Aleggere le otto pagine di testo del “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale” si fatica a capire l’entusiasmo di commentatori (“rivoluzione!”) e dei firmatari – governo e Cgil, Cisl e Uil – riunitisi ieri mattina a Palazzo Chigi.
Trattasi di un elenco di petizioni di principio con cui nessuno potrebbe essere in disaccordo (“aumento del personale”, “investire nel capitale umano”, “formazione continua”, “digitalizzazione”, “semplificazione dei processi”), una lunga citazione dal discorso di Mario Draghi in Parlamento, la promessa implicita di stanziare qualche soldo in più (700 milioni si dice) per riconoscere i ruoli professionali maturati in questi anni, i rinnovi dei contratti per il triennio 2019-2021 alle cifre già stanziate dal governo precedente e qualche frase equivoca su cui si dovrà discutere nei prossimi mesi.
Non si parla qui delle centinaia di assunzioni quinquennali di tecnici che lavoreranno al Piano di ripresa europeo – e che entreranno in un decreto che accompagnerà il Recovery Plan – ma del corpaccione della Pubblica amministrazione centrale e locale, oltre tre milioni di dipendenti umiliati e offesi da anni di tagli, blocco del turn over e degli stipendi.
In sostanza, Mario Draghi e Renato Brunetta riconoscono Cgil, Cisl e Uil come loro controparte unica – scelta che potrebbe costargli qualcosa in futuro – e quelli s’impegnano all’appeasement su alcuni punti scabrosi in questo momento così difficile per il Paese: il tutto, visto che ora si può spendere un po’ nel settore pubblico, oliato da assunzioni e qualche soldo in busta paga (i 100 euro lordi scoperti ieri dai media e che a dicembre i sindacati giudicavano così pochi da indire uno sciopero). Il lavoro di merito comincia domani, giorno in cui il ministro della Funzione pubblica ha convocato i sindacati di settore per parlare di contratti e riforma.
Tralasciando le dichiarazioni entusiaste di parte governativa e dei leader sindacali Maurizio Landini (Cgil), Luigi Sbarra (Cisl) e Pierpaolo Bombardieri (Uil), cosa ci guadagna il governo? A cosa gli serve la “coesione sociale”, cioè la collaborazione dei tre grandi sindacati confederali, chiamati a co-gestire la riforma? La risposta è probabilmente in alcuni passaggi del documento, ovviamente senza dettagli. Si parla più volte, ad esempio, di “flessibilità”, declinata in “tre variabili: lavoro (gestione delle risorse umane), organizzazione e tecnologia”. Il punto di arrivo è una P.A. “duttile, capace di adattarsi alle esigenze di cittadini e imprese”. Belle parole che nelle intenzioni del governo significano due cose: lo sblocco del lavoro a tempo determinato, oggi soggetto a diversi vincoli nel pubblico, e un forte investimento nella contrattazione integrativa (forse per questo si parla nel documento di “attenuare il dualismo tra settore pubblico e settore privato”, ovviamente verso gli standard del secondo).
La contrattazione di secondo livello deve servire, e qui il sostegno sindacale è fondamentale, a indicare “il percorso per puntare sulla valutazione oggettiva della produttività”, pagando s’intende: così non ci sarà nemmeno bisogno di intervenire per legge, esattamente come si farà per definire modalità e obiettivi dello smart working.
Sia detto en passant, la misurazione “oggettiva” del merito dei dipendenti pubblici è un non risolto – e in alcuni casi difficilmente risolvibile (sanità e scuola per fare due esempi) – della P.A. da decenni: storicamente sono sempre stati i sindacati, e non del tutto a torto, a bloccare lo spostamento di risorse dallo stipendio di base ai premi per l’impiegato del mese. Certo, potrebbero anche aver cambiato idea.