Il destino di Bersani: ottenere la ragione quando ormai è tardi

Immaginate di dover fare una cena con un politico per piacere personale. Niente lavoro, niente doveri: una cena tra amici, o tra persone che vorrebbero divenire tali. A quanti nomi arrivereste tra i parlamentari italiani? Io faticherei a giungere a 5. Probabilmente anche meno. Di sicuro, tra quei cinque, inserirei Pierluigi Bersani. Probabilmente al primo posto. Mi è sempre sembrata una brava persona. E del resto era uno dei preferiti di Edmondo Berselli, uno che non sbagliava mai (o se sbagliava lo faceva apposta: per vedere l’effetto che fa). Oltre alla piacevolezza dell’uomo, Bersani capisce come pochi di musica. È un politico serio. Ed è uno che, non avendo più ruoli di primo piano, è oggi più libero di prima quando si lascia intervistare. Non fa parte di un partito che macina consensi, ma è amato dai salotti televisivi perché garantisce schiettezza e ascolti. Binomio rarissimo, ancor più tra le carampane contemporanee. A volte mi chiedo se, tra il 2012 e il 2013, io come questo giornale siamo stati troppo critici nei confronti di Bersani. È possibile, anche se quel Bersani era diverso da questo e – soprattutto – eravamo diversi noi. Era proprio diverso il contesto.

Bersani ripete spesso che i 5 Stelle hanno detto “sì” a tutti tranne che a lui, ed è vero. Come è vero che, dopo quello streaming imbarazzante, Lombardi e Crimi avrebbero dovuto abbandonare in eterno la politica (invece no, e il secondo fa addirittura finta di essere leader). Ma è anche vero che, nel 2013, dopo avere “non vinto” le elezioni per una serie di eventi ed errori, Bersani non chiese ai 5 Stelle di fare un governo insieme bensì un mero appoggio esterno. Opzione irricevibile, per il M5S di allora. Sia come sia, da anni Bersani è per distacco uno dei politici più condivisibili e intellettualmente onesti del circondario. Ha lanciato Speranza, uno dei ministri che più riscontra i favori delle persone (Salvini e Meloni a parte, ma loro non fanno testo). Si batte come nessuno per quel “campo progressista”. Ed è uno dei pochi che, a sinistra, ha il coraggio di sottolineare l’atteggiamento scriteriato di troppi giornaloni e pseudo-pensatori sinistrorsi, gli stessi che per mesi hanno invocato Draghi e ora già se ne lamentano (senza però ammetterlo, perché intellettualmente disonesti come nessuno).

Giovedì scorso, a Piazzapulita, Bersani ha fatto garbatamente scempio dell’ennesimo polletto di allevamento del quasi-giornalismo nostrano. Il tipetto, di cui non farò il nome perché né io né voi abbiamo tempo da perdere, era armato di quel consueto livore madido (mal) travestito da rispetto istituzionale. Egli inveiva dunque su Bersani, reo di avere accettato tutto da Conte, notoriamente il Padre di ogni Male secondo i “sinistrati per Salvini”. Bersani, con fermezza rara, ha rovesciato in un amen l’assioma: “Non sono io a dover spiegare la mia difesa di Conte, casomai siete voi giornalisti che dovreste spiegare perché lo avete sempre massacrato”. Il tipetto non lo ammetterà mai, e forse neanche se n’è accorto, ma non si vedeva una simile macellazione mediatica dai tempi di Madama Boschi ospite di Lilli Gruber qualche mese fa.

Non è dato sapere se il Pd del futuro vorrà somigliare di nuovo a Renzi o Bersani. Tenendo conto che è popolato da troppi Marcucci e dunque le sbaglia tutte, temo la prima.

Pazienza: vorrà dire che Bersani continuerà a predicare nel deserto. Per poi sentirsi dire, quando ovviamente sarà troppo tardi, che aveva ragione lui.

 

Da Renzi alla grande stampa la crociata anti-Conte fa flop

Cominciamo con una frase fatta: non mi meraviglio più di niente. Nemmeno se, nel Messaggero del 3 marzo si legge: “L’assenza di Mario Draghi nella conferenza stampa di ieri sera (cioè del 2 marzo, ndr) è un segno di rispetto istituzionale, di una concezione non personalistica della cosa pubblica, di una cultura finalmente allergica alla comunicazione emozionale. (…) Non c’è bisogno dell’auto-celebrazione a reti unificate in occasioni simili”.

Fin troppo facile rispondere che, se a non presentarsi fosse stato Conte, si sarebbe detto che non ci metteva la faccia. Ma no, vediamo meglio qual è lo scopo di questa narrazione di Conte piacione, Conte che con Casalino organizzava show notturni dopo aver messo insieme in qualche magazzino o sottoscala, pure di notte, decreti tirannici. Come se a quegli appuntamenti a tarda ora non si arrivasse invece dopo snervanti consigli di ministri in cui era lui che doveva mettere d’accordo una compagine tutt’altro che concorde (per dirla in modi eleganti),

Un giorno forse si capirà meglio questo accanimento della “grande stampa” (duramente rimproverato su La7, a Piazza Pulita, da un Bersani civilmente indignato a De Angelis di Huffington e a tutta la categoria). Forse c’è dell’altro, forse non possiamo continuare a ripeterci che Conte dava fastidio ai poteri forti. Bisognerà scoprire anche perché invece ai suoi rivali, e soprattutto ai due Mattei, si perdona molto.

Sul fronte internazionale si glissa sui movimenti sospetti della Lega in Russia (Salvini) e sulla collaborazione con una dinastia araba condannata dall’Onu (che ha definito quella saudita “una parodia della giustizia”) e smascherata dalla Cia (Renzi); sul fronte interno non si condannano gli stolidi lamenti di Salvini sulle Pasque negate, per non dire delle ammucchiate della scorsa estate, né si commenta l’indecente maniera in cui Renzi ha fatto cadere un governo (vantandosene poi come un bambinone maligno), facendo perdere un mese di tempo al Parlamento, e fingendo poi di essere lui (vaccinare vaccinare vaccinare) a orientare il governo attuale.

Fra l’altro può correre su due binari: Iv (già fatto) e Pd (ancora pieno di suoi fedelissimi, come quelli che, anch’essi indecentemente, hanno indotto alle dimissioni Zingaretti).

In attesa di capire, chissà quando, un po’ di più, una cosa è certa fin d’ora. A ben vedere, se il compito della grande stampa è quello di liberare quei poteri (che in qualche misura la posseggono) del “corpo estraneo” Conte, la grande stampa è incapace, non ci riesce. Lo “sconfitto” lascia Palazzo Chigi fra gli applausi, impazza sul web, perfino la sua lectio magistralis a Firenze è un successo sulla Rete. E il semplice annuncio che sarà lui a guidare il M5S (o quel che ne sarà) fa volare nei sondaggi quella lacerata compagnia: ben sei punti, quasi raggiungendo la Lega e surclassando il Pd. Quindi la gente non legge certi giornali, oppure li legge ma non tiene conto di quello che dicono.

Riassumendo: l’esecutore materiale, sempre più Innominabile, ha fatto cadere il Governo Conte-2; i mandanti restano nell’ombra (se no che poteri “occulti” sarebbero?); gli intermediari (la grande stampa) falliscono e subiscono il ritorno dell’Avvocato del Popolo. Un bel flop, che stavolta condanna chi ironizza e martella sui flop altrui, veri o presunti.

 

Zingaretti ora dimostri se è una resa o una sfida

Umanamente è difficile non provare una istintiva simpatia per Zingaretti. Una persona per bene che non ne poteva più delle trame ordite da capi e capetti del suo partito. Il giudizio politico è più articolato. Sulle sue clamorose dimissioni e sulle parole come pietre con cui le ha motivate, il giudizio va sospeso. Dipende dagli sviluppi. Mi rifiuto di credere che egli non abbia pensato a come dare seguito al suo gesto.

Voglio sperare che non si faccia reinvestire plebiscitariamente dall’Assemblea del partito nel segno di un ipocrita unitarismo che non risolverebbe alcun problema e che derubricherebbe un trauma virtualmente salutare a una sceneggiata. Come, attraverso quali tappe lo si vedrà, ma, se le parole hanno un senso, egli dovrebbe impegnarsi in una battaglia per rifondare letteralmente un partito da lui giudicato inservibile. Le dimissioni rappresentano la confessione di una sconfitta, ma non in assoluto di un fallimento. Zingaretti prese le redini di un Pd isolato e al minimo del consenso e lo ha rimesso in partita. Tuttavia l’impresa si è rivelata al limite dell’impossibile. A comprenderlo bastino due esempi: gruppi parlamentari ancora di nomina renziana che non rispondono a lui e correntismo di mero potere (non correnti politicamente connotate e riconoscibili, fisiologiche in un partito geneticamente plurale).

All’atto del suo insediamento, Zingaretti commise un peccato di omissione che poi ha puntualmente pagato. Non doveva contentarsi della investitura delle “primarie”, ma pretendere un chiarimento di rango congressuale che elaborasse la discontinuità rispetto alla non breve stagione del renzismo. Non una stagione qualunque, ma un vero deragliamento dal solco dell’Ulivo e da una cultura di sinistra. Come testimonia l’approdo di Renzi a un centrismo contiguo a FI. La riconosciuta attitudine unitaria di Zingaretti, riscontrabile negli organigrammi del partito e dei gruppi, è stata virtù soggettiva, ma errore politico.

Le suddette ambiguità irrisolte hanno pesato ancora di recente dentro la crisi del Conte due, con la mezza sponda fornita all’azione corsara di Renzi, il cui potere di ricatto, manifestamente, poteva essere contrastato in un solo modo: tenendo il punto, cioè mettendo in conto – per davvero e non per finta – l’alternativa delle elezioni.

Per qualche giorno Zingaretti, Orlando e Franceschini lo hanno proclamato, ma poi hanno mollato. Consegnandosi così a chi voleva far fuori Conte e seminare divisione tra e dentro Pd e M5S.

Oggi si ha a che fare con il governo Draghi. D’accordo, da come si erano messe le cose, per il Pd era difficile negare il proprio sostegno. Ma c’è modo e modo di interpretare questo esecutivo e di starci dentro. Con lealtà, non svogliati, sta bene. Ma con un’avvertenza: che si tratta di governo di tregua cui ci si acconcia per senso di responsabilità, ma che in esso non si dispiega adeguatamente l’orizzonte ideale e programmatico di un partito di centrosinistra nitidamente alternativo alle destre. Anche nella convinzione, congeniale a un partito denominato “democratico”, che – per dirla con Zagrebelsky – la regola della democrazia è “dal basso”, non “dall’alto”, e che le democrazie sane per definizione si nutrono di una competizione tra offerte politiche alternative.

Dunque con un Pd impegnato a costruire, in un grande cantiere davvero nuovo, un campo di forze largo e plurale (Zingaretti esordì con la metafora “piazza grande”), a partire dalla maggioranza di governo che reggeva il governo Conte due. A modo suo e per la sua parte, mi pare anche il senso della “supplica” di Grillo.

L’opposto di chi oggi, nel Pd, sostiene che l’agenda Draghi coincide con l’agenda Pd. Al modo di quelli che ieri celebravano l’agenda Monti. In questo senso, ha ragione chi sostiene, ancorché sul versante opposto, che prima delle alleanze viene l’identità. Quella di una sinistra di governo ovvero quella di una subalternità al paradigma liberale e tecnocratico.

Zingaretti avrà la voglia e la determinazione di mettersi alla testa di una vera battaglia dentro un congresso rifondativo che semmai lui ora dovrebbe pretendere ravvicinato?

 

Quarant’anni fa la marcia dei quarantamila mascherati da Draghi

Sciopero di Genova. L’avvertimento di Confindustria ai portuali che difendono i loro stipendi: “I lavoratori ricordino che oggi il lavoro è un privilegio”. (FQ.it, 5 marzo)

Cosa fu la “marcia dei centomila Mario Draghi”. Il 14 ottobre del 2021 – quarant’anni fa – migliaia di impiegati, quadri e dirigenti industriali sfilarono per le vie di Roma con in faccia una maschera di Mario Draghi, e fu un fatto storico per vari motivi. Nel corteo, composto da più di centomila persone mascherate da Mario Draghi, c’era “l’altra faccia dell’Italia”, cioè i quadri e gli impiegati delle maggiori industrie italiane. Tra manifestanti che attraversarono silenziosamente la città si leggevano cartelli come “Vogliamo poter licenziare, non la morte dell’Italia”, e “No al sindacato padrone”. La “marcia dei centomila”, come sarebbe stata definita in seguito, diventò il simbolo di ciò che venne dopo quel 14 ottobre, cioè gli anni Venti della “restaurazione felice” e la progressiva scomparsa del sindacato dalle aziende. Dopo anni di crisi, la pandemia da Covid-19 aveva causato perdite economiche rilevanti a ogni attività economica. Il divieto di licenziare era scaduto il primo luglio, “salvo accordi sindacali”, e i sindacati si rifiutavano categoricamente di accettare le condizioni poste dalla Confindustria di Bonomi per superare la crisi: ridurre i salari, e licenziare a piacere. La frattura sembrava insanabile: l’11 settembre, le maggiori industrie italiane preannunciarono il licenziamento collettivo di quasi 20 mila lavoratori, in gran parte operai, e i sindacati proclamarono lo sciopero generale. Gli stabilimenti di Stellantis, Leonardo, Fincantieri, Eni, Sorgenia e di cento altre aziende furono chiusi, le produzioni bloccate e gli ingressi picchettati. La linea scelta dai sindacati era quella dello scontro frontale. L’intervento del Pd contribuì a polarizzare le due posizioni: il 26 settembre il segretario Mattia Santori andò davanti ai cancelli di uno stabilimento a Mirafiori dicendo che “se si arriverà all’occupazione degli stabilimenti di Stellantis, noi metteremo al servizio della classe operaia il nostro impegno politico, organizzativo e di idee”. Dopo tre giorni di risate da parte degli operai di Mirafiori (Santori non era Berlinguer, il Pd non era il Pci, e quello stabilimento era chiuso da due anni), Confindustria si mobilitò. Il corteo fu annunciato via Twitter: due settimane dopo, impiegati, quadri e dirigenti industriali di tutte le maggiori aziende italiane arrivarono a Roma, si radunarono in piazza Venezia e, indossate le maschere con le fattezze di Mario Draghi, iniziarono il corteo, che salì in lenta processione lungo via Nazionale fino a piazza della Repubblica, voltò a sinistra, scese a piazza Barberini, continuò giù per via del Tritone, e infine, fra gli applausi dei giornalisti del Messaggero, affacciati alle finestre, e di quelli del Tempo, assiepati sul terrazzo, arrivò davanti a palazzo Chigi, sede del Governo (da piazza Venezia a Chigi sarebbero 5 minuti a piedi, se prendi via del Corso, ma il tassista che gli indicò la strada aveva un fratello della Fiom). A fare da sfondo a quel che accadeva a Roma c’era il clima di depressione che da un anno e mezzo si viveva nelle città italiane a causa dei lockdown intermittenti. Landini, ospite da Maria De Filippi, fu sbertucciato da Cristiano Malgioglio: due giorni dopo, 20 mila lavoratori italiani venivano licenziati in tronco. Alle elezioni anticipate (aprile 2022) stravinse Giorgia Meloni, con i complimenti di Bannon, delle élite economico-finanziarie che reggono l’Occidente con la loro lungimiranza proverbiale, e di Renzi.

 

Panebianco, toccategli i vaccini, non i ladri

Angelo Panebianco vanta l’editoriale fisso sul Corriere della Sera. Dio solo sa perché. Ieri si è cimentato con il tema della differenza di vaccinazione tra Usa, Gran Bretagna e Israele da un lato ed Europa, segnatamente Italia, dall’altro. E ha dimostrato ancora una volta che a lui non la si fa, che ha lo sguardo più lungo. Il problema, infatti, è “la differenza culturale”, quelli sono “paesi pragmatici”, i nostri invece sono “giuridici” (avete letto bene); in Europa c’è “l’abbaglio populista” di considerare “lo Stato più efficiente delle imprese private” (avete letto bene). Ma soprattutto, continua, noi siamo pieni di “norme acchiappa-ladri” e sarebbe ora di chiedersi “se questa continua, affannosa, caccia al ladro serva a qualcosa” (avete letto bene).

Se pensavate che il problema fosse più facile, cioè che quei paesi i vaccini li producono (uno se li è andati a prendere con la forza) mentre l’Europa (colpevolmente) no, si capisce perché non insegnate all’università. Piuttosto, bisogna “garantire il diritto a guadagnare”, a fare profitti, eccolo il nocciolo del problema. “Garantire i profitti”, “non toccare i ladri”. In fondo ha un senso.

La Portasilenzi e la sedazione dei soffietti

So bene che tra le incombenze più fastidiose che funestano l’esistenza di un direttore di giornale ci sono le telefonate dei cosiddetti portavoce che a nome dei rispettivi datori di lavoro – premier, leader di partito, ministri e perfino sottosegretari – si dolgono per qualche titolo o articolo non particolarmente favorevoli. Può anche capitare che sia il papavero medesimo a farsi vivo, ma la solfa è sempre la stessa: siete dei diffamatori (mascalzoni, delinquenti, eccetera), voi ce l’avete con me (con la mia parte politica, la mia famiglia ecc). Non di rado alla rampogna si accompagna il riferimento a un eventuale mandante (in genere un rivale di partito) in modo da aggiungere al brodo il sospetto che la pubblicazione dello scritto faccia parte di un sordido complotto.

Pensiamo che con sgradevolezze del genere, Paola Ansuini, assai stimata portavoce (o meglio portasilenzi) di Mario Draghi a Palazzo Chigi non debba per sua fortuna misurarsi vista l’accoglienza ricevuta dal premier (a parte qualche rarissima, deplorevole eccezione). Potrebbe avere semmai il problema opposto, poiché un profluvio di sperticate lodi nel generare un profluvio di fiduciose attese può rischiare di determinare un analogo profluvio di speranze disattese. Ci auguriamo naturalmente che non sia così, ma considerata la mole e la drammaticità della crisi che Draghi è chiamato ad affrontare (e a risolvere sollecitamente) forse un po’ di acqua sul fuoco delle trepidanti attese non guasterebbe. Chi è più ferrato di noi sulla materia saprà spiegare le ragioni profonde che hanno determinato e alimentano sui giornali le celebrazioni dell’Avvento. Col trascorrere dei giorni, infatti, l’ansia di servitù volontaria e l’eccesso di salivazione congenita non bastano da soli a spiegare l’attesa miracolistica riguardo a tutto ciò che il premier non dice, o ancora non fa. Per cui, ieri, alla lettura sulla Stampa

di un passo evangelico di Massimo Recalcati dal titolo (che dice tutto): “Il draghismo e la legge del padre”, una certa fantasia sfrenata ci ha portato a immaginare la creazione di un’apposita figura di portavoce, dispensatore di bromuro e addetto alla sedazione dei soffietti. Con dialoghi del tipo: “Il presidente non gradisce che la sua persona venga ricoperta di parole come ascetismo, laboriosità, dedizione che sembrano glassa sulla torta, e che si parli di Legge del padre come se fosse dio. Sono espressioni che lo imbarazzano e che i suoi critici possono usare per dileggiarlo. Lui vuole essere giudicato esclusivamente sulle cose che fa”. “Ma…”. “Ma un corno, si contenga”.

Papà Draghi in fondo fa le veci di Berlinguer

• “Draghi poi è uno spettacolo di intelligenza e di talento, disse che ‘lo Stato sono io’ quando batteva moneta a Francoforte, è ‘elusivo’ (…), e dunque vive con la mascherina del carisma, non ha bisogno di parlare per adesso, manda avanti e fa giustamente i cazzi suoi con quelli di McKinsey”.

• Titolo: “Il draghismo e la legge del padre”. Svolgimento: “In un tempo traumatizzato dall’epidemia, di recessione economica e di profondo disagio sociale, di tensioni civili e di incertezza angosciata rispetto all’avvenire, era quasi inevitabile che si riesumasse una leadership in grado di riattivare la funzione orientativa del padre. In questo senso profondo Draghi si profila come un paradossale erede di Berlinguer”.

• “Andrea Agnelli ha concluso il suo intervento citando l’attuale premier Mario Draghi. ‘Se non ci muoviamo, rimarremo soli nella illusione di quello che siamo, nell’oblio di quel che siamo stati e nella negazione di quel che potremmo essere’”.

Giuliano Ferrara, Il Foglio

Eran 300, ma forse erano pochi: Draghi ne vuole 500

“Si rischia un “esercito di 300 tecnici che gestirà i soldi del Recovery Fund (Il Giornale).

Arriva “la carica dei 300” (Wired Italia). Addirittura “si fa strada l’ipotesi di nominare una sorta di direttore generale della struttura tecnica”. (Corriere della Sera). Erano questi i commenti lo scorso novembre alle indiscrezioni che riferivano di una squadra di 300 tecnici da assegnare alla gestione del Piano nazionale di ricostruzione e resilienza. Dai toni utilizzati sembrava quasi che si stesse organizzando un golpe dai contorni indefiniti, ovviamente dalla solita ciurma di avventurieri impazziti che allora governava il Paese.

Con l’audizione del ministro dell’Economia, Daniele Franco, scopriamo invece che i tecnici individuati dal nuovo governo non saranno 300, ma… molti di più. In un’anticipazione del Corriere della Serasi fa il numero di 500 e Franco, in Parlamento, ha specificato che almeno 50 saranno insediati al Mef, ma poi ogni ministero dovrà dotarsi di proprie strutture. La cifra di 500 quindi appare altamente probabile. E in generale il governo si incaricherà di un reclutamento straordinario, nell’ordine di migliaia di unità, affidandolo a quel ministro che nel 2010 ha congelato la Pubblica amministrazione cancellando il turn-over: Renato Brunetta. Potenza dei migliori e dei competenti.

In realtà, si va avanti a colpi di menzogne: come quella per cui chi si occupava di Recovery fino a un mese fa era un fesso e chi se ne occupa ora è talmente bravo che si può chiudere un occhio se scatta “l’aiutino” di McKinsey. Eppure, sempre a novembre, l’allora ministro per gli Affari europei Enzo Amendola, spiegava: “Tra gli elementi richiesti dalla Ue c’è la definizione di una struttura che garantisca l’immediata attuazione del Piano di ripresa e resilienza per evitare inutili e dannosi ritardi nel rilancio del Paese. Invieremo al Parlamento la proposta del governo così come abbiamo fatto, unici in Europa, per le linee guida del piano”. Poi ci si è bloccati, per una crisi motivata dalla voglia di mettere le mani sulla cassa. Non con 300 tecnici, con 500. Competenza d’abord.

Lo sciopero al Gse: fermo il call center dell’energia “verde”

In smart working con pc e connessioni proprie – senza rimborsi – pena la Cig a zero ore. Trattenute in busta paga su ferie e tredicesima, controlli a distanza: il call center del Gse (Gestore dei servizi energetici) – guidato da Almaviva – è entrato ieri nella sua seconda settimana di sciopero. Per adesso ad aiutare privati, società e Pubblica amministrazione con gli incentivi alle rinnovabili c’è un call center di riserva, ma non è la stessa cosa. I 72 dipendenti della sede di Roma sono quelli “infungibili” (ovvero insostituibili). Lo dice lo stesso Gse – società controllata dal Mef, ma sorvegliata dal nuovo ministero guidato da Roberto Cingolani – che amministra i miliardi di incentivi che arrivano dalle nostre bollette, voce oneri (circa il 21% del totale). Gli operatori seguono infatti “il core business” della società e non rispondono solo al telefono: gestiscono documenti, controllano la correttezza di quelli inviati, scrivono, ricevono mail e altro ancora.

Dopo mesi di lavoro da casa dovevano rientrare in sede il 3 marzo, ma oltre al resto adesso c’è anche la paura di contagiarsi con la terza ondata, pure nelle nuove postazioni a scacchiera dove però bisogna mangiare davanti al pc perché la mensa è chiusa, i bar più vicini a chilometri e il collega è dall’altra parte del tavolo. Lavorano per il Gse da un decennio, per anni persino all’interno delle sue strutture fisiche, rispondendo al personale della società. Il tutto – ovviamente – sempre in appalto, poi giudicato “illecito” dal tribunale di Roma. La cosa bizzarra è che solo una parte dei lavoratori ha vinto quando ha fatto ricorso venendo assorbita da Gse: la causa era stata divisa in due tronconi, ma gli atti e l’avvocato – Pierluigi Panici – erano gli stessi. Quelli che hanno perso (aspettano l’appello) sono stati assunti da Almaviva, regina dei call center pubblici, che nel 2016 vinse la gara Gse per la sede di Roma, la stessa che – sosteneva proprio quell’anno l’azienda per giustificare il licenziamento, poi avvenuto, di 1.666 addetti – avrebbe dovuto essere chiusa.

Una chiusura c’è stata, ma per il Covid, a marzo 2020. E vari tentativi per modificare la tipologia contrattuale (hanno resistito mantenendo quello dei metalmeccanici, motivo per cui è intervenuta anche la Fiom). Quindi le trattenute, lo smart working con spese e mezzi a carico dei dipendenti: si cerca forse quella “moderazione della crescita salariale” di cui parla un documento di Almaviva sul bilancio 2019che – sia detto en passant -riporta nel contempo un aumento dei ricavi del settore IT (cioè quello dei call center) negli ultimi cinque anni, specialmente per la P.A. Insomma, stipendi più bassi, taglie tutta la “moderazione salariale” a cui oggi si tenta di rispondere con lo sciopero.

E qui torniamo al Gse e alle rinnovabili: alla transizione ecologica, secondo il regolamento Ue del Recovery Plan, si dovranno assegnare almeno il 37% delle risorse (che per l’Italia significa oltre 70 miliardi). Alla persona che risponde quando chiami per gli incentivi all’energia “verde” l’anno scorso hanno tagliato duemila euro di stipendio.

I Paesi ricchi dell’Ocse fanno le regole, poi le eludono di più

È un atto d’accusa che punta dritto al cuore dell’Ocse. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico è l’istituzione internazionale che finora ha scritto le regole più importanti sulla tassazione delle multinazionali a livello globale, le norme che dovrebbero impedire l’utilizzo di trucchi e sotterfugi vari attraverso cui eludere il fisco. Ma i numeri dicono che le cose così non funzionano: alcuni dei Paesi membri dell’Ocse sono infatti i più attivi nel concedere alle grandi aziende di usare questi stratagemmi per pagare meno imposte possibili. Insomma, alla base delle pratiche elusive che ogni anno permettono alle multinazionali di privare i vari Paesi del mondo di 245 miliardi di dollari (circa 200 miliardi di euro) c’è un problema semplice: chi scrive le regole non ha alcun interesse a cambiarle. Basti dire che fra i 37 membri dell’Ocse ci sono l’Irlanda, il Lussemburgo, l’Olanda, la Svizzera, il Regno Unito: nazioni che sugli incentivi fiscali ai colossi del commercio mondiale hanno costruito la loro fortuna.

È questo il messaggio principale contenuto nel nuovo Corporate Tax Heaven Index, la classifica stilata ogni due anni dall’associazione internazionale Tax Justice Network per fare il punto sui paradisi fiscali nel mondo. Uno studio che Il Fatto ha potuto leggere in anteprima.

Che sul banco degli imputati ci sia l’Ocse si capisce, oltre che dai commenti espliciti dei responsabili del rapporto, dai primi sei posti della classifica compilata dall’organizzazione presieduta dal britannico John Christensen, ex consulente finanziario di multinazionali a caccia di sconti fiscali nelle più disparate piazze offshore del mondo, da quasi un ventennio passato a combattere contro i suoi ex datori di lavoro. Sul podio ci sono infatti Isole Vergini Britanniche, Cayman e Bermuda: tre paradisi esotici dove ancora oggi il potere di decidere sulla legislazione è in mano al governo di Londra. Poco sotto si piazzano altri tre membri dell’Ocse: Olanda, Svizzera e Lussemburgo. Il risultato finale, secondo i calcoli dell’associazione formata da accademici e attivisti, è che dei 245 miliardi di dollari persi ogni anno nel mondo a causa dell’elusione fiscale, 166 miliardi dipendono dai Paesi Ocse: esattamente il 68,3 per cento o, per dirla in altri termini, l’equivalente dello stipendio medio annuale necessario per pagare 26 milioni di infermiere nelle nazioni più sviluppate. “Alla luce di questi risultati, fidarsi dell’Ocse è come dare in mano a un branco di lupi la costruzione del recinto attorno al nostro pollaio”, è la similitudine usata da Dereje Alemayehu, coordinatore della Alleanza Globale per la Giustizia Fiscale (di cui fa parte Tax Justice Network), secondo cui ora più che mai è necessario affidare il compito di scrivere nuove regole all’Onu, che di Paesi membri non ne ha 37 ma ben 193, compresi molti di quelli che subiscono inermi da decenni le pratiche fiscali adottate dalle multinazionali. “Solo una convenzione fiscale delle Nazioni Unite può garantire che le norme globali in materia di tassazione delle società siano realmente democratiche”, è il parere di Alemayehu.

In tutto questo anche l’Italia paga il conto. Secondo i calcoli di Tax Justice, a causa dei paradisi fiscali, Roma ogni anno perde 10,3 miliardi di euro: vale a dire il 2% del gettito fiscale effettivamente raccolto e il 9% della spesa pubblica sanitaria. Il calcolo è frutto di due fattori. Da una parte c’è l’evasione fiscale dei singoli cittadini che spostano in altre nazioni circa 2,9 miliardi di euro. Dall’altra parte c’è l’elusione delle multinazionali, che trasferendo altrove profitti generati sul territorio italiano riescono a risparmiare 7,3 miliardi di euro. Chi sono i Paesi che ci danneggiano maggiormente? Belgio, Cipro, Irlanda, Lussemburgo, Olanda e Malta: tutti membri dell’Unione europea. C’è però anche l’altro lato della medaglia. Dice infatti Tax Justice Network che l’Italia, grazie ad alcuni vantaggi concessi alle aziende – come patent box e tax ruling – sottrae alle altre nazioni 3,6 miliardi di euro ogni anno. Segno che il problema è globale e può essere risolto solo con un accordo internazionale. Per questo Tax Justice Italia, diramazione nostrana del network, crede che sia necessario “introdurre un’imposizione effettiva minima globale sui redditi delle imprese, Paese per Paese, sul modello americano e con un’aliquota non inferiore al 21%, per assicurarsi che le multinazionali siano tassate in tutti i Paesi in cui operano”.