Vaccini “Fate presto con le persone ‘fragili’: è una questione di civiltà”

Gentile redazione, ho 48 anni, due figli adolescenti e, purtroppo, un grave carcinoma ovarico. Sto seguendo la prescritta chemioterapia in attesa che si realizzino, spero, le condizioni per un intervento chirurgico. Avrei bisogno di vaccinarmi il più presto possibile, essendo esposta, come immunodepressa, al rischio di contagio (che sarebbe probabilmente letale) dai figli, dal marito o presso le strutture sanitarie dove devo recarmi frequentemente.

Questo in Lombardia oggi non è possibile, perché gli immunodepressi vengono vaccinati solo dopo il completamento della vaccinazione agli over 80, dei Comuni della zona arancione “rafforzata” e del personale delle scuole, per una decisione prevista nel protocollo nazionale e regionale.

Questo non accade in altri Paesi come Svizzera o Inghilterra dove le persone fragili sono state inserite da subito in fascia uno.

In Lombardia, sono migliaia i fragili e le madri che purtroppo si trovano in situazioni analoghe alla mia, ma sembra che questa sia una categoria non degna di attenzioni. Dal mio punto di vista è una questione di civiltà, analoga al lasciare il posto a sedere su un mezzo pubblico a un anziano, un disabile o una donna incinta, anche se nel caso dei vaccini le conseguenze possono essere letali. Un cordiale saluto.

Giorgia Basano, Una madre residente a Milano

Mail box

 

I furbetti dell’antivirus si travestono anche

Sto seguendo con particolare interesse gli articoli quotidianamente riportati sul Fatto che descrivono le eroiche gesta di coloro che si accaparrano i vaccini senza averne ancora il diritto. Non posso fare a meno di raccontare ciò che è accaduto a Napoli. Alcuni ambulanzieri, portantini e socio sanitari si sono portati nei centri vaccinali amici e parenti travestiti con le loro divise. Della furbata hanno così beneficiato proprio coloro che non hanno assolutamente voglia di rispettare le leggi.

Leonida Ambrosio

 

Regioni, il Far West non dipende dal governo

A Torino non ci sono controlli sugli assembramenti per strada, ma intanto sento le cose più strane sui vaccini. Io ho 68 anni, boh, un giorno toccherà anche a me. Forse dipende se sei fortunato e ti trovi nella Regione giusta. Mi sento allo sbando, sarò solo io che non riesco a capire? Però ho l’impressione che da quando è arrivato Draghi sia tutto più confuso.

Giulia Motta

 

Cara Giulia, qui Draghi non c’entra: è il solito Far West delle Regioni.

M. Trav.

 

Se lo critica Zingaretti, il Pd ha problemi seri

Dimettendosi da segretario del Pd, Zingaretti ha scritto “Mi vergogno che da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata di Covid…”. In altre parole ha sostenuto che il suo partito è una macchina dedita alla ricerca del potere fine a se stesso. Se lo ha scritto lui c’è da crederci e se è vero che questo succede durante la pandemia, c’è da pensare che in tempi normali sia anche peggio.

Pietro Volpi

 

Serve un congresso per chiarire la linea dem

Ho letto un intervento di Franco Monaco che suggerisce di convocare un congresso per espellere dal partito i renziani. Ma sicuramente ci sono molte altre teste calde che stanno occupando la scena. Si convochi il congresso per ottenere una maggioranza sull’obiettivo dell’accordo con i 5 Stelle guidati da Conte.

Paolo Scavo

 

Cinque Stelle, la rottura sarebbe un grave errore

Se il M5S si divide in governisti-collaborazionisti e movimentisti-irriducibili, fa un regalo alle altre forze. I 5 Stelle a trazione Conte potrebbero attirare nuove simpatie e voti, ma un’implosione adesso sarebbe grottesca.

Fabio Morandin

 

Non è poi così presto per giudicare Draghi

“È presto per giudicare un governo appena insediato”. Non sono d’accordo. Molti componenti sono già noti e c’è un problema di democrazia: non si può chiedere a un tecnico di governare il Paese come fosse un’azienda, senza rispettare gli elettori e garantire vere alternative in Parlamento.

Vito Coviello

 

C’è ancora poco rispetto delle norme anticontagio

Essendo una persona avanti con l’età, sono preoccupato. Mi sembra che la gente stia sottovalutando il distanziamento sociale e il corretto utilizzo della mascherina, le uniche norme per difenderci dal virus. Vorrei sensibilizzare tutti: stiamo pagando un prezzo di vite umane molto alto, ricordate che una disattenzione può costare la vita a un vostro caro.

Silvio Onorati

 

La squadra è mediocre? “Farà tutto il Migliore”

Tra i vari ragionamenti usati con Draghi, ne ho udito uno spiritoso: anche se i sottosegretari sono poco validi, il Migliore non dimostra mediocrità nel giudizio, perché le sue scelte sono figure inutili. In realtà le prerogative saranno tutte detenute dal Migliore stesso. Non era Conte il dittatore?

Francesca Della Pietra

 

È indecente la risonanza di cui gode Matteo Renzi

In Renzi ho visto sempre e soltanto uno spregiudicato politico di mestiere, altamente inaffidabile, anzi molto pericoloso. È preoccupante che abbia seguaci come marionette e francamente indecente la risonanza che amplifica ogni sua parola, un’ormai insignificante presenza nel già squallido panorama della politica italiana.

Giampiero Buccianti

 

Il deficit democratico dei parlamentari italiani

Non ci preoccupa la decadenza dei partiti politici? Non esiste nessuna legge che ne disciplini il metodo. In quasi tutti, vigono poteri piramidali o anche personali, con la base silente. Mai un congresso, mai un dibattito aperto, mai libere assemblee. Così è la democrazia stessa a essere a rischio.

Mauro Bortolani

 

I confronti generazionali e le paure dei giovani

Scrivo in merito alle varie discussioni sui giovani al giorno d’oggi. Penso che la mia generazione sia una fusione delle caratteristiche delle generazioni passate, quindi smettiamola con i confronti che spesso si fanno. La mia generazione non chiede compassione, ma comprensione per la paura e l’incertezza che vive: paura che tutto quello che ci è stato insegnato vada perso, paura che tutto lo studio fatto non serva a nulla.

Federico Aulizio (classe 1997)

 

Torna Bassolino, dopo aver lavorato male

Bassolino si autocandida sindaco di Napoli. Vuole approfittare del grande vuoto della politica napoletana per tornare a essere sindaco. Ma io, casertano, non posso non ricordare come trascurò le altre province da presidente della Regione, a partire dal turismo.

Mario De Florio

 

Si riducano le tasse, non le cartelle esattoriali

Mi occupo di riscossione coattiva per 600 Comuni italiani e posso testimoniare grande disorientamento. È rozza la politica che continua a ridurre la materia fiscale a “rottamazione” o “saldo&stralcio”. Se le tasse sono esorbitanti, i leader politici le riducano all’origine; ma le cartelle devono procedere nel loro iter. Chi ne chiede l’eliminazione dovrebbe lasciare per fallimento nella gestione o incitamento all’evasione.

Stefano Masino

Ecco come riconoscere le balle propagandistiche (pure del movimento)

Ieri abbiamo liquidato il partito liquido. L’altra sciagura italiana era Forza Italia. Per motivi che credo sia superfluo ricordare ai lettori del Fatto, ho una certa dimestichezza con le balle che il Cavalier Banana propinava agli italiani di bocca buona, cioè alla maggioranza del Regno Birbonico, venendo ricambiato dal tripudio e non dai calci in culo che si meritava. Gli servivano per nascondere certe turpitudini (Dell’Utri, Mangano, Previti, P2, All Iberian, leggi ad personam &c.) e i disastri del suo governo: per un riassunto divertente rimando Millennials e Zoomers a questo monologo: shorturl.at/guxAQ.

Dai e dai, ho imparato a riconoscere l’olezzo delle balle propagandistiche. Da quando Pizzarotti fu sospeso dai probiviri e il provvedimento fu annunciato sul blog, sento quel puzzo nella comunicazione grillina. Gli altri partiti, certo, non sono da meno, in quanto a ballistica, ma sono parte del Blocco, li conosciamo, mentre Grillo aveva suscitato speranze e lucrato consensi promettendo con vigore una palingenesi; sicché la propaganda grillina, quando ricalca i modelli mistificatori dei partiti precedenti, si fa notare. Prendiamo dunque il manuale delle mistificazioni e passiamone in breve rassegna alcune occorrenze pentasiderali. Le categorie della mistificazione sono due: simulazione (esibire il falso) e dissimulazione (nascondere la realtà). Le tecniche di simulazione sono tre: mimare (imitare un modello), inventare (creare un modello nuovo), attirare (proporre un modello alternativo). Anche le tecniche di dissimulazione sono tre: mimetizzare (confondere con lo sfondo), cambiare aspetto (modificare il modello) e abbagliare (offuscare il modello). Gli slogan “Uno vale uno, due mandati, No Tav, No Tap, no F-35, no Pd, no Draghi, uscire dall’euro, no deposito e transito di armi nucleari batteriologiche e chimiche in Italia” erano una simulazione del tipo ATTIRARE. Dire “Draghi è un grillino” è una dissimulazione del tipo ABBAGLIARE. Definire il M5S “liberale e moderato” è CAMBIARE ASPETTO. Dire “La democrazia diretta è il futuro” è ABBAGLIARE (la democrazia diretta, ammissibile come referendum, è dittatura della maggioranza se intesa come potere legislativo esercitato dai cittadini senza l’intermediazione di un parlamento, poiché cancella, con altri contrappesi, l’opposizione). Definirsi “l’Elevato”, buttandola sul comico, è ABBAGLIARE, quando di fatto, negli snodi cruciali, il M5S decide quello che piace a te (infatti Draghi chiamò Grillo, non Crimi). (Altro esempio su chi decide davvero da quelle parti: nel 2014, Rousseau approvò l’emendamento Cioffi-Buccarella che depenalizzava il reato di immigrazione clandestina; ma Grillo e Casaleggio erano contrari, e quando l’M5S andò al governo non depenalizzò quel reato.). Annunciare che “Nasce il Ministero della Transizione Ecologica” è ATTIRARE; inoltre, poiché quel post tace sul fatto che il Ministero non è quello promesso da Grillo, dato che non accorpa il MISE, è pure CAMBIARE ASPETTO; e poiché serve anche a dissimulare la crisi in atto nel M5S, è ABBAGLIARE. La piattaforma Rousseau fa l’en plein: MIMA e CAMBIA ASPETTO (imita le elezioni democratiche, ma il voto su una piattaforma digitale non può essere davvero “personale, eguale, libero e segreto” come da art. 48 della Costituzione); INVENTA (si propone come un nuovo strumento di democrazia); ATTIRA (si propone come alternativa futura al voto parlamentare); MIMETIZZA (la piattaforma è gestita da un’associazione privata, e le operazioni di voto non possono essere documentate da giornalisti esterni; la verifica è affidata a un notaio amico di Casaleggio, ed ex candidato M5S); e ABBAGLIA (vedi il quesito fraudolento sul sì a Draghi). Tanto va la gatta al lardo che ormai è sicura del fatto suo.

 

Gianni Speranza, dieci anni e 2 mesi di guerra a Lamezia

Pubblichiamo la prefazione al libro “Una storia fuori dal Comune” di Gianni Speranza, sindaco simbolo della rinascita civile di Lamezia Terme.

“Avevo iniziato nel 2005 con il portone dell’aula consiliare bruciato e finivo dieci anni dopo con le minacce del boss Grande Aracri”: parole di Gianni Speranza, ma nel citarle mi accorgo che della complessa vicenda umana e politica di un sindaco, e della sua comunità, narrate in questo libro lo sguardo finisce inevitabilmente sempre lì. Come se la Calabria e i calabresi non fossero altro che il fondale e le comparse di una fiction su ’ndrangheta, sangue e narcotraffico, tipo ZeroZeroZero. Eppure quelle fiamme sono state realmente appiccate e quelle parole di odio sono state davvero pronunciate. Così come il bersaglio di tutto ciò non è un personaggio di fantasia bensì il primo cittadino di Lamezia Terme. Confesso che qualche pregiudizio nei confronti dei calabresi lo nutrivo: mi apparivano abitanti di un mondo lontano, inospitale, indecifrabile, da cui tenersi prudentemente a distanza. Poi ho conosciuto Gianni, anzi prima di lui ho conosciuto Giandomenico Crapis, autore di raffinate analisi sui protagonisti della comunicazione televisiva (da Enzo Biagi a Michele Santoro), scritte nelle pause di un lavoro altrettanto impegnativo, quello di medico di famiglia. Un intellettuale, dunque, con le mani affondate nella realtà della malattia e della cura, uomo di buone letture come Speranza, insegnante di Storia e Filosofia e dunque il più titolato a cercare di insegnare le regole della convivenza civile a una comunità con una propria, diciamo così, refrattaria complessità. A pensarci bene un sindaco che si chiama Speranza, in una terra dove l’illegalità è spesso una necessità e la legalità qualche volta un lusso, rappresenta uno straordinario ossimoro. Un’esperienza che infatti comincia con quel portone bruciato, che potrebbe essere anche interpretato come un consig1io amichevole, a suo modo affettuoso. Come dire: sappiamo che sei animato dalle migliori intenzioni, ma cerca di capire che per quanti sforzi tu possa fare, qui le cose continueranno ad andare come sono sempre andate, e quindi caro sindaco, rassegnati a non vedere e cambiare nulla e non farti il sangue amaro. Purtroppo, di quel viatico, il sindaco non fece affatto buon uso, dedicandosi nei dieci anni successivi a smentire, attraverso il buon governo e la cura dei cittadini e della cosa pubblica, i suoi premurosi piromani. Lo ha fatto nella solitudine politica resa plasticamente da una definizione del Pd: “Stremato da dieci anni di opposizione dura a Gianni Speranza mentre era in giunta con lui”. Lo ha fatto nelle tante notti insonni trascorse a passare in rassegna tutti i problemi della comunità che gli sfilavano davanti come un esercito nemico armato fino ai denti. Lo ha fatto ogni tanto chiedendosi chi glielo faceva fare, ma lo ha fatto. Per poi annotare nel suo taccuino: “Dieci anni e due mesi sono tanti mentre li vivi, sembra che non passino mai. Non vedi l’ora di finire. Dieci anni sono pochi quando sono già passati. Dieci anni sono lunghi e sono brevi”. Come dirlo meglio? Quando sarete accompagnati da Gianni (Giannetto per gli amici di sempre) in questa straordinaria storia di coraggio umano e civile – come egli accompagnò passo dopo passo il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in visita a Lamezia in modo che tutti sapessero che l’Istituzione è materia viva pulsante, fatta di uomini uniti dagli stessi valori costituzionali – vedrete che vi sentirete anche voi un po’ calabresi.

La sfida eroica all’orco dello Stato

• Titolo: “Quei silenzi da interpretare per capire il pensiero di Draghi”. Svolgimento: “Trattandosi di uno tra gli allievi più illustri delle scuole dei Gesuiti, maggiore attenzione andrebbe dedicata ai silenzi, ai temi ignorati e soprattutto a quei fatti che appaiono ai margini della trattazione (…) che magari scopriremo essere determinanti nel mutamento degli scenari”.
Il Secolo XIX

• Titolo: “Se sono i liberali a salvare lo Stato”. Svolgimento: “Lo Stato non siamo noi, non sei tu. Lo Stato sono loro (…). È l’immagine di un orco grasso e malmostoso (…). Draghi e Brunetta, con l’aiuto di Cingolani e Colao, hanno deciso di cominciare la loro impresa proprio dall’orco. (…) Questa avrebbe potuto essere la grande impresa della sinistra statalista (…). La stanno facendo i liberali”
Il Giornale

• Intervista a Cassese: “Con Draghi democrazia in pericolo? Facciamo i seri”. “Gli argomenti: la riforma della Pa, McKinsey (‘molto rumore per nulla’), la fine del Conte II (‘attuata la Costituzione’), il Dpcm di Draghi (‘è il primo e spero l’ultimo’”.
Il Foglio

L’astinenza (e l’opposizione) che farebbe bene al Pd

Enrico Letta è la dimostrazione vivente che un periodo di astinenza dal potere giova a chi crede nella politica democratica, sempre che sia portatore di idee valide. Sei anni fa si era dimesso da deputato, autoimponendosi una dieta o, se si preferisce, una pausa di riflessione culturale. Inutile dire che tale dieta sarebbe risultata altrettanto salutare agli onnivori capicorrente che oggi invocano il ritorno di Letta. Gli stessi che all’epoca gli preferirono Renzi e lo pugnalarono alle spalle. Nel frattempo costoro si sono curati prevalentemente di conservare il proprio ruolo nel governo e in Parlamento. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Come minimo, prima di accettare l’investitura, Letta dovrebbe chiedere che gli artefici di tale disastro introducano l’Assemblea nazionale del Pd officiando sul palco un pubblico autodafé. So di essere ingenuo a immaginarlo. Malridotti come sono, essi immaginano la segreteria Letta come scelta provvisoria e conservativa. Il classico ricorso all’“usato sicuro”. Rimpicciolire tutti insieme senza perdere lo spazio acquisito e confermando, grazie anche alla biografia autorevole dell’ennesimo segretario, che restare al governo è la loro assoluta priorità. Mal dissimulata con richiami al senso di responsabilità.

Un partito invecchiato precocemente, e già sfinito, rivela così – sia detto con tutta la stima che Letta merita – di temere le incognite del rinnovamento. Ha paura del salto nel buio, di investire sulle donne e sui giovani, che magari hanno lottato per trasformare la società, ma non hanno mai governato. In fondo basterebbe far tesoro delle lezioni della storia: in Italia ha contribuito assai di più al miglioramento delle condizioni di vita dei più deboli il partito di sinistra rimasto sempre all’opposizione, che non il Pd insediato dacché esiste quasi sempre al governo.

L’effetto Draghi, un fenomeno atmosferico

Come il nero sta bene un po’ su tutto. S’intende l’effetto Draghi, un fenomeno quasi atmosferico per la grande stampa italiana. Quando la notizia è positiva è un chiaro “effetto Draghi”, se le cose vanno male non se ne parla e basta. Ieri, per dire, l’Ocse ha diffuso le nuove stime sull’economia dei Paesi avanzati. La buona notizia è che la stima di crescita del Pil italiano per quest’anno è stata rivista al rialzo: +4,1% nel 2021 (0,8 punti in più rispetto alle vecchie previsioni). L’economia italiana crescerà più di quella tedesca (+3,5%). Parliamo di stime migliori di quelle stilate da Bankitalia (+3,5%) e dal Fondo monetario internazionale (+3%). E di chi è merito? Ma “dell’effetto Draghi”, ovviamente, come il Corsera riportava entusiasta, quasi fosse una cosa scontata. Nessuna spiegazione, e ci mancherebbe, visto che l’Ocse non ne fa menzione e il governo dell’ex Bce non ha ancora neanche emanato un provvedimento economico.

È un po’ come l’“effetto Draghi” sullo spread, che non c’è mai stato. Il differenziale tra i titoli di debito italiani e tedeschi ormai veleggia intorno a 100 punti, livello che aveva prima della crisi di governo. Sarà un caso, ma la grande stampa non ne parla più.

“Fate presto!”, ma ora non più I Ristori spariti pure dai media

I collegamenti strappalacrime di Barbara D’Urso con i ristoratori “senza aiuti”, “lasciati soli” e con “solo le mance per pagare le bollette” da Milano a Palermo, da Bari a Trento, sono improvvisamente spariti. La marcetta su Roma dello chef stellato Gianfranco Vissani con ristoratori al seguito per protestare contro il governo Conte che sta “uccidendo i ristoratori” e le sue “mancette” è solo un lontano ricordo. Per non parlare dei giornali che, durante la crisi aperta da Matteo Renzi, prendevano in prestito l’allarme del Mattino del 1980 durante il terremoto dell’Irpinia per chiedere alla politica di “fare presto” e approvare subito il decreto Ristori 5 per aiutare le attività – dai ristoranti ai bar agli impianti sciistici – che avevano dovuto chiudere a gennaio. Adesso però tutti gli allarmi, gli sos e le manifestazioni dei ristoratori (con tanto di assembramenti in piazza Montecitorio con l’hashtag #ioapro sostenuto da Matteo Salvini) sono scomparsi dai giornali e dalle televisioni. Ora non c’è più il governo Conte ma, da quattro settimane, a Palazzo Chigi siedono “i migliori” di Mario Draghi. E quindi l’urgenza per approvare il decreto, ribattezzato “Sostegno”, da 32 miliardi, tutto d’un colpo non c’è più: il provvedimento è slittato di un’altra settimana mentre i tecnici del Tesoro stanno ancora cercando una quadra su fisco, sanità, vaccini e lavoro. I ristori alle attività valgono circa 5 miliardi ma non arriveranno subito: gli imprenditori dovranno aspettare almeno un mese. E allora è utile ricordare tutti coloro che fino a poche settimane fa attaccavano il governo per aver “lasciato soli” i lavoratori e oggi, invece, tacciono.

Il primo a lanciare l’allarme a inizio gennaio era stato proprio Matteo Renzi che dopo aver fatto dimettere le due ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti dal governo Conte, aveva dichiarato: “Votiamo subito lo scostamento di Bilancio e il decreto Ristori” (17 gennaio). Lo scostamento da 32 miliardi era stato approvato il 20 gennaio dal Senato ma del decreto Ristori non s’è più saputo niente. Stesse parole, a metà gennaio, della ormai ex ministra Teresa Bellanova: “Approviamo subito Ristori e Recovery”. Niente di fatto ancora: un governo dimissionario non poteva certo approvare un decreto politicamente così importante come quello degli aiuti alle attività economiche rimaste chiuse. Per non parlare di Salvini e della Lega che dall’opposizione bombardavano tutti i giorni i giallorosa per il mancato arrivo degli aiuti: “Conte, sui ristori non prendere per i fondelli gli italiani” diceva in un video su Facebook il leader del Carroccio dopo aver ascoltato le comunicazioni dell’ex premier alla Camera in piena crisi di governo. E ancora “rimborsi siano certi” (16 gennaio) e “subito rimborsi proporzionati alle perdite subite” (18 gennaio). Anche Silvio Berlusconi l’11 gennaio sul Giornale chiedeva al governo di “fare presto”: “Mentre ci sono vergognosi giochi di palazzo, il Paese è bloccato”. La prima grana del governo Draghi, sostenuto anche da Lega e Forza Italia, è stata proprio la mancata riapertura degli impianti sciistici prevista per il 15 febbraio e poi rimandata a data da destinarsi. Dopo quella decisione, la Lega era tornata a bomba: “Subito i ristori” chiedevano in coro i ministri del Carroccio, Giancarlo Giorgetti e Massimo Garavaglia. Il 22 febbraio, poi, Salvini non poteva mancare alla manifestazione #Ioapro dei ristoratori in protesta con la decisione di non riaprire i locali anche la sera e il giorno dopo andava dicendo: “Ristori subito e accelerazione sul piano vaccinale”. Niente da fare.

Anche i giornali per mesi hanno usato fiumi di inchiostro sul blocco dei Ristori mentre oggi che il governo Draghi sta ritardando nell’approvare il decreto, il tema è scomparso. Basta recuperare i giornali di un mese e mezzo fa: “Le chiusure accelerano ma i ristori frenano” (Sole 24 Ore, 9.1), “Ristori e fondi Ue al palo. Mancano i soldi per ripartire e i pochi rimasti li butta Conte” (Libero, 20.1), “Ristori, Recovery, sfratti. Dieci giorni di stallo e il Paese resta al buio” (Il Giornale, 24.1), “Ristori a rischio per la crisi” (Il Messaggero, 25.1), “Fate presto. Dal Recovery Plan ai ristori l’agenda economica è appesa alla crisi” (Linkiesta, 27.1), “L’Italia non ce la fa più. L’urlo delle imprese: ‘fate presto!’ (La Stampa, 28.1). Oggi Aldo Cursano, vicepresidente di Fipe, attacca: “Tra crisi di governo e ritardi sul decreto si sono buttati due mesi – dice al Fatto – è così che si rompe il rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini”.

Un futuro di lavoretti: i consigli di McKinsey per il dopo-Covid

“Il governo dovrà proteggere tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. La scelta di quali proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi”: furono queste le parole pronunciate da Mario Draghi al Senato a febbraio.

Questo compito più difficile, tra il sempre più vicino sblocco dei licenziamenti e le richieste di prorogare le deroghe sui contratti a tempo determinato, non sembra essere ancora iniziato. Eppure c’è chi, nelle prospettive della condizione post-pandemica del mercato del lavoro, si è già portato avanti su ciò che potrebbero fare i decisori politici, tra richieste di maggiore “mobilità” e “flessibilità” e potenziamento della gig economy. Non rassicurante.

Uno dei primi è il McKinsey Global Institute, con uno studio di qualche settimana fa realizzato su rilevazioni negli Usa, in Cina, in Giappone ma anche in Gran Bretagna, Francia, Germania e Spagna. L’elaborato, in sostanza, proietta sul futuro – al 2030 – i cambiamenti dell’ultimo anno, sostenendo che i lavori più colpiti e che costringeranno i lavoratori a doversi tarare o re-inventare su un nuovo mercato, sono quelli che prevedono “prossimità fisica”. Negli Usa, ad esempio, tutto ciò che riguarderà il “supporto d’ufficio” registrerà un calo del 16% così come il servizio clienti e gli addetti alle vendite, che si ridurranno dell’8% per cento. E ancora, i servizi di ristorazione (-5%), la produzione industriale (-6%), le installazioni meccaniche e le riparazioni (-2%). Il futuro sembra roseo (con percentuali d’incremento) solo nel campo degli affari e del legale, nei servizi di trasporto e per gli operatori sanitari a tutti i livelli. “In 100 milioni – si legge – dovranno cambiare lavoro, l’8% in più di quanti avrebbero dovuto prima dell’epidemia”. E soprattutto tra chi percepisce salari medio-bassi. Il sito americano Glassdoor, usato per recensire le aziende, ha monitorato le offerte di lavoro degli ultimi mesi: anche qui diminuiscono quelle per assistenti amministrativi, personale delle risorse umane, addetti alla ristorazione, consulenti di bellezza, camerieri, professori e anche i fisioterapisti. Il Bureau of Labor Statistics americano parla, in prospettiva, di servizi di viaggio con un calo compreso tra -4,2% e -8,6%, quelli di ristorazione (-3,1% nello scenario a forte impatto), camerieri(-12,9%), baristi (13,8%) e impiegati d’albergo(-22%). Se poi un lavoro non ha una prospettiva di successo e crescita nel lungo periodo, è molto probabile che anche la logica del profitto aziendale non abbia interesse a tenere quel lavoratore alla lunga. E qui subentra l’ulteriore analisi di McKinsey che suggerisce ai decisori politici come muoversi.

Durante la pandemia – sottolineano – i responsabili politici, le aziende e i lavoratori si sono adattati a nuovi modi di lavorare più rapidamente di quanto si pensasse possibile, “per pura necessità”. Sul lungo termine, quindi, risposte “altrettanto agili e collaborative” potrebbero portare a una “maggiore crescita della produttività”. Le aziende potrebbero rispondere “reinventando” dove e come lavorare e “trovando nuovi modi per assumere, formare e ridistribuire i lavoratori” concentrandosi sulle “attività richieste piuttosto che su interi lavori”. I responsabili politici potrebbero consentire “una maggiore flessibilità del mercato del lavoro”, ad esempio “rimuovendo le barriere alla mobilità dei lavoratori” e “sostenendo i lavoratori nella gig economy”. Non c’è gran margine d’errore d’interpretazione: “Con l’aumentare della quota di lavoratori indipendenti – conclude lo studio – potrebbe esserci maggiore innovazione, necessaria per garantire loro vantaggi. La pandemia finirà per svanire, ma l’agilità e la creatività dei responsabili politici e delle imprese evidenti durante la crisi dovranno continuare per trovare risposte efficaci alle incombenti sfide della forza lavoro”.

Il piano di Bonomi: licenziare i vecchi e assumere precari

Se mettiamo in ordine le dichiarazioni pubbliche e le interviste rilasciate negli ultimi giorni da Carlo Bonomi e il tam tam del giornale di casa, viene fuori il programma completo della Confindustria sul tema del lavoro. In sintesi estrema, è questo: nonostante siamo ancora nel pieno della pandemia, alle aziende bisogna permettere di licenziare perché, dice il leader degli industriali, “il blocco dei licenziamenti si sta trasformando in blocco delle assunzioni”. Quindi togliere il divieto darebbe via libera alla nascita di nuovi posti. Di che tipo? Intanto quelli con contratti precari, per i quali Bonomi chiede di togliere definitivamente l’obbligo di motivarne il ricorso con la causale e i vincoli imposti dal decreto Dignità che ne ha arginato l’esplosione avviata col decreto Poletti del governo Renzi. E poi con un misto di sgravi fiscali e “solidarietà espansiva”, riducendo cioè l’orario di lavoro e lo stipendio agli attuali dipendenti, così da usare quei risparmi per far entrare i nuovi. Come tutelare poi quelli mandati a casa? Riformando gli ammortizzatori sociali, rendendo universale la cassa integrazione, senza però specificare su chi dovrebbero ricadere i costi.

La parola d’ordine, quindi, è lasciare le imprese libere di tagliare gli organici e sostituirli con giovani a tempo determinato e, quindi, con salari inferiori. È ancora aperta la partita del decreto Sostegno, quello che prima si chiamava Ristori e da settimane viene rimandato. Bonomi si inserisce battendo cassa con il decalogo confindustriale, riproponendo lo strano sillogismo per cui, sbloccando i licenziamenti, le imprese assumerebbero.

Il divieto di mettere alla porta dipendenti per ragioni economiche – in tutti gli altri casi è consentito – è in vigore dal 17 marzo 2020 e scadrà a fine mese. L’idea del governo – a maggior ragione con la terza ondata del Covid – è prorogarlo fino al 30 giugno. Finora ha funzionato per proteggere quantomeno i posti a tempo indeterminato, come confermano i dati Istat, ma non sono mancati i datori che l’hanno ignorato: tra aprile e settembre, infatti, le tabelle Inps segnano comunque 127.330 licenziamenti economici, aumentati soprattutto a fine estate, quando sono stati permessi per cessazione delle attività o con accordi di incentivi all’esodo. Un numero lontano dagli oltre 343 mila del 2019, ma comunque alto. E se già la diga ha mostrato di avere qualche crepa, aprirla del tutto provocherebbe una catastrofe occupazionale. Nel 2020, stima la Banca d’Italia, la moratoria ha evitato 700 mila licenziamenti: ambienti sindacali ne prevedono oltre il milione con la fine del divieto in primavera.

È qui che dovrebbe intervenire la riforma – cara anche alla Confindustria – degli ammortizzatori sociali. Quelli disegnati nel 2015 dal Jobs Act hanno dimostrato di lasciare senza protezione una grossa fetta di lavoratori, tanto da rendere necessaria la cassa in deroga. L’ex ministra del Lavoro Nunzia Catalfo aveva affidato a una commissione di esperti la redazione di un piano e il 25 gennaio era pronta a presentarlo alle parti sociali. La caduta del governo ha bloccato tutto, ma il suo successore Andrea Orlando sembra voler proseguire su quella strada: ha promesso ai sindacati una convocazione nei primi di marzo, che però ancora non è arrivata e non si sa quando arriverà. Il nodo sarà individuare chi dovrà pagare le nuove tutele, più o meno generose che siano. Bonomi glissa sull’argomento, eppure è fondamentale: se in fase iniziale la riforma potrà infatti essere finanziata con la fiscalità generale, subito dopo bisognerà renderla assicurativa, quindi dovrà comportare aumenti contributivi (difficile sia questa la proposta di Confindustria).

Come detto, in cambio della libertà di licenziare, Bonomi promette una staffetta generazionale nelle aziende, ma solo rivedendo (cioè cancellando) il “meccanismo delle causali” del dl Dignità, in parte sospeso causa Covid fino al 31 marzo. L’altra richiesta è il permesso per le aziende sotto i 250 dipendenti di usare il contratto di espansione: sistema col quale i lavoratori accettano una riduzione di orario e stipendio per favorire gli ingressi di giovani. Ovviamente accompagnato da sgravi: “Va rafforzato il bonus per giovani e donne”. Soldi pubblici, insomma: d’altronde si finisce in “Sussidistan” solo se vanno nelle tasche di poveri e disoccupati, mentre se a beneficiarne sono le imprese va tutto bene.