All’inizio di febbraio c’era chi preparava il vestito buono per le consultazioni con Mario Draghi, e chi già sperava in un posto nel nuovo governo. Giovanni Tria, invece, era dall’avvocato ad affilare le armi per stringere su una questione che gli sta a cuore: ottenere al più presto la fissazione di un’udienza al Consiglio di Stato che deve decidere sul risarcimento di circa 300 mila euro che ha chiesto allo Stato. Motivo? La sua cacciata nel 2016 dalla Scuola nazionale dell’amministrazione, dove giusto a febbraio si è liberato il posto più ambito, quello di presidente, che fu il suo e che non ha mai dimenticato.
E così qualcuno ha cominciato a ipotizzare che le mosse di Tria, neo consulente pro bono di uno dei principali azionisti del governo Draghi, ossia il leghista Giancarlo Giorgetti, servano a riportarlo proprio lì, alla guida dell’istituzione della presidenza del Consiglio deputata a selezionare, reclutare e formare i funzionari e i dirigenti pubblici. Incarico per il quale il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, punta più in alto: il Nobel Christopher Pissarides, esuberante economista cipriota di stanza a Londra.
Fatto sta che Tria pretende giustizia per una vicenda che lo ha ferito nell’onore e pure nel portafogli. Già, perché all’epoca della riforma Madia, il governo aveva deciso di commissariare la Scuola azzerandone i vertici, a partire dal presidente. Tria si era rivolto subito al Tar lamentando la “perdita dei suoi emolumenti e il danno alla reputazione personale e professionale subito”. Arrivando a chiedere che su quella decisione, a suo dire arbitraria, si pronunciasse addirittura la Consulta. Ma i giudici amministrativi, sordi alla sua sofferenza, gli avevano dato torto su tutta la linea ché, per citare le loro parole, “da tale vicenda non risulta alcun nocumento al prestigio e alla considerazione pubblica del ricorrente”. Che infatti di lì a poche settimane, forte del suo ruolo di preside della Facoltà di Economia presso l’Università di Tor Vergata di Roma, sarebbe stato scelto come ministro dell’Economia del governo gialloverde dopo il gran rifiuto del Quirinale a mettere la firma sulla nomina di Paolo Savona.
E la causa da 300 testoni contro lo Stato? Pareva che Tria ci aveva messo una pietra sopra. E invece no. Perché nel frattempo era terminata la sua esperienza al Mef. E così, lasciato a piedi dal governo a settembre 2018, aveva presto riavviato la pratica costituendosi in appello al Consiglio di Stato. Per tornare alla carica con la richiesta di risarcimento nei confronti di Palazzo Chigi, accusato di averlo così gravemente danneggiato con quel maledettissimo commissariamento deciso nel 2016 che lo aveva scalzato dall’incarico assunto fin dal 2010 e quando già aveva ottenuto la riconferma fino al 2017.
Una querelle densa di colpi di scena. Perché poi per tutto il 2019 e il 2020 non è successo nulla. Fino al 9 febbraio di quest’anno, quando Tria ha di nuovo spinto sull’acceleratore presentando un’istanza di prelievo: in soldoni un sollecito al giudice affinché anticipi l’udienza di discussione del ricorso che infatti è stato fissato al Consiglio di Stato il 27 maggio. Ma fino ad allora può succedere qualunque cosa, come ha già dimostrato questa storia. Persino che il governo Draghi lo rimetta in sella alla guida della Sna dopo averlo reclutato come super consulente sui vaccini, gratis et amore Dei.