Per l’Inps è il via libera ai furbastri di ogni tipo

Raccontano fonti qualificate che all’Inps la decisione del Garante della Privacy sia stata presa male, molto male. Non certo per la multa inflitta, quanto perché vi si legge una sconfessione totale dell’operato di controllo e verifica che l’Istituto porta avanti.

La scelta del Garante, infatti, contraddice tutto il lavoro portato avanti dalla Direzione Centrale Antifrode, Anticorruzione e Trasparenza voluta nel 2019 dall’attuale presidente Pasquale Tridico. Si tratta dell’organismo che è preposto alla verifica che le prestazioni erogate siano correttamente dovute. E il senso di questa scomunica sta nel ragionamento che ai piani alti dell’Istituto viene fatto apertamente da ieri mattina: “Perché non ci hanno mai multato per il Reddito di cittadinanza o la Cassa integrazione illecita? I controlli che facciamo sono gli stessi”.

Il documentoL’ampio documento del Garante si incunea in una quantità di cavilli e norme difficili da comprendere per i più. Addentrandosi nella sua decrittazione, senza abbandonarsi alla facile lettura del comunicato stampa, si capisce che a essere contestato è l’aver avviato verifiche e controlli prima che fossero chiari i requisiti con cui poi i bonus sarebbero stati erogati. Come se i parlamentari, i consiglieri comunali, regionali etc, avessero potuto mai beneficiare di un provvedimento come il bonus. In questo caso la puntualizzazione del diritto fa a pugni direttamente con la morale.

Quanto alla violazione della privacy più in generale, si ragiona all’Inps, dall’ente previdenziale non è mai uscito alcun nome. I nomi di deputati e consiglieri vari sono emersi in seguito alle loro auto-denunce.

Il Garante contesta all’Inps che “il trattamento dei dati personali è stato effettuato in una data anteriore a maggio 2020”. All’Inps si ritiene però di non essersi mossi impropriamente perché la convinzione che quei soggetti non avessero diritto, e quindi sottoposti a controllo, è stata ampiamente avallata dal ministero del Lavoro, ente vigilante sull’Istituto. La presidenza dell’Inps, infatti, vanta il parere emesso dal ministero del Lavoro, richiesto a settembre 2020 e consegnato il 2 dicembre a firma del responsabile dell’ufficio legislativo, Giuseppe Bronzini. Il parere è molto esplicito sull’inconsistenza di quel diritto per chi riceve un’indennità paragonabile a un reddito da lavoro dipendente e che, comunque, è iscritto a una gestione previdenziale, per quanto anomala come quella che regola i vitalizi parlamentari.

Nella sanzione comminata, poi, si parla anche di una “mancata valutazione dell’impatto sulla protezione dei dati”, ma le considerazioni interne all’Inps dicono che con il senno di poi si sarebbe fatto esattamente lo stesso: prendere dati esterni pubblici e confrontare i codici fiscali, unico modo per cercare di prevenire le frodi da parte di un ente che possiede ampie banche dati, ma non le ha tutte. Certamente, non ha i dati dei parlamentari che, come è noto, hanno un regime previdenziale basato sul vitalizio, gestito direttamente dalle Camere di appartenenza.

Il recupero dell’illecito Il punto più rilevante però è che ora rischia di fermarsi l’attività di recupero delle prestazioni indebite. Nel caso dei parlamentari si tratta di 2,5 milioni di euro, ma ci sono tutti gli altri casi, molto più onerosi e per i quali nessuna critica finora è stata mossa. I dirigenti dell’Inps hanno fatto sapere alla presidenza che ora vogliono delle garanzie prima di muoversi perché “non è possibile fare i controlli sulla base delle preferenze mediatiche del Garante” che si muove sui parlamentari, ma non ha mai contestato il modo in cui colpiscono gli indebiti sul Reddito di cittadinanza. Come se ci fossero “furbetti” di serie A e “furbetti” di serie B.

Infine, vale la pena svolgere anche una valutazione politica di questa decisione, perché nel comminare la sanzione, il Garante (pagina 13 della sua “sentenza”) compie un legame diretto tra il modo in cui l’Inps si è mossa e la divulgazione dei dati a ridosso del referendum del 20-21 settembre sul taglio dei parlamentari. Come se, si insinua, l’Inps avesse voluto dare rilevanza mediatica alla vicenda per influire sul voto.

Accusa che Tridico respinge in toto, ma che potrebbe dare vita a un altro leitmotiv dell’era Draghi: la rimozione dello stesso Tridico. Il presidente del Reddito di cittadinanza e dei controlli a tappeto, potrebbe mai resistere alla restaurazione?

Il garante protegge la casta del bonus. Parlamentari, privacy, intoccabili

I due deputati “furbastri” che avevano chiesto, ma non ottenuto il bonus, sono salvi. Non perché la privacy vieti all’Inps di svelare il nome dei politici che hanno chiesto i 600 euro destinati alle partite Iva, ma perché l’ente previdenziale avrebbe raccolto in maniera illegittima i dati personali dei richiedenti.

È questa la conseguenza indiretta della decisione di ieri del Garante per la protezione dei dati personali, che da agosto aveva aperto un’istruttoria nei confronti dell’ente previdenziale e del suo presidente Paquale Tridico per valutare come fosse avvenuto l’ottenimento delle informazioni sensibili riguardo al bonus Covid. L’Autorità, nel dichiarare illegittima la raccolta dati, ha sanzionato Inps con una multa da 300 mila euro e ha ordinato di cancellare le informazioni personali non necessarie finora trattate.

La vicenda. Ma che cosa ha sbagliato Inps? Per capirlo, è necessario ricordare il contesto dei fatti. Siamo nella primavera 2020 e l’ente deve elaborare milioni di pratiche legate ai ristori del primo lockdown. Tra queste, c’è il bonus da 600 euro al mese per le partite Iva. Ad agosto Repubblica scopre che tra i richiedenti ci sono anche 5 parlamentari e decine di consiglieri regionali, che si sono mossi per avere il bonus nonostante uno stipendio lordo da oltre 10 mila euro al mese, mai intaccato dai periodi di chiusura. La politica si indigna e chiede a gran voce i nomi dei furbastri, finché si scopre l’identità di tre deputati che hanno incassato i soldi (i leghisti Elena Murelli e Andrea Dara e l’ex M5S Marco Rizzone, ora in Centro democratico) e quella di qualche consigliere regionale che decide di auto-denunciarsi. Anche perché la pubblicazione di tutti i richiedenti sembra questione di poche ore, dato che il Garante riconosce il venir meno della privacy a causa dell’interesse pubblico del caso e della responsabilità degli eletti nei confronti dei cittadini.

Tutto però si incaglia non sulla eventuale pubblicazione, ma sulla raccolta di quei dati. Il Garante apre un’istruttoria per capire se l’Inps sia venuto in possesso di molti più dati di quelli necessari all’erogazione corretta del bonus. Tridico si difende sostenendo che l’anti-frode dell’ente ha svolto milioni di controlli, spesso a posteriori rispetto a una erogazione dei soldi che tutti chiedevano con urgenza.

L’istruttoria. Qui però sta il guaio, perché nella sentenza con cui il Garante ha sanzionato l’Inps, si dice proprio che l’Istituto ha effettuato incroci tra i dati di tutti coloro che avevano richiesto il bonus con quelli dei titolari di incarichi politici “ben prima di aver definitivamente determinato se, in base al complesso quadro normativo (…), gli incarichi di parlamentare e di amministratore regionale o locale costituissero una condizione ostativa alla spettanza del bonus Covid”. In pratica, Inps non sapeva ancora se la funzione pubblica di un richiedente fosse decisiva per l’erogazione del bonus (mesi dopo un parere del ministero del Lavoro avrebbe chiarito che i parlamentari e gli eletti nelle Regioni non avevano diritto ai soldi), ma ha comunque profilato in anticipo i richiedenti in base al loro incarico pubblico, raccogliendo dati che sarebbero in effetti serviti per un successivo controllo.

Il caso più delicato, come notato dal Garante, è quello dei consiglieri comunali, inizialmente trattati al pari degli altri politici pur avendo oneri e onori – soprattutto di stipendio – imparagonabili agli altri furbetti, tanto è vero che il ministero del Lavoro ha dichiarato legittima la loro richiesta del bonus.

In questo modo, secondo il Garante “Inps ha violato i principi di liceità, correttezza e trasparenza stabiliti dal Regolamento Ue in materia di protezione dei dati personali”. C’è poi un altro problema, perché l’Istituto, come sottolinea ancora l’Autorità per la privacy, “non ha rispettato neppure il principio di minimizzazione dei dati”, avendo avviato i controlli finalizzati al recupero dei soldi su “tutti coloro che hanno richiesto il bonus Covid, compresi quelli” le cui domande “già in sede di controllo di primo livello erano state esaminate e rigettate”. Un comportamento che, complice la concitazione dell’emergenza, ha portato l’ente a ottenere dati in eccesso, perché la verifica su eventuali incarichi pubblici (controllo di seconda livello, a bonus già erogato) è avvenuta su tutte le domande, anche quelle rigettate per altri motivi già prima dell’erogazione. All’Inps viene poi imputato di aver sottovalutato “i rischi collegati a un trattamento di dati così delicato”, non effettuando “la valutazione di impatto sui diritti e le libertà degli interessati”. Con una conseguenza che l’Autorità riconduce alla politica, definendo “rischioso” l’atteggiamento dell’Inps “considerato l’impatto mediatico derivante dalla divulgazione, a mezzo stampa, di indiscrezioni sull’esito dei controlli effettuati dall’Istituto, in prossimità della celebrazione, il 20 e 21 settembre 2020, del referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari”. Insomma, la fuga di notizie avrebbe favorito il Sì al taglio degli eletti.

Tutti motivi per cui, pur riconoscendo che i controlli svolti da Inps fossero “riconducibili a compiti di interesse pubblico rilevante”, il Garante ha ritenuto di punire l’ente.

Trasparenza. E poco importa che l’Inps, per difendersi, assicuri di non aver utilizzato “dati sensibili non visibili al pubblico” e che l’Istituto lamenti che “l’applicazione delle richieste del garante” possa creare “molte incertezze nel funzionamento dell’amministrazione e dell’anti-frode”. La sentenza resta, anche se Inps sta valutando di ricorrere in appello, e la conseguenza più immediata è sulla divulgazione dei nomi dei furbastri. Anche qui, il Garante è netto e sancisce che “nessuna richiesta di pubblicazione o accesso è possibile” per chi ha chiesto e non ottenuto il bonus. Addio quindi alla trasparenza sui due onorevoli e su chissà quanti consiglieri regionali. Diversa la situazione per chi ha ricevuto il bonus. I tre parlamentari, in questo caso, sono già noti, ma una richiesta di accesso civico generalizzato potrebbe funzionare per gli eletti nelle Regioni, perché l’interesse pubblico nello scoprire a chi sono finiti i soldi dello Stato potrebbe prevalere sugli appunti procedurali sollevati dal Garante. La decisione però spetterà all’Inps.

La politica. D’altra parte è inutile sperare che un esame di coscienza dei partiti arrivi adesso dove gli enti pubblici non sono potuti arrivare. Dopo l’enorme clamore iniziale – Matteo Salvini promise di sospendere e non ricandidare i suoi furbastri; Nicola Zingaretti la definì “una vergogna”, Luigi Di Maio un caso “indecente” – la politica infatti si è pian piano disinteressata della vicenda. Il M5S ha cacciato Rizzone, ma la Lega ha subito riarruolato i suoi due deputati coinvolti nello scandalo, trovando sistemazione anche per molti dei consiglieri regionali (su tutti il veneto Riccardo Barbisan, spedito a Bruxelles come assistente di un eurodeputato). E ieri il provvedimento del Garante è stato accolto da un gelido silenzio, se si esclude la protesta del M5S, che con l’onorevole Francesco Silvestri incalza i partiti: “Prendiamo atto della decisione del Garante. Ma non cancella il disgusto nei confronti di chi ha approfittato di una misura destinata agli italiani in difficoltà. Noi abbiamo immediatamente espulso Rizzone, altri hanno fatto diversamente: la Lega in qualche caso li ha pure promossi sul campo”.

Il dl Sostegno slitta ancora di una settimana. Il varo annunciato dal governo un mese fa

Neanche questa settimana, la quarta da quando si è insediato il governo Draghi, sarà quella decisiva per il decreto Sostegno. Annunciato dal governo giallorosa entro i primi dieci giorni di gennaio ma poi finito nella crisi di governo, il decreto sarebbe dovuto arrivare in Consiglio dei ministri dopodomani, venerdì 12. Ma è stato già ufficializzato il suo ennesimo slittamento con il via libera del Consiglio dei ministri forse a metà della prossima settimana. I tecnici starebbero ancora trovando la quadra delle misure che spaziano dal fisco alla sanità, dai vaccini al lavoro e che valgono 32 miliardi di maggior deficit autorizzato a dicembre. Vanno poi integrate le norme arrivate dai ministeri, come la proroga della cassa integrazione. Intanto dei congrui ristori promessi dal governo nei primi giorni post insediamento non c’è traccia; quanto ai tempi effettivi di erogazione si continua a ipotizzare la fine di aprile. I ristori dovrebbero valere 5 miliardi per i mesi di gennaio e febbraio con l’abbandono del sistema dei codici Ateco che ha limitato la platea degli indennizzi di fine 2020.

Segretario e non reggente: Letta vuole garanzie dal Pd

Parla con Giuseppe Conte, ma anche con Mario Draghi, ha conservato un ottimo rapporto con Pier Luigi Bersani, ma è storicamente legato a Dario Franceschini. Un momento prima della dissoluzione e dell’esplosione, il Pd prova a tirare fuori dal mazzo la carta vincente: Enrico Letta. L’ex premier, che ora insegna a Sciences Po a Parigi, ci sta riflettendo seriamente. Ma con chi ci ha parlato in queste ore non si spinge oltre l’ammissione di essere sensibile alla situazione del Pd e di osservare con preoccupazione la sua crisi. L’idea dell’esplosione e della fine del partito che ha contribuito a fondare non può lasciarlo indifferente. Perché è questo che sta sul tavolo: se l’Assemblea che si svolgerà domenica non trova una soluzione unitaria, è il progetto stesso dei dem che fallisce. Con l’ipotesi di trasformarlo in qualcos’altro, spingendo fuori la parte più centrista: Goffredo Bettini ha consegnato alle agenzie di stampa una smentita rispetto alle intenzioni di voler fare un altro partito insieme a Zingaretti. E in effetti, il suo progetto era un altro: non fondare un partito nuovo, ma trasformare quello che c’è.

La soluzione Letta potrebbe evitare tutto questo. Raccontano che l’idea sia venuta a Franceschini. Paolo Gentiloni approva. E di certo non dispiace a Sergio Mattarella. In fondo, sarebbe in linea con il nuovo corso del governo Draghi. Letta, una sorta di padre nobile, potrebbe essere lo stabilizzatore, che rende i dem il partito perno dell’esecutivo. Tra Palazzo Chigi e i ministeri, di uomini a lui vicini ce ne sono svariati.

Più passano le ore, più i sì nel Pd si moltiplicano. Ma anche i ni e le trappole. È pronto a sostenerlo Nicola Zingaretti, che a questo punto potrebbe uscirne in piedi: non quello che ha sfasciato il Pd, ma quello che con il suo passo indietro ha contribuito a offrire una soluzione rispetto al logoramento quotidiano. Con l’opzione sindaco di Roma più vicina. Ci sarebbe il sì anche di Andrea Orlando, che ne riconosce il valore di soluzione “alta”. Base Riformista non può dire di no a Letta, ma sta cercando di dire no al mandato pieno. Perché per accettare, l’ex premier vuole una serie di garanzie politiche, tra cui proprio quella di essere un vero segretario, fino al 2023. E anche se non proprio l’unanimità, quasi. La data non è secondaria: significa fare le liste per le Amministrative e poi per le Politiche, eleggere il presidente della Repubblica. Su questo stanno giocando alcuni tra i vicini a Bettini e gli “orfani” di Zinga. Vorrebbero proporre un traghettatore. Pensano a Luigi Zanda. Anche se il piano inclinato sembra davvero un altro, da oggi a domenica, il Pd è perfettamente in grado di affondare pure questa ipotesi.

Letta di certo lo sa. Indimenticabile quell’#enricostaisereno con cui Matteo Renzi da segretario lo rassicurò mentre stava lavorando per rovesciarlo. Era a Palazzo Chigi, Letta mentre proprio la direzione del Pd gli votava sostanzialmente la sfiducia. Si dimise, lasciò il partito, ma non è mai passato in un altro. Anzi, con l’elezione di Zingaretti ha rifatto anche la tessera. E in questi ultimi mesi ha preso una serie di posizioni non scontate: come un sì forte e deciso al taglio dei parlamentari. La sua elezione alla guida del Nazareno sarebbe uno smacco anche nei confronti di chi lo cacciò da Palazzo Chigi: perché di certo Letta non è un fautore dell’amalgama con i Cinque Stelle alla Bettini, ma è pronto ad allargare, a includere, a dialogare con tutti. I primi penalizzati però sarebbero gli ex renziani, non fosse altro che perché sono loro che guidarono l’operazione che portò alla sua estromissione. E di certo lui è portato a guardarli con sospetto. Senza contare che ogni ipotesi di riportare Renzi nel Pd sarebbe destinata al fallimento. Tra gli scenari, anche la divisione di Br, con Lorenzo Guerini che resta, e i più duri e puri alla Andrea Marcucci che escono. Ma Letta è uno che parla pure con Carlo Calenda, a proposito di progetti di centro. Resta da capire se prevarrà la voglia di impegnarsi e di prendersi la rivincita, essendo richiamato come Salvatore della patria, o la consapevolezza che del Pd non ci si può fidare praticamente mai.

Cartabia delude i garantisti: “No alle bandierine”

Erano arrivati in via Arenula sguainando le sciabole, ma poco dopo le 9.30 di ieri i capigruppo di Forza Italia, Italia Viva, Lega e Azione, hanno dovuto riporle subito. Il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, che li aveva convocati per condividere insieme “il percorso delle riforme”, ma anche per bacchettarli dopo gli strali garantisti dei giorni scorsi, ha esordito lasciandoli di stucco: “Le più grandi rotture si sono consumate sulla giustizia – ha detto – dalle tragedie dell’Antigone e delle Eumenidi ho imparato che quando l’affermazione di principi giusti arriva all’intransigenza, finisce in tragedia per tutti”. E ancora: “Veniamoci incontro tutti con un approccio collaborativo”. E così Cartabia ha fatto capire quali saranno le tappe del governo sulla Giustizia: spendere bene i 2,7 miliardi del Recovery Plan per la digitalizzazione, l’assunzione di personale e l’edilizia carceraria ma anche la riforma del processo civile e quella penale. Con un punto fermo che non è piaciuto a Pierantonio Zanettin (FI), Lucia Annibali (IV) e Enrico Costa (Azione) e che fa esultare i giallorosa: su civile e penale si parte dai disegni di legge delega già incardinati in Parlamento dall’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Un altro segnale di continuità con l’ex Guardasigilli del M5S. Tant’è che su questi temi Cartabia ieri ha parlato di “enorme lavoro già fatto” e che “mancano da percorrere gli ultimi 200 metri alla vetta”. Sulle due riforme al ministero saranno istituiti dei tavoli di lavoro che dovranno valutare gli emendamenti. Obiettivo: approvarle entro l’estate. Sventato, quindi, il blitz di Fi, Lega e IV sulla prescrizione: il termine per gli emendamenti al ddl penale scadeva il 29 marzo ma è stato rimandato a fin aprile. Fonti di maggioranza fanno sapere che alla fine la norma Bonafede non sarà toccata, ma si andrà a incidere sulla riduzione dei tempi del processo. Tant’è che l’unico a porre il tema al tavolo di maggioranza è stato Enrico Costa (nella foto) secondo cui “la prescrizione così com’è va tolta subito di mezzo”, vedendosi rispondere da Cartabia che no, così non sarà e che il tema sarà affrontato nel ddl penale. Chi aveva chiesto modifiche ora e subito deve ricredersi: il sottosegretario Sisto (FI) si rallegra per “la ritrovata centralità del Parlamento” e Costa dice che “ci sono norme come la prescrizione che se non rimosse ostacoleranno il lavoro parlamentare”.

“Blocca-prescrizione già abolita se non fossimo in maggioranza”

Tutti e due avvocati, tutti e due di Bari, entrambi sottosegretari alla Giustizia del governo Draghi. Li separa alla nascita un dettaglio, oggi pressoché insignificante: Silvio Berlusconi. Un semidio per il forzista Francesco Paolo Sisto, il nemico di gioventù per Anna Macina, che oggi, insieme ai Cinque Stelle, ha dovuto sedersi al governo anche con lui, perché è meglio che “restare a guardare”.

Per il suo collega Sisto ormai è un dibattito “vintage”. Lo crede anche lei?

Proprio in questi giorni gli ho ricordato che su molti temi la pensiamo in maniera opposta, non è un mistero. Ma siamo chiamati a vivere un momento storico straordinario. Il problema non è ‘con chi’ fai le cose, ma che cosa fai: abbiamo urgenze inderogabili da affrontare. Detto questo, la ministra Cartabia ha un compito di mediazione delicato ed è assolutamente all’altezza per svolgerlo.

Ieri Cartabia ha chiamato a raccolta tutte le forze parlamentari: dalle dichiarazioni nessuno scontro, possibile?

È stata una riunione di metodo. Ci sono questioni urgenti che impongono un raccordo nella maggioranza: dall’esame per l’abilitazione degli aspiranti avvocati al concorso per la magistratura per arrivare alla chiusura del Piano nazionale di resilienza e ripartenza, in cui la giustizia gioca un ruolo fondamentale.

In mezzo c’è l’annosa questione della prescrizione. Cartabia è riuscita a fermare un primo blitz, ora ha rinviato di un mese la presentazione degli emendamenti. Se lo aspettava?

È un invito a smetterla di piantare bandierine, a lavorare nel merito dei provvedimenti. Ed è una conferma del fatto che si è dovuto tener conto del voto del 32 per cento dei parlamentari.

Una risposta ai suoi colleghi che non hanno voluto dare fiducia a Draghi?

Tirarsi fuori è sempre la via più facile, ma se non ci fossimo stati, ora saremmo qui a commentare l’abolizione del blocco della prescrizione.

Bonafede non è stato confermato ministro. Avete consegnato lo scalpo ai renziani?

No, non rinneghiamo nulla e la prova è nei fatti: anche la ministra Cartabia dice che dobbiamo ripartire dal lavoro fatto fin qui. E poi i renziani hanno poco da rivendicare: dovranno rispondere agli italiani dei 32 miliardi di scostamento di bilancio fermi da due mesi e mezzo per colpa della crisi.

Anche i renziani sono contrari allo stop alla prescrizione. Teme altri blitz?

Mi fido della ministra. E in ogni caso il calendario non è libero, ma condizionato dalle urgenze del Recovery, ovvero dell’impiego dei fondi conquistati col sudore dall’ex presidente Conte. Anche questo si dovrebbero ricordare.

Ieri fuori dal ministero c’è stata una manifestazione dei Radicali per chiedere amnistia e indulto: la preoccupano le condizioni della carceri, ulteriormente aggravate dal Covid?

Stiamo portando avanti la campagna vaccinale e nell’ultimo Dpcm abbiamo previsto un percorso di isolamento per i nuovi detenuti, proprio per garantire la necessaria sicurezza. Dobbiamo gestire la situazione, non pensare a provvedimenti straordinari.

Indennizzo a Casaleggio. L’addio M5S a Rousseau

Un accordo economico, per chiudere il rapporto. Una cifra da definire, per dividere le strade con la piattaforma web Rousseau, per anni il motore operativo del Movimento, e con il suo creatore, Davide Casaleggio, che proprio oggi presenterà il suo manifesto Controvento: di fatto, un elenco di principi e idee per rivendicare lo spirito originario del M5S che fu. Il Movimento batterà questa strada per mettere fine alla guerra che dura da un anno con Casaleggio, ormai inviso ai big e a gran parte dei parlamentari. Anche se Beppe Grillo prova da mesi a tenerlo dentro, a ricucire.

Lo aveva perfino invitato al vertice di dieci giorni fa a Roma, quello per convincere Giuseppe Conte a entrare nel Movimento, da capo. Ma Casaleggio non si è presentato, in aperta polemica. È rimasto lì, controvento, contrario a tutte le ultime scelte del M5S. E chiede soldi. Nel dettaglio, circa 450mila euro di mancati versamenti da parte dei parlamentari. Una richiesta di cui i Cinque Stelle hanno discusso molto negli ultimi giorni, perché quello di Rousseau è il primo nodo da sciogliere. Con i parlamentari che invocano la chiusura di ogni legame. Mentre Grillo e Conte sollecitano comunque una mediazione, anche perché il ruolo della piattaforma è centrale nello Statuto del Movimento, che le riconosce ampie prerogative. E anche se l’ex premier sta scrivendo nuove regole per il M5S che verrà a breve, le norme attuali pesano. Per questo serve comunque un accordo. Ma la via non è più quella di un contratto, con Rousseau fornitore esterno di un servizio. Ora si punta a una risoluzione consensuale, da chiudere con una cifra che possa accontentare Casaleggio. Poi sarà, o dovrebbe essere, separazione. Con il M5S che si cercherà un’altra piattaforma, ipotesi su cui alcuni big riflettono da mesi. Tanto da aver già contattato altre aziende. “La direzione pare questa” conferma una fonte di peso. Una rotta concordata dopo aver consultato anche alcuni legali. E di cui è Conte è stato informato, sin nei particolari. Anche se ora molto dipenderà dalla reazione del patron di Rousseau. Ma a Roma sono convinti che a questo punto un’intesa serva anche a lui. In caso contrario, il rischio di una battaglia nei tribunali si farebbe concreto. E del resto che il tema ormai siano i soldi lo conferma il notaio di fiducia di Casaleggio, Valerio Tacchini: “L’Associazione Rousseau non ha soldi in cassa. Per attivare qualsiasi procedura di voto bisogna che venga pagato il sospeso, con i versamenti dei parlamentari. Casaleggio non ha alcuna intenzione di fare ostruzionismo, chiede solo che siano onorati gli impegni per consentire a Rousseau di procedere con le operazioni di voto”. A cominciare da quello sull’entrata del M5S nella giunta regionale del Lazio, guidata da Nicola Zingaretti. Una votazione bloccata da Casaleggio, come aveva anticipato giorni fa il Fatto, proprio per i mancati versamenti.

Insomma, riassume Tacchini, “non c’è niente di personale, sono solo affari”. Oggi invece Casaleggio dovrebbe parlare anche d’altro, presentando il suo manifesto assieme alla socia di Rousseau, Enrica Sabatini. Al M5S pare l’embrione di un nuovo partito. Ma forse non è più un loro problema.

“Bruxelles intervenga: c’è conflitto d’interessi”

L’europarlamentare Pd, vicino a Nicola Zingaretti, Andrea Cozzolino ieri ha chiesto ai colleghi italiani di tutti i partiti di firmare un’interrogazione alla Commissione Ue per chiedere conto delle consulenze private dei governi nella programmazione del Recovery Plan con il rischio di “conflitti di interessi”.

Onorevole, perché questa iniziativa?

Voglio sapere dalla Commissione quali Stati membri hanno assunto consulenti esterni per la programmazione del Pnrr e se anche la Commissione ne farà uso.

Come mai?

Perché dalle notizie italiane sulla consulenza a McKinsey sono preoccupato. Affidare la programmazione a società private porta a tre rischi: l’omologazione dei piani europei senza tenere conto delle specificità dei Paesi; il conflitto d’interessi perché queste società lavorano anche con imprese che beneficeranno dei fondi e l’accesso a dati sensibili.

Il governo italiano però dice che il processo decisionale resterà al Mef.

Bene, però così il rischio è quello di privatizzare anche la programmazione della spesa. E non va per niente bene: io mi batto perché tutta la programmazione sia in capo allo Stato, se necessario con un grande piano di assunzioni di giovani. Il problema è a monte…

Ovvero?

I regolamenti del Pnrr prevedono che queste società possano far venire meno la funzione dello Stato sostituito da aziende con interessi privati. E questo è un errore.

Chi dovrebbe sostenere la sua interrogazione?

Per ora l’ho mandata ai miei colleghi italiani, ma spero che Pd, M5S e LeU facciano insieme questa battaglia sul conflitto d’interessi come successo durante il governo Conte.

McKinsey e le altre: ecco qual è la “novità Draghi”

I colossi della consulenza lavorano da tempo con la Pubblica amministrazione. Dopo anni di tagli lineari, la macchina statale ha perso tecnici e competenze mentre questi giganti collezionano (come leggete sopra) appalti sempre più grandi tra ministeri, enti locali, agenzie governative e via discorrendo. Uno strapotere che espone al rischio di conflitti d’interessi.

La notizia che il Tesoro ha assoldato il colosso Usa McKinsey e altri per farsi dare una mano a rivedere il Recovery Plan con un contratto da 25 mila euro ha scatenato malumori. La replica del Tesoro è che la fase decisionale resta al ministero, mentre ai giornali viene fatto filtrare lo stupore per il clamore suscitato: così – è la linea – si è sempre fatto. È una versione di comodo che finge di ignorare il problema. Qual è la novità?

Questi colossi lavorano per la PA su migliaia di progetti. In alcuni casi (per esempio Kpmg e Pwc con il ministero della Salute) sono stati coinvolti nel lavoro preliminare sul Recovery Plan. È un lavoro definito di “bottom up”, dal basso verso l’altro. La novità è che ora McKinsey, E&Y, Pwc, Accenture, etc. vengono assoldate per la revisione finale del Piano da 200 miliardi. Il complesso sistema di norme messo in piedi da Bruxelles per ingabbiare i progetti si presta a quello stile burocratico-manageriale che i colossi della consulenza offrono ai governi come il loro valore aggiunto, ben sapendo che di fatto si pongono come certificatori esterni agli occhi della Ue. È un ruolo di grande rilievo. “Offrono quegli input che a volte i ministeri non hanno, come presentazioni e slide”, ha minimizzato il ministro Franco. Magari McKinsey&C. si fanno pagare per le presentazioni Power point, ma è il Tesoro ad aver chiarito che darà pure “supporto tecnico-operativo di project management per il monitoraggio di tutti i filoni del Piano”. “Un ruolo nevralgico in cui tante idee diverse devono diventare una strategia-Paese”, ha detto l’ex ministro Fabrizio Barca. Dalla progettazione alla gestione dell’execution (dicono loro) il passo sarà breve e non costerà 25mila euro.

“Decretone” solo per il Recovery, nulla sui concorsi

Non si sa se sia “il momento Italia”, come lo chiama lui, ma di sicuro è “il momento Brunetta”: uno dei ministri della Funzione pubblica del blocco del turn over e degli stipendi (“mea culpa, ma erano tutte decisioni necessitate dalla situazione finanziaria”) torna sul luogo del delitto stavolta per “invertire il trend”. E mica in futuro, adesso e di corsa: “O si fa subito, nei prossimi due mesi, o i soldi del Recovery non li prendiamo”. In un’audizione in Parlamento in cui la vanità e la gioia per l’insperato ritorno in sella erano appena velate dalle grida d’allarme per “il disastro” del Paese, l’economista che solo la politica ha tenuto lontano dal Nobel – così sostiene lui – ha disseminato i suoi interventi di grandi promesse e pochi particolari: subito le assunzioni necessarie per il Piano di ripresa, l’appeasement coi sindacati (“serve coesione sociale”) e niente sul vero nodo che affligge la macchina pubblica ovvero come sbloccare i concorsi che tengono ferme 300-400mila assunzioni e rendono impossibile lavorare per molte amministrazioni.

Partiamo da quel avverrà di sicuro. Bisogna subito trovare il modo di assumere le centinaia di professionisti destinati a lavorare sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr): a questo fine è in preparazione con tutti i ministeri coinvolti “un decretone”, ha spiegato Brunetta, che gli consentirà di stipulare contratti di 5 anni facendo “cherry picking negli ordini professionali” (forse sotto una certa soglia d’età). Quanto al resto, anche se non si sa se sarà materia del decreto, bisogna ovviamente “semplificare” anche ampliando il silenzio assenso e aggirando “la paura della firma dei dirigenti”: “Va affrontato insieme tutto l’impianto della responsabilità del dirigente” fino ad arrivare a “un’assicurazione sul danno erariale”.

Fin qui siamo, più o meno, dentro quanto ci si aspettava, è il resto che è disperante. Si parte dai grandi proclami: “Il sistema di accesso e reclutamento in tutta la P.A. deve cambiare radicalmente altrimenti il sistema è morto. Reclutamento vuol dire turn over: noi siamo bloccati da decenni, non si può andare avanti così”. Quindi bisogna assumere per riempire tutti i buchi lasciati da chi è andato in pensione, “e anche di più”, ma come Il Fatto ha scritto ieri, oggi non si riesce nemmeno a portare a casa le 300-400 mila assunzioni già deliberate e finanziate negli ultimi due anni, bloccate soprattutto perché non si riesce a fare i concorsi seguendo le regole Covid. La soluzione del nuovo ministro non ha però alcuna speranza di funzionare: “I vincoli del Cts riguardano il numero dei partecipanti, il rischio è la deriva dei concorsi online da casa. Io preferisco concorsi online in luoghi istituzionali (sic): individuare luoghi pubblici – università, fiere e altre aree dotate di strutture adeguate – dove ospitare un numero più ampio di candidati per concorsi online, cioè senza carta. Potremmo partire in qualche settimana”. Esperti e dirigenti pubblici sentiti dal Fatto sono, eufemizzando, scettici sulla praticabilità della cosa.

Tralasciando le molte altre petizioni di principio (“digitalizzazione” come se piovesse), Brunetta – sempre circonfuso di soddisfazione di sé – ritiene di avere un asso nella manica per rivoluzionare il pubblico impiego: l’accordo quadro che oggi i segretari di Cgil, Cisl e Uil firmeranno a Palazzo Chigi con Mario Draghi. Il ministro della P.A. ci tiene a presentarlo come una riedizione del patto per la moderazione salariale che il governo Ciampi firmò con le parti sociali nel 1993 (evidentemente ritenendolo un precedente positivo, se non altro perché gli consente di affiancare il suo nome a quelli di Ciampi e Gino Giugni): per quello che si intuisce si tratta di uno scambio in cui i sindacati incassano, oltre alle assunzioni, i rinnovi contrattuali (soldi già stanziati) e il riconoscimento dei livelli maturati dai dipendenti in questi anni (700 milioni in più), il governo/datore di lavoro lo sblocco massiccio del tempo determinato anche nel pubblico. Se è un modo per rimettere in moto la macchina ci può stare, se – come è facile succeda – si punta a farne la nuova normalità è il solito affare a perdere.