto un fascicolo che riguarda Luigi Sturzo, il gip del caso Consip che in passato ha “bacchettato” i titolari del fascicolo – il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Mario Palazzi – rigettando la loro richiesta di archiviazione nel filone che coinvolge Tiziano Renzi (indagato inizialmente per traffico di influenze illecite, ndr) e lo stesso Verdini, e delegando nuove indagini. La Procura guidata da Raffaele Cantone dovrà ora verificare se per Sturzo si profili l’ipotesi dell’abuso d’ufficio per non essersi astenuto per le vicende che riguardano proprio Verdini. Con lui è stato sentito – anch’egli come persona informata sui fatti – anche l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta.

L’indagine perugina riguarda quindi il gip che ha dato una sterzata al caso Consip, invitando i pm romani ad approfondire l’inchiesta anche sulla figura di Tiziano Renzi, ed è obiettivamente una bomba a ridosso dell’udienza preliminare prevista per il prossimo 26 aprile. Vediamo ora cosa ha dichiarato Verdini il 26 ottobre 2020 davanti al pm Mario Palazzi, in un verbale d’interrogatorio reso nell’ambito dell’inchiesta Consip dove, lo ricordiamo, è indagato per concussione e turbativa d’asta: “Mi sembra necessario rappresentare un episodio di cui sono a conoscenza: nell’ottobre 2012 si dovevano presentare le liste per elezioni regionali in Sicilia e vi erano interlocuzioni nell’ambito del centrodestra in cui militavo per individuare una candidatura unitaria alla Presidenza (risultato che in realtà non venne raggiunto perché il centrodestra si presentò infine con due candidati e venne sconfitto dal centrosinistra). Nei mesi precedenti, allorquando eravamo impegnati nella formazione delle liste e nella possibile individuazione di tale candidato unitario, venni contattato dall’allora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta che propose la candidatura del magistrato Gaspare Sturzo alla Presidenza della Regione Siciliana. Avemmo anche numerosi altri incontri con i rappresentanti delle varie forze politiche del centrodestra e io ebbi modo sempre di esprimere, con la schiettezza che mi è propria, ma per valutazioni politiche e non personali, la mia netta contrarietà alla candidatura del dott. Sturzo”. E ancora: “Non ricordo di aver parlato direttamente con lui, non lo escludo, ma era noto a tutti i miei interlocutori politici questa mia netta contrarietà”. In sostanza Verdini, con le sue parole, crea un collegamento tra il suo mancato appoggio alla candidatura Sturzo (lontana ormai ben 8 anni) e la decisione del gip che ha sollecitato indagini su di lui. Ed è da questo verbale che nasce il fascicolo a Perugia – procura competente a indagare sui magistrati romani – dove sono state sentite come persone informate sui fatti sia Verdini sia Letta. Sturzo avrebbe dovuto astenersi come previsto dall’articolo 39 del codice di procedura penale? Le fattispecie previste dalla norma sono tassative e una soltanto sembra avere un nesso con le dichiarazioni di Verdini: “Se vi è inimicizia grave fra lui o un suo prossimo congiunto e una delle parti private”. Soltanto nel caso in cui Sturzo – la vicenda risale a 8 anni prima della sua decisioni da gip – abbia nutrito una grave inimicizia nei riguardi di Verdini, insomma, avrebbe avuto l’obbligo di astenersi. E sarà questo che dovrà valutare la Procura guidata da Raffaele Cantone.

La storia è pubblica ed è nota: nel 2012 la Sicilia si avvia a eleggere il nuovo consiglio regionale. Sturzo – pronipote di don Luigi Sturzo – vanta una carriera da pm a Palermo fino al 2001. Dal 2004 si sposta alla Presidenza del Consiglio (con Berlusconi e Letta) in qualità di consigliere giuridico. Nel 2012 crea la lista civica “Italiani Liberi e Forti” con la quale si candida a presidente ottenendo lo 0,9 per cento. La destra si divide presentando due candidati – Gianfranco Miccichè e Nello Musumeci – e la presidenza va a Rosario Crocetta e quindi al centrosinistra. Il Fatto, quando per la prima volta ha pubblicato il verbale in questione, ha contattato fonti vicine a Sturzo che hanno negano con forza la ricostruzione di Verdini specificando che il gip non l’ha mai incontrato, tanto meno per parlare con lui di candidature. L’unico fatto certo di quei giorni – non abbiamo trovato dichiarazioni pubbliche di Verdini, né di Letta, né a favore, né contro – sono le dichiarazioni rilasciate da Miccichè il 30 giugno 2012 a Libero su Sturzo: “La gente in Sicilia vuole vedere chi è bravo e affidabile, non come si chiama”.

 

Amazon, il primo sciopero in Italia di tutta la filiera per “mandare in bianco il colosso”

I sindacati sperano che passi alla storia come il White monday, perché l’obiettivo sarà mandare Amazon in bianco per un’intera giornata. Il 22 marzo per la prima volta in Italia sciopererà contemporaneamente tutto (o quasi) il pianeta del colosso e-commerce, oltre 35 mila lavoratori sparsi in tutto il Paese. A fermarsi non saranno solo i dipendenti diretti dei magazzini, ma anche i driver che operano nelle società di spedizione e tutta la galassia degli appalti. Si tratta di quei lavoratori che permettono all’azienda di Jeff Bezos di consegnare un milione di pacchi al giorno. Un settore che da anni vive una crescita accelerata dalla pandemia e dall’aumento degli acquisti online: solo i driver sono raddoppiati tra gennaio 2020 e gennaio 2021. Circa due mesi fa, sono partite le trattative con la Conftrasporto, cui appartiene Amazon, e Assoespressi, che rappresenta tutte le imprese di consegna. I sindacati dei trasporti di Cgil, Cisl e Uil volevano discutere sui ritmi e sulle condizioni di lavoro, oltre che sulla conciliazione con i tempi di vita. Esattamente i temi che i lavoratori di Amazon rivendicano da anni; cioè da quando il modello dei pacchi che arrivano poche ore dopo l’ordine ha imposto loro un’organizzazione definita alienante, perché si basa sul rispetto di tempi molto stretti. Quello che chiedono è soprattutto uniformare il trattamento a tutta la filiera, poiché un pianeta così frammentato nasconde anche molte disparità al suo interno. Insomma, non tutti hanno gli stessi diritti e gli stessi stipendi. Il negoziato, però, è morto sul nascere. “Conftrasporto ha smesso di rispondere alle nostre sollecitazioni dopo il primo incontro – dice Danilo Morini della Filt Cgil – mentre Assoespressi ha detto di non essere disponibile ad affrontare i punti centrali della nostra piattaforma. C’è un problema di metodo, questa azienda va alfabetizzata nell’ambito delle relazioni sindacali”. Tra dieci giorni, quindi, si fermerà per 24 ore tutta la macchina Amazon, tuttavia con un’eccezione. L’unico magazzino non coinvolto dallo sciopero sarà quello di Castel San Giovanni, e questo è in effetti un paradosso. Il polo piacentino nel 2017 fu il primo a organizzare l’astensione del Black Friday e proprio in quell’occasione fece conoscere a tutti la mobilitazione dei lavoratori di Amazon. In quell’hub, a differenza di tutti gli altri, non si applica il contratto della logistica ma quello del commercio, quindi a rappresentare i lavoratori non sono le sigle dei trasporti (promotrici dello sciopero del 22) bensì quelle dei servizi: Filcams, Fisascat e UilTucs. Queste sono riuscite negli ultimi tempi a strappare accordi con l’azienda, in particolare quello del 2018, perciò hanno un po’ ridotto o quantomeno attenuato le azioni di protesta.

Corona torna in carcere e accusa i giudici. Instagram rimuove post e storie di protesta

Il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha disposto che Fabrizio Corona torni in carcere per scontare il resto della pena che gli è stata inflitta per vari reati in diversi procedimenti penali revocando i domiciliari che gli erano stati concessi per curare la dipendenza da cocaina. Ieri pomeriggio, quando la notizia è stata comunicata a Corona, l’ex agente fotografico si sarebbe prima ferito lievemente alle braccia, poi ha attaccato i magistrati (“Sacrificherò la mia vita per togliervi da quelle sedie”) e ha urlato contro la polizia che è stata costretta ad ammanettarlo dopo che ha spaccato un vetro dell’ambulanza che lo ha portato in ospedale. Una scena che Corona ha mandato in diretta sul suo profilo Instagram. Post e stories che Facebook, società che possiede Instagram, ha deciso di rimuovere perché per policy “non permette immagini o video di autolesionismo”. Per i giudici, come emerge dal provvedimento, c’è la necessità di interrompere una dilagante e sempre più frequente commissione di infrazioni da parte di Corona: oltre alle comparsate tv e all’uso smodato dei social, si è anche allontanato da casa più volte negli ultimi mesi.