Draghi: “Presto nuove strette”. Ue: no all’export AstraZeneca

“Un anno fa, tutta l’Italia diventava zona rossa, oggi fronteggiamo un’emergenza analoga”. Ritorna a parlare in pubblico il premier Mario Draghi preannunciando una nuova drastica stretta per contenere il dilagare dell’epidemia. Mentre la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen attacca Astrazeneca: “Hanno consegnato solo il 10% di quanto pattuito”.

L’aumento quotidiano dei nuovi casi e dei pazienti in ospedale con le terapie intensive di nuovo sotto grande pressione ricacciano l’Italia, con la terza ondata, al terrore di un anno fa proprio nei giorni dell’anniversario dell’inizio dell’incubo pandemico.

Il presidente del Consiglio Mario Draghi ritorna a parlare in pubblico, dopo la presenza in Parlamento per il voto di fiducia, a una conferenza per l’8 marzo sulla parità di genere: “Il 10 marzo di un anno fa l’Italia si chiudeva diventando, per la prima volta, una grande zona rossa. Un nostro concittadino su venti è stato contagiato, secondo i dati ufficiali che, come è noto, sottostimano la diffusione del virus. Mai avremmo pensato che un anno dopo ci saremmo trovati a fronteggiare un’emergenza analoga e che il conto ufficiale delle vittime si sarebbe avvicinato alla terribile soglia dei centomila morti. Ci troviamo tutti di fronte, in questi giorni, a un nuovo peggioramento dell’emergenza sanitaria. Ognuno deve fare la propria parte nel contenere la diffusione del virus. Ma soprattutto il governo deve fare la sua. Anzi deve cercare ogni giorno di fare di più. La pandemia non è ancora sconfitta, ma si intravede, con l’accelerazione del piano dei vaccini, una via d’uscita non lontana. Nel piano di vaccinazioni, che nei prossimi giorni sarà decisamente potenziato, si privilegeranno le persone più fragili e le categorie a rischio”. E sempre ieri Draghi ha incontrato i ministri della Salute e per gli Affari regionali, Roberto Speranza e Mariastella Gelmini, il commissario Figliuolo, il capo della Protezione civile Curcio e l’ad di Poste Del Fante proprio per discutere dell’implementazione del piano vaccini nel giorno in cui all’hub di Pratica di Mare sono arrivate 684mila dosi di Astrazeneca. E la presidente della commissione Ue Von der Leyen ieri ha perso la pazienza proprio con Astrazeneca: “Ha consegnato all’Unione meno del 10% dell’importo di dosi ordinate nel periodo da dicembre a marzo”, annunciando lo stop forzato all’export fino al rispetto dei patti. Mentre a Roma dal ministero della Salute arriva il disco verde per la somministrazione sempre del vaccino di Oxford Astrazeneca anche agli over 65 escludendo solo gli estremamente vulnerabili per particolari patologie. Intanto la cartina delle regioni si colora sempre più di rosso a causa delle varianti del virus che spingono verso l’alto la curva dei contagi e riportano in sofferenza gli ospedali, con le terapie intensive di undici regioni già sopra la soglia critica del 30%. Chiusure e restrizioni decise dai governatori potrebbero anticipare un nuovo intervento del governo a livello nazionale già entro la fine della settimana: le ipotesi vanno dall’anticipo del coprifuoco notturno, che ora scatta dalle 22 fino alle 5, fino ad una stretta sul modello di Natale, una chiusura totale nei weekend, mentre c’è tensione all’interno della stessa maggioranza sulla misura più drastica, il lockdown nazionale e generalizzato. A poco più di un anno dalla morte di Adriano Trevisan, il 78enne di Vò Euganeo che sarà ricordato per sempre come la prima vittima del Covid nel nostro Paese, l’Italia supera la soglia simbolica dei 100 mila morti: le vittime per il coronavirus sono 34 volte quelle del terremoto dell’Irpinia, 50 volte quelle del Vajont, 300 volte quelle de L’Aquila. Le 318 vittime nelle ultime 24 ore portano infatti il totale a 100.103.

Conte, il piano per la segreteria senza i soliti big

L’avvocato che si è fatto rifondatore vuole e deve riscrivere regole e struttura dei Cinque Stelle. E visto che c’è, intende anche rinfrescare le gerarchie. Perché Giuseppe Conte ha quell’idea, una segreteria di sua fiducia con volti (sostanzialmente) nuovi, insomma non inzeppata dei soliti big. E a suggerirgliela, dicono, è stato Beppe Grillo. D’altronde proprio con il Garante, come rivelato dal Fatto, domenica scorsa Conte ha discusso del futuro prossimo del Movimento, facendogli visita nella sua villa a Marina di Bibbona in Toscana. In riva al mare, hanno fatto il punto. E l’avvocato se lo è sentito ripetere dal Garante: “Giuseppe, dobbiamo puntare su facce nuove”. Un concetto che Grillo ha ripetuto anche ia diversi 5Stelle. Vuole una segreteria o direzione con 5Stelle finora non in primo piano, il fondatore, anche per tranquilizzare il corpaccione parlamentare. Ieri l’Adnkronos ha scritto che Conte valuterebbe di coinvolgere anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi, ma per ora non ci sono conferme. Di sicuro però Raggi è popolarissima nella base, e di questi tempi è merce rara per il M5S. Ma ha anche molti avversari di vecchia data tra i big. Prima che Conte arrivasse a caricarsi il Movimento in crisi di identità, la sindaca era pronta a candidarsi per l’organo collegiale, anche per blindare la sua ricandidatura. Ma ora tutto il Movimento, a partire da Grillo, ha confermato che a correre per il Campidoglio sarà ancora lei. E allora in questi giorni la sindaca starà a osservare i passi dell’ex premier. Pronta anche a prendere in esame la proposta di un ruolo, sostengono fonti del M5S.

Nell’attesa, Conte e Grillo hanno altri problemi da affrontare. E il primo è sempre lui, Davide Casaleggio, che domani presenterà il suo manifesto, “Controvento”. con “i principi e i valori del modello Rousseau”. Un testo per sottolineare l’importanza e il ruolo della piattaforma web, “di cui è necessario definire, pubblicamente e definitivamente, lo spazio di azione” come scrive l’associazione Rousseau, ossia Casaleggio. Che in particolare sostiene: “Rousseau non è uno strumento o un media da utilizzare per il voto, ma rappresenta una architettura digitale della partecipazione, che conferisce il potere decisionale ai cittadini permettendo loro un attivo esercizio dei diritti di cittadinanza digitale”. Tradotto, come spiega un parlamentare in buoni rapporti con la casa madre di Milano, “Davide si lamenta perché la piattaforma viene usata solo per qualche voto di ratifica, mentre dovrebbe essere il luogo delle assemblee e del confronto interno”. Ma il manifesto a tanti grillini è suonato come una prova tecnica di scissione. E non è piaciuto nè a Conte nè a Grillo. Tanto che il Garante, a un parlamentare che gli aveva inoltrato il post di presentazione, ha risposto con una battuta delle sue: “Non pisciare controvento”. Ma al di là del sarcasmo Grillo e l’ex premier cercano ancora una mediazione con Casaleggio. E nel caso del Garante c’entra moltissimo il suo rapporto con il padre del manager, Gianroberto.

Ma a pesare è anche una ragione molto più prosaica. Perché giuridicamente separarsi in modo totale e definitivo da Rousseau, come pure chiedono molti parlamentari, appare rischioso. “L’attuale Statuto conferisce alla piattaforma un ruolo centrale, e poi Casaleggio detiene i dati degli iscritti” ricorda una fonte di peso. Certo, Conte sta lavorando a una nuova normativa, e si sta ragionando su un ritorno all’associazione del 2012, quella fondata a Genova da Grillo con suo nipote Enrico e il suo commercialista, Enrico Maria Nadasi. Ma strappare con Milano, senza almeno arrivare a un contratto di servizio che renda Casaleggio un fornitore esterno, porterebbe a una guerra in tribunale dai confini e dagli esiti incerti. Così si cerca ancora un punto di caduta. Perché di guai il M5S ne ha già abbastanza.

“Con il governo Draghi la democrazia a rischio”

“Una valutazione sul modo in cui il governo Draghi è nato ed è stato accreditato presso l’opinione pubblica italiana crediamo sia necessaria, se non altro per alcune legittime preoccupazioni che esso reca con sé.

(…) Il secondo governo Conte è stato oggetto di un’imboscata frutto dell’alleanza di Renzi con la Lega e FI, puntualmente tornati al potere. Che questo scardinamento dell’alleanza tra Pd e M5S sia stato possibile dimostra la debolezza strutturale del Pd, confermata dalle improvvise dimissioni del segretario Zingaretti, che ha aperto una crisi che complica ancora di più il quadro politico. E questo non può che allarmare chiunque mantenga un orientamento politico progressista.

Ancor più grave è che la scelta di chiamare Draghi al vertice di governo ha avuto il sapore di una radicale delegittimazione del ceto politico italiano, nella sua totalità. (…) Un altro motivo di preoccupazione democratica è che questo governo operi in quasi totale assenza di una opposizione parlamentare.

(…) In questo quadro, impressiona e inquieta osservare come anche gli organi di informazione sono nella loro quasi totalità impegnati a magnificare l’avvento del governo Draghi, come fosse un’ancora di salvezza a fronte dell’acclarata incapacità ‘della politica’ di affrontare efficacemente i problemi del Paese. (…) Si vuole mettere in guardia dall’imporsi di una cultura che, dando per scontata l’insipienza dei politici, si affida acriticamente a ‘uomini della Provvidenza’, prescelti dall’alto anziché mediante il meccanismo elettorale dettato dalla nostra Costituzione.

(…) Dietro la modalità di formazione del governo Draghi e la grancassa mediatica che lo ha invocato si intravede il rischio di altri ‘uomini forti’, spinti dal cinismo e dalla volontà di comando, anziché da competenza e spirito di servizio. E magari la riproposizione, questa volta unanime, di ‘riforme’ costituzionali intese a legittimare un sistema di potere ‘che promana dall’alto’ e non tollera opposizioni. In tempi eccezionali, proprio l’emergenza potrebbe essere strumentalizzata per consolidare politiche nel segno di un aggravamento dell’ingiustizia sociale, di una sistemazione oligarchica delle forme democratiche, di un ridimensionamento della funzione del pubblico, persino di un ‘ripensamento’ del radicamento antifascista della nostra Repubblica.

Noi di Libertà e Giustizia denunciamo con forza questa deriva della cultura politica del nostro Paese e i rischi derivanti dal contemporaneo operare di una situazione di emergenza sanitaria ed economica e della debolezza dei partiti di centro-sinistra, e chiediamo a questi partiti di vigilare e tutelare i fondamenti costituzionali del nostro sistema democratico. A noi e a tutti i cittadini italiani tocca l’esercizio della responsabilità culturale e politica, come sempre e tanto più in questo periodo così particolare”.

La versione integrale dell’appello si può leggere e firmare a questo link: libertaegiustizia.it/2021/03/05/lattesa-messianica/

 

Sandra bonsanti, Gustavo Zagrebelsky, Lorenza Carlassare, Paul Ginsborg, Nadia Urbinati, Sergio Labate, Elisabetta Rubini, Fabrizio Tonello

Bettini spinge Zinga a rompere: nuovo partito con la Ditta dentro

Nicola Zingaretti sta portando avanti una serie di colloqui approfonditi con gli esponenti di quel Pd di cui ha detto di “vergognarsi”. Si trova davanti all’ennesimo bivio. Che determinerà non solo il suo futuro, ma quello del partito che si è trovato a guidare dopo Renzi, quell’operazione politica nata 14 anni fa, perennemente alla ricerca di se stessa, tra correnti in lotta tra loro e segretari divorati uno dopo l’altro.

Goffredo Bettini lo spinge a una scelta di rottura: presentare all’assemblea di questo fine settimana, che deve eleggere un segretario che arrivi al congresso, non un candidato unitario, ma uno di rottura. Un modo per sfidare la minoranza di Base Riformista, per iniziare a spingerla alla porta, nel nome di quel partito nuovo che dovrebbe parlare al popolo della sinistra senza una casa, riportare dentro gli ex “compagni” di Leu, appoggiarsi su fenomeni più o meno effimeri, più o meno spontanei, come le Sardine, che anche grazie alla regia del demiurgo Bettini si sono mobilitate in questi giorni davanti al Nazareno.

Quel partito, Speranza l’ha evocato in un’intervista domenica al Corriere della Sera (“Quello che c’è oggi non basta e quello che serve ancora non c’è”). Al progetto, Bettini sta lavorando sempre più alacramente, in un dialogo niente affatto sporadico con Massimo D’Alema. Zingaretti non è sulla stessa linea, ma concorda con il fatto che il Pd così com’è non basta più. Lo ha detto ieri chiaro e tondo Beppe Fioroni, un veterano tra gli architetti di nuovi equilibri: “È legittimo che qualcuno pensi di fare del Pd non un partito di centrosinistra, ma il partito della sinistra. Intorno a questo bivio si gioca la vera partita”.

Al netto della fatica personale e del carico emotivo, la scelta Zingaretti di dimettersi si carica così di ulteriori significati: è stata anche un modo per togliere un tappo, per far sì che i problemi esplodessero. Non è casuale che uno dei primi con cui il segretario dimissionario abbia parlato sia stato Giuseppe Conte. Nella ricomposizione del quadro, è essenziale che riesca l’operazione per cui va a guidare il M5S nel nome del green e dell’ambiente.

Il progetto di Franceschini però è esattamente opposto: il tradizionale ago della bilancia dem (senza di lui la maggioranza non ha i voti in Assemblea) vorrebbe mantenere questo equilibrio. Il tentativo è quello di spingere “Nicola” non a ripensarci (ipotesi remota) ma a ricandidarsi al prossimo congresso. Strada su cui potrebbe convergere anche Bettini, ma dalla sua prospettiva.

Nel frattempo, però, il gioco della politica si esercita su un grande classico: la scelta del segretario. Che pure in questo schema non è affatto secondario. Per la “rottura” serve una figura radicale. Al top delle quotazioni ci sono Anna Finocchiaro, “madre nobile”, provenienza Pci e Peppe Provenzano, il più spostato a sinistra della filiera di comando dei dem. Entrambi però sono molto vicini ad Andrea Orlando.

Handicap prima ancora che per Franceschini, per Zingaretti, che considera il suo vicesegretario colpevole di troppi mali per la sua ambizione di andare al governo. E allora, tutto sommato non gli dispiace Roberta Pinotti, che però appare una figura unitaria, di mediazione, che potrebbe convincere anche la minoranza. Sarebbe la fine dell’idea di rompere l’asse Franceschini-Guerini e collocare definitivamente il baricentro del Pd a sinistra.

Ma in fondo, l’assemblea è sabato, la ricerca dell’uomo o della donna giusti non è ancora finita. Domani Zinga dovrebbe tirare qualche conclusione. Dentro Base Riformista, la corrente di Luca Lotti e Lorenzo Guerini, sono piuttosto convinti che vogliano cacciarli. Per ora hanno detto che a loro va bene tutto. Ammesso che il congresso si faccia subito dopo le Amministrative. Cioè prima dell’elezione del presidente della Repubblica. Sulla data, c’è un altro scontro in atto. Non è da escludere che per eccesso di complotti con dubbi risultati, si arrivi a una figura di vera transizione. Della serie, meglio rimandare.

Covid, ma non solo: bloccate 350 mila assunzioni nella PA

Di due cose questo giornale si è occupato decine di volte: l’inaudito potere nei ministeri e nei grandi enti pubblici delle società di consulenza, la distruzione della Pubblica amministrazione avviata da tre decenni e pienamente realizzata nell’ultimo col blocco del turn over (la sostituzione di chi va in pensione). I recenti contrattini per McKinsey, Ernst&Young, Accenture & C. per confezionare il Recovery Plan – che in fase di “execution”, come dicono loro, diventeranno contrattoni – sono oggi necessari perché la macchina pubblica è stata smontata pezzo a pezzo. E il passato, com’è noto, non è che il prologo: al momento è impossibile che la P.A. nei suoi vari livelli riesca a gestire non i progetti del Recovery Plan, ma l’ordinaria amministrazione. Il motivo? È in un numero: oggi, tra problemi atavici e norme anti-Covid, si stima sia bloccata l’assunzione di 300-400mila lavoratori in tutti i settori dello Stato.

Oggi il ministro Renato Brunetta spiegherà al Parlamento come assumere i tecnici di alto livello che servono al collega Daniele Franco per il piano europeo di ripresa, ma soluzioni per l’intera macchina non ce ne sono. Una recente ricerca di Forum Pa, anticipata dal Messaggero, parlava di 125mila posti bloccati dall’impossibilità di fare i concorsi – necessari secondo Costituzione – durante l’emergenza coronavirus: circa 90mila posti sono già stati banditi, altri 36 mila riguardano invece concorsi di cui è ancora attesa la pubblicazione. Si va dagli oltre 7mila dipendenti da assumere al ministero della Giustizia ai 1.500 del maxi-concorso di Roma Capitale, dai 3mila dell’Agenzia delle Entrate ai 90mila della scuola, dalle 3.300 posizioni da ricercatore universitario ai 160 tecnici informatici dell’Inps giù giù fino ai 50 nuovi assistenti parlamentari cercati dalla Camera.

A questi numeri, che riguardano il 2020, vanno però aggiunte le decine di migliaia di posizioni che avrebbero dovuto sbloccarsi fin dal 2019 per effetto della fine del blocco del turn over: circa 150mila l’anno disse all’epoca il governo. L’Inps, per dire, è sotto organico di circa 12-13mila posti, l’Inail di circa 2mila, di scuola e università neanche parliamo. L’istituto che assicura gli infortuni sul lavoro, ad esempio, non solo non è stato ancora in grado di assumere le 1.500 unità di lavoratori autorizzate durante la pandemia, ma si ritrova bloccato anche il concorso per 760 posizioni bandito due anni fa. Di fatto, molte amministrazioni non sono ancora riuscite a sostituire i “cessati” del triennio 2009-2011: la ricorsite che affligge le nostre procedure di selezione ovviamente non aiuta.

Il divieto di fare concorsi in presenza è stato prorogato dall’ultimo Dpcm, il primo firmato Mario Draghi, fino al 6 aprile, fatti salvi casi specifici ad oggi di poco conto: le prove che possono svolgersi in modalità telematica (quasi nessuna), i concorsi per titoli (ad esempio in ambito sanitario) e le prove che possono espletarsi nel limite di 30 candidati per sessione, sostanzialmente solo quelle nei piccoli Comuni. Ora sarebbe il momento di inventarsi qualcosa, di iniziare l’unica vera riforma utile della Pubblica amministrazione: coprire i buchi di questi anni, rendendola più giovane e piena di nuove competenze. Una delle ipotesi circolate in passato è un “ingresso straordinario” di decine di migliaia di lavoratori per 18 mesi tramite una prova per titoli, pianificando nel frattempo i concorsi veri e propri: in questa crisi devastante, peraltro, avere o non avere 300-400 mila stipendi in più non sarebbe senza effetto sui consumi.

 

Dati buoni, ma rischio furbetti. Perché il cashback è sotto tiro

Il cashback di Natale ha raggiunto due importanti obiettivi: convincere molti degli italiani che pagare con la carta può convenire e che i servizi digitali della Pubblica amministrazione, finora altamente snobbati, non sono poi così male come dimostrano – tra svariati inciampi tecnici – i picchi registrati dalle iscrizioni all’app “IO” e all’identità digitale (Spid) necessarie per accedere al programma che rimborsa il 10% sui pagamenti digitali, fino a 150 euro a semestre. Eppure, nonostante il piano cashless – voluto dall’ex premier Giuseppe Conte – registri buoni dati, da giorni è nel tritacarne dell’ampia maggioranza del governo Draghi che ne chiede di dirottare le risorse o perfino la chiusura anticipata. Insomma, molte le discussioni politiche, poche le certezze. Mettiamo in fila quello che è riscontrabile.

I pagamenti. Con il cashback sperimentale di Natale, terminato il 31 dicembre, lo Stato ha disposto 3,2 milioni di bonifici per un totale di 223 milioni di euro con un accredito medio di 69 euro. Sono quasi 8 milioni gli iscritti al cashback (a fine dicembre erano 5,8 milioni) e quasi 7 milioni quelli che hanno accumulato transazioni valide. Risultano in via di risoluzione anche il migliaio di segnalazioni arrivate da chi non si è visto riconoscere alcuni pagamenti. Secondo quanto previsto dall’ultima manovra, per la misura è previsto uno stanziamento di 4,7 miliardi, di cui tre miliardi per il 2022, finanziabili con il Recovery fund. I tecnici del ministero dell’Economia stimano che nel 2021 per pagare i rimborsi ordinari (fino a 150 euro a semestre per utente) servano 2 miliardi.

A rischio. Il cashback ordinario è partito il primo gennaio e si concluderà il 30 giugno. Poi si azzererà tutto e scatterà regolarmente l’altro semestre 2021 (luglio-dicembre). Quasi impossibile che qualcuno possa stoppare il secondo step prima della prossima legge di Bilancio sia per mancanza di tempo (servirebbero svariate procedure tecniche) che per il serio pericolo che tutta la faccenda possa finire al Tar. A poter subire modifiche o tagli potrebbe essere solo l’ultimo semestre previsto del cashback, quello che va dal 1 gennaio al 30 giugno 2022. Basta intervenire nella prossima manovra.

I furbetti. È vero che il dossier cashback sia nelle mani del premier Mario Draghi e dei tecnici del Mef per un immediato intento: bloccare i furbetti che stanno effettuando micro-transazioni da pochissimi centesimi pur di scalare la classifica che dà diritto al super premio da 1.500 euro per i primi 100mila più attivi. Problema confermato dal viceministro dell’Economia Laura Castelli che ha anche smentito che il secondo super premio del 2021 da 300 milioni possa essere rivisto al ribasso. Tra le ipotesi per porre limiti ai furbetti ci sono l’inserimento di un importo minimo o un numero massimo di transazione presso lo stesso esercente.

Favorevoli. A sostenere che il cashback sia una misura efficace è M5S. Dopo che lo scorso anno gli operatori del settore sono stati convocati decine di volte dall’ex premier Conte per discutere si sono decisi a tagliare le commissioni sotto i 5 euro. E l’uso più frequente della carta anche per pagare il caffè non è più visto male dai commercianti. Intanto cashback e pandemia, secondo una ricerca di Gkk e Visa, hanno spinto i pagamenti digitali con una diminuzione dell’uso del contante del 23%.

Contrari. Gli schieramenti della maggioranza vanno in ordine sparso. Italia Viva (il cui leader ha alzato il tetto ai pagamenti in contante) chiede modifiche sostanziali; per il Pd le risorse andrebbero dirottate sui programmi di lotta alla povertà (per cui è previsto il Reddito di cittadinanza, rifinanziato dal dl Sostegni); Forza Italia spinge per il ritorno all’uso del contante, mentre Fratelli d’Italia ha chiesto di abolire il provvedimento per destinare le risorse ai ristori, il cui decreto è ancora bloccato dal governo. Con un emendamento (dichiarato inammissibile) al Milleproroghe, la Lega aveva chiesto di dirottare i soldi alle Regioni.

Recovery, stuolo di tecnici: ok al reclutamento-lampo

Il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) sarà incardinato al Tesoro anche nella sua fase attuativa. A gestirlo arriverà uno stuolo di tecnici assunti con “procedure specifiche”, in sostanza senza concorso e per un tempo limitato (andranno poi stabilizzate). È la prima parte di un piano più ampio di riforma affidato al ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, che lo illustrerà oggi. Per quegli strani giri del destino, l’uomo che, dallo stesso ruolo, dieci anni fa avviò la stagione dei tagli nel comparto pubblico, oggi è chiamato a risolvere la grana.

L’audizione del ministro dell’Economia Daniele Franco ieri alle Camere era attesa visto che il tecnico a cui Mario Draghi ha affidato la revisione del Piano ereditato dal governo Conte – che deve usare 191 miliardi di fondi Ue – doveva spiegare anche perché il ministero è ricorso all’aiuto del colosso della consulenza McKinsey (e dei big del settore, da Kpmg, a E&Y e Accenture). A grandi linee, Franco ha anticipato quel che è ormai evidente: a gestire i fondi non bastano le strutture ordinarie della P.A., fiaccata da anni di tagli, ma verranno create strutture ad hoc in tutti i ministeri, a partire dal suo.

Nella versione di Conte, la task force che doveva gestire il piano era incardinata a Palazzo Chigi, coordinata da due dicasteri (Economia e Sviluppo) e affidata a una “struttura di missione” con centinaia di tecnici guidati da 6 figure apicali. Con l’arrivo di Draghi, Franco ha affidato la revisione del piano (da consegnare entro aprile a Bruxelles) alla Ragioneria dello Stato – che nell’idea del governo giallorosa doveva solo “monitorare” le spese – dislocando 50 tra dirigenti e funzionari. Un contingente “che crescerà ancora”.

La governance del Pnrr sarà affidata a una “struttura centrale” al Tesoro che “supervisionerà l’attuazione, gestirà i flussi finanziari, controllerà la spesa, valuterà i risultati e deciderà le eventuali correzioni”. Sarà affiancata da “una unità di audit indipendente, responsabile delle verifiche sistemiche”, che avrà il compito di fare da garante con Bruxelles. La struttura di missione conterà centinaia di figure, e il Tesoro – ha detto Franco – ha chiesto agli altri ministeri di creare strutture ad hoc simili, anche se più piccole.

In sostanza la task force che doveva essere a Palazzo Chigi viene spostata al Tesoro e in parte, in altri ministeri, il grosso dei quali (Transizione ecologica, Digitale, Infrastrutture) è guidato da tecnici che rispondono a Draghi (e al Quirinale). Tradotto: per i partiti che reclamavano più collegialità nelle decisioni, i margini di intervento non aumentano di certo. Ai parlamentari preoccupati, il ministro ha spiegato che le Camere verranno coinvolte nella stesura. Come? Tenendo conto “delle risoluzioni che esprimeranno” sulla bozza del vecchio piano. Ma i tempi sono stretti e di fatto deciderà il governo.

Oggi Brunetta illustrerà le linee guida della riforma, che prevederà procedure specifiche per reclutare migliaia di tecnici specializzati per gestire il Pnrr; rivedere e sbloccare le procedure concorsuali (lo stato dell’arte lo leggete a destra).

Nella sua audizione, Franco ha poi chiarito che il piano lasciato da Conte “presenta molti elementi di solidità”, e che si faranno delle modifiche selettive. Sul ricorso a McKinsey&C. la riposta ha toccato vette quasi surreali. Il ministro si è giustificato spiegando che “le strutture pubbliche hanno spesso bisogno di input specialistici su determinati lavori, come ad esempio la presentazione di slide”. Eppure solo sabato il ministero aveva chiarito che il colosso avrà ruoli di “supporto tecnico di project management e monitoraggio” nella stesura del Piano. Molti colossi già lavorano con i ministeri, ma coinvolgerli nella fase decisiva è una scelta precisa (peraltro all’epoca esplicitamente esclusa dal governo Conte).

Gli spiriti guida

Tra i rari spiriti guida che ci aiutano a campare, mai rinunceremmo ad Angelo Panebianco e Massimo Recalcati. Figuratevi la gioia nel ritrovarli entrambi ieri, in stereo, su Corriere e Stampa. Una doppia boccata di ossigeno. Panebianco spiega perché Usa, Uk e Israele hanno vaccini da buttare e l’Europa no: quelli sono “pragmatici” e badano al “risultato”, mentre noi europei ce ne fottiamo perché siamo “giuridici”. Una “patologia” tipica di noi italiani, in aggiunta ad altre infezioni: “populismo”; “atteggiamento ostile nei confronti delle imprese private”, del “profitto” e della “concorrenza di mercato”, in particolare “quelle farmaceutiche”, viste come “le peggiori” dai comunisti che preferirebbero lo Stato; e, last but not least, “leggi acchiappa-ladri” con “procuratori e polizie che si sforzano di acchiapparli”. Chissà se Withebread ha saputo che Big Pharma ha consegnato meno della metà delle dosi pattuite da contratto con la Ue, per vendere le altre a chi le paga il doppio. Che un anno fa, grazie alla “concorrenza di mercato”, non producevamo mascherine, camici e guanti perché si faceva tutto in Asia e abbiamo dovuto inventarci una produzione nazionale grazie ai famigerati Conte e Arcuri. Che intanto Arcuri, più pragmatico che giuridico, comprò un miliardo di mascherine dalla Cina senza badare troppo ai costi e ai mediatori, così ottenne il risultato e salvò migliaia di vite, ma i giornaloni gli ruppero le palle perché non aveva tirato sul prezzo e ora esultano perché Draghi l’ha silurato. Che, tirando sul prezzo, la Von der Leyen s’è fatta fregare dalla “concorrenza di mercato” metà dei vaccini già pagati e ora si converte al sovranismo dirigista bloccando addirittura le esportazioni extra-Ue. E poi, già che ci siamo, che minchia c’entrano le polizie e i pm che acchiappano i ladri?

Al cupo pessimismo panebianchiano fa da contrappunto l’illuminato ottimismo del prof. Recalcazzola (“Il Draghismo e la legge del padre”): dopo tanti padri degeneri, tipo Berlusconi, Grillo e pure Prodi, l’Italia ha finalmente trovato la “figura della leadership paterna”, “ideologicamente desensibilizzata” ma dotata di “ascetismo di matrice weberiana” e “autorevolezza carismatica”, che “riattiva la funzione orientativa del padre” con “la via composta e rigorosa del silenzio nobile della prassi”, obbligando “i figli litigiosi a rimettere le loro pietre nelle tasche per il bene comune”. Indovinate: chi è questo Geppetto lacaniano 2.0? Mario Draghi, naturalmente, che “si profila come un paradossale erede di Berlinguer”. Ma pure, a ben vedere, di Che Guevara. Ora che ci ha trovato un babbo, se non è troppo pretendere, chiederemmo a Recalcazzola un ultimo sforzo: ci manca tanto uno zio.

La rivoluzione di Astor è un eterno Libertango

In direzione ostinata e contraria. Eppure, non è Fabrizio De André, ma Astor Piazzolla. Commemorarne il centenario, nacque l’11 marzo del 1921 a Mar del Plata, significa celebrarne la rivoluzione: “Astor Piazzolla non solo ha cambiato il tango, è uno dei compositori più importanti del XX secolo, ha saputo creare un vero e proprio alfabeto musicale”. Regista e produttore, Daniel Rosenfeld gli ha dedicato il documentario Piazzolla. La rivoluzione del tango, complici gli archivi inediti messi a disposizione dal figlio Daniel: fotografie, nastri vocali, riprese in Super 8, sicché il bandonéonista torna a farsi leggenda. Scomoda, però. E letteralmente indigesta: “In varie fasi della sua vita, fu ampiamente criticato per aver cambiato il tango, fu squalificato dalle competizioni nazionali per non aver rispettato il ritmo. Ma i suoi maggiori detrattori provenivano dalla stampa e dai proprietari dei locali notturni, perché il pubblico non poteva ballare la sua musica e dunque non pagava l’ammissione. Piazzolla voleva che pagassero per ascoltare, diceva: ‘La mia musica non serve per digerire’”.

Innamorato del padre, cui consacrò l’indimenticata Adios Nonino, lo vendicò sullo spartito, risolvendosi a cambiare i connotati alla musica patria: “Quando aveva dieci anni, vide Nonino, spossato dalla dura giornata di lavoro, mettere su un disco di tango con le mani ancora fredde, sedersi sul divano, pensare alla sua Argentina e piangere. Astor diceva che non gli piaceva quella musica che faceva piangere suo padre. Così ha finito per rivoluzionarla, completamente”. Nel Nuevo Tango, mix di tango e jazz, tenuto ufficialmente a battesimo dall’album Libertango, inciso nel 1974 in Italia, avrebbe travasato non solo le influenze musicali, ma la propria vita: “Cresciuto nella New York degli anni ’20, come tanti immigrati italo-argentini, vi ascoltava il jazz di New Orleans (Al Johnson compreso), il klezmer ebraico mescolato a canzoni italiane. Poi, la formazione scolastica e l’amore per Bach”. Il titolo originale del documentario, già campione di incassi in Argentina e prossimamente distribuito da Exit Media, recita Piazzolla, los años del tiburón: era uno squalo, Astor? Lasciò la moglie perché, ipse dixit, “ormai era divenuta una madre per me”, ebbe un rapporto conflittuale con i figli Daniel e Diana, la quale non gli perdonò una cena con il generalissimo Videla, tra palco e realtà non le mandò mai a dire, fece della “mediocrità artistica e la stagnazione le proprie prede”, della “voracità creativa” la propria dieta: “Durante un asado (il barbecue argentino), predicò che ‘non importa cosa hai fatto ieri, importa quello che farai domani’. Sintetizzando perfettamente il suo bisogno di sperimentare, fuori dalla comfort zone”. No, Astor non diventò uno squalo, preferì pescarlo a Punta del Este, traendone grande ispirazione artistica: “Sosteneva che un bandoneón e uno squalo avessero quasi lo stesso peso, che entrambi richiedessero una forza impressionante: quando non poteva prendere uno squalo non poteva nemmeno suonare, e viceversa. La pesca significava aspettare, e amava questa attesa perché nessuno gli parlava, e in quel silenzio gli venivano le melodie”. Ne siamo tutti, ancora oggi, avvinti, “ci basta ascoltare le prime due note di un qualsiasi brano per comprendere che si tratti della sua musica. Piazzolla era avanguardia, come non usa più”. Il nostro paese ne catalizzò l’avvenirismo, in maniera importante: “Il palcoscenico italiano fu un’esplosione creativa, fatta di vertigini e di splendore”. Le influenze jazz, l’incontro con Jerry Mulligan, la trasmissione della Rai Teatro 10 condotta da Alberto Lupo, dove conosce Mina con cui inciderà Balada para mi muerte nel 1972. Era anche un’occasione per lavorare, in Argentina molte porte gli erano state chiuse, e in Italia – i genitori provenivano da Trani e Garfagnana – Piazzolla si sentiva a casa. A tal punto da concedersi nuovamente divagazioni cinematografiche, componendo musica per i film di Francesco Rosi, Cadaveri eccellenti (1976), e Marco Bellocchio, Enrico IV (1984), “e non riuscì a farlo per Ultimo tango a Parigi di Bertolucci solo per problemi di agenda”.

Poi, fondamentale, la svolta elettrica di Libertango, registrato nel maggio del 1974 allo studio Mondial Sound di Milano, con Pino Presti al basso e Tullio De Piscopo alla batteria. Era il viatico al successo planetario, ma anche lì ci fu chi storse la bocca, a partire dal figlio: “Daniel non poteva crederci, sbottò che era ‘Quincy Jones con il tango’”. Nemo propheta in patria, figuriamoci in famiglia, cui Astor si relazionò come fosse tango: in direzione ostinata e contraria, appunto. Senza alcuna sorpresa, per chi lo conoscesse: “Piazzolla era un mito che si è costruito da solo, non per forza di volontà ma per destino, o forse no. Tutto il suo genio era già nella prima versione di Lo que vendrá”.

 

Il sarkozysmo e lo Stato da spolpare più che servire

La Francia è un paese malato di corruzione. L’affaire “Bismuth” lo ha rivelato alla luce del sole: quello che si è verificato il primo marzo scorso, al tribunale di Parigi, è un evento storico. Per la prima volta nella storia giudiziaria e politica della Francia, un ex presidente della Repubblica, Nicolas Sarkozy, è stato riconosciuto colpevole di “corruzione”, il più disonorevole dei reati per chi ha ricoperto una carica pubblica. Non solo. È anche la seconda volta che la giustizia di questo paese condanna un ex capo dello Stato per dei fatti che pregiudicano l’integrità pubblica. E questo precedente non risale alle calende greche, ma a meno di dieci anni fa, al dicembre 2011, quando Jacques Chirac (il predecessore di Sarkozy all’Eliseo), è stato riconosciuto colpevole di “appropriazione indebita di fondi pubblici” e “abuso di fiducia” nel caso dei lavori fittizi al municipio di Parigi. Sarkozy e Chirac hanno, sul piano giudiziario, un altro punto in comune: i loro rispettivi primi ministri, François Fillon per Sarkozy e Alain Juppé per Chirac, sono rimasti a loro volta impigliati nella rete della giustizia penale, che li ha condannati per reati legati alle loro funzioni pubbliche.

Politicamente, erano stati tutti seguaci, a diversi livelli, della teoria della tolleranza zero in materia di delinquenza, tranne per quella commessa dai colletti bianchi. Tutti, a vari livelli, si sono inoltre lanciati nelle più sfrenate speculazioni cospiratorie quando la polizia e la giustizia anticorruzione hanno cominciato a interessarsi un po’ troppo da vicino a loro e ai loro amici. Ma è innegabile che esiste un microclima giudiziario del sarkozysmo, una specificità letale di questo movimento politico che rischia di lasciare impresse nei libri di storia, come il berlusconismo in Italia o il trumpismo negli Stati Uniti, le stigmate di un clan sospettato di aver privatizzato il bene comune per scopi privati. Di essersi servito dello Stato più che di servirlo. Si tratta di un sistema unico nel suo genere se si osserva invece il numero gigantesco di fascicoli giudiziari che lo riguardano. Non c’è una sola figura politica vicina a Sarkozy che non abbia avuto problemi con la giustizia negli ultimi anni. La lista è vertiginosa: i mentori di Sarkozy (Charles Pasqua, Édouard Balladur), il suo primo ministro (François Fillon, dunque), gli amici di gioventù (Brice Hortefeux, Patrick Balkany), i consiglieri (Patrick Buisson, Boris Boillon), i principali ministri (Claude Guéant, Christine Lagarde), il tesoriere (Éric Woerth), l’associato storico del suo studio legale (Arnaud Claude), il suo stesso avvocato (Thierry Herzog), la sua spia personale (l’ex capo dei servizi segreti interni, Bernard Squarcini), il testimone di nozze (Nicolas Bazire), ecc. Alcuni sono stati condannati, altri saranno processati, altri ancora sono per il momento “solo” incriminati in inchieste in corso. Tutta questa rete fa pesare su una democrazia come la Francia un terribile sospetto: che un saccheggio è stato perpetrato alle spalle dei cittadini, il saccheggio della loro fiducia nella democrazia e anche del loro portafoglio, a dispetto delle regole elementari della decenza pubblica imposte dalle funzioni pubbliche ricoperte. Nel caso “Bismuth”, che è valso a Sarkozy una condanna a tre anni di prigione (di cui due con la condizionale) per “corruzione” e “traffico d’influenza” (a cui farà appello), la sentenza del tribunale, presieduto da Christine Mée, andrebbe letto e riletto più volte. L’abile difesa di Sarkozy non ha cambiato nulla: i fatti erano lì sin dall’inizio, in tutta la loro semplicità.

L’ex presidente è stato accusato di essersi servito, nel 2014, del suo avvocato e amico, Thierry Herzog, e di un alto magistrato della corte di Cassazione, Gilbert Azibert, per ottenere illegalmente informazioni su inchieste giudiziarie in corso, e di avere appoggiato, in cambio, la candidatura dello stesso Azibert a un posto sotto il sole di Montecarlo. Numerose intercettazioni lo hanno dimostrato. I giudici sottolineano la gravità dei fatti commessi da un ex presidente che doveva essere il “garante dell’indipendenza della giustizia”. La condanna di Sarkozy, che dovrà presto affrontare un altro processo per il finanziamento della sua campagna del 2012 (il caso “Bygmalion), e che è incriminato quattro volte per presunti finanziamenti illeciti della campagna del 2007 (il caso dei “fondi libici”), è al centro di una necrosi della vita pubblica francese che certi uomini politici e certi media di proprietà di miliardari amici di Sarkozy, stanno facendo di tutto per occultare. Sarkozy non è forse membro del consiglio di vigilanza del gruppo Lagardère, proprietario del Journal du Dimanche e di Paris Match, che non esitano a difendere l’idea del “complotto” nell’affaire dei fondi libici di Gheddafi? Nel gruppo Lagardère, Sarkozy non gioca forse il ruolo dell’arbitro tra due grandi figure del capitalismo francese, Vincent Bolloré e Bernard Arnault, a loro volta molto presenti nel mondo mediatico francese? Bolloré, proprietario di Canal+ e della tv CNews, non si è appena dichiarato colpevole in un caso di corruzione in Africa? Il secondo, proprietario dei quotidiano Les Echos e Le Parisien, non ha forse assunto l’ex capo dei servizi segreti interni di Sarkozy, Bernard Squarcini? L’intreccio tra poteri finanziari, politici e mediatici è uno dei lasciti del sarkozysmo trionfante. A questo proposito ci si può interrogare sui favori e sul sostegno simbolico che l’attuale presidente, Emmanuel Macron, non ha esitato a concedere a Sarkozy sin dal 2017, nominandolo suo ambasciatore personale in diversi paesi stranieri per degli eventi ufficiali. Si può immaginare anche solo per un momento che un uomo sospettato di rapine, furti o ancora criminalità organizzata si faccia affidare dalle massime autorità dello Stato il privilegio di rappresentare la Francia all’estero, senza che ciò non dia luogo a dibattiti e indignazioni di vario tipo? La risposta è ovvia: no. Allora perché i delinquenti in colletto bianco godono di un tale privilegio? Per giustificarsi, l’Eliseo ha avanzato l’argomento della presunzione di innocenza. Ma l’argomento della presunzione di innocenza, spesso avanzato da politici in difficoltà per mettere a tacere ogni tipo di discussione sulle inchieste imbarazzanti che li riguardano, non può spiegare tutto. Essere “presunto innocente” significa, nel diritto, che nessuno può essere considerato colpevole penalmente finché non è stato formalmente condannato da un tribunale. È normale.

Ma è anche bene ricordare che se una persona è presunta innocente, un concetto giuridico importante in ogni democrazia che si rispetti, è proprio perché è sospetta. Cioè perché i magistrati hanno ritenuto, dopo mesi o anni di inchieste, che esistono “indizi seri e concordanti” per giustificare la sua iscrizione al registro degli indagati, o che le “prove a carico” della persona in questione sono sufficienti a chiedere un processo pubblico contro di lei. Di fronte al principio del rispetto per la presunzione di innocenza, naturalmente dovuta a chiunque sia indagato (e non vale solo per i delinquenti in colletto bianco), Emmanuel Macron ha deliberatamente negato il più elementare principio di precauzione nei confronti di un uomo che la giustizia ha oggi giudicato colpevole di corruzione. E che dire dell’attuale ministro della Giustizia, Éric Dupond-Moretti, il quale non ha esitato un attimo a gettare discredito sul Tribunale nazionale finanziario, che ha rappresentato l’accusa al processo Bismuth-Sarkozy, dove uno degli imputati, comparso al fianco di Sarkozy, l’avvocato Thierry Herzog, non è altri che “un amico di sempre” del Guardasigilli, come lui stesso ha confermato? Il comportamento del ministro, che ha scatenato reazioni senza precedenti da parte dell’intera magistratura contro di lui, sono oggi al centro di un’indagine della Corte di giustizia della Repubblica (CJR) per “abuso di interessi”. È lo stesso tribunale che, giovedì scorso, ha giudicato (e alla fine assolto), nel processo sui finanziamenti illeciti della campagna del 1995, l’ex primo ministro Édouard Balladur, uno dei mentori politici di Nicolas Sarkozy. Una storia senza fine o la fine di una storia?

(Traduzione di Luana De Micco)