Meghan, nuova Cenerentola a copione nel regno di Oprah

Se sopravvive all’intervista di Oprah a Harry e Meghan, la regina Elisabetta è davvero immortale come si sospetta da tempo. Voglio dire, immaginatela davanti alla tv, tra arazzi con scene di caccia e una tazza di tè in mano, mentre ascolta suo nipote affermare che nella Casa reale erano preoccupati per il tono di pelle di suo figlio. Quello stesso nipote, per giunta, che ai bei tempi, a Carnevale, se ne andava in giro con la svastica sul braccio

Chi l’avrebbe mai detto che un giorno proprio lui, il nipote ingrato, avrebbe dato lezioni di antirazzismo alla corona inglese. Venendo all’intervista, va detto che la tentazione di cedere a una facile lettura psicologica della coppia e delle dinamiche che la governano è irresistibile. Sembra tutto così facile da sembrare quasi didascalico: lui perde l’amata madre da bambino, conosce le atroci teorie sulla sua morte, ovvero la stampa che la inseguiva, la Corona inglese che vedeva il suo legame con un egiziano come una minaccia per la stabilità della monarchia. Suo fratello William, l’erede al trono, è perfettamente allineato con le regole del palazzo. Del resto, è chiaro da sempre che il futuro re sarà lui. Carlo, suo padre, è quello di “Vorrei essere il tuo Tampax”. Difficile dimenticarlo. Harry, invece, è sesto nella linea di successione, non diventerà mai re a meno che non cada un asteroide sul palazzo reale e cresce con un’inquietudine di fondo. Incontra una donna più grande di lui, con un matrimonio fallito alle spalle (in lei rivede sua madre?), una donna afroamericana (Dodi era anglo-egiziano) con cui destabilizza il rigido conservatorismo della Corona e, dopo il matrimonio, l’insofferenza per la vita di corte implode: prima il trasferimento in Canada e poi l’epilogo che si è consumato da Oprah. Implode con meccanismi così simili a quelli vissuti da Diana che la vera domanda, dopo aver assistito all’intervista, è: triste coincidenza o astuta manipolazione?

Intanto, appare subito evidente che ogni singola domanda del faccia a faccia è palesemente concordata. Per quanto Oprah sia abile nel fingere improvvisazione, il suo stupore è a tratti stucchevole, “dursiano”. Quando, col suo maglioncino confetto, finge di bersi la storiella raccontata da Meghan che “non ho mai neanche cercato su Google chi fosse davvero Harry”, sembra di assistere a un’intervista scoop di Pomeriggio 5. Di quelle a cui crede solo Nicola Zingaretti, insomma. Ed è questa, forse, la parte meno convincente dell’intervista: la Cenerentola ingenua e inesperta, inciampata per caso in un principe di cui ignorava storia e obblighi, con cui pensava, chissà, di fare le vacanze al Papeete o di ubriacarsi nei pub di Soho. C’è, nel perenne candore di Meghan, qualcosa di artificioso. Si sposa a 37 anni, quando è un’attrice di successo, mica ventenne come Diana. Anche l’aneddoto sul suo incontro con la regina, Harry che le spiega che dovrà fare l’inchino e lei che cade dalle nuvole, serve a rafforzare la sua immagine di ragazza semplice che doveva fare i conti con protocolli vetusti. Ma quella che lei chiama “ditta” è anche e soprattutto, “malvagia”: la privano di chiavi e documenti quando entra nel palazzo, le negano un aiuto psicologico, non la difendono con la stampa. E poi, qualcuno si preoccupa per il colore della pelle del suo piccolo Archie. Un’accusa che non si fatica a ritenere vera, sia chiaro. Meghan e Harry però non dicono chi sia il razzista, gettando così l’ombra di un sospetto infamante su tutti i componenti della famiglia. Harry poi lascia intendere che il rapporto con suo fratello sia disastroso e il dubbio che molte delle accuse senza nome siano indirizzate a lui, è forte. Del resto, Meghan ci tiene a far sapere una scottante verità: Kate la fece piangere, alle prove del matrimonio, perché non le piacevano gli abiti delle damigelle. Dopo averla fatta passare per una strega cattiva, è tutto un ribadire che però poi le ha chiesto scusa e l’ha accolta con affetto. Viene da chiedersi perché, allora, abbia sentito la necessità di raccontare l’aneddoto. E poi c’è quel “qualcuno dopo il nostro viaggio di successo in Australia ha provato invidia” con cui Meghan allude ancora una volta a Kate, pur senza nominarla. Questo clima tossico l’avrebbe indotta a pensare più volte al suicidio, per cui a Harry non restava che portarla via da quel covo di mostri perché la storia di sua madre non si ripetesse. A rompere con la sua famiglia. E qui c’è un bivio: o si crede a Meghan e alla sua fragilità mal sopportata da un ambiente rigido e reazionario, in cui non c’è spazio per l’empatia. Oppure si crede a chi la ritiene un’abile manipolatrice che voleva tutto: il principe e i contratti con Netflix, per cui ha fatto leva sul vittimismo facendo come prima cosa quel che fanno tutti i manipolatori da manuale: isolare il manipolato dalla famiglia. Entrambe le ipotesi sono credibili e non è detto che le due versioni non contengano delle verità entrambe. Di sicuro, solo una cosa non torna: quel vomitare accuse sulla Corona stando ben attenti tutti e due a risparmiare chi quella corona la porta in testa da 69 anni. La Regina, nell’intervista, è sempre “splendida”, “straordinaria”, “meravigliosa”. Ed è qui che Oprah dimentica di fare la domanda delle domande. Quando i due si lamentano che sia stata tolta loro la scorta e ogni sostentamento, bastava chiedere: “Sono decisioni che prende quella regina meravigliosa di cui vi guardate bene di dire male perché è la Regina. O no?”. Peccato che la regina delle intervistatrici ometta il quesito. Chissà, forse non era sul copione.

Il crimine (forse) non paga, Netflix sì

La ventenne Anna Sorokin aveva un sogno: aprire una galleria d’arte a New York. Ma, figlia di un ex camionista russo emigrato in Germania, non aveva né i mezzi né le conoscenze, e quindi se le è inventate. Sbarcata davvero qualche anno fa nella Grande Mela da semplice stagista in una rivista, si è ribattezzata Anna Delvey e per anni ha ingannato la buona società newyorchese spacciandosi per ereditiera e facendo la bella vita, mostrando tutto con dovizia di particolari sui social: le feste giuste, il jet privato, i migliori hotel, le generose mance a chiunque, le carte di credito che non funzionano al momento di pagare. Ha convinto tutti, perfino una banca a farsi anticipare 100 mila dollari, anche con documenti e assegni falsi: poi, mentre i pagamenti non saldati aumentavano, qualcuno ha iniziato a fare domande, la truffa è venuta allo scoperto e lei è stata condannata al carcere e alla successiva deportazione in Germania. È uscita dopo tre anni, a febbraio, con parecchi debiti, una fama planetaria, un documentario Bbc Radio a lei dedicato e, in arrivo, la serie tv Inventing Anna, prodotta per Netflix dalla infallibile Shonda Rymes. Ora gioca alla criminale redenta ma non troppo: sta scrivendo un libro autobiografico, ha creato una linea di prodotti e magliette con slogan ispirati alla sua storia (“Anna Delvey mi ha ripulito”), si dichiara impegnata in una campagna per la riforma del sistema carcerario Usa, ma twitta immagini di libri che celebrano truffe e truffatori di successo. Durante la istruttiva intervista che ha concesso alla Bbc, la giornalista Emily Maitlis le ha chiesto se avesse trovato eccitante ottenere quello che voleva senza conseguenze. Lei ha risposto così: “No, perché nella mia mente non stavo manipolando nessuno. Non sono nemmeno particolarmente simpatica. Penso che la gente mi considerasse intelligente, capace e determinata e per questo mi affidasse tutti quei soldi”. Sublime nella sua ovvietà la diagnosi finale: “Si può dire che il crimine paga”. “Le brave ragazze vanno in Paradiso. Le cattive dappertutto” diceva Mae West, e ai suoi tempi non c’era nemmeno l’ascensore di Netflix.

La riforma del lavoro Dem non piace al Gop e a Bezos

Crystal Lee Sutton, alias Norma Rae, è tornata: la pioniera del sindacalismo nel Sud dell’Unione non lavora più in un impianto tessile di Roanoke Rapids, in North Carolina, ma in uno stabilimento dell’Amazon a Bessemer, in Alabama. Il film di Martin Ritt, che nel 1979 raccontò le difficoltà della sindacalizzazione negli Stati della Confederazione, valendo l’Oscar a Sally Field, rivive oggi nelle vicissitudini degli addetti al magazzino di Amazon. La battaglia dei dipendenti di Jeff Bezos a Bessemer è dura da vincere, anche se quella non è l’Alabama rurale dei campi di cotone, dove “solo le più coraggiose chiese della comunità nera” appoggiano i lavoratori, racconta Stewart Acuff, un leader sindacale locale, citato da The Guardian. Bessemer è un distretto industriale: un’area di operai neri che percepiscono la lotta sindacale come una componente della lotta per i diritti civili. Una ricerca della Cornell University rivela che le tattiche anti-sindacali di Amazon sono comuni nell’Unione: l’89% dei datori di lavoro impongono ai dipendenti riunioni anti-sindacali; il 34% licenziano i sindacalisti, non è illegale farlo; il 57% minaccia di chiudere gli impianti se vi entrano i sindacati, il 47% di ridurre i salari.

Sullo sfondo della vicenda di Bessemer, c’è lo sforzo dell’Amministrazione Biden per realizzare una revisione delle leggi sul lavoro con il Pro Act (Protecting The Right to Organize Act). La Camera lo ha varato democratici contro repubblicani (solo cinque a favore). Ma in Senato difficilmente avrà i 60 voti necessari. Se diventerà legge, il Pro Act renderà più facile per i lavoratori iscriversi al sindacato o creare organizzazioni sindacali aziendali. Naturalmente, gli organismi padronali osteggiano la misura, che – avvertono – “costerà posti di lavoro”. Per questo, leader sindacali influenti nell’Amministrazione premono perché i democratici cambino le regole che permettono l’ostruzionismo in Senato e consentono ai repubblicani di bloccare iniziative fondamentali per la presidenza Biden. Lo stimolo all’economia post-pandemia è passato, ma restano sospesi, con il Pro Act, l’estensione del diritto di voto, il controllo delle armi, la riforma della polizia intitolata a George Floyd, l’afro-americano soffocato a terra da un agente il 25 maggio 2020, il cui processo s’è appena aperto a Minneapolis con la selezione della giuria. Leader sindacali come Richard Trumka, il presidente dell’Afl/Cio, la più potente organizzazione sindacale Usa, e politici come la speaker della Camera Nancy Pelosi sono inclini a non perdere tempo a corteggiare i repubblicani, memori degli anni di Obama, quando l’opposizione fece ostruzionismo su tutto e guadagnò consensi alle urne per l’inazione dell’Amministrazione. Trumka dice: “Non ci lasceremo fermare da un pugno di persone. È ora che si faccia e lo faremo”.

Il presidente Biden è però contrario a cambiare le regole al Senato, che pure rischiano di bloccare gran parte della sua agenda. “Preferisce non fare modifiche”, dice la sua portavoce Jen Psaki, nonostante cresca tra i democratici la voglia di agire. Biden è cultore del dialogo bipartisan, che, però, non gli ha finora fruttato nulla. In questo contesto, l’agitazione al magazzino di Amazon in Alabama è divenuta simbolo della lotta per cambiare le norme sul lavoro nell’Unione. A febbraio, Biden ha manifestato il proprio sostegno ai lavoratori di Bessemer, pur senza mai chiamare in causa Amazon. L’Afl/Cio ne salutò il video come la più forte dichiarazione pro-sindacati di un presidente degli Usa in carica. Il Pro Act era già stato approvato dalla Camera oltre un anno fa. Ma il Senato, allora controllato dai repubblicani, non l’aveva neppure messa all’ordine del giorno. Sono oltre 70 anni che i sindacati cercano di ottenere una riforma delle leggi sul lavoro, sempre senza successo.

Armi, l’embargo. Ue c’è: eppure l’esercito ha cartucce italiane

Si fa sempre più feroce la repressione militare in Myanmar: poliziotti e soldati alzano il tiro sui manifestanti sia con vere e proprie esecuzioni di cittadini inermi che con arresti indiscriminati, raid a casa, occupazione di ospedali e il ricorso alla tortura, come quella che avrebbe portato alla morte in carcere di due membri musulmani della National League for Democracy, il partito della leader de facto Aung San Suu Kyi tuttora detenuta in località segreta. Intanto, il ritrovamento di proiettili di fabbricazione italiana, esplosi da poliziotti contro un ambulanza, solleva molte domande sul traffico di armi in Birmania. Le prime foto di bossoli italiani sono apparsi sui social già dal 20 febbraio: si tratta di munizioni prodotte dalla società Cheddite Italy S.r.l., con fabbrica a Livorno, che ha immediatamente chiarito alla testata birmana in lingua inglese The Irawaddy di non avere mai esportato in Myanmar, ricordando di essere soggetta alla regolamentazione europea che ha adottato un embargo sulla vendita di armi nel paese fin dagli anni Novanta. Come sono arrivati quei proiettili alla polizia birmana? Consultando il database del commercio internazionale delle Nazioni Unite, la redazione di Irawaddy ha individuato una ampia fornitura di cartucce arrivata nel 2019 dalla Thailandia: ma secondo lo stesso database Bangkok non ha importato proiettili dall’Italia negli ultimi 10 anni. Una seconda possibilità è che il carico sia passato da Singapore, che ha ricevuto cartucce italiane più di recente. Oppure che quel carico sia stato venduto regolarmente ad un altro paese asiatico e da lí rivenduto alla polizia birmana fuori dalla rete di controlli internazionali. Verso il Myanmar c’è un fiorente traffico di armi, di solito di fabbricazione cinese, che arrivano attraverso i porosi confini con Cina e India. Stavolta, nota la testata, benché il governo italiano abbia condannato duramente il golpe e l’ambasciatore italiano a Yangon sia fra i 13 firmatari di una lettera ai militari che chiede la “cessazione delle violenze verso i civili che protestano contro l’abbattimento di un governo legittimo”, a sparare sui manifestanti ci sono anche pallottole italiane, arrivate con una catena di vendita non tracciabile da nessuno, inclusa quella comunità internazionale che sul commercio di armi in Myanmar avrebbe dovuto vigilare.

“Lukashenko crede di aver vinto: il 25 marzo si ricrederà”

Che la Bielorussia non si sia arresa al presidente Lukashenko, nonostante le marce siano finite, lo dimostra il fatto che tre milioni di persone, in due giorni, hanno visto il documentario pubblicato su Telegram dal canale Nexta sulla corruzione del governo e sulla ricchezza del presidente. “Il regime pensa che adesso sia finito il tempo della rivoluzione e sia iniziato quello della punizione”. Lo dice Valiantsin Stefanovic, avvocato e attivista, vicepresidente di Viasna, organizzazione per i diritti umani nata a Minsk poco dopo il collasso dell’Unione Sovietica, in seguito alle sanguinose proteste di allora contro “l’ultimo dittatore d’Europa”.

Valiantsin, Viasna, che vuol dire “primavera”, è l’unica a difendere i diritti di quanti sono rimasti in carcere dopo le proteste della scorsa estate, ma adesso è a sua volta sotto indagine delle autorità.

Hanno perquisito i nostri uffici centrali a Minsk, poi quelli regionali, e nell’ultima settimana anche le abitazioni private dei nostri volontari e del fondatore Ales Bialatski. L’accusa dell’indagine criminale a carico della nostra organizzazione è quella di supportare finanziariamente le manifestazioni illegali e di ‘istruire’ i partecipanti su come far scoppiare le proteste.

Anche se adesso le strade del Paese sono vuote, sul calendario avete cerchiato una data in rosso.

I bielorussi continuano a sostenere Svetlana Tikhanovskaya e Lukashenko sa che li ha perduti. Il 25 marzo verrà celebrata la nascita della Repubblica democratica bielorussa, divenuta indipendente, anche se per pochissimo, nel 1918 dall’impero russo. Si chiama ‘Den’ voli’, il giorno della libertà, e la domanda non è se i bielorussi scenderanno in strada, ma in quanti lo faranno.

Quanti fra coloro che dallo scorso agosto hanno protestato per il risultato delle elezioni rimangono in cella?

È impossibile avere una cifra esatta, parliamo di migliaia di persone in galera, colonia penale o ai domiciliari: 269 sono prigionieri politici, ma migliaia sono i perseguitati per motivi politici. Per molti di loro le accuse non sono state ancora ufficialmente formulate: sul motivo della detenzione non vengono forniti dettagli prima del processo, per questo è così difficile il lavoro dei nostri avvocati. Nonostante non ci siano più le proteste di massa degli ultimi mesi, la repressione continua più forte di prima: oggi esprimere un minimo disappunto o disaccordo verso il regime è prestuplenye, un crimine. Una parola basta per essere arrestati. Ora vogliono cambiare la legislazione sull’estremismo e sui casi criminali: se riusciranno a portare a termine le modifiche delle norme nelle prossime sessioni parlamentari, la situazione, se è possibile immaginarlo, diventerà ancora più grave per tutti noi.

Ad aprile celebrerete il vostro 25esimo anniversario. Viasna è stata fondata nel 1996, quando le strade di Minsk si colorarono di rosso, allora come oggi, per il sangue dei manifestanti che protestavano contro Lukashenko.

Viasna è nata per difendere i diritti umani dei prigionieri e delle loro famiglie perché all’epoca noi bielorussi non sapevamo nemmeno di averli o che, in generale, esistessero, questi diritti.

Tra voi c’è chi è in carcere, e chi in esilio.

Un paio di centinaia. Alcuni nostri membri sono in galera da almeno sei mesi: Andrej Chepjuk, Leonid Sudalenko, Tatjana Lasiza e Marfa Rabkova, coordinatrice dei volontari, che ha solo 26 anni. Molti attivisti sono stati costretti a partire ma continuiamo la nostra attività di monitoraggio, raccogliamo informazioni e prove, materiale audio e video, per testimoniare la violenza commessa dalle autorità. Rimaniamo attivi a livello internazionale con l’Onu, affrontiamo il vuoto legislativo del Paese, senza poter comunque usufruire di norme e strumenti internazionali: la Bielorussia non è membro del Consiglio d’Europa, siamo tagliati fuori dal sistema di protezione dei diritti umani ed è la prima cosa che scontiamo, oltre al fatto che il sistema giudiziario nazionale è completamente andato in pezzi.

Cos’è il populismo gentile

Il 31 dicembre 2019 usciva su Repubblica un’ampia e impegnativa intervista a Marco Revelli il quale, per caratterizzare l’originalità del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, l’homo novus sempre più al centro degli equilibri politici in Italia, utilizzava l’espressione “populista gentile”. Ripresa il 6 gennaio 2020, in un’intervista a Conte, essa veniva poi l’indomani fatta oggetto di interpretazione in una delle trasmissioni che riempiono le giornate televisive (…)

E allora proviamo a vedere quale altro significato può avere la “gentilezza” del populista. Il 22 ottobre 2018, ad esempio, nel corso di un incontro con la stampa estera, rispondendo a una domanda, del resto non proprio benevola, dell’inviata del giornale tedesco Die Welt, Conte, riferendosi alla rivoluzione del 4 marzo 2018, cioè alle elezioni che avevano visto un ampio rinnovamento del Parlamento, aveva affermato: “La nostra è una rivoluzione gentile, pacifica”. Dunque, tra i tanti significati che il termine “gentile” può assumere, c’è quello di “pacifico”. Differenza, come ognuno può vedere, non proprio trascurabile.

Pochi giorni dopo la trasmissione da cui abbiamo preso le mosse, il 24 gennaio 2020, Conte chiariva, facendo proprie le parole conclusive del “Manifesto di Assisi” e mettendo non a caso l’accento proprio sull’ultimo aggettivo: “Ecco, due pilastri: solidarietà e innovazione. Su questo l’Italia può lavorare per costruire tutti insieme un’economia a misura d’uomo, capace di consegnare alle generazioni più giovani, ai nostri figli, ai nostri nipoti – non qualcosa di altro da noi – a quelli quindi che verranno, un mondo più pulito, un mondo più sicuro, più inclusivo, più giusto, un mondo – come recita il “Manifesto di Assisi” – gentile. Gentile nei pensieri, nei comportamenti, ma gentile anche nelle parole”.

La gentilezza di Conte potrebbe allora addirittura definire un modo peculiare di fare politica: e pertanto, indicare un metodo – rivoluzione pacifica, individuare un obiettivo – un mondo più pulito, più sicuro, più inclusivo, più giusto, più umano –, caratterizzare uno stile, per i pensieri, le parole, i comportamenti. Un ingrediente prezioso, indispensabile, verrebbe da dire, per depurare la politica da quanto di torbido e di confuso essa è andata accumulando in questi anni.

Anche per quanto riguarda il sostantivo “populista”, con un po’ di buona volontà non sarebbe difficile trovare nei discorsi e negli interventi di Conte elementi utili a scioglierne l’ambiguo significato. Il 3 maggio 2019, ad esempio, intervenendo alla IX edizione di The State of the Union 2019, organizzata dall’Istituto universitario europeo di Fiesole, una sede dunque non proprio clandestina, Conte osservava: “Certamente, intervenire sulle cause profonde dell’allontanamento dei cittadini dalla politica comporta inevitabili costi: ad esempio, l’accusa di populismo. Ma, a ben vedere, comporre la frattura fra classe dirigente politica e popolo, tra élite politica e società civile, è il primo obiettivo che deve perseguire una forza di governo”.

L’accusa di populismo è dunque il prezzo “inevitabile” che Conte, come chiunque altro, deve essere disposto a pagare per intervenire sulle cause profonde che hanno determinato la frattura tra classe dirigente e popolo: fra esse Conte individuava, ad esempio, il fatto che in Europa “non siamo riusciti a diventare autenticamente un popolo”, quindi l’assenza della base stessa per un’autentica democrazia europea.

Una delle più esplicite e nette rivendicazioni del proprio originale populismo sembra essere quella avanzata da Conte il 14 ottobre 2018. Repubblica posta il video accompagnandolo con questa maliziosa didascalia: “Applausi per il premier che ha tenuto una lezione-intervista davanti a degli studenti della Scuola di Formazione politica della Lega”. ‘Io sono populista’, ha esordito Conte, attirandosi subito le simpatie della platea che sembra aver gradito le parole del presidente del Consiglio anche su Reddito di cittadinanza, politica estera e fisco”.

In effetti, le cose stanno in parte proprio così: si tratta di un video di pochi minuti, esattamente 2’22’’, in cui la perentoria dichiarazione di populismo è accompagnata da applausi da stadio. Ma, come si può verificare guardando il video completo, di oltre 31’, qualcosa si perde, o meglio qualcosa viene tagliato: un’ampia illustrazione di che “cosa significa oggi far politica, quindi che cos’è questo populismo”, domanda a cui Conte risponde per quasi quattro minuti e mezzo, da 11’36’’ a 16’, sulla scorta nientedimeno che di Max Weber e conclude così: “Mettendo insieme questi ingredienti, che cosa ne vien fuori? Sì, populismo. Populismo perché significa dedicarsi a questa attività a tempo pieno, con passione, con grande dedizione, con senso di responsabilità, in una prospettiva di lungimiranza. Uguale: attenzione ai bisogni della gente, star vicino alla gente, non lasciarsi abbindolare dalla propria vanità, non lasciarsi distrarre dalle forme di arroganza che sono un po’ collegate all’esercizio del potere”.

Strano populismo quello di Conte, che spiega con Weber che cos’è la politica alla Scuola di Formazione politica della Lega, con ciò rovesciandone dall’interno il significato! Ovviamente, questa particolare interpretazione era destinata a riscuotere scarso gradimento tra il pubblico leghista, come dimostrano gli applausi, assai più tiepidi. E, inutile precisarlo, a suscitare ancora meno attenzione e interesse da parte di giornalisti e commentatori.

 

Attenti a giocare col manganello

Se la storiamaestra avesse scolari – cosa che, con Gramsci, senz’altro escludiamo – la vicenda che vi andiamo a raccontare sarebbe un’ottima lezione. Su Repubblica del 9 marzo abbiamo letto un articolo (giustamente) indignato per una mozione approvata dal consiglio regionale del Veneto per sospendere “ogni tipo di contributo a favore di quelle associazioni che si macchiano di riduzionismo o di negazionismo nei confronti delle foibe e dell’esodo istriano, fiumano e dalmata”. Una sorta di legge “E allora le foibe?”. La destra che saldamente governa la Regione, peraltro, non s’è limitata alle dichiarazioni di principio: ha indicato pure la misura minima di e-allora-le-foibismo necessaria ad ambire ai fondi regionali. Gli infoibati italiani non possono essere indicati in una cifra inferiore a 12mila, i nostri connazionali costretti a lasciare i territori passati alla fu Jugoslavia in non meno di 350mila, il tutto qualificato come “pulizia etnica” e “genocidio”, da cui ovviamente l’accusa di “negazionismo”. Uno sforzo tassonomico che – non per fare i pignoli – non trova riscontro negli studi storici sugli orrendi fatti occorsi al confine orientale dopo l’ultima guerra: dire che si tratta di numeri gonfiati è persino poco. Qui non si vuole polemizzare sul merito, ma sottolineare l’ironia del fatto che ora la parola-manganello “negazionisti” venga rivolta da destra verso sinistra, dove giustamente se ne indignano, invocando la libertà della ricerca intellettuale e paventando la creazione di un orwelliano “ministero della Verità”. Parole sante, ancorché “negazionista”, “sovranista”, “populista”, “post-verità” e altre parole siano state usate con entusiasmo come manganello proprio dagli indignati di oggi e spesso proprio per negare cittadinanza a opinioni sgradite. E a proposito di ministeri della Verità, cos’erano le invocate commissioni anti-fake news, la richiesta ai social network di mettere un bollino alle notizie o chiudere profili o silenziare persone che avevano forse il torto di essere stupide, ma non avevano commesso reati? Dirà l’indignato di oggi: ma il mio manganello è democratico, è usato a fin di bene. Forse, ma a maneggiare i manganelli, si sa, alla fine se la cavano meglio i fascisti…

No-Tav, la resistenza silenziosa ora si fa occupando la vigna

Il movimento no-Tav in Val di Susa sta attuando un’azione silenziosa (e inedita) di resistenza contro i cantieri della Torino-Lione. Un’azione che ricorda i sit-in raccontati in alcuni film americani in cui gli studenti facevano resistenza passiva, facendosi portare via di peso, a uno a uno, dalla loro università occupata. Quassù a Chiomonte, invece di un’aula magna o di un campus universitario, c’è un terreno dove un tempo la vigna produceva Avanà, raro vitigno a bacca nera, e “vino del ghiaccio”, le cui uve erano vendemmiate a dicembre, di notte o la mattina prima dell’alba, e pigiate con i grappoli ancora gelati.

Oggi la vigna non c’è più e il terreno contiguo all’autostrada che attraversa la valle dovrebbe diventare uno svincolo per permettere ai camion e ai mezzi da lavoro di accedere direttamente dall’autostrada al cantiere Tav, che dovrebbe prima o poi costruire il supertunnel ferroviario per la nuova linea Torino-Lione. Ma per costruire lo svincolo, la società Telt (quella a cui è stato dato l’incarico di realizzare il Tav) deve prima diventare proprietaria del terreno.

E qui è scattata la resistenza: in più di mille hanno comprato, con regolare rogito notarile, quel piccolo terreno, 550 metri quadrati accatastati a vigneto, valore 990 euro. Ora, se vuole costruire, Telt deve prima espropriare l’area. Operazione lunghissima, perché devono essere interpellati e convocati tutti i mille e più proprietari, che hanno diritto anche di accedere alla loro area, ciascuno con un accompagnatore: più di duemila persone, provenienti da tutta Italia, che hanno intenzione di presentarsi, far mettere a verbale le loro osservazioni e cercare di rallentare le operazioni, iniziate il 22 febbraio.

Ieri si sono presentati, tra gli altri, due fratelli di 83 e 95 anni, decisi ad andare a vedere il loro fazzoletto di terra che deve essere espropriato. I proprietari del terreno sono convocati da Telt a intervalli di un quarto d’ora l’uno dall’altro, circa 60-70 al giorno. Clima surreale: il movimento no-Tav denuncia che è arrivata una “ennesima ordinanza prefettizia per limitare la libertà di circolazione intorno alla zona di cantiere, dove è stato predisposto un’apparato difensivo degno di una zona di guerra”.

I proprietari possono accedere alla loro proprietà solo a piedi, dopo aver varcato un cancello, attraversato un check-point ed essere stati identificati e schedati. Il percorso inizia a Chiomonte, dove sono accolti a un gazebo no-Tav dai volontari, dai tecnici e dai legali del movimento, con la modulistica necessaria per l’accesso all’area. Con le auto private si può arrivare fino al ponte sul Clarea, dove è stato montato un cancello che si può attraversare solo a piedi, dopo la procedura di identificazione. Più avanti, si arriva al check-point dei controlli anti-Covid. Dopo la misurazione della temperatura e la firma della dichiarazione di non avere sintomi, un ulteriore controllo di polizia permette di accedere a un bus che porta finalmente al terreno: lì avviene il sopralluogo, con la possibilità per ciascun proprietario di mettere a verbale le proprie osservazioni. A questo ritmo, le operazioni continueranno almeno fino a metà marzo.

Solo dopo che saranno terminate le lunghe procedure d’esproprio, il terreno potrà essere utilizzato da Telt per costruire lo svincolo autostradale. “Noi siamo il granello di sabbia che cerca di bloccare un grande meccanismo avviato da anni”, dice Chiara. Mille granelli di sabbia che cercano di fermare un’opera ritenuta inutile per gli italiani (sulla tratta Torino-Lione non ci sono merci e passeggeri sufficienti a ripagare l’investimento) e dannosa per gli abitanti della valle.

 

La marmellata istituzionale che insudicia tutti i partiti

Ormai più che di criticabile Costituzione materiale conviene parlare di marmellata istituzionale. Tale è il magma appiccicoso di false interpretazioni, elusioni e violazioni di norme eretto a sistema, in cui contegni pur esiziali per l’interesse pubblico vengono trattati con indifferenza o vuota retorica dai responsabili politici, mentre si sanzionano quanti denunciano male gestioni o potenti furbetti e tutto e il suo contrario coesistono nel gelatinoso composto.

La preparazione della confettura istituzionale sta accelerando, come dai seguenti esempi: a) un segretario di partito, nel dimettersi, dichiara di vergognarsi per quanto accade nella propria compagine, squassata dalla carenza di visione politica dei capi corrente in lotta per le poltrone; b) l’Inps viene sanzionato per aver violato le regole sulla protezione dei dati personali relativamente ai parlamentari assegnatari dei 600 euro Covid: cioè vietato indagare su furbetti e assimilati; c) un senatore, all’estero non in missione, assegna benemerenze di “Rinascimento” a uno Stato esplicitamente antidemocratico in un colloquio pubblico con un altissimo esponente sospettato di un infamante omicidio politico. Il senatore, come ogni parlamentare, rappresenta la Nazione (art. 67 Cost.) ma è inabilitato a esternare, se non in missione, su questioni rilevanti di politica estera. Sull’episodio il Senato non può limitarsi a nicchiare; d) il pendolarismo dei partiti tra sistema elettorale proporzionale e maggioritario in funzione variabile con l’assetto governativo e le future alleanze: cioè la migliore dimostrazione che l’interesse generale è subordinato alle alchimie di potere e di conservazione dei posti, a scapito del popolo italiano; e) l’ipotesi di candidare il presidente della Camera a Sindaco. Appartiene alla marmellata istituzionale immaginare che la terza carica della Repubblica usi il vantaggio della posizione, alterando la par condicio con altri aspiranti obiettivamente in difficoltà per possibili “fenomeni di captatio benevolentiae e di metus publicae potestatis” (Corte cost. 277/2011). Rispetto alla preposizione a ente locale, seppure di primaria importanza, va al massimo tutelata la carica alla quale è co-affidata, nel più cospicuo organo costituzionale, la rappresentanza dell’espressione primaria della sovranità popolare e, tramite quella, della comunità nazionale: lo impongono la non coincidenza e l’eventuale conflittualità tra fini generali e non ripartiti propri del Parlamento e quelli parziali e proporzionati alla specifica realtà tipici del Comune.

Paludati giureconsulti opporranno che questa ineleggibilità o incandidabilità non è elencata tra le fattispecie tassativamente previste dalla legge. Per la copresidenza di un organo costituzionale, questa è la risposta, non dispone la norma di legge preordinata a regolare posizioni di minor rilievo istituzionale in quanto operano i parametri costituzionali, coerenti allo specifico status e alle potestà di quella carica. L’assunto è rafforzato dalla lettura costituzionalmente orientata della legge 60/1953, del d.P.R. 361/1957 nonché dalla giurisprudenza su richiamata. Sarebbe d’altronde una sconfitta della democrazia se questo evidente assioma dovesse essere affermato dalla Corte costituzionale investita del caso in esito allo svolgimento delle elezioni. Il presidente Fico chieda lumi al fine giurista inquilino del Quirinale e non lasci spazio all’ermeneutica degli azzeccagarbugli. Con un meditato self-restraint, coerente ai profili della democrazia rappresentativa, sottrarrà la sua parte politica alla desolata constatazione, risalente al 1902, di Ostrorgosky: “Appena un partito, anche se fondato per il più nobile degli scopi, diventa un’istituzione stabile, esso tende a degenerare”.

 

Ambiente e sostenibilità, la carta va aggiornata

Presentando il suo programma, Draghi ha detto che “questo governo conferma l’impegno di andare nella direzione dell’inserimento in Costituzione dei concetti di ambiente e sviluppo sostenibile su cui sta lavorando il Senato con un progetto di legge”. È solo un impegno e neppure nuovo, visto che era già stato affermato sin dal 2019 dal governo Conte. Di nuovo c’è il richiamo allo sviluppo sostenibile, che, però, di per sé significa poco in un Paese come il nostro che sinora, nei fatti, troppe volte lo ha interpretato al contrario: nel senso di ritenere sostenibile la tutela dell’ambiente solo se non contrasta con le esigenze dell’economia, del profitto e della “crescita”.

Oggi, tuttavia, vi è un nuovo contesto europeo: i finanziamenti Ue, di cui abbiamo estremo bisogno, devono essere coerenti con gli obiettivi del Green New Deal (la risposta europea all’emergenza dei cambiamenti climatici) che ci chiedono, tra l’altro, di introdurre nuove regole per potenziare la diffusione delle energie rinnovabili e al contempo smettere di incentivare l’uso di combustibili fossili, rendere meno inquinanti le attività industriali, sganciare la crescita dall’utilizzo delle risorse naturali, potenziare i trasporti pubblici e su rotaia, promuovere la biodiversità e l’economia circolare. Di modo che “nessuna persona e nessun luogo sia trascurato”.

E, quindi, mai come oggi appare evidente il ritardo della nostra Costituzione, che non prevede né diritto all’ambiente né sviluppo sostenibile, rispetto alla Costituzione europea secondo cui “un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile” che si basa “su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente”. Siamo fermi, infatti, all’attuale articolo 9, che, come è noto, “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, anche se in tutti questi anni la Corte costituzionale, coniugandolo con gli altri principi costituzionali in tema di salute e di iniziativa economica, lo ha interpretato estensivamente per comprendervi la tutela dell’ambiente, come valore trasversale che racchiude in sé sia l’elemento naturalistico, sia tutti gli altri elementi che, direttamente o indirettamente, possono incidere sull’ambiente stesso e sulla salute e vita dell’uomo.

È proprio su queste basi e su alcuni disegni di legge che, fino all’avvento della pandemia, ha lavorato per la modifica dell’articolo 9 la Commissione ambiente del Senato con numerose audizioni dove sono emerse varie proposte, minimali o di più ampio respiro, che oggi sono mature per la decisione.

Sarebbe troppo lungo riassumere in questa sede la ricchezza di questo dibattito che può, comunque, essere approfondito leggendo in rete i resoconti parlamentari (con relativa documentazione). Di certo, comunque, occorre scegliere una formulazione che non si limiti a enunciare questi valori ma inserisca in Costituzione elementi specifici tali da condizionare ogni provvedimento e ogni legge del nostro Paese. Proprio per questo mi permetto di riportare il testo del nuovo articolo 9 da me proposto durante la mia audizione, dove ho cercato di introdurre una nozione di ambiente dinamica, moderna e, soprattutto, strutturata come “diritto fondamentale” al pari del diritto alla salute, e non aggirabile da leggi ordinarie: “La Repubblica tutela l’ambiente come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività al fine di preservare le risorse naturali, assicurare il benessere dei cittadini, e garantire i diritti delle future generazioni. La tutela dell’ambiente è fondata sui princìpi di precauzione, azione preventiva e sviluppo sostenibile. A tal fine la legge promuove le condizioni necessarie a rendere effettivo tale diritto e inserisce nel bilancio dello stato opportuni parametri di benessere e di contabilità ambientale”.

In tal modo si introdurrebbe anche l’importante principio della contabilità ambientale e di uno sviluppo non correlato solo all’aumento del Pil ma soprattutto al benessere (felicità?) dei cittadini.

Sarebbe, in questo momento drammatico della nostra epoca, un importante segnale verso un futuro migliore. Nella consapevolezza che, come scrive l’Enciclica Laudato si’, mai come oggi, “i giovani esigono da noi un cambiamento. Essi si domandano com’è possibile che si pretenda di costruire un futuro migliore senza pensare alla crisi ambientale e alle sofferenze degli esclusi”.