Una P.A. “flessibile” e più simile al privato: il patto coi sindacati

Aleggere le otto pagine di testo del “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale” si fatica a capire l’entusiasmo di commentatori (“rivoluzione!”) e dei firmatari – governo e Cgil, Cisl e Uil – riunitisi ieri mattina a Palazzo Chigi.

Trattasi di un elenco di petizioni di principio con cui nessuno potrebbe essere in disaccordo (“aumento del personale”, “investire nel capitale umano”, “formazione continua”, “digitalizzazione”, “semplificazione dei processi”), una lunga citazione dal discorso di Mario Draghi in Parlamento, la promessa implicita di stanziare qualche soldo in più (700 milioni si dice) per riconoscere i ruoli professionali maturati in questi anni, i rinnovi dei contratti per il triennio 2019-2021 alle cifre già stanziate dal governo precedente e qualche frase equivoca su cui si dovrà discutere nei prossimi mesi.

Non si parla qui delle centinaia di assunzioni quinquennali di tecnici che lavoreranno al Piano di ripresa europeo – e che entreranno in un decreto che accompagnerà il Recovery Plan – ma del corpaccione della Pubblica amministrazione centrale e locale, oltre tre milioni di dipendenti umiliati e offesi da anni di tagli, blocco del turn over e degli stipendi.

In sostanza, Mario Draghi e Renato Brunetta riconoscono Cgil, Cisl e Uil come loro controparte unica – scelta che potrebbe costargli qualcosa in futuro – e quelli s’impegnano all’appeasement su alcuni punti scabrosi in questo momento così difficile per il Paese: il tutto, visto che ora si può spendere un po’ nel settore pubblico, oliato da assunzioni e qualche soldo in busta paga (i 100 euro lordi scoperti ieri dai media e che a dicembre i sindacati giudicavano così pochi da indire uno sciopero). Il lavoro di merito comincia domani, giorno in cui il ministro della Funzione pubblica ha convocato i sindacati di settore per parlare di contratti e riforma.

Tralasciando le dichiarazioni entusiaste di parte governativa e dei leader sindacali Maurizio Landini (Cgil), Luigi Sbarra (Cisl) e Pierpaolo Bombardieri (Uil), cosa ci guadagna il governo? A cosa gli serve la “coesione sociale”, cioè la collaborazione dei tre grandi sindacati confederali, chiamati a co-gestire la riforma? La risposta è probabilmente in alcuni passaggi del documento, ovviamente senza dettagli. Si parla più volte, ad esempio, di “flessibilità”, declinata in “tre variabili: lavoro (gestione delle risorse umane), organizzazione e tecnologia”. Il punto di arrivo è una P.A. “duttile, capace di adattarsi alle esigenze di cittadini e imprese”. Belle parole che nelle intenzioni del governo significano due cose: lo sblocco del lavoro a tempo determinato, oggi soggetto a diversi vincoli nel pubblico, e un forte investimento nella contrattazione integrativa (forse per questo si parla nel documento di “attenuare il dualismo tra settore pubblico e settore privato”, ovviamente verso gli standard del secondo).

La contrattazione di secondo livello deve servire, e qui il sostegno sindacale è fondamentale, a indicare “il percorso per puntare sulla valutazione oggettiva della produttività”, pagando s’intende: così non ci sarà nemmeno bisogno di intervenire per legge, esattamente come si farà per definire modalità e obiettivi dello smart working.

Sia detto en passant, la misurazione “oggettiva” del merito dei dipendenti pubblici è un non risolto – e in alcuni casi difficilmente risolvibile (sanità e scuola per fare due esempi) – della P.A. da decenni: storicamente sono sempre stati i sindacati, e non del tutto a torto, a bloccare lo spostamento di risorse dallo stipendio di base ai premi per l’impiegato del mese. Certo, potrebbero anche aver cambiato idea.

Partiti zitti sulla multa a Inps: così proteggono i “furbastri”

L’indignazione non c’è più. Al posto delle grida di vergogna, i partiti scelgono la trincea dell’indifferenza, in modo che ognuno possa trovarci dentro un po’ quello che vuole. Fatto sta che il provvedimento con cui il Garante per la privacy ha sanzionato l’Inps sulla questione dei furbastri del bonus è passato sotto completo silenzio, almeno dalle parti della politica.

Gli stessi che in agosto, quando scoppiò lo scandalo, pretendevano trasparenza e invocavano le dimissioni dei cinque deputati e delle decine di consiglieri regionali che avevano chiesto i 600 euro, adesso non proferiscono parola. Una non reazione in perfetta continuità con l’atteggiamento avuto nei mesi scorsi nei confronti dei molti furbastri la cui identità è stata resa nota, quasi tutti rientrati nei ranghi dei partiti dopo il clamore iniziale.

La vicenda – volendo farne un bignami – è quella del bonus Covid destinato alle partite Iva e richiesto, tra gli altri, da 5 onorevoli e da una schiera di eletti nelle Regioni. Solo tre dei 5 parlamentari hanno incassato il bonus e i loro nomi erano emersi già in estate: i leghisti Elena Murelli eAndrea Dara e l’ex M5S Marco Rizzone, adesso con Bruno Tabacci. Sugli altri due nulla si sa e difficilmente si saprà, perché martedì il Garante – che indagava sui metodi anti-frode adottati dall’Inps – ha sancito che l’ente previdenziale ha raccolto i loro dati in maniera illegittima e dunque l’Istituto non potrà comunicarne l’identità.

Ci si aspettava come minimo il rammarico delle forze politiche, se non un nuovo appello in favore della trasparenza. Invece niente, se si escludono le parole affidate al Fatto dal M5S, attraverso l’onorevole Francesco Silvestri: “La decisione del Garante non cancella il disgusto nei confronti dichi ha approfittato di una misura destinata agli italiani in difficoltà. Noi abbiamo espulso Rizzone, altri non hanno fatto lo stesso coi loro”.

Nessun messaggio invece dal Pd, nonostante Nicola Zingaretti, segretario nel pieno delle sue funzioni quando emerse lo scandalo, twittò indignato: “Posso dire che è una vera vergogna?”. Niente da Forza Italia, che attraverso Andrea Ruggeri annunciava interrogazioni all’allora ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, chiedendo “di fare i nomi dei cinque miserabili che hanno umiliato milioni di partite Iva”. Giorgia Meloni, anche lei silente, lanciava un appello a tutti i parlamentari, invitandoli “a dichiarare di non aver preso il bonus”; mentre Loredana De Petris (LeU) accusava i furbastri di essere “senza ritegno e senza vergogna”.

E la Lega? Ondivago come sempre, Matteo Salvini aveva taciuto per qualche ora, nell’attesa di capire che aria tirasse, mentre il più battagliero Roberto Calderoli già parlava di “una cosa ignobile” per cui “non basta restituire i 600 euro”. Alla fine però, quando si scoprì che parecchi politici coinvolti nello scandalo erano leghisti, Salvini si decise: “Ho dato indicazione che siano sospesi e non possano essere ricandidati”.

Belle parole, se non fosse che la sospensione non ha mai avuto effetti, tanto che quasi tutti i furbastri del Carroccio hanno subito ripreso a fare comizi per il partito e a partecipare alle attività del gruppo.

Oggi non solo Dara e Murelli sono leghisti a pieno titolo, ma quest’ultima è diventata persino responsabile per l’Emilia-Romagna della Scuola di formazione politica della Lega. Per non dire della sorte toccata a Riccardo Barbisan, ex consigliere veneto coinvolto nello scandalo e non ricandidato in Regione lo scorso autunno (come a dire: noi rispettiamo le promesse), ma spedito all’Europarlamento come assistente del salviniano Gianantonio Da Re. Un bel premio che aiuta a comprendere i silenzi di queste ore.

Le “regole” di Casaleggio sono accuse a Grillo&C.

Di sera l’erede presenta sul web il suo manifesto, Controvento. “Un testo sul metodo”, giura, e non l’embrione di un nuovo partito, costruito su 11 principi, e il primo è già un promemoria che sa di accusa per i Cinque Stelle: “Le regole non sono scritte per gli amici e vanno rispettate”. Ma il Davide Casaleggio che semina norme e paletti, dietro lo schermo del pc fa anche altro.

Ossia tratta con il M5S che gli offre un indennizzo (da concordare) per chiudere la storia con lui e con la sua piattaforma web Rousseau. Niente contratto di servizio, ma “solo” soldi, al manager che reclama mancati versamenti per quasi 450mila euro da parte dei parlamentari. Per dirla come lo stesso Casaleggio, “ci sono restituzioni che non sono in linea con la data fissata”. Denaro che serve, eccome, alla sua associazione Rousseau per tenere fronte alle spese.

Soprattutto per questo Casaleggio martedì scorso è stato a Roma. Per incontrare avvocati e 5Stelle vari, e fare il punto sulla trattativa. Complicatissima, con il Movimento pronto a dare battaglia per farsi consegnare l’elenco degli iscritti, il vero tesoro che ha in pancia la piattaforma. D’altronde il filo con la casa madre di Milano ormai è slabbrato, e ieri sera lo ha confermato la socia di Rousseau, Enrica Sabatini, proprio durante la diretta web per Controvento: “Il punto non è un contratto di servizio. Per stare assieme al M5S serve un accordo di partnership a medio e lungo termine nel quale i ruoli siano chiari, riconosciuti e rispettati. Se non ci sono obiettivi condivisi non è possibile immagine un percorso insieme”. Insomma servirebbe un’intesa complessiva, con Rousseau al centro del progetto dei 5Stelle e non mero strumento. “Ma sono successe troppe cose, le strade devono dividersi” sussurrano un paio di big del M5S. E ad occhio lo sa anche lui, il figlio di Gianroberto, che nel frattempo prepara anche iniziative per l’anniversario della morte del padre, il 12 aprile. A chi lo ha sentito in queste ore ha detto di essere “molto dispiaciuto” per la situazione. Per lo strappo che neppure Beppe Grillo, il primo e forse unico fautore di una mediazione, è riuscito a ricucire. Nell’attesa di un punto di caduta, ecco il manifesto. Nato, sostiene Sabatini, dalle “cicatrici per la votazione sul governo Draghi, perché hanno contestato non il merito ma il metodo, cioè il quesito su Rousseau”. Così, “abbiamo affrontato il problema”. E la via è questo elenco di princìpi, che suonano tutti come un rampogna al M5S attuale.: dalla necessità di “decentralizzare il potere” al “no alle decisioni calate dall’alto e ai gruppi di potere”, fino all’importanza del vincolo dei due mandati “per il ricambio” e all’esigenza di “rispettare il lavoro di Rousseau, degli attivisti e dei portavoce”.

Casaleggio , come suo costume, parla poco. Però assicura: “Con questo manifesto i rapporti con il M5S saranno più chiari”. Ma chissà se e per quanto ci saranno ancora. “Siamo pronti a mettere la nostra esperienza a disposizione di altre forze politiche” ha detto ieri Sabatini a Repubblica. L’accordo di partnership, come lo chiama lei, somiglia a una chimera.

La “vittoria” di Renzi: i suoi arcinemici a capo di Dem e M5S

Tre ex premier capi di partito. E lui, Matteo Renzi, è quello che ce l’ha più piccolo. Al punto che il professore Enrico Letta, il 15 gennaio scorso, dettò da Parigi parole affilate sulla crisi provocata dagli italoviventi in odio a un altro docente, l’avvocato Giuseppe Conte: “Trovo incomprensibile e incredibile che l’Italia e in parte anche l’Europa debbano andare dietro le follie di una sola persona. Oggi è il capo di una cosa che è più piccola del Psdi”. Che affronto: Renzi che vale meno di Longo o Cariglia, senza offesa per i padri del sol nascente, simbolo del vecchio Psdi.

Era sempre metà gennaio, ma di sette anni prima, quando invece il Rottamatore era capo del Pd. E in tv da Daria Bignardi sillabò quello che è diventato uno dei più citati avvisi di sfratto in politica: “Enrico stai sereno”. A Palazzo Chigi c’era infatti Enrico Letta, presidente del Consiglio di un governo di larghe intese. Un mese dopo, il 14 febbraio, non c’era più. Sostituito da Renzi, of course.

Accade ora che i due premier fatti fuori dal Cariglia di Italia Viva siano pronti per diventare leader dei due partiti principali dell’alleanza giallorossa che fu: Letta nel Pd, Conte nel Movimento Cinque Stelle.

E pensare che nei giorni cruenti della crisi del Conte II, Renzi spiegava felice e ghignante ai suoi interlocutori il decisivo corollario del veniente governo di Mario Draghi: disarticolare, meglio far implodere sia i democratici sia i pentastellati. Disegno riuscito ma che adesso rischia di trasfigurarsi in una vittoria di Pirro per il senatore del Rinascimento arabo. Ché proprio le sue due vittime più illustri – Letta nel 2014 e Conte nel gennaio scorso – adesso si ritroveranno insieme contro di lui. Un capolavoro, sul serio.

Dell’inimicizia, chiamiamola così, di Letta con Renzi il quadro principale raffigura la scena della campanella tra i due a Palazzo Chigi, il 22 febbraio di quel fatidico e infausto Quattordici. Il premier uscente guardava altrove, tutto tranne che il premier entrante, e rispettò un distanziamento ante litteram. Fu un passaggio veloce, glaciale, con Letta disgustato che consegnava a Renzi il simbolo delle riunioni del consiglio dei ministri. La campanella, appunto. E il disgusto è il sentimento che meglio esprime la considerazione lettiana per il capetto degli italoviventi. Renzi, per esempio, si è spesso difeso dalle accuse di golpe nel 2014 (anche lui era un premier non parlamentare) e Letta una volta rispose: “Il silenzio esprime meglio il disgusto e mantiene meglio le distanze. Da tempo ho deciso di guardare avanti”.

Sette anni dopo la storia si è ripetuta tragicamente con il secondo governo di Giuseppe Conte. E anche stavolta Letta non ha mancato di fare la sua diagnosi spietata all’ex sindaco di Firenze: “Già a febbraio dell’anno scorso Renzi stava facendo cadere il governo Conte e la crisi fu impedita dall’arrivo del Covid a Codogno. Questa è la storia, la dimostrazione del fatto che le sue critiche al Recovery sono strumentali“.

Ancora: “Nelle elezioni del 2018 ha fatto lui le liste elettorali del Pd. Si tratta di un potere inerziale di interdizione, con il quale ha messo in ginocchio la politica italiana e ci fa fare nel mondo la figura del solito Paese inaffidabile, pizza, spaghetti, mandolino”.

Da par suo lo stesso Conte custodisce e coltiva sentimenti uguali a quelle di Letta. Quando il Cariglia di Rignano ha aperto la crisi, l’avvocato con genuina indignazione fece sapere: “Mai più con Italia Viva”. E quando poi venne costretto dal Colle e da Zingaretti a un mezzo passo indietro per tentare di ricucire, Conte si rifiutò comunque di pronunciare il nome del traditore dal due per cento nei sondaggi.

Per tutto questo oggi Matteo Renzi è il politico meno amato (o più odiato) del Paese, senza più alcun futuro di grandezza. E il disgusto per lui dei due probabili leader di Pd e M5S è la risposta migliore alla serenità che l’ex Rottamatore offre ciclicamente.

La mossa di Letta segretario: un centrosinistra con Conte

Continua a fare il lavoro che si è costruito in questi anni a Sciences Po, a Parigi, Enrico Letta, mentre passano le 48 ore che si è dato per sciogliere la riserva, per decidere se accettare la guida del Pd. Anche se lui ancora non si sbilancia, il sì sembra quasi scontato: troppa la voglia di tornare alla vita politica, troppo appassionante la sfida.

Anche per uno che ha dovuto e voluto “disintossicarsi” rispetto agli effetti collaterali di quella che di base è una passione bruciante. Dunque, le 48 ore sembrano necessarie più che altro a costruire le condizioni politiche per la sua segreteria. La garanzia che Letta sta cercando si riassume nella formula “mandato pieno”. Che significa niente data di scadenza, niente congresso ravvicinato. Ed è proprio su questo punto che chi non può dire di no, si organizza per cercare di contrastarlo. E dunque, la richiesta di un congresso entro l’autunno arriva da Base Riformista, ma pure dai Giovani Turchi di Matteo Orfini, mentre un confronto vero lo chiede Goffredo Bettini. Sempre da Br arriva l’istanza di una donna vice. Se qualcuno volesse preparare un trappolone, partirebbe da qui. Se invece sa di non riuscirci, prova a garantirsi la presenza nella stanza dei bottoni quando si fanno le liste. In realtà è molto più forte la spinta per il sì che arriva dalla maggioranza. Nicola Zingaretti sta portando su Letta anche i più refrattari tra i suoi: ne considererebbe l’elezione un suo capolavoro politico, con scacco matto finale a Renzi. Dario Franceschini garantisce i numeri. Alcuni, come Enzo Amendola che ha con lui un dialogo costante sull’Europa, sono francamente entusiasti. Andrea Orlando non si mette di traverso. Paolo Gentiloni benedice. Roberto Gualtieri approva. Ieri è arrivato il sì dei sindaci, a partire da Dario Nardella, e quello del candidato ombra, il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini. Magari alla fine sarà un’elezione non all’unanimità, ma a maggioranza larga. La costruzione dell’operazione passa per l’interlocuzione con vari capi corrente.

La convinzione più diffusa nel Pd è che a Letta non si possa dire di no. Al netto dello standing, è piuttosto complicato politicamente: gli ex renziani non possono accusarlo di voler rifare la “Ditta”, lui un cattolico democratico, nato nella Dc. E da sinistra non possono attribuirgli spinte centriste. Un programma definito ancora non c’è, ma Letta crede nello schema del centrosinistra fino a Conte. Anche l’allargamento del Pd è nelle sue corde: non è da escludere che riporti dentro gli ex “compagni” di LeU.

Hanno contato anche gli anni fuori dalla politica attiva. Tante le sue prese di posizione per certi versi innovative rispetto al suo stesso profilo: ha definito giusto il Reddito di cittadinanza, pur dicendo che andava fatto meglio, come si è speso per il sì al taglio dei parlamentari. Dietro c’è anche un lavoro di studio sulla democrazia moderna. Per cui, su alcune forme di democrazia deliberativa si trova d’accordo con il Grillo delle origini. Così come sull’ecologismo integrale di Papa Francesco, sulla necessità di una sostenibilità ambientale e sociale. Nella sua biografia c’è anche quell’incarico mancato a presidente del Consiglio europeo: il veto arrivò da Matteo Renzi (dopo averlo defenestrato da Palazzo Chigi). L’agenda Letta – che comprendeva, in tempi meno caldi di questi, il superamento del principio di unanimità nelle decisioni sulle politiche fiscali della zona euro – è compatibile con quella del governo Draghi. Ministero della Transizione ecologica e interlocuzione “alla pari” con l’Europa compresi. Che poi tutto ciò l’ex premier riesca a realizzarlo è da vedere. Tra i suoi più sfegatati supporter di queste ore c’è chi ricorda che sul congresso non bisogna decidere adesso.

Tra i dem, l’affondamento è sempre dietro l’angolo.

Eni condannata per i veleni di Viggiano

Una confisca da oltre 40 milioni di euro, 7 condanne e 27 assoluzioni. È la sentenza emessa ieri dal Tribunale di Potenza al termine del processo avviato dopo l’inchiesta sul Centro Oli dell’Eni di Viggiano, piccolo Comune della Basilicata, che nel 2016 portò alle dimissioni di Federica Guidi, all’epoca ministra allo Sviluppo economico del governo Renzi a causa del coinvolgimento dell’ex compagno, Gianluca Gemelli, poi archiviato al termine delle indagini.

I giudici hanno condannato a 2 anni di reclusione Ruggero Gheller (ex responsabile del Distretto meridionale dell’Eni), Nicola Allegro e Luca Bagatti, a 1 anno e 4 mesi Enrico Trovato (anche lui ex responsabile del Distretto meridionale dell’Eni), Roberta Angelini e Vincenzo Lisandrelli, a 1 anno e 6 mesi l’ex dipendente della Regione Basilicata, Salvatore Lambiase. Il collegio di giudici, inoltre, ha disposto il risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali per le 278 parti civili, una sanzione amministrativa da 700mila euro e la confisca di 44 milioni dai quali dovranno tuttavia essere sottratti i costi sostenuti dall’Eni per l’adeguamento degli impianti. “La condanna è un segnale importante per la tutela dell’ambiente – ha detto Laura Triassi, attuale procuratrice di Nola, che ha coordinato l’inchiesta e rappresentato l’accusa in tribunale –. Bisogna tutelare la libertà di impresa, ma è necessario che questa si svolga nel rispetto delle norme e nella tutela della salute dei cittadini e dell’ambiente”. Nel corso della sua requisitoria la pm aveva evidenziato che delle irregolarità che avvenivano nello stabilimento di Viggiano erano in tanti a saperlo, ma nessuno denunciava.

L’inchiesta era partita dagli odori molesti denunciati nella zona di Pisticci dove opera il “Tecnoparco” che smaltiva i reflui di produzione di Eni provenienti da vari luoghi di produzione del centro sud. Da gennaio 2013, però, il gruppo aveva smesso di inviare quei reflui che improvvisamente avevano smesso di essere considerati rifiuti pericolosi. Un’operazione che secondo la procura di Potenza, il management Eni aveva avviato per “un gigantesco abbattimento dei costi”: evitare di trattare le cosiddette “acque di strato” come rifiuti aveva infatti consentito, secondo il calcolo degli inquirenti, un risparmio nel periodo tra settembre 2013 e settembre 2014 v tra i 34 e i 76 milioni di euro. Per il pm Triassi, però, quelle sostanze sono rifiuti pericolosi che non potevano essere smaltiti nel modo ideato dall’Eni ed è per questo che nei confronti di diversi imputati è scattata l’accusa di traffico illecito di rifiuti. Ma nella sua requisitoria, la pm aveva inoltre evidenziato come dalle intercettazioni fossero emerse anche le manovre dei vertici aziendali per nascondere le anomalie nelle emissioni di inquinanti nell’aria: una tesi che tuttavia non ha convinto i giudici che rispetto a questa accusa hanno assolto gli imputati ritenendo che il fatto non costituisse reato.

Il sequestro dell’impianto nel 2016 ebbe forti ripercussioni politiche. L’allora premier Matteo Renzi al Senato disse che “i giudici devono parlare con le sentenze e fare presto”. Il verdetto è arrivato.

 

Caso Palamara-Pignatone, Cantone: “Parlerò al Csm”

Chiedete, e vi sarà spiegato. Il procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone, non cita espressamente il Csm, ma il significato delle sue parole è chiaro: aspetta di essere convocato dal Consiglio per fornire tutte le spiegazioni necessarie sulle modalità con cui sono state condotte le indagini che riguardano Luca Palamara. Ed è davvero necessario che fornisca tutte le spiegazioni possibili per un motivo molto semplice: qualsiasi ombra, sul fascicolo in questione, rischia di delegittimare l’intera indagine.

Nei mesi scorsi, il Fatto ha rivelato, per esempio, che il trojan che intercettava Palamara non registrò una sua cena con l’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone. E che in un altro caso, i finanzieri del Gico, mettendo nero su bianco una conversazione di Palamara, trascrissero la parola “Pignatone” con un poco comprensibile, nel contesto della frase, “carabinieroni”. Sulla cena non intercettata con Pignatone, come vedremo, sono stati segnalati nuovi elementi dalla perizia disposta da Cosimo Ferri, difeso dall’avvocato Nicola Panella, secondo la quale, nelle ore in cui Palamara era con l’ex procuratore capo di Roma, il suo telefono emetteva degli impulsi e quindi il trojan avrebbe potuto funzionare.

E ancora: all’interno del Csm il consigliere Nino Di Matteo ha chiesto a un investigatore della GdF che svolgeva le indagini – il maggiore Fabio Di Bella – come mai sia stato deciso di intercettare il presunto corrotto, ovvero Palamara, e non il suo presunto corruttore, l’imprenditore Fabrizio Centofanti. Il numero dei dubbi e delle perplessità, l’esigenza di comprendere, non si ferma quindi a un singolo episodio, né alle sole perizie di parte o inchieste giornalistiche. In estrema sintesi, Di Bella ha sostenuto che la polizia giudiziaria ha costantemente eseguito quel che veniva richiesto dai magistrati perugini – in quella fase, Cantone non aveva alcun ruolo a Perugia ed era presidente dell’Anac – rimettendo nelle loro mani la responsabilità di questa scelta. Nei giorni scorsi, il Riformista ha pubblicato stralci della perizia tecnica disposta su richiesta di Cosimo Ferri, che fu intercettato insieme a Palamara, Luca Lotti e altri 5 consiglieri del Csm, la notte tra l’ 8 e il 9 magio 2019, nel famoso dopo cena all’hotel Champagne in cui si discuteva della nomina del futuro procuratore di Roma. Secondo la perizia, poche ore dopo, nella cena non intercettata con Pignatone, il trojan non era inattivo – lo dimostrerebbe un tabulato depositato dalla Rcs che ha fornito il trojan alla procura – e avrebbe potuto registrare le conversazioni. Una ricostruzione che ha portato tre parlamentari a chiedere, con un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia, Marta Cartabia, l’invio degli ispettori ministeriali a Perugia: “Se il file contenente la registrazione di tale intercettazione realmente non esistesse – sostiene Roberto Giachetti di Iv quindi compagno di partito di Ferri – non si comprenderebbe la ragione per cui la società fornitrice del servizio abbia prodotto un tabulato alterato. Qualora invece il file esistesse e per motivi ignoti non risultasse agli atti, ciò rappresenterebbe un fatto di estrema gravità”.

Sul punto, Cantone ieri è intervenuto con chiarezza: il trojan “non ha mai” registrato i contenuti della cena con Pignatone e quindi non c’è alcuna intercettazione “sparita”. L’ipotesi – spiega Cantone – nasce da una consulenza di parte “che ipotizza questa possibilità sulla scorta di un’interpretazione non corretta di alcune evidenze tecniche. Si tratta di una notizia destituita di qualunque fondamento. Il trojan non ha registrato l’incontro perché non era, come si è più volte già spiegato in tutte le sedi, programmato in quell’orario per la registrazione. Nello spirito di massima trasparenza, la Procura è disposta a fornire a qualunque organo istituzionale ne farà richiesta le informazioni e le risposte anche tecniche per dimostrare l’assoluta regolarità del suo operato”. Adesso tocca al Csm valutare se convocarlo. “La regolarità dell’attività di intercettazione – ha aggiunto Cantone – è stata ampiamente attestata da una lunga e dettagliata ordinanza di un giudice”. Poi il procuratore capo di Perugia si toglie il classico sassolino dalla scarpa e fa un riferimento a un’altra notizia pubblicata da Il Riformista nei mesi scorsi, ovvero che la procura non avrebbe acquisito e depositato gli sms del telefono sequestrato a Palamara: “Una fake news smentita dall’inoppugnabile circostanza che gli sms non solo erano stati acquisiti, ma erano regolarmente depositati agli atti del processo in corso”. E non solo. Al Fatto risulta che siano stati depositati anche al Csm. E proprio il Csm, se riterrà di convocare Cantone, potrà far luce una volta per tutte sulle presunte incongruenze che da tempo accompagnano quest’inchiesta.

 

Matteo querela la giornalista sbagliata: ora deve pagare 4700 euro

Colpito dalla querelite cronica nei confronti del Fatto Quotidiano e di chiunque nomini invano il suo nome, Matteo Renzi si sta aggravando. È infatti arrivato all’ultimo stadio: quello di non sapere più a chi sta chiedendo i danni. Confonde le persone. Non si districa tra le omonimie. Spara a casaccio. Sbaglia bersaglio. E il proiettile rimbalza come nei cartoni animati di Willy il Coyote e gli ritorna indietro.

È accaduto in una delle numerose azioni legali intentate contro di noi. Citazione civile nei confronti della società editoriale, del direttore e di tre giornalisti del Fatto. Tra i quali la nostra valida Ilaria Proietti, cronista del settore politico. Nata nel 1973 e non nel 1974 come l’omonima collega di altra testata che si è vista recapitare a casa la busta verde, gravido presagio di noie legali che tutti preferiremmo evitare. Immaginiamo la scena. Lo stupore. Poi magari la rabbia, chissà, noi ci saremmo arrabbiati di brutto al suo posto.

“Cosa c’entro io col Fatto e con gli articoli oggetto della causa”, si sarà chiesta la signora Ilaria Proietti omonima. Che, correttamente, ha nominato degli avvocati che la traghettassero fuori da questo impiccio immeritato.

A questo punto va aperta una parentesi. L’equivoco non ci sarebbe stato se la citazione fosse stata notificata soltanto alla sede del giornale (e sarebbe stata valida comunque). Renzi però preferisce far notificare ai domicili privati dei giornalisti. Così forse i loro vicini di casa possono assistere alle procedure di consegna della citazione legale.

Parentesi chiusa. E chiuso anche il processo per l’Ilaria Proietti omonima: il giudice ha condannato Renzi a rimborsarle le spese legali sostenute, quantificate in 4.700 euro, da pagare subito.

Una bastonata alla quale i legali dell’ex premier hanno provato invano a sottrarlo con motivazioni davvero singolari: le Ilaria Proietti iscritte all’albo dei giornalisti sono quattro (vero), e quelle che lavorano al Fatto Quotidiano sono due (falso, ce n’è una sola). E allora? Anzi, secondo il giudice proprio le omonimie avrebbero dovuto indurre Renzi a verificare con scrupolo chi stava chiamando in causa. Se guarirà dalla querelite, farà più attenzione la prossima volta.

Bancarotta delle cooperative, i genitori di Renzi a processo

Il 1º giugno, i genitori di Matteo Renzi si ritroveranno ad affrontare un nuovo processo. Quello che li vedrà imputati a Firenze con l’accusa di bancarotta fraudolenta di tre cooperative di cui, secondo i magistrati, Laura Bovoli e Tiziano Renzi sono stati, ma per anni passati, amministratori di fatto. Il decreto che dispone il rinvio a giudizio è stato emesso ieri mattina dal giudice dell’udienza preliminare, Giampaolo Boninsegna. È l’epilogo di un’inchiesta che a febbraio del 2019 portò Renzi senior e la moglie agli arresti domiciliari (misura revocata dal Tribunale del Riesame dopo 18 giorni).

Ieri il gup ha disposto il processo anche per altri 14 imputati, tra legali rappresentanti delle coop, componenti dei cda e imprenditori. E durante l’udienza preliminare, ha patteggiato una pena a 6 mesi di reclusione l’imprenditore ligure Mariano Massone, accusato di bancarotta fraudolenta.

Al centro del processo dunque ci sono tre cooperative: la “Delivery Service”, la “Europe Service” e la “Marmodiv”. Secondo la Procura – come ha ricostruito il pm Luca Turco nella memoria depositata in udienza preliminare – si tratta di “società cooperative” che “sono state costituite essenzialmente per consentire alla srl ‘Chil Post/Eventi6’ di avere a disposizione manodopera, senza essere gravata di oneri previdenziali ed erariali, tutti spostati in capo alle cooperative stesse”. “Il modus operandi adottato da Tiziano Renzi e Laura Bovoli – si legge ancora nella memoria del pm – (…) è consistito nel costituire e nell’avvalersi” delle tre cooperative, “sorte in successione temporale e ciascuna destinata all’abbandono con il proprio carico debitorio, non appena raggiunto uno stato di difficoltà economica, sostituita da una nuova cooperativa, all’uopo costituita”.

Ma vediamo quali sono le accuse mosse dalla Procura.

La bancarotta fraudolenta è il reato contestato anche ai coniugi Renzi e ad altri imputati: per quanto riguarda la Delivery Service, secondo l’impianto della Procura, con altri – tra cui Roberto Bargilli, l’autista del camper di Matteo Renzi per le primarie del 2012 e dal 2009 al 2010 componente nel Cda della cooperativa – “cagionavano il fallimento della società per effetto di operazione dolosa consistita nell’aver omesso sistematicamente di versare gli oneri previdenziali e le imposte”. Nel caso della Europe Service, dichiarata fallita nel 2018, invece, per l’accusa i Renzi con altri, “sottraevano, con lo scopo di procurarsi un ingiusto profitto e di recare pregiudizio ai creditori, i libri e altre scritture contabili”. In entrambe le cooperative il padre e la madre di Matteo Renzi sono ritenuti, ma per gli anni passati, amministratori di fatto.

C’è poi il capitolo Marmodiv, dichiarata fallita nel marzo 2019. In questo caso ai genitori dell’ex premier è stata contestata la dichiarazione fraudolenta mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti e poi l’emissione di fatture per operazioni inesistenti per “consentire alla srl ‘Eventi6’ l’evasione delle imposte sui redditi”. Inoltre, secondo i pm, Renzi, Bovoli, Giuseppe Mincuzzi (presidente del Cda della Marmodiv dal 2016 al 2018) e Daniele Goglio (“amministratore di fatto dal 15 marzo 2018”) “concorrevano a cagionare il dissesto” della Marmodiv “esponendo, al fine di conseguire un ingiusto profitto, nel bilancio di esercizio al dicembre 2017, (…) nell’attivo patrimoniale, crediti per ‘fatture da emettere’ non corrispondenti al vero” per più di 370 mila euro.

E questo è il quadro accusatorio, che la difesa dei Renzi ritiene completamente infondato. “La decisione del gup era attesa visto il tipo di vaglio a cui questo è chiamato per legge – hanno affermato ieri i legali dei genitori dell’ex premier –. È però emersa già dalle carte la prova della infondatezza del castello accusatorio, il cui accertamento necessariamente dovrà avvenire in dibattimento. Confidiamo quindi di poter confutare la tesi inquisitoria in tale sede”.

Quello che dunque inizierà il 1º giugno non è l’unico processo che Tiziano Renzi e Laura Bovoli dovranno affrontare. Dovrà essere infatti discusso in Appello un altro processo in cui sono imputati: nell’ottobre del 2019 entrambi sono stati condannati a un anno e nove mesi di reclusione. L’accusa è di aver emesso tramite due società – la Eventi6 e la Party Srl – due fatture per operazioni inesistenti. Sentenza contro la quale i legali dei Renzi hanno fatto ricorso.

Il solo Tiziano Renzi ha poi un’altra grana giudiziaria da risolvere, stavolta a Roma. Il 26 aprile si terrà l’udienza preliminare di uno dei filoni dell’inchiesta Consip. Il padre del leader di Italia Viva, è accusato di traffico di influenze e turbativa d’asta in merito a due gare: l’appalto Fm4 indetto da Consip (del valore 2,7 miliardi di euro) e la gara per i servizi di pulizia bandita da Grandi Stazioni.

Per Tiziano Renzi la Procura aveva chiesto l’archiviazione, respinta dal gip. In primavera si saprà se nella Capitale il “babbo” sarà prosciolto o dovrà affrontare un processo. Come a Firenze.

“Congo, Attanasio colpito dagli assalitori” Si indaga sui “buchi” nella sicurezza Onu

Possibili falle nella sicurezza potrebbero essere state fatali all’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, ucciso da un commando il 22 febbraio scorso insieme all’autista Mustapha Milambo e al carabiniere Vittorio Iacovacci. Quest’ultimo, secondo quanto raccolto dagli inquirenti, avrebbe tentato di salvare il diplomatico portandolo via dalla linea del fuoco. Come noto, invano. È il nuovo binario sul quale sta lavorando la Procura di Roma, che sta analizzando l’istruttoria avviata dai carabinieri del Ros a Kinshasa e che ora ipotizza il reato di omicidio colposo. Gli inquirenti, in missione nello Stato africano, hanno sequestrato sia il tablet personale di Attanasio, sia i computer dell’ambasciata in uso all’ambasciatore ucciso e ai suoi collaboratori.

La nuova ipotesi di reato è legata alla tranche di accertamenti che punta a chiarire se vi siano state negligenze sul rispetto dei protocolli di sicurezza Onu e Pam e se siano stati commessi errori nell’organizzazione della missione nella zona del Parco di Virunga. Il sospetto è che possano esserci state anomalie nel sistema di comunicazione tra le strutture. Nell’istruttoria fornita dai Ros ai pm romani, sono contenuti anche i verbali delle testimonianze raccolte nella capitale congolese. Gli investigatori hanno ascoltato il personale dell’ambasciata italiana e in particolare il vicedirettore del Pam Congo, Rocco Leone, sopravvissuto al blitz dei sequestratori. Leone ha potuto anche chiarire alcune dinamiche confermando in buona parte quanto emerso dai primi risultati delle autopsie. “Iacovacci – è stato riferito agli inquirenti – è intervenuto per tentare di portare via l’ambasciatore dalla linea del fuoco. A quel punto gli assalitori avrebbero sparato nella direzione dei nostri connazionali”.

Fra gli obiettivi dei magistrati romani c’è anche quello di accertare la matrice del gruppo di sequestratori e il motivo del blitz terminato in tragedia. E anche da questo punto di vista saranno utili le risultanze dei device di lavoro di Attanasio. Non è escluso che nei prossimi giorni possa essere disposta una terza missione da parte del Ros nella zona di Goma, per acquisire elementi sulla dinamica della sparatoria ed effettuare accertamenti balistici. I magistrati hanno anche disposto una rogatoria internazionale per ricevere gli atti di indagine svolti dalle autorità congolesi.