Altro che “nuovi” cantautori: la poesia è in terapia intensiva

Chi avesse ascoltato i commenti televisivi a Sanremo avrebbe appurato che tutti i cantautori, dagli implumi agli anziani, sono stati stupendi, meravigliosi, grandissimi poeti, bellissimi. Ma cosa si saranno fumato le gioiose conduttrici per essere così cinguettanti e paradisiache.

Questa storia dell’appellativo di poeti ai cantanti si afferma negli anni 80, visto che nel decennio precedente i giovani contestatori boicottarono il festival, presi com’erano dall’impegno verso la classe operaia. I poeti della generazione del ’40 esordirono negli anni 70, facendo i conti con un impegno pasoliniano ormai agli sgoccioli, con la neoavanguardia del Gruppo 63, che riteneva morta la poesia e con il 68, che voleva che i poeti si vergognassero di scrivere versi, invece di occuparsi della rivoluzione. La letteratura tutta era considerata terreno borghese, da evitare come la peste. Molti di noi smisero di scrivere o tornarono a scrivere versi quando l’ondata si era affievolita. Eppure circolavano a Roma giganti come Pier Paolo Pasolini, Sandro Penna, Alberto Moravia, Elsa Morante, Ignazio Silone e Amelia Rosselli. Per i ventenni come me era manna piovuta dal cielo. Tornai a scrivere la parola “io” che era stata bandita.

Cercammo di smarcarci dalla neo-avanguardia con l’antologia di Cordelli e Berardinelli: Il pubblico della poesia mentre io antologizzai la scuola romana del Novecento, intitolandola L’io che brucia. La poesia era ancora quella di sempre, che univa suono e parole nello stesso verso, non come le parole dei cantautori, che devono essere accompagnate da strumenti per ammaliare le folle. Ma già nel festival dei poeti internazionali di Castelporziano, nel ’79, i poeti furono contestati a forza di lanci di sabbia da trentamila giovani scatenati che pensavano si trattasse di un concerto. Erano sedicenti poeti che si ispiravano ai cantautori. La poesia ne uscì massacrata e dopo il decennio dello psiconano fu sfigurata ulteriormente, rendendo le nostre letture pubbliche cose per piccoli gruppi con problemi.

Nessuno delle nuove generazioni ha provato a riflettere sul loro modo di poetare. Come far versi di Majakovskij non lo legge più nessuno. La critica, se c’è, non sa cosa scegliere. Così, come per i romanzi, sulle pagine culturali è tutto un osannare. Fioriscono stupide antologie allestite da gente che vi inserisce tranquillamente amici e parenti. L’Arcadia settecentesca è tornata di moda. La poesia, quella vera, è in terapia intensiva. In primavera uscirà il mio nuovo libro di poesie, non a caso intitolato: Magic respiro. Non mi meraviglierei se, data la solitudine, i poeti pensassero di travestirsi in pastori e pastorelle per essere invitati in tv, nelle trasmissioni politiche dove sono assenti e magari nel prossimo festival di Sanremo.

Sull’amore di un pescatore è piovuto un giapponese

C’era una volta un ragazzo che guardava il mare, ed era normale trattandosi di casa sua, abitava infatti a Manarola, la seconda delle Cinque Terre partendo da La Spezia e andando verso Genova. Puliva le reti e mugugnava, perché il mare non prometteva niente di buono e anche le reti sembravano più pulite di quando le aveva calate in mare, come se un’anfibia donna delle pulizie si divertisse a rubargli il pesce e passare poi uno straccio sulle maglie delle reti per fargliele trovare belle lucenti e completamente sbrogliate.

I turisti giapponesi fotografavano le barche che il paranco issava dal mare e che poi gli indigeni spingevano fino alla propria porta di casa al posto delle auto, dando così origine al famoso evento delle “barche volanti”, momento di stupore sempre atteso perlopiù da turisti e bambini, quando, davanti al ragazzo delle reti, passò lei e lui la vide con la coda dell’occhio.

Bastò quella piccola percezione, una veloce messa a fuoco e l’immagine di lei fece il giro di tutti i centri nervosi, passando come uno scanner dalle vene al cervello, facendo diminuire l’ossigeno nei polmoni e provocando crampi allo stomaco, il cuore si rimise in moto a spinta e il naso cominciò a sanguinare. L’amore gli era appena passato davanti facendogli l’effetto del rapido Roma-Lione delle 15.30 che ti passa sulla schiena. Meno male che l’aveva vista solo con la coda dell’occhio e distrattamente, altrimenti il cuore non avrebbe retto.

Il ragazzo mollò le reti e iniziò a seguirla, con lo sguardo tipicamente rimbambito di quelli colpiti dall’amore a prima vista, mentre lei prendeva la stradina di Palaedo, piccolo molo dietro il cimitero del paese. Camminava strascicando i piedi e lasciando una scia di bava che colava lungo il sentiero, come se fosse passato un battaglione di lumache. Uno zombie al confronto sarebbe sembrato un campione di ballo durante una finale di rumba.

La ragazza, arrivata allo scalo, si fermò, distese una stuoia e cominciò a fotografare il mare; il ragazzo scese verso di lei ma si fermò, paralizzato, a guardarla. Dai giornali stranieri che la creatura tirava fuori da una borsa di paglia, il ragazzo capì che non era italiana. Che bravo investigatore, gli mandò a dire il cervello prima di finire completamente in poltiglia. Aveva un vestitino azzurro con dei fiorellini bianchi, le spalline si annodavano con dei fiocchetti che si confondevano con quelle del pezzo di sopra del costume, era scalza ma si vedevano i sandali della Birkenstock sbucare dalla borsa, i capelli castani tirati su con un elastico. La macchina fotografica era una Olympus, l’obiettivo era un 50mm. E se si fosse avvicinato, avrebbe potuto indovinare anche quante lentiggini aveva, le transaminasi e i globuli rossi: a questo punto, proprio in questo preciso punto, lei, concentrato di capolavoro genetico, si voltò, vide il ragazzo che la guardava e, semplicemente, gli ricambiò il sorriso.

Il giovane pescatore si sentì avvampare come se gli avessero fatto un gavettone con una colata di lava, e tutti cominciarono a guardarlo con stupore crescente, specialmente i bambini e i turisti giapponesi. (…) Da qualche tempo cominciava a seguire la ragazza da lontano, mantenendosi a una distanza a prova di rossore. (…) “Beati quei pesciolini, magari potessi essere uno di loro. Potrei essere vicino a lei senza il problema del mio viso e poi toccarla, baciarle i piedi stupendi e vedere da vicino i suoi splendidi occhi. Lei potrebbe affezionarsi a me e alla fine della sua vacanza portarmi con lei nel Nord Europa, magari in un barattolo di vetro, mettendomi nella sua casa vicino alla finestra. Potrei così vedere la neve che scende a coprire il vialetto e lei che torna in bicicletta, con le guance arrossate dal freddo. Levandosi i guanti si soffierebbe nelle mani e, mandandomi un bacio, inizierebbe a mettere nell’acqua delle simpatiche bricioline che inizierei a mangiare, guardandola e beandomi del fatto che lei mi sta sfamando e poi…” Paaamm!!! Un giapponese cascò da un ramo, mentre riprendeva con la telecamera, interrompendo così i suoi sogni. Il pescatore guardò il turista precipitato e poi l’albero: “Forse era maturo”, pensò.

Sanguineti, un addio a nudo. Nel ’79 già pensava al “dopo”

Il “colore testamentario di questa lettera non sarà gradevole, ma è fatale: e questa lettera implica che, di fatto, affido a te la tutela delle mie carte, e dunque, assai più che la tutela del compiuto, come avrai compreso, la distruzione del privato”.

È il 26 marzo 1979 quando Edoardo Sanguineti (Genova 1930-2010) scrive quella lunga lettera al figlio Federico che ha un “colore testamentario”. Poeta principe della neoavanguardia e narratore, studioso di Dante e critico letterario del ’900 (rivalutò, tra gli altri, Lucini, Gozzano, Soffici, Palazzeschi), traduttore, giornalista, parlamentare del Partito comunista, Sanguineti, cioè uno degli intellettuali di maggiore rilievo a livello europeo del secondo Novecento, all’epoca della lettera non ha ancora compiuto 49 anni. Si sente tuttavia stanco per i tanti impegni, e invecchiato. È in uno stato d’animo che rammenta un verso che comporrà qualche tempo dopo, in Rebus: “ho avuto, a mezzo maggio, inverno e inferno”.

Nella stessa corrispondenza con Federico, che allora aveva 23 anni, aggiunge che “in tutto questo, non c’è altro che il desiderio, che mi par naturale, di rimanere, tanto o poco, nel ricordo altrui, per quel che ho voluto responsabilmente che rimanesse e avendo molto scritto, in vita mia, ce n’è quel che basta, e ne avanza: (…) in generale, saggi sparsi, recensioni, prefazioni, sono ripubblicabili tutti, ove fossero raccolti, perché non rinnego quel che ho stampato; dunque, ogni cosa stampata è, per principio, ristampabile”.

Il “testamento” del marzo 1979, che intreccia in modo straordinariamente significativo il Sanguineti privato e il Sanguineti pubblico, è del tutto inedito. Fa parte del corpus di oltre 500 lettere, anche queste non note, che l’autore di Laborintus e di Capriccio italiano inviò a Federico, oggi filologo e dantista di vaglia, fra il 1978 e il 1979. Su questo materiale imponente sta lavorando Eleonisia Mandola per il suo dottorato di ricerca, presso il Dipartimento di studi umanistici dell’Università di Salerno (la responsabile per l’italianistica è Rosa Giulio; Laura Paolino è la tutor della ricercatrice).

Una parte delle lettere sarà pubblicata, in ottobre, in volume.

Tutto ciò è stato reso possibile dalla famiglia Sanguineti, ossia dai figli Federico, Giulia e Michele, che ha messo a disposizione del Centro studi interuniversitario Edoardo Sanguineti di Torino il carteggio, oltre a molte altre carte del padre. Voluto da Donato Pirovano, direttore del Dipartimento di Studi umanistici dell’ateneo subalpino, e dalla italianista Clara Allasia, che lo guida, il Centro Sanguineti, a cui danno il loro apporto le Università di Torino, Salerno, Genova e Milano, è un archivio in cui sta confluendo un patrimonio cospicuo di documenti inediti o dispersi.

Grazie soprattutto ad alcune donne, dunque, a undici anni dalla morte Edoardo Sanguineti riemerge dall’oblio in cui la grande industria editoriale, i mass media e un certo mondo culturale, lo avevano affondato. Intellettuale scomodo, comunista non ortodosso e mai pentito, il poeta e critico genovese era infatti scomparso dalla scena: i suoi libri non più pubblicati, rimossi la sua presenza e il suo peso nella cultura italiana. A differenza, invece, ricorda Eleonisia Mandola, “della Francia e della Germania, dove Sanguineti non è dimenticato”.

Ora, grazie alle studiose (e anche agli studiosi) di Torino, di Salerno, di Genova e di Milano, qualcosa si muove. Tanto che, a quanto sembra, la casa editrice Feltrinelli avrebbe intenzione di ristampare alcune sue opere ormai introvabili.

La ricchezza del laboratorio umano e culturale di Sanguineti, intanto, è testimoniata dalle lettere a Federico, quel dialogo fra un padre quasi cinquantenne e un figlio poco più che ventenne. Spiega la Mandola che “Sanguineti sembra a volte dialogare non con un figlio giovanissimo, ma con un suo coetaneo o un suo collega di studi”. E in questo “accarezzarsi senza toccarsi” vengono fuori benissimo la sua figura di intellettuale poliedrico, il respiro decisamente internazionale (una eccezione tra gli intellettuali di casa nostra), la coerenza del suo marxismo.

È quel Sanguineti che, nel “testamento” del 1979, scriveva a Federico: “è anche mio desiderio che tu consulti costantemente la mamma, nelle decisioni che possano riguardare stampe e ristampe dei miei scritti; nell’occasione, così, posso anche dire che non desidero, anzi non voglio che ci siano prefazioni, introduzioni o commenti che le accompagnino: vadano nude, come nacquero, ché così, infine, hanno pur da morire, senza vestiti altrui”.

“La Milano anni 80: io facevo il pierre in cabina telefonica”

Arrivai a Milano alla metà degli anni Ottanta, pochi mesi dopo essermi laureato a Firenze, e pochi mesi dopo aver scoperto che a Firenze trovare lavoro era impossibile. La laurea in Lettere moderne si stava rivelando un eccellente lasciapassare per la precarietà economica a tempo indeterminato. Sembrava un destino ineluttabile. Invece in quel momento feci la mossa più saggia di tutta la mia vita: decisi di giocare la carta della locomotiva d’Italia. “A Milano o sì o no”, mi aveva detto un compagno di università già insediatosi con successo in un’agenzia pubblicitaria (ma lui aveva uno zio a Monza). Milan l’è on gran Milan, mi ripetevo per farmi coraggio durante il tratto appenninico dell’Autostrada della Cisa a bordo della mia Autobianchi con brandina caricata sul portapacchi.

Ma gli inizi non furono semplici.

Il monolocale lillipuziano affittatomi da una padrona altrettanto lillipuziana era la casa più piccola che avessi mai visto. Il terrazzo con panorama su via Innocenzo Isimbardi era mozzafiato in senso letterale, un mio amico sovrappeso dopo essersi sporto c’era rimasto incastrato. Arrivando dalla provincia non avevo messo a fuoco che il mondo è pieno di monolocali, e Milano ne era addirittura gremita. Anche le comunicazioni non erano semplici. Per il telefono mi misi in lista d’attesa, ma ci vollero mesi per avere una ambita linea duplex. Persi la chiave della cassetta della posta e il citofono era rotto, rendendo la vita dura perfino ai testimoni di Geova. Le mie pubbliche relazioni erano affidate alla cabina telefonica del controviale Giovanni da Cermenate, davanti alla quale stazionava sempre una coda di individui muniti di un sacchetto pieno di gettoni. Proprio come me.

Eppure, qualcosa si muoveva. Da neolaureato e neodisoccupato qual ero, gli eventi principali della mia vita erano gli appuntamenti con chi poteva offrirmi un impiego; nonostante le difficoltà, constatai che la ricerca di un lavoro era vista con una benevolenza sconosciuta. “A Milano se pianti una scopa, vedrai, prima o poi il manico germoglia”, mi fu profetizzato in uno di quegli abboccamenti accordati nei più diversi punti della città. L’importante era essere puntuali, perché a Milano il tempo è denaro, e questo creava una certa suspense. Mentre mi spostavo come una trottola da un quartiere all’altro, mi resi conto che l’insidia principale negli appuntamenti non era perdersi – come avevo temuto, da bravo provinciale. No, il problema maggiore era trovarsi, in una città così identica a se stessa, senza veri punti di riferimento. Senza mare, senza fiume, senza lago, senza colline. “Dio non ha fatto niente per Milano”, diceva Gio Ponti, “per questo dobbiamo darci da fare noi architetti”. Ma la bellezza in incognito di Milano, fatta di palazzi insospettabili, cortili nascosti e condomini d’autore l’avrei scoperta in seguito. I monumenti più famosi, anche se celebrati come ospiti di riguardo, mi davano l’idea di soprammobili antichi in un salotto moderno. Perfino le chiese sono tutte incassate tra le strade, come le lavastoviglie nelle cucine componibili.

Quel che più sconcertava il mio animo provinciale è che a Milano non ci sono nemmeno le piazze. E, quando ci sono, sono il luogo meno indicato per darsi un appuntamento. Provate a darvi convegno in piazza Cordusio, piazza Cadorna o piazza Missori senza ulteriori, dettagliate specifiche. Sullo stradario di Nicola Vincitorio sembravano paragonabili a quelle di Lucca o di Firenze; invece della piazza avevano solo il nome, nella realtà erano incroci caotici, rumorosi e sovraffollati. In quei viluppi di strade, semafori, rotaie del tram, cartelli indicatori, cestini dei rifiuti, ciclisti, centauri, posteggiatori, pony-express, portieri, guardie giurate e vigili urbani, quale appuntamento poteva andare a buon fine?

Così, mi rassegnai a concordare gli appuntamenti come a Milano fanno tutti: davanti alla filiale della Cassa di Risparmio di Gavirate, oppure di fianco alla pompa della Tamoil; o ancora, all’angolo tra la tabaccheria tale e la paninoteca talaltra. I sei mesi di affitto del monolocale lillipuziano si stavano esaurendo allorché accadde qualcosa di sorprendente. Mentre continuavo a vagare alla ricerca della pompa della Tamoil o della filiale della Cassa di Risparmio di Gavirate con l’incubo di arrivare in ritardo, la metropoli cominciò ad apparirmi oscuramente familiare.

E un giorno capii.

“Nulla contro i femminicidi”. Amlo accusato dalle donne

Donne, martelli e fiamme ossidriche: a Città del Messico migliaia di messicane sono scese in strada contro il governo di Almo, il presidente Andres Manuel Lopez Obrador, eletto nel 2018 promettendo cambiamento, fine della corruzione ed equità, ma soprattutto parità e stop ai femminicidi. Il bilancio delle marce tenutesi nel giorno dell’anniversario della Festa della donna è di 81 feriti per lo scontro con le forze dell’ordine nei pressi del Palazzo nazionale, sede del governo e residenza presidenziale, edificio difeso dal dispiegamento di divise e dal “muro della pace”, come è stata battezzata la barricata metallica usata per impedire avvicinamento e accesso delle manifestanti. “Vogliamo essere protette esattamente come proteggete questo palazzo”: sono scese in strada con fiori e nomi delle vittime a lettere cubitali sui manifesti che tenevano tra le mani. Le donne costituiscono oggi la più potente opposizione al capo di Stato, sotto accusa per aver tagliato i fondi destinati alle case famiglia e alle ragazze in difficoltà durante i mesi più neri della pandemia.

Contro Amlo stanno adesso puntando l’indice anche le donne del suo stesso partito Morena. “Un abusatore non diventerà governatore”: le donne in piazza hanno alzato la voce anche contro Felix Salgado Macedonio, accusato di violenza da cinque ragazze ed in corsa per essere eletto nello stato meridionale di Guerrero. Nel 2020 nel Paese sono stati denunciati 20mila stupri e quasi quattromila donne sono state uccise.

“Dove eri mentre venivo violentata?”, “Non siamo cifre, ma donne che hanno memoria” oppure “combatti oggi per non morire domani”: sono stati alcuni degli slogan urlati dalle ragazze alle squadre anti-sommossa. Accusate dalle autorità di essere manipolate da Stati stranieri, le messicane promettono di rimanere in piazza. “Per il presidente siamo il nemico pubblico numero uno, non chiediamo niente di straordinario, solo di lavorare, non essere violentate o uccise, questi sono nostri diritti” ha detto Arussi Unda, leader di Las Brujas del Mar, collettivo femminista di Veracruz.

Puigdemont&C., la storia infinita: stop all’immunità

Il governo di Madrid, con la ministra degli Esteri, Arancha González Laya, la ritiene la vittoria dello Stato di diritto e un messaggio di rispetto al lavoro della giustizia spagnola, oltreché un segnale che i problemi della Catalogna si debbano risolvere in Spagna e un’indicazione di principio, secondo cui “un europarlamentare non può avvalersi del suo status per evitare di comparire davanti alla giustizia nazionale per possibili violazioni delle leggi nazionali”.

Eppure la decisione del Parlamento europeo che ieri ha revocato l’immunità ai leader catalani seduti nell’emiciclo di Strasburgo dal 2020, Carles Puigdemont, Toni Comin e Clara Ponsatí, non pare una vittoria per nessuno in Spagna.

Non lo è per gli indipendentisti in esilio, che sull’appoggio europeo e sull’immunità che lo status di eurodeputati conferisce loro, avevano fatto leva negli ultimi tre anni e mezzo, da quando cioè sono accusati di sedizione per il referendum indipendentista del 1° ottobre 2017 in Catalogna. Non è una vittoria neanche per i leader separatisti rimasti a Barcellona, alle prese, in questi giorni, con gli accordi per un possibile governo regionale dopo le elezioni del 14 febbraio. Junts per Catalunya, infatti, si vede venire meno la possibilità che il leader, Puigdemont possa rientrare nell’esecutivo catalano. Il che indebolisce l’intera eventuale coalizione degli indipendentisti che pure hanno preso più del 50% alle urne, incalzati però dai socialisti tornati in auge con l’ex ministro della Salute Salvador Illa. Coalizione messa a dura prova anche dalla sentenza parallela di ieri del giudice di sorveglianza penitenziaria catalano che ha revocato il terzo grado di giudizio ai sette leader ora in stato di semilibertà, Oriol Junqueras, Jordi Sànchez, Jordi Cuixart, Josep Rull, Jordi Turull, Raül Romeva e Joaquim Forn, proprio in vista di un ulteriore processo concesso loro a gennaio dalla Generalitat. Ma la decisione del Parlamento europeo non è una buona notizia soprattutto per il governo nazionale di Pedro Sanchez. Da un lato, il rappresentante di Esquerra Repubblicana catalana a las Cortes, Gabriel Rufian si è affrettato a minacciare di far venire meno l’appoggio esterno all’esecutivo in risposta al ‘sì’ all’estradizione da parte dei socialisti: “Se continuano così, potranno festeggiare a casa loro e non più al Palazzo della Moncloa”.

Dall’altro, il voto al Pe ha evidenziato la spaccatura interna all’esecutivo Sanchez: Unidas Podemos del vicepresidente del governo Pablo Iglesias ha votato contro la revoca dell’immunità. Segno che è vero ciò che dice la ministra degli Esteri: i problemi catalani si risolvono (o no) in Spagna. A questo punto non resta che capire cosa ne sarà di Puigdemont, Comín e Ponsatí pronti a ricorrere alla Corte di giustizia europea, come annunciato, per dimostrare l’imparzialità del processo. Pare comunque difficile che i tre vengano estradati in Spagna a breve. La decisione, infatti, una volta riattivato l’ordine di arresto internazionale, ricade sui giudici dei Paesi nei quali risiedono, vale a dire il Belgio e il Regno Unito che – come dimostrato già dalla sentenza di Lluís Puig, l’ex consigliere catalano residente in Belgio e non coperto da immunità europea – protenderebbero per non concederla. A sua volta il giudice istruttore della causa del “proces” in Spagna, Pablo Llarena, si è già rivolto alla Procura perché chieda al Tribunale di giustizia europeo di impedire che il Belgio rifiuti l’estradizione di Puigdemont così come avvenuto per Puig. Per concludere, il mese scorso, il Parlamento europeo ha inviato alla Commissione una raccomandazione di riforma del mandato di estradizione, nel quale si considera obbligatorio l’ordine solo in caso di reato di sedizione violenta, caso che non riguarderebbe Puigdemont. Le vie della giustizia sono infinite.

I ricordi (sbagliati) di Harry e Meg

Durante l’intervista con Oprah Winfrey, che nel Regno Unito è stata vista da oltre 11 milioni di persone, Harry e Meghan hanno rilasciato dichiarazioni esplosive sui reali rapporti con la Famiglia reale. La stampa britannica le ha verificate. Ecco le principali, a partire dalla più devastante, quella di discriminazione razziale.

Meghan: “L’idea che il primo membro di colore in questa famiglia non abbia il titolo che spetta agli altri nipoti… Non hanno il diritto di togliergli quella prerogativa”.

Suggestiva, ma falsa. Nel 1917 re Giorgio V impose che solo gli eredi diretti in linea maschile ottenessero il titolo di principe, che quindi oggi spetterebbe solo al primo figlio di William, George. Nel 2012 la Regina ha esteso il privilegio agli altri figli di William. Il primogenito di Harry e Meghan, Archie, diventerà principe con l’ascesa al trono del nonno Charles. Difficile verificare l’ulteriore accusa di Meghan, secondo cui, già durante la gravidanza, la Firm avrebbe escluso Archie a priori dalla protezione offerta dal titolo di principe reale per razzismo.

“Si parlava con preoccupazione di quanto sarebbe stata scura la pelle di Archie”.

Non si conosce il contesto di queste conversazioni: pregiudizio razziale o la previsione di una possibile reazione di una parte del pubblico? Harry ha scagionato la Regina e il Principe Filippo, ma ora la devastante accusa di razzismo istituzionale aleggia su due futuri re, il padre Charles e il fratello William, e le loro mogli. Ieri Buckingham Palace ha finalmente replicato con tono fermo ma conciliante, in cui è evidente la mano della Regina “Tutta la famiglia è addolorata nell’apprendere in tutta la sua gravità quanto questi anni siano stati difficili per Harry e Meghan. I problemi sollevati, in particolare quello della razza, sono preoccupanti. Benché la versione dei fatti possa essere diversa, questi temi sono presi molto seriamente e verranno affrontati dalla famiglia in forma privata”. Congedo nel segno dell’affetto: “Harry, Meghan e Archie resteranno sempre membri amatissimi della famiglia”. Intanto Charles, durante una visita a un centro vaccinale, ha ignorato un giornalista che gli chiedeva un commento all’intervista, ma si è fermato a chiacchierare con una impiegata di origine nigeriana “Oh, fantastica la Nigeria, ci sono stato. È pieno di gruppi etnici diversi. La prego di portargli i miei saluti la prossima volta che ci parla”.

“Non mi sono mai informata sulla monarchia e su quello che avrebbe significato entrarvi. Sono cresciuta senza sapere granché dei reali inglesi. E non ho mai fatto ricerche online su mio marito”.

Il presunto disinteresse di Meghan per la Corona è stato smentito in tempi non sospetti. Gli autori di Finding Freedom, la biografia di Harry e Meghan, pubblicata lo scorso anno con il contributo di amici della coppia, scrivono: “Naturalmente entrambi, nei giorni precedenti il loro primo appuntamento, nel 2016, si erano cercati su Google. Harry aveva setacciato i social media ed era interessato”. Non solo: nel proporle l’incontro, l’amica che lo ha organizzato avrebbe detto a Meghan, immaginando un lieto fine: “Sarebbe pazzesco. Saresti la donna più popolare del mondo”. Altri descrivono una Meghan affascinata dai reali inglesi fin da piccola. Lo ha confermato Ninaki Priddy, sua damigella per le prime nozze: “Vuole essere la nuova Principessa Diana”. E la madre di una delle compagne di liceo di Meghan ha raccontato di aver guardato con le ragazze la registrazione del matrimonio di Diana.

“Ci siamo sposati tre giorni prima delle nozze ufficiali. Abbiamo chiamato l’Arcivescovo e abbiamo detto: ‘Lo spettacolo è per il mondo, ma vogliamo che la nostra unione sia fra noi’”.

Per la Chiesa d’Inghilterra un matrimonio è valido se avviene alla presenza di almeno due testimoni e senza restrizioni al pubblico, in caso qualcuno avesse obiezioni; e loro vivevano a Kensington Palace, che al pubblico è chiuso. In più, una coppia sposata può risposarsi solo se la prima cerimonia è stata irregolare. Ergo, una delle cerimonie è stata solo uno scambio di voti.

“Il giorno che sono entrata in quella famiglia è stato l’ultimo in cui ho visto il mio passaporto, patente e chiavi, ho dovuto consegnare tutto”.

Davvero la duchessa è finita prigioniera nel castello? Non risultano precedenti. Di certo, per ragioni di sicurezza, i reali subiscono forti limitazioni alla propria libertà di movimento.

“Avevo perso la voglia di vivere. Ho chiesto aiuto, mi è stato negato perché non sarebbe stato positivo per l’istituzione”.

Verosimile, ma in contrasto con la campagna di Harry e William a supporto della salute mentale, durante la quale hanno ammesso di aver ottenuto sostegno psicologico per superare la morte della madre. Secondo Harry, quando si è trattato di aiutare la moglie, lui stesso sapeva cosa fare.

Novità inquietanti nell’era Draghi

Da quando è insediato a Palazzo Chigi, Mario Draghi ha agito in continuità con il governo Conte, soprattutto sulle chiusure anti-Covid, sul Reddito di cittadinanza, sulla linea intransigente tenuta nell’Unione europea, sulla riconferma di Roberto Speranza al ministero della Salute, e questo di certo va a suo merito.

Non sono mancati tuttavia i gesti di discontinuità – tanto invocati dalle destre, da Italia Viva, da gran parte dei commentatori– ma per ora non ce n’è uno che sia benfatto. Il primo gesto di discontinuità è la rarità del verbo, che i giornalisti mainstream giudicano un segno di fascinosa distinzione. Ventun giorni fa il discorso alle Camere, poi niente, poi lunedì un videomessaggio piuttosto compassato. Ecco infine un premier che parla “quando ha qualcosa di dire”, ecco la “legge del padre”, glossano commentatori e psicologi, annunciando che è finita l’epoca delle “conferenze a reti unificate” di Giuseppe Conte, finita la corsa alla visibilità che lusinga l’ego ma perbacco, mica è Politica! La pandemia si intensifica, scienziati e medici si rabbuiano, siamo vicini a un nuovo lockdown e Draghi lascia che siano i ministri o il Comitato tecnico-scientifico a esporsi in conferenze stampa con domande e risposte. Lui sta a Palazzo Chigi: incontaminato, ieratico. La rarità del verbo si addice a un presidente di Banca centrale, nazionale o europea (una parola in più e subito i mercati s’inebriano, come accadde per le tre celebri parole whatever it takes). Non si addice a un capo di governo, specie se non eletto.

È come se nella mente del Premier non si fosse accesa una lampadina, che gli permetta di vedere come vivono e muoiono le persone in tempi di recrudescenza pandemica. Gli italiani hanno apprezzato le frequenti parole di Conte e la sua empatia, man mano che il virus li piegava e piagava, e stupisce che i giornalisti – in teoria osservatori della realtà – continuino a parlare di sproloqui populisti a reti unificate. Angela Merkel parlava ai tedeschi ogni settimana, e settimanale è l’incontro con la stampa del Premier francese.

Discontinua è stata anche la rimozione di Domenico Arcuri. Draghi l’ha sostituito con il generale Figliuolo, senza uno straccio di spiegazione. Arcuri aveva cominciato ottimamente le vaccinazioni, rallentate solo perché i rifornimenti pattuiti sono stati bloccati. A chiederne lo scalpo erano Renzi, le destre, alcuni convulsi talk show e Draghi gliel’ha offerto sul piatto. Secondo Pier Luigi Bersani è così, alla cieca e senza motivi, che si abbattono i capri espiatori. Si può solo sperare che la militarizzazione della vaccinazione dia i frutti promessi.

Non meno problematico è il ricorso alla società McKinsey e a altre multinazionali di consulenza per la preparazione del Recovery Plan, rivelato il 5 marzo da Radio Popolare. È la privatizzazione del piano Marshall post-Covid, anche se il ministro del Tesoro Daniele Franco si è affrettato a specificare – in un comunicato e un’audizione parlamentare – che le decisioni su progetti di investimenti e riforme restano in mano al ministero, e che a McKinsey e agli altri consulenti esterni verrà affidato il “supporto tecnico-operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano”. La frase è illeggibile ma si capisce che il “supporto” è sostanzioso. Il compenso non è alto (non supera la soglia oltre la quale sono obbligatorie le gare) ma in cambio i consulenti accederanno a dati preziosi, anche se il ministro lo nega.

Una delle principali accuse di Renzi a Conte riguardava la task force che avrebbe potuto gestire il Recovery Fund. Draghi crea squadre di tecnici più vaste ancora, e in buona parte esternalizzate a soggetti privati non trasparenti. Alla militarizzazione si aggiunge dunque la privatizzazione, che Draghi sa imporre da trent’anni. “La parte più importante delle decisioni che riguardano la nostra vita è ormai collocata su una scala dimensionale sulla quale gli Stati non hanno più presa”, disse a suo tempo Gustavo Zagrebelsky. Per la prima volta traspare qualche malcontento, in Fratelli d’Italia e anche nel Pd, nel M5S e in LeU.

Per il momento è questo l’apparato Draghi. A co-decidere accanto a lui la cerchia di ministri tecnici, e di consiglieri di vecchio stampo neoliberista come Francesco Giavazzi (Conte aveva scelto Mariana Mazzucato, economista keynesiana di crescente prestigio). Al pari di Draghi, la prima cerchia è avara di parole. Tutto attorno, ma lontani: i ministri politici, gli unici che devono render conto agli elettori.

McKinsey non cade immacolata dal cielo e ha un curriculum piuttosto sporco. Sul sito del Fatto, Mauro del Corno ha spiegato la sua erosione progressiva: il coinvolgimento nel crac di Enron nel 2002, e più recentemente lo scandalo delle medicine oppioidi negli Stati Uniti. La dipendenza dal farmaco OxyContin ha provocato 450.000 morti in vent’anni, in America del nord, e a gennaio la multinazionale che assisteva la casa farmaceutica Purdue ha dovuto patteggiare una multa di quasi 600 milioni di dollari con 47 Stati americani. “Hanno messo il profitto davanti alla vita delle persone”, ha detto Phil Weiser, procuratore generale del Colorado, uno degli Stati più colpiti. McKinsey aveva addirittura consigliato a Purdue di aumentare vendite e dosaggio del farmaco per incrementare i guadagni, prodigando consigli su come neutralizzare gli appelli contro la commercializzazione del prodotto.

A ciò si aggiungano gli scandali in Sudafrica e i consigli forniti al principe saudita Mohammed bin Salman: un interlocutore appetitoso anche per Renzi, come sappiamo (Lo stesso Renzi che sabato era negli Emirati, dove risiedono società che hanno finanziato la sua Fondazione Open. Ha querelato i giornali che ne hanno dato notizia – La Stampa e Tpi– ritenendo evidentemente che la segretezza sia la brillante cifra dell’era Draghi).

Il ministro Franco assicura che il contratto con McKinsey era “già aperto”, ma omette l’essenziale: Conte discusse l’opzione, è vero, ma poi decise di non far entrare alcuna società di consulenza privata e straniera nella squadra del Recovery Plan. Neanche le società già attive nei ministeri.

In realtà Draghi rompe la continuità con Conte, su McKinsey, ma non con sé stesso. Anche quando organizzò le massicce privatizzazioni degli anni 90 si rivolse a società multinazionali di consulenza. Nel 2012 la Corte dei Conti criticò “l’eccessivo ruolo” attribuito ai consulenti esteri, ma pochi ne hanno memoria.

 

Il passo di Zinga (verso la D’Urso)

Nicola Zingaretti ha tenuto il punto: dimissioni irrevocabili, confermate là dove la gente viene avvicinata alla politica, ovvero da Barbara D’Urso, anche lei sul punto di chiudere in anticipo il suo appuntamento serale televisivo su Canale 5. Turbati da questo doppio passo d’addio, considerando che nella comunicazione mediatica il testo è fatto dal contesto, cerchiamo di comprendere a fondo la logica zingarettiana. Che “ci sia bisogno” di avvicinare la politica alla gente è discutibile, perché i politici italiani si assembrano in video e in rete dalla mattina alla sera, sette giorni su sette; Non è la D’Urso è, tecnicamente, il decimo salotto politico della settimana (per fermarci alle prime serate generaliste). Più di così, si presenta il Festival di Sanremo. Certo, bisogna vedere come ti avvicini, e su questo Zinga ha ragione; però non è stata la D’Urso ad avvicinarsi alla politica; è stata la politica ad avvicinarsi alla D’Urso lungo la via del talk. C’è chi fa il Cammino di Santiago, e chi il Cammino di Non è la D’Urso: in entrambi i casi, oltre non si può andare.

Nonostante i numerosi tentativi d’imitazione (Giordano, Del Debbio, Giletti), nessuno sfida il principio dell’impenetrabilità dei corpi quanto lei; domenica prima ha avvicinato Zingaretti a Salvini; poi, con lo stesso cuore in mano, con le stesse emoticon viventi, ha avvicinato Andrea Roncato alla sua ex Stefania Orlando. Se parliamo di politica liofilizzata e disciolta in soap opera, di leader plasmati, a scelta, in padri di famiglia, guardiani della Patria, piacioni da salotto, considerare la D’Urso una Formula 1 è giusto. Tuttavia, nell’era Draghi pare che questa politica da teca di San Gennaro stia segnando il passo; non sarà il caso di allontanarla dalla gente, e di avvicinarla un po’ di più ai fatti e alle idee? Se così fosse, Zingaretti avrebbe visto giusto a fare un passo indietro. Non dalla segreteria del Pd, ma dalle telecamere. Ce n’è bisogno!

Covid, che cosa ho imparato stando in coda dal macellaio

La corvée spesa oggi tocca a me, così ha stabilito il criterio dell’alternanza che vige in famiglia, e mica mi dispiace perché so che stando in coda davanti al macellaio avrò modo di raccogliere opinioni, riflessioni retrospettive, e notiziole sull’andamento quotidiano. Quando mi metto in fila c’è uno che fa autocritica pensando a quando guardavamo con ironia cinesi o giapponesi che in tempi non sospetti giravano già con la mascherina. “In piazza Duomo”, sottolinea. Gli ribatte uno che è tanto no vax quanto no var, che indossa la mascherina con nonchalance, cioè sotto il naso, pronto però a rimetterla in sede all’apparire di una divisa: vaccini, virus, i numeri che ci fanno vedere sono una montatura per controllare l’intero genere umano. La vera piaga è il ritorno delle cimici, lui ne ammazzerà una decina al giorno. “Ah sì?”, la voce è femminile. “E sono verdi o scure?”. “Verdi”, fa lui. “Io scure”, lei. “Le scure sono una variante”, sentenzia un’altra voce. “A tal proposito, ne è comparsa un’altra, ancora senza nome. Di cosa? Ma di variante del virus!”. “Il virus non esiste”, proclama il no tutto. Poi, visto che tocca a lui, permette alla fila di giudicarlo senza appello tornando a più miti problemi: dopo le cimici, le coccinelle, a dorso rosso e bianche, che portano fortuna ma puzzano e poi cavallette grandi come scampi. “Pensare che quelli là le mangiano”. “Cosa mangiano, chi?”, fa uno appena arrivato. I cinesi o i giapponesi, quelli prendevamo in giro perché giravano, in piazza Duomo, con la mascherina, rispondiamo in coro. Quando del virus non si sapeva niente. Magari non esisteva proprio. Magari non esiste. Si affaccia il macellaio. “Sotto a chi tocca”. Seguono convenevoli, la fila si è confusa. Tocca a me, ma resto volentieri ad ascoltare. Si sa, la carne è debole, ogni riferimento al macellaio è puro caso.