Che fatica essere Jane B.

Per la cerimonia dei César (è il 22 febbraio 1986, ndr) avevamo comprato a Charlotte un piccolo smoking da Agnès B., Serge è venuto a prendere me e Kate (la prima figlia, avuta con John Barry, ndr) in una Rolls-Royce noleggiata per l’occasione, era ubriaco fradicio, è caduto aprendo la portiera, ha arraffato una bottiglia di champagne al bar e l’ha nascosta sotto la sua poltrona e, in preda alla tensione e all’amore, ci ha annunciato che se Charlotte non avesse vinto avrebbe spaccato la faccia a tutte le altre contestants (“concorrenti”, ndr), e dato che avrebbe consegnato lui il premio per la migliore attrice verso la fine di quella beneamata cerimonia, il fatto che Charlotte avesse in mano il César ci ha fatto tirare un sospiro di sollievo!

Kate mi ha annunciato di essere incinta prima di una cena con Serge alla torre Eiffel. Mi ha detto: “Ti ho fatto un amichetto per Lou”, io stupidamente ho detto: “Fatto con cosa?”, lei ha detto: “Un bambino, un bambino vero!”. A tavola, eravamo al Jules Verne, credo che le abbiamo detto di pensarci bene, Pascal rischiava il carcere, Kate mi ha risposto che si sarebbe sposata con gli abiti da carcerato disegnati da lei, quando Serge ha protestato, lei ha detto: “Io lo voglio, lo voglio!” spaccando tutti i bicchieri a portata di mano sulla strada verso l’uscita.

Roman è nato il 31 marzo, sono rimasta con Kate e Pascal fino al momento del parto, ho dato a pascal una Polaroid perché potesse fotografare l’arrivo di Roman, la Varda mi aveva chiamata perché stavo girando Jane B par Agnès V (1988, ndr), lei mi aveva detto che il mio ruolo non era quello di stare con loro come nonna, era un momento da vivere in coppia e io dovevo tornare in rue de la Tour per finire la sequenza del film che stavamo girando. Appena tornata a casa, ha squillato il telefono: Roman era nato e Kate stava bene! (…) Sono diventata nonna a quarant’anni, volevo essere chiamata mamie (…). Credo che, per gli uomini attorno a me, ci fosse una reazione un po’ come quella di Groucho Marx che aveva risposto, alla domanda “Che effetto le fa essere nonno?”: “Non mi abituerò mai a essere sposato con una nonna!”. (…)

 

2 giugno 1987, Besançon dopo un concerto

Vorrei poter mettere fine alla tristezza. (…) Quando Dada (direttore di scena, ndr) viene a chiamarmi e mi avvio al patibolo, il terrore di svernire è così palpabile, la velocità dei battiti del mio cuore, è il momento più terrificante che io conosca e che si ripete sistematicamente. Giuro: “Mai più così”. La diarrea, il vomito, i crampi. Mai più. Poi quando si arriva alla fine di tutto mi si strazia il cuore, questi volti che conosco solo da cinque mesi spariranno. (…) Le due di notte, pensavo a Kate. Io non ho mai toccato la cocaina perché non ho abbastanza coraggio, ma anche io ho le mie evasioni. Mi stordisco di lavoro, lavoro, lavoro, per non pensare. È uno stato di dipendenza, che ho dalla nascita, come mi ha detto il dottore una volta, è in me, l’ho trasmesso a Kate.

Non posso cantare senza iniezione di cortisone per paura di perdere la voce. Domani, per l’ultima data, sarò così spaventata che la chiederò soltanto per darmi sollievo psicologico, non posso riuscirci senza. Ieri ci ho provato di nuovo, ma la voce non ha retto e oggi era due volte peggio. Ho una tale paura che tutto questo finisca che non sono più in grado di presentare i musicisti senza mettermi a piangere. Bisogna che mi colpisca, che mi dia uno schiaffo per impedirmelo, nascosta dietro le casse.

Jacques dice che “il fondo non è buono”, come posso fare in modo che il mio fondo sia buono? Mi sono colta in fallo da sola. Stasera la suoneria della mia sveglia si è messa a suonare alle 21.15 nella mia valigia e ho dato la colpa alle cazzo di sveglie di tutti gli altri. Me ne andavo in giro per la stanza in preda alla rabbia, ho tirato gli orologi sui muri accusando tutti nella mia mente, nella camera proprio accanto a quella della mamma di Jacques, pensando solo al mio stupido sonno. Sono così collerica, così irritabile, così egoista che deve essere una cazzo di sveglia a darmi la prova di cosa sono veramente. Il fondo non è buono. Sono amata, ma il fondo non è “buono”. Ho così tanta paura che sia vero. (…)

In Comédie avevo come partner Alain Souchon, ero pazza di lui, era come un fratello geniale, facevamo le stesse cavolate, trovavo tutto in lui attraente e buffo, persino le emicranie che gli davano un odore dolce, era costretto a rimanere al buio, la cosa mi pareva il massimo del romanticismo! In tutti questi anni è rimasto un amico fedele e ha accettato di scrivere la musica di una canzone per l’al-bum Enfants d’hiver. Sono tornata da Londra, molto infelice per le infedeltà di Jacques. E chi c’era all’aeroporto Charles de Gaulle? Ma Souchon, dietro un giornale. Ha detto che passava di lì, e mi ha portata a Parigi a cena, e mi ha spiegato la differenza fra gli uomini e le donne in materia di infedeltà, la superiorità morale delle donne.

I lager e le stragi inventate. Le fake sull’Unità d’Italia

“Una corrente, che definiamo per comodità neoborbonica (anche se è un aggettivo che viene spesso respinto come denigratorio), ha messo sotto accusa le modalità dell’annessione e le politiche economiche seguite alla dichiarazione dell’Unità il 17 marzo 1861”. Secondo “questo punto di vista i 9 milioni di meridionali che abitavano il Regno delle Due Sicilie sarebbero diventati italiani per forza”. Una “visione questa che non tiene conto di quella parte di meridionali continentali e siciliani che l’Unità la volevano. E spesso si trattava dei ceti più colti e avanzati”.

Comincia con queste considerazioni Italiani per forza. Le leggende contro l’Unità d’Italia che è ora di sfatare (Solferino, pagg. 325, euro 17), il nuovo libro di Dino Messina, lucano trapiantato da decenni a Milano, giornalista e storico, che esce nei giorni del centosessantesimo anniversario della proclamazione del Regno d’Italia. Indagando la storia con scrupolo e senza pregiudizi, e scavando negli archivi, ma anche interpellando tanto gli studiosi veri quanto gli stessi “revisionisti”, l’autore fa piazza pulita delle innumerevoli fake news e delle leggende con cui il Risorgimento è stato vituperato in questi anni. Una denigrazione becera, portata avanti quasi sempre su Internet dai “neoborbonici”, dai leghisti della prima ora e da una certa pubblicistica reazionaria. Gli attacchi all’Unità nazionale sono fondati essenzialmente su tre assiomi. Primo: il Regno delle Due Sicilie era una sorta di “Austria Felix”, distrutto e colonizzato dal Nord. Secondo: Garibaldi e le camicie rosse erano solo un branco di delinquenti, in combutta con la mafia e con la camorra. Terzo: i militari piemontesi, e poi italiani, si comportarono verso i vinti soldati borbonici, dopo il 1860, come si sarebbero comportati i nazisti.

L’assioma, come è noto, non ha bisogno di dimostrazioni. Da qui, pertanto, ecco le copiose invenzioni sui “lager” del re Vittorio Emanuele II, come quello di Fenestrelle, dove, secondo gli antiunitari, vennero fatti morire migliaia di ex soldati meridionali di Francesco II. E sempre da lì, da quegli assiomi, ecco le stragi compiute dall’esercito italiano nel Mezzogiorno, come a Pontelandolfo, durante la lotta al brigantaggio.

Emersa già in vari studi e basata, in ogni caso, su documenti d’archivio e su fonti spesso non certamente “unitarie” come le parrocchie, la verità è naturalmente assai differente. A Fenestrelle, in Piemonte, non morirono migliaia di soldati del Regno delle Due Sicilie, addirittura 40 mila in base ai “neoborbonici” e affini, ma, in cinque anni, solamente una quarantina. E queste cifre, scrive Messina, “più che un genocidio etnico, spesso nascondono diverse vittime dovute a delitti di camorra, che da tempo si era infiltrata nell’esercito borbonico”. Quanto poi “alla prassi di ‘sciogliere nella calce viva’ i corpi dei poveri soldati è evidente che si tratta di una colossale invenzione. Cospargere di calce i corpi dei defunti era una prassi adottata durante gli assedi, quando non si poteva dar loro subito degna sepoltura”.

Ciò che vale per Fenestrelle vale pure per Pontelandolfo, il paesino beneventano dove, l’11 agosto del 1861, i briganti massacrarono 41 soldati italiani. La reazione militare, per i “neoborbonici” e soci, avrebbe fatto registrare fino a oltre 1400 vittime. Per la cronaca, afferma Messina, “furono 37 i fucilati per l’uccisione dei 41 militari, di cui 12 di Pontelandolfo e 8 di Casalduni”. La storica Silvia Sonetti, citata da Messina, ha osservato a proposito di Pontelandolfo che “il mito dell’eccidio, pur smentito da tutte le ricerche documentate e da ogni fonte archivistica, ha travalicato il limite dell’invenzione e si è trasformato in una storia vera, fino al punto da essere accreditata anche dalle istituzioni”.

Ancora più mitica è la narrazione di un Mezzogiorno che nel 1860 avrebbe subito l’Unità nazionale, senza volerla per niente. Messina rammenta opportunamente che le “province calabresi diedero 10mila uomini all’esercito di Garibaldi (4.000 dei quali parteciparono in ottobre alla decisiva battaglia del Volturno), mentre 3.000 volontari arrivarono dalla Basilicata, dove il 16 agosto era scoppiata la prima rivolta unitaria in un paesino sperduto, Corleto Perticara, e già il 18 agosto a Potenza era stato proclamato un governo provvisorio: Nicola Mignogna e Giacinto Albini avevano assunto la prodittatura”. Il “loro primo atto fu l’abolizione della tassa sul macinato, seguito dalla promessa di distribuzione delle terre demaniali. Propositi subito ritirati dopo le proteste dei maggiorenti”.

Lo “storytelling neoborbonico”, come dice a Messina il giornalista Saverio Paletta, direttore del giornale online L’Indygesto, invece “sposta l’attenzione dalle responsabilità della classe dirigente locale verso il sistema Paese, diventato un vero e proprio capro espiatorio. La mobilitazione basata sulla distorsione dei fatti storici alimenta un sentimento di odio politico che può diventare molto pericoloso. In questo si è dimostrato cruciale l’uso spregiudicato di Internet”.

Floyd, la battaglia inizia dai giurati

È battaglia sulla selezione della giuria, nel processo per l’uccisione di George Floyd, nero, 46 anni, padre di una bimba di sei anni, tenuto a terra per quasi nove minuti, con il ginocchio di un poliziotto premuto sul collo, fino a morire soffocato, il 25 maggio 2020 a Minneapolis. Accusa e difesa cercano giurati che non abbiano già deciso in cuor loro se Derek Chauvin, 45 anni, l’ormai ex agente accusato dell’omicidio di Floyd, è colpevole. La selezione della giuria inizia oggi, in attesa che una corte d’appello si pronunci sulla natura esatta dell’accusa mossa a Chauvin, se omicidio volontario o colposo. Il processo dovrebbe durare tre settimane e la fase finale iniziare il 29 marzo. Nel giudizio su Chauvin, la difesa potrà bocciare fino a 15 giurati – di solito sono cinque – e l’accusa nove – di solito sono tre –, oltre a quelli che il giudice valuterà di per sé inadeguati. Il processo di Minneapolis è anche un momento di verifica dell’impegno del presidente Joe Biden e della sua Amministrazione per la riduzione delle disuguaglianze razziali negli Stati Uniti: Floyd è, infatti, divenuto un simbolo del movimento Black Lives Matter, le cui proteste nella primavera e nell’estate 2020 segnarono la campagna presidenziale. Alla vigilia, la città appare blindata: le circostanze della morte di Floyd hanno riaperto ferite razziali profonde e dolorose nella società Usa; e la sua invocazione, ‘I can’t breathe’, non posso respirare, è divenuta slogan contro il razzismo e la brutalità della polizia. Chauvin, un record di episodi di violenza in divisa, è attualmente in libertà su cauzione e comparirà in tribunale. Il giudice Peter Cahill ha deciso che l’ex poliziotto sia giudicato separatamente dai suoi tre colleghi della pattuglia omicida: prima lui. Ufficialmente, la decisione di separare i casi è stata presa per evitare il sovraffollamento dell’aula, nel pieno della pandemia. Vi sono letture contrastanti sul suo effetto: chi pensa che la separazione dei giudizi possa danneggiare l’accusa; e chi, invece, pensa sia un modo per aggravare la posizione di Chauvin e alleggerire quella dei suoi colleghi, che saranno giudicati dopo il suo verdetto. Dallo scorso fine settimana, manifestanti stazionano davanti al tribunale: chiedono giustizia per Floyd e agitano cartelli di Black Lives Matter. Gli edifici governativi del centro città sono stati tutti recintati. Alcuni negozi sono chiusi o hanno le serrande abbassate. I piani per la sicurezza coinvolgono l’Fbi, la polizia dello Stato del Minnesota, di polizia di St. Paul – città gemella di Minneapolis – e la Guardia nazionale del Minnesota. Il comune di Minneapolis e la contea di Hennepin hanno stanziato un milione di dollari per installare recinzioni e protezioni.

Lula, condanne annullate: Lava Jato è lettera morta

“L’inchiesta Lava Jato è lettera morta. Ora si apre una seconda fase”. Così titolava ieri il quotidiano brasiliano O globo alla notizia che rimescola le carte della politica e della società del Paese a tre anni dalla più grande inchiesta di corruzione nella quale il Brasile sia mai stato coinvolto. Almeno le rimescola per Luis Inacio Lula da Silva che ieri la Corte suprema brasiliana ha scagionato dalle accuse permettendogli così di fatto di tornare eleggibile. A deciderlo è stato Edson Fachin, che ha accettato il ricorso dell’ex presidente del Brasile secondo cui il Tribunale del Paranà che l’ha giudicato nel 2018 non era competente. Un vero colpo di spugna sui quattro processi nei quali il leader del Partito dei Lavoratori (Pt) è stato condannato per corruzione nella Tangentopoli brasiliana. Nel caso specifico, il giudice Fachin ha annullato le condanne riguardanti un attico a Guarajà, una tenuta di Atibaia, proprietà che secondo i giudici di Lava Jatol’ex presidente aveva ottenuto dal colosso delle costruzioni Oas in cambio di lucrose commesse con la compagnia petrolifera statale Petrobras. Più altri due processi legati all’Istituto Lula. Ad incastrare Lula era stata la confessione dell’ex presidente dell’Oas Leo Pinheiro, raccolta in carcere in cambio di un sensibile sconto di pena dal giudice Sergio Moro.

La difesa dell’ex presidente, invece, sosteneva che i processi fossero segnati dalla parzialità dell’accusa e dalla presenza dell’ex giudice Moro, poi diventato ministro della Giustizia di Jair Bolsonaro, nella conduzione delle indagini. Da qui, la denuncia di irregolarità nelle prove raccolte, che sarebbero state fabbricate ad arte per far sembrare Lula colpevole di corruzione. Accuse sempre negate dai procuratori e dallo stesso Moro, ma poi rintracciate nei messaggi che il magistrato, allora titolare dell’inchiesta, si scambiava con gli inquirenti perché spingessero sul fascicolo riguardante Lula. Dagli scambi rinvenuti nei telefoni di Moro e del procuratore Delta Dallagnol, era evidente una collaborazione tra le alte cariche dello Stato perché si arrivasse alla condanna di Lula in tempo per le elezioni del 2018, vinte poi da Jair Bolsonaro. Per quelle intercettazioni, raccolte e diffuse dal sito investigativo The Intercept, il giornalista e fondatore Glenn Greenwald è stato successivamente accusato di associazione a delinquere e poi prosciolto un mese dopo per aver dimostrato di aver ricevuto le informazioni da una sua fonte. Ma è proprio per quei casi e per i processi da lì scaturiti che Luiz Ignacio Lula da Silva fu poi condannato a 12 anni di reclusione e perse i diritti politici, non potendosi più candidare a pochi mesi dalle elezioni vinte dall’ex militare. Fuori dal carcere dal 2019, dopo 19 mesi di detenzione, Lula, 75 anni, ieri, poco prima della decisione del Tribunale, in un’intervista al quotidiano El Paìs ha dichiarato: “La politica è nel mio Dna, smetterò di fare politica solo da morto”.

Parole che suonano come l’annuncio di una sua candidatura alle elezioni presidenziali del 2022. Non è un caso, infatti, che l’ex presidente abbia attaccato nella stessa intervista il capo dello Stato, Jair Bolsonaro, sostenendo che non vincerà la prossima tornata elettorale e che “perderà contro un candidato progressista del Partito dei lavoratori (Pt)”. Lula ha anche paragonato l’attuale scenario brasiliano con quanto accaduto negli Stati Uniti, augurandosi che mai nei due Paesi i cittadini possano tornare a votare uno come Donald Trump o Jair Bolsonaro. Indipendentemente da una sua eventuale candidatura, Lula si è reso disponibile ad aiutare il suo partito nella campagna 2022. Secondo i sondaggi in effetti, solo il 38% dei brasiliani riconfermerebbe Bolsonaro, mentre il 50% ha dichiarato che sceglierebbe il leader del Pt. In tutto questo, non è improbabile che il tribunale di Paranà faccia ricorso contro la Corte Suprema, aprendo un nuovo capitolo.

Fukushima, dieci anni dopo: è finito il sogno del nucleare “buono”

I giapponesi sono da sempre abituati a sentire tremare la terra. “Abbiamo sviluppato una speciale sensibilità alla transitorietà, all’evanescenza delle cose” commenta Morimi Kobayashi che sottolinea l’importanza della parola kizuna (legame), un vincolo morale che dal terremoto, Tsunami e Incidente Nucleare di Fukushima e della regione del Tohoku avvertono in molti nel Paese. Un lungo filo che avvolge quindicimila morti, una catastrofe umanitaria e un disastro nucleare non ancora risolto dall’11 marzo 2011. “I legami e il sostegno della società sono fattori fondamentali della vita”, sostiene Kobayashi che insieme a giapponesi e italiani ha dato vita dieci anni fa al progetto “Orto dei Sogni” fra le cui molte iniziative ha ospitato dal 2012 in Sardegna e poi in Liguria i bambini di Fukushima, per allontanarli dalle radiazioni, ripulendo l’organismo e la mente da ogni traccia di pericolo.

“La triplice tragedia ci ha ricordato la piccolezza umana di fronte alla natura e soprattutto che vivere in un arcipelago con 54 centrali nucleari è molto rischioso”.

Ma a dieci anni dalle 14.26 di un pomeriggio come tanti, l’ora del terremoto di magnitudine 9 seguito da uno tsunami alto 15 metri, talmente potente da inondare 560 km quadrati di territorio disattivando l’alimentazione e il raffreddamento di tre reattori dell’impianto nucleare Daiichi di Fukushima, cosa è stato fatto concretamente? Ciò che è radicalmente cambiato è il rapporto dei giapponesi con il nucleare. Pensavano avesse due facce, quella atroce delle bombe atomiche sganciate sul Paese nel 1945, e quella buona che illuminava la quotidianità delle città ricche e consumiste all’eccesso. Da un decennio però, la stragrande maggioranza della popolazione non ha più fiducia negli scienziati né del “Nuclear Village”, un misto di politici, imprenditori e burocrati che li hanno ingannati spietatamente. All’epoca dei fatti era primo ministro Naoto Kan, che alcuni giorni fa durante la conferenza al Club della Stampa Estera di Tokyo (Fccj) in compagnia dell’altrettanto famoso ex premier Koizumi Junichiro, non ha esitato a dire: “Vogliamo arrivare all’obiettivo ‘zero nucleare’ e, considerando i 4 milioni di ettari di aree agricole del Giappone, installando pannelli solari e usando l’energia fotovoltaica ce la potremmo fare benissimo, anzi, copriremmo perfino più settori”. Anche Koizumi si è espresso chiaramente: “Non ci sono nuove possibilità con il nucleare. A dieci anni da Fukushima, di quei 54 impianti nucleari non ne abbiamo utilizzato nessuno per anni, senza mai subire un blackout, da Hokkaido al Kyushu. Poi dobbiamo risolvere il problema delle scorie, dopo aver dismesso i vecchi impianti i proprietari non hanno creato luoghi per disfarsene né soluzioni, esiste un pericolo enorme per la salute, perché parlare ancora di energia nucleare?” Chi abitava nei 20 km della no go zone e nelle cittadine adiacenti, ha subito i cambiamenti più drastici. Alcuni hanno rifiutato di andarsene sfidando il nemico radioattivo invisibile quanto invincibile, altri ci sono ritornati periodicamente per sfamare gatti e cani, e per decontaminare il terreno su cui coltivare fra le migliori verdure e riso del Giappone. E poi ci sono i bambini, il futuro del Paese. “Dal 2011 i notiziari locali ci forniscono quotidianamente il livello di radioattività e i miei figli vengono puntualmente monitorati. Al momento però stanno rimuovendo le barre di combustibile nucleare esausto del Daiichi e mi preoccupa una nuova dispersione di radioattività̀, racconta la signora Yoko F. che vive a Soma, cittadina nel Nordest della prefettura di Fukushima, con due bambini che hanno partecipato ai soggiorni di “Orto dei Sogni”. “Quando passo in auto a Namie, Futaba, Okuma e Tomioka (zone con un livello radioattività ben sopra i limiti di sicurezza), proibisco ai bambini di abbassare i finestrini e corro via”.

Le promesse del governo sono state mantenute? Anche la signora Yuka A. vive a Soma e ha un bambino che ha soggiornato con O.d.S.: “La vita dei miei figli è drasticamente cambiata. Vivevamo sulla costa e ci mantenevamo grazie alla pesca. Lo tsunami ha risparmiato la mia famiglia, ma ci ha lasciato disperati senza più casa e peschereccio. Il mio secondo figlio amava il mare, però dopo l’accaduto tremava alla sola vista. Grazie all’esperienza in Italia ha ripreso ad adorarlo e vorrebbe tornare a mangiare il pesce di Soma. Lo Stato ci aveva esonerato dalle spese mediche ma questa misura terminerà il 31 marzo, a dieci anni dal disastro.” “È tutto under control” sostengono i governanti, ma a Fukushima e nel resto del Paese in pochi ci credono.

Gli stranamore e la guerra covid

Non promette niente di buono la guerra fredda dei vaccini anti-Covid. Serpeggiano tensioni di varia natura che, un po’ come la Prima guerra mondiale del secolo scorso, rischiano di precipitare sul fronte più impensato e di scompaginare l’assetto delle alleanze preesistenti. Proviamo a mettere in fila le lacerazioni che scuotono il pianeta malato e i suoi fragili equilibri geopolitici.

Stati nazionali alle prese con la nuova superpotenza delle case farmaceutiche produttrici dei vaccini, finanziate (com’era giusto e inevitabile nell’emergenza) con denaro pubblico che alimenta i loro profitti.

Nazioni ricche che, pur rappresentando solo il 14% della popolazione mondiale, hanno acquistato preventivamente più della metà di tutti i vaccini attesi.

Due continenti poveri, l’Africa e il Sudamerica, rimasti tagliati fuori dai programmi vaccinali, col rischio che da lì si propaghino ondate di ritorno del Covid sotto forma di variabili in grado di compromettere l’immunità di gregge raggiunta altrove.

Squilibrio crescente fra Stati Uniti, che hanno già vaccinato il 25% dei loro cittadini, e l’Europa, rimasta sotto il 10%. La presidenza Biden si è posta in continuità con la scelta protezionistica della precedente amministrazione, a costo di lasciare sguarnito anche un Paese confinante come il Canada.

Veti politici di natura “atlantica” imposti da Washington all’impiego del vaccino russo Sputnik da parte dei Paesi alleati. Cui fa da contraltare l’offerta interessata di forniture da parte della Cina, anch’essa vissuta come una minaccia al blocco occidentale.

Formazione di inedite alleanze fra nazioni disposte a scambiare contropartite politiche di varia natura, pur di inserirsi fra i privilegiati che godranno per primi dei vantaggi derivanti dalle ricerche in corso. All’interno dell’Unione europea hanno già deciso di muoversi da soli Austria, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca, Danimarca. Come loro, anche la Grecia prevede di instaurare un rapporto esclusivo con Israele, tale da consentire l’apertura delle frontiere in vista della prossima stagione turistica. A sua volta, il governo israeliano ha ipotizzato forniture di vaccino a Paesi disposti a spostare la loro ambasciata a Gerusalemme. Un do ut des che, se realizzato, sottometterebbe la politica sanitaria alla ragion di Stato.

A complicare il panorama, la stessa decisione del governo italiano, condivisa dalla Commissione Ue, di bloccare l’esportazione in Australia di 250 mila dosi di AstraZeneca infialate nel nostro Paese, per quanto assunta come legittima reazione all’inadempienza degli accordi stipulati, risuona come un segnale inequivocabile.

I gravi ritardi nella somministrazione dei vaccini non incoraggiano certo la solidarietà internazionale. Nessuno ha avuto a che ridire quando Mario Draghi, intervenendo al Consiglio d’Europa, si è opposto alla proposta franco-tedesca di donare 13 milioni di dosi anti-Covid ai Paesi africani. Prima i nostri, è il messaggio, e neanche i più accesi fautori del libero commercio hanno avuto a che ridire.

Dopodomani, 11 marzo, è convocata la Commissione TRIPs che regolamenta i diritti di proprietà intellettuale del Wto (Organizzazione mondiale del commercio). Dovrà approvare o respingere la mozione di cento Paesi poveri, primi firmatari India e Sudafrica, che chiedono la sospensione temporanea dei brevetti detenuti dalle case farmaceutiche sui vaccini per tutta la durata della pandemia, fino al raggiungimento dell’immunità di gregge globale.

Finora gli Stati Uniti e l’Ue, cioè il blocco dei Paesi industrializzati dove hanno sede le multinazionali, si sono opposti. La moratoria sui brevetti, prevista dal regolamento Wto, è sostenuta a gran voce dall’Oms e da tutte le Ong, in nome del diritto universale alla salute. Non si tratta solo di un principio umanitario di solidarietà. Consentire la produzione di vaccini a basso costo nei Paesi svantaggiati, in deroga alle licenze, si configura come la strategia più efficace per la prevenzione di future recrudescenze della pandemia.

Un appello in tal senso è pervenuto alla Farnesina da parte delle principali Ong italiane. Pare che si aprano degli spiragli, ma non se ne conosce ancora l’esito.

Mi sembra che questa panoramica basti per constatare che dobbiamo attenderci vari pericolosi effetti indesiderati della pandemia. La compravendita dei vaccini, che ha già favorito chi è in grado di pagarli di più, e sta dando luogo a traffici opachi di intermediari privati, comincia a rassomigliare maledettamente al commercio delle armi. In Italia ce ne siamo accorti quando il presidente del Veneto, Luca Zaia, ha annunciato di aver ricevuto l’offerta di 27 milioni di dosi non si sa bene da chi, raccogliendo il plauso della stampa amica. Poi, per fortuna, quando altri suoi colleghi promettevano di imitarlo addentrandosi nella giungla del traffico illecito, autorità più responsabili lo hanno fermato.

Non a tutti sembra essere chiaro che il vaccino non è una merce come un’altra. E che, nella sua iniqua distribuzione, rischiano di emergere non solo degli avidi profittatori, ma anche dei novelli Dottor Stranamore.

Mano a mano che si evidenzia la subalternità dei governanti ai diktat delle multinazionali proprietarie dei brevetti, e si acuisce il senso d’ingiustizia patito dai Paesi poveri rimasti indifesi di fronte al Covid, nuovi fenomeni inquietanti rischiano di dilagare; e andrebbero scongiurati per tempo.

Ne cito uno per tutti. Ho un brutto presentimento e, proprio perché si tratta di materia infiammabile, credo sia meglio condividerlo per tempo.

Temo che l’ammirazione generalizzata di cui gode oggi Israele per i successi conseguiti nella vaccinazione a tappeto della sua popolazione, possa rovesciarsi in una futura ondata di antisemitismo. Lo Stato ebraico ha immunizzato il 70% degli abitanti. Ci è riuscito prenotando per tempo le dosi necessarie, e pagandole più del costo medio. Ma soprattutto si è reso disponibile a condividere i dati della vaccinazione con la multinazionale, diventandone il prezioso laboratorio. Spero di sbagliarmi, ma prevedo che gli ottimi risultati conseguiti possano essere branditi a supporto di nuove odiose farneticazioni sul “complotto ebraico”, a meno che si vinca la tentazione di utilizzarli per finalità politiche.

Non dimentichiamolo: la diplomazia dei vaccini è un’arma a doppio taglio. In assenza di solidarietà internazionale chi la impugna rischia di farsi molto male.

 

Il festival falsato dei Ferragnez

Quello è il mio papà, dovete votare per lui. Carino Leone. Il suo papà è Fedez e lui lo vede alla televisione e si mette a fare il tifo. Giusto. È il suo papà. Solo che poi viene imbeccato dalla mamma e dà il numero di telefono per votare e anche il codice, 11. È piccolo e già la mamma lo ha trasformato in un influencerino, tutto griffato Versace. Lei, Chiara Ferragni, promuove la piastra stiracapelli e lui cerca di far vincere al suo papà il Festival di Sanremo. E quasi ci riesce. Poi interviene la mamma. Gira attorno al cartonato di Fedez che ha sistemato nel salone a grandezza naturale, anche quello griffato Versace, e spara la preghiera ai suoi 22 milioni di follower: “Votiamo tutti Fede mandando un Sms con codice 11 al numero 4754751”. Vi prego, fatelo per me. Le rispondono migliaia di svalvolate rassicurandola. “Fatto”.

Con questa potenza di fuoco poteva non arrivare sul podio il suo maritino? In una notte è passato dalla diciassettesima posizione alla seconda. Diciamolo: è la vittoria di Chiara Ferragni che ha considerato il marito come un prodotto da promuovere e ha contribuito a falsare i risultati. Ma come, non si può tifare per i propri congiunti? Sì, ma c’è un limite a tutto.

Una volta si falsavano i risultati comprando decine di magliaia di schedine del Totip con le quali si votava. Altre volte i centralini dei call center venivano inondati dai cittadini pugliesi che votavano compatti per il loro eroe Albano a prescindere dalla qualità delle sue canzoni. Adesso l’era telematico-commerciale ha cambiato la metodica. Sei una delle influencer più popolari del mondo? Bene. Puoi decidere chi deve vincere a Sanremo.

Il prossimo anno sarà una corsa a rintracciare le centrali dei follower. Anzi saranno loro a offrirsi al miglior acquirente. Già vedo gli annunci. “Controllo 10 milioni di follower. Li faccio votare per chi volete voi”.

Già che ci siamo, perché non votare direttamente su Facebook, su Twitter, su Instagram, su Tik Tok? Prima che a qualcuno venga in mente di votare sulla piattaforma Rousseau.

Ps: Vogliamo scommettere che fra una decina di anni il Festival di Sanremo lo vince il piccolo Leone?

Il virus cambia, siamo troppo lenti

Le sfidenon finiscono mai. Per cercare di far luce su cosa stia accadendo in questa pandemia, bisogna abbandonare la visione “umana” della Natura e osservare il fenomeno attraverso l’ottica della sua spietata legge. Ci troviamo davanti alla lotta tra due esseri viventi, il cui obiettivo è certamente sopravvivere e salvaguardare la propria specie. Il tutto si configura in un puzzle nel quale riusciamo a stento a vedere qualche singola cartella e mai l’interezza dell’immagine. Due specie in natura lottano perché debbono conquistare uno spazio vitale o, come nel nostro caso, uno ha bisogno dell’altro per moltiplicarsi. I virus non sono esseri autonomi per la loro moltiplicazione, debbono sfruttare la cellula vivente. SarsCov2 deve sfruttare le cellule dell’apparato respiratorio e non solo per moltiplicarsi. Il suo obiettivo, contrariamente a quanto si possa immaginare, non è procurarci morte ma avere tanti esseri umani viventi da parassitare. Nell’evoluzione il nostro organismo, poiché i parassiti possono anche ucciderlo o procurare danni importanti, ha affilato armi per difendersi da essi. Di contro, i parassiti (virus e batteri) hanno imparato a camuffarsi con le mutazioni, per evitare di essere “colpiti” (dal nostro sistema immune). Questa lotta agli armamenti non conosce tregua. Mai, fortunatamente, nella storia dell’umanità, i parassiti hanno vinto definitivamente. Purtroppo, però, neanche l’uomo. Inaccettabile dal nostro grado di civiltà raggiunto, è la legge di natura che premia il più forte a fronte del debole. Gli individui che pagano il prezzo più alto nelle pandemie sono proprio i più fragili. E che ciò sia vero lo dimostra il fatto che le pandemie si esauriscono quasi sempre, solo dopo averne eliminato migliaia, lasciando sopravvivere i più forti che rimangono immunizzati. Non dobbiamo dare al virus il tempo di riarmarsi (nuove mutazioni), dobbiamo vaccinare in massa. Questo ritmo lento non va bene.

 

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Al nuovo Movimento serve anche Di Battista

Nel nuovo M5S, non farebbe male anche l’inserimento di un “passionale” come Di Battista, sempre che decida cosa vuol fare da grande. La nuova formazione potrebbe creare le premesse per la realizzazione di un grande bacino laburista e progressista sul modello inglese. Auguri a Conte.

Maurizio Dickmann

 

Un altro “migliore” per la squadra di Mario

Ho letto e riletto i nomi dei ministri e sottosegretari e ho pensato che non sfigurerebbe Cetto Primo Buffo Re delle due Calabrie. Potrebbe dare il suo contributo, alzando così il livello dei migliori. Per favore, lo contatti e lo faccia presente al Draghi.

Ernani Colombo

Caro Ernani, ha ragione: metterò una parola buona.

M. Trav.

 

Recovery e vaccini sono merito dell’ex premier

I soldi per il Recovery li ha presi Conte, l’organizzazione per Covid, vaccini e dispositivi di protezione è stata messa su da Arcuri e Borrelli. A questo punto saremmo bastati anche io e lei senza scomodare Draghi.

Ferdinando Corvino

 

Figliuolo, l’Afghanistan adesso fa curriculum

La nomina monocratica del generale Figliuolo a commissario per i vaccini al posto di Arcuri mi ha destabilizzato. Leggendo Massimo Fini non avrei mai pensato che la missione in Afghanistan potesse fare curriculum.

Wakan Tanka

 

Il leghista Garavaglia dovrebbe dimettersi

È inaccettabile che il ministro Garavaglia al momento della nomina esponesse sulla sua pagina la scritta “prima il Nord”. Quel ministro deve essere “dimissionato”. Spenderà i soldi per il turismo al massimo fino a Bologna?

Gianfranco Taranto

 

C’è un virus “trojan” nel Partito democratico

A mio avviso i vari Marcucci, Delrio e Nardella sono, nel Pd, l’equivalente di un virus Trojan horse in un computer. Perché la maggioranza non se ne sbarazza lasciando che tornino dall’adulatore dell’autoritarismo saudita?

Alessandro Carminati

 

Sento sempre parlare di ex renziani nel Pd, ma penso che questi ex non sono altro che pedine lasciate dall’innominabile per poter controllare lo stesso Pd.

Angelo Strizzi

 

Se la vicenda MbS è solo roba da Fatto Quotidiano

Scrivo per una pagina di informazione politica. Sabato 27 sono uscito con un pezzo dal titolo “Khashoggi è stato ucciso su autorizzazione di MbS: ConfeRenzi che farà adesso?”, ma uno dei fondatori della pagina lo ha considerato fazioso: “Andrebbe bene per Il Fatto Quotidiano, non per una pagina di informazione imparziale”. Per quanto mi riguarda, essere paragonato al Fatto è una medaglia al valore. Alla fine io son rimasto sulle mie posizioni, il titolo non è stato cambiato.

Niccolò Morelli

 

Bisognerebbe ricordarsi di chi voleva aprire tutto

Vi chiedo cortesemente di ripubblicare, a futura memoria, la foto dell’idiota che, pochi giorni or sono, voleva riaprire bar e ristoranti anche la sera, “in tutta sicurezza”.

Lucio Cestaro

 

Il ministro Bianchi fa più paura del Covid

Ho avuto modo di ascoltare l’intervista del nuovo ministro della Pubblica istruzione Bianchi a Radio Anch’io. A parte i sorprendenti limiti comunicativi, non si è capita né l’analisi né la sostanza del suo intervento. E questo sarebbe un Super Ministro scelto da Draghi. Che paura! La scuola dovrebbe temerlo più della pandemia.

Marzio Azzoni

 

I conflitti d’interessi di Radio Radicale

Il Romeo interprete della rassegna stampa di Radio Radicale è dirigente di Tele San Marino, del gruppo Rai. Vedo un conflitto d’interesse, vista l’analoga rassegna di Radio3 o la strutturale emarginazione di Rai Parlamento che è l’alibi perfetto per la dazione perenne a Radio Radicale.

Giovanni Boccedi

 

Grazie a Pontani per l’analisi sul governo

Scrivo per complimentarmi con Filippomaria Pontani che ha scritto un articolo da condividere ed esporre per quanto lucido e terribile, ma anche ironico e coltissimo. Per fortuna ci sono ancora persone che ci possono trasmettere emozioni e forza. Grazie.

Beatrice Giuliani

 

Ho letto lo strepitoso articolo di Filippomaria Pontani dal titolo “La sciagura dell’uomo divino”. Condivido in pieno la sua analisi pacata e colta. Grazie per la possibilità di leggere simili interventi anche se mi causano, non certo per colpa del prof. Pontani, una leggera depressione.

Roberto Talamini

 

Grazie al professor Pontani per la sua bellissima lettera a Draghi. Era tanto che non leggevo un pezzo così interessante e pieno di alti contenuti, tagliente con intelligenza non di parte, ma dalla parte di tutti noi.

Rosanna Fiorelli

Vaccini. Come i caregiver, le badanti dovrebbero essere in cima alla lista

 

È finalmente iniziata in Toscana la vaccinazione degli over 80 dopo quelle già eseguite di molti soggetti a rischio. Però a tutt’oggi tra questi soggetti non sono comprese le badanti, che hanno una funzione importante e capillare proprio per la loro assistenza anche notturna alle persone fragili. Perché finora non sono state neppure menzionate?

Nicodemo Settembrini

 

Gentile Nicodemo, il problema che lei pone è già stato sollevato in più occasioni dall’associazione Domina, che riunisce le famiglie datori di lavoro domestico. Una prima volta lo scorso mese di dicembre, in vista del V-Day, che ha dato il via in Europa alla campagna vaccinale contro il Covid. L’ultima volta proprio in questi giorni. Lorenzo Gasparrini, segretario generale di Domina, ha parlato di vera discriminazione, ricordando che tra coloro che hanno diritto in via prioritaria alla vaccinazione ci sono gli operatori delle case di riposo e i “caregiver”, cioè i familiari che prestano assistenza agli anziani, ma non le badanti e i badanti. Una scelta che in effetti appare incomprensibile, visto che hanno le stesse mansioni: si occupano della cura di persone non autosufficienti, per la maggior parte anziani, anche 24 ore su 24. Il problema riguarda soprattutto le Regioni del Nord e del Centro. È qui, infatti, che si concentra il maggior numero di badanti regolari, che a livello nazionale sono 407 mila. Numeri che tra l’altro sono in continua crescita e ai quali vanno aggiunti quelli relativi alle richieste di regolarizzazione presentate in occasione della sanatoria 2020. Solo in Lombardia si contano oltre 63 mila badanti, più di 45 mila in Emilia-Romagna e quasi 42 mila in Toscana. Giustamente l’associazione rileva che tutto ruota intorno al tema della sicurezza. E che, senza la vaccinazione di chi li assiste, i primi a rimetterci potrebbero essere proprio gli anziani. Tanto che analoghi appelli sono stati fatti anche da altre associazioni europee, che hanno chiesto di inserire questa categoria tra le prioritarie. C’è poi un’altra questione. Riguarda le lavoratrici che assistono i bambini non autosufficienti, come quelli affetti da autismo. Bambini con i quali sovente le misure di sicurezza, come il distanziamento, sono praticamente impossibili da rispettare.

Natascia Ronchetti