L’ex presidente della Banca centrale europea ed ex governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, è giustamente accreditato di capacità, esperienza, competenza e credibilità internazionale. Può fare bene, ora che è capo del governo, soprattutto nel difficile risanamento dei conti pubblici nazionali, gravati dal pesante debito, e nel sempre complicato confronto con l’Europa, ancora super-influenzata dalla Germania. Ma Draghi dovrebbe non esaltarsi troppo per le tante celebrazioni preventive dilagate sui media e prestare comunque molta attenzione a non ripetere gli errori, i disastri finanziari e i potenziali conflitti d’interessi, che non sono mancati nella sua lunga e brillante ascesa nelle istituzioni pubbliche italiane e sovranazionali. E che gli hanno fatto rischiare di infrangere definitivamente le sue ambizioni già all’inizio.
Era il drammatico 1992, l’anno dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino assassinati dalla mafia a Palermo, e dell’arresto di Mario Chiesa del Psi, che diede il via alle inchieste della Procura di Milano su Tangentopoli. Draghi, proveniente dalla Banca Mondiale di Washington, dal ’91 era stato nominato direttore generale del ministero del Tesoro su “segnalazione” del governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. In quel ruolo partecipò a una inutile e autolesionistica difesa del cambio della lira, che in settembre polverizzò le riserve valutarie della banca centrale italiana, stimate in circa 48 miliardi di dollari. E che portò egualmente a una svalutazione della moneta nazionale sui mercati di circa il 30%.
Mega-speculatori come il controverso ungherese-americano George Soros, banche multinazionali e investitori stranieri, “intuito” che la Banca d’Italia intendeva andare avanti a oltranza in quella strategia suicida di difesa del cambio, guadagnarono somme colossali attaccando la debole valuta italiana vendendola in massa. Ma anche banche, imprese e politici nazionali ebbero la possibilità di beneficiare del tempo per uscire da debiti in monete forti, per acquistare dollari e marchi da Bankitalia (pagando con lire vicine al deprezzamento) e per esportare o occultare capitali all’estero.
Draghi, insieme al suo mentore Ciampi e al numero due di Bankitalia Lamberto Dini, fu tra i responsabili tecnici di quel disastro finanziario per l’Italia e per i suoi cittadini, pilotato nel livello politico-istituzionale dal premier craxiano Giuliano Amato e dal ministro del Tesoro dc Piero Barucci. Questo quintetto – per la passione di Draghi e di Barucci per la pallacanestro – fu soprannominato ironicamente da cambisti arricchitisi con le speculazioni sulla lira “dream team” e “la squadra del ’92”, prendendo spunto da quella Usa di basket che vinse l’oro alle Olimpiadi di Barcellona.
Ciampi, avendo diretto da Via Nazionale la difesa tecnica della lira, in sintonia con il capo del governo e con il Tesoro, fu il primo a dover presentare le sue dimissioni appena le riserve valutarie si esaurirono, fu necessario svalutare e la moneta italiana fu costretta a uscire dal sistema europeo Sme. Amato, Barucci, Draghi e Dini avrebbero dovuto seguirlo a ruota, chiudendo lì la loro carriera nelle istituzioni pubbliche italiane. Ma il premier craxiano riuscì in qualche modo a convincere il Quirinale, dove si era da poco insediato il dc Oscar Luigi Scalfaro, e i principali partiti a perdonare “la squadra del ’92”, evitando così ulteriori clamori in una realtà già offuscata dall’emersione della corruzione politico-affaristica. Grandi gruppi imprenditoriali e finanziari italiani, che controllavano o influenzavano il grosso dell’informazione nazionale, appoggiarono la linea del buonismo silenzioso verso il “dream team”. Nelle direzioni di molti giornali quel tracollo sulla lira fu rapidamente dimenticato.
Il “settembre nero” della moneta italiana veniva invece evocato spesso – riservatamente – in scontri finanziari e in contrasti tra poteri “sotterranei”. Provocò velenose voci di collegamenti con la discussa mini-crociera all’Argentario sul panfilo reale inglese Britannia, del giugno ’92, dove Draghi in pratica aprì le porte del suo ministero del Tesoro ai banchieri anglo-Usa, ansiosi di guadagnare in Italia con la vendita dei beni dello Stato e con altri affari.
Anni dopo, quel tonfo della lira fu richiamato apertamente in un esposto alla magistratura italiana di una lobby schierata contro Soros nell’area del partito democratico Usa. Evidenziava anche il rapporto tra lo speculatore ungherese-americano e l’allora premier Romano Prodi, a sua volta molto vicino a Ciampi, nominato suo ministro del Tesoro con il fidato Draghi sempre più potente direttore dello stesso dicastero. L’indagine, passata dalla Procura di Milano a quella di Roma, si dissolse davanti all’impossibilità di ricostruire le speculazioni miliardarie contro la lira occultate dietro il rigido segreto dei paradisi fiscali. La Procura di Napoli sospettò che, nel 1992, avesse speculato contro la moneta nazionale perfino la criminalità organizzata, dopo aver in qualche modo “intuito” la decisione del governo Amato e di Bankitalia sull’inutile difesa a oltranza del cambio. Ma non emersero prove.
Nel 1997 il Corriere della Sera – con le due indagini giudiziarie in corso a Roma e a Napoli – ricostruì fatti inediti e pubblicò le giustificazioni richieste ai protagonisti del “dream team”. A intervenire pubblicamente sul tema fu però solo il super-inquisito leader del Psi Bettino Craxi, latitante ad Hammameth, con una lettera al direttore del Corriere Paolo Mieli. Nel testo di fatto negava di essere tra i politici che potrebbero essersi arricchiti speculando contro la lira nel ’92, magari utilizzando informazioni riservate trapelate da quel governo craxiano-democristiano. Craxi ammise di essere stato informato dal suo braccio destro e premier Amato sulla difesa della moneta, che definì “sconsiderata” e accolta “con sconcerto”. Rivelò di avergli segnalato inutilmente “lo spreco di risorse” dello Stato e che “governo e Banca d’Italia si stavano addentrando in un tunnel senza via d’uscita”. A sostegno delle sue affermazioni scrisse che, delle sue telefonate con Amato, “dovrebbe esserci traccia”. E auspicò una “commissione d’inchiesta” del Parlamento su quell’azzeramento di “70 mila miliardi di lire in valuta estera” e sulla conseguente perdita per l’Italia, che stimava in “14 mila miliardi di lire”. Chiedeva poi di “accertare quali gruppi finanziari italiani, e se per caso anche istituti di credito nazionali, abbiano partecipato, rafforzandolo, all’assalto condotto dalla speculazione internazionale contro la lira”.
Ma Craxi era ormai un politico squalificato e vicino alla fine. Prevalse di gran lunga la versione difensiva di Amato e degli altri del “dream team”, che ammisero esclusivamente il pur rovinoso errore di valutazione sugli effetti dei maxi acquisti di lire attuati dalla Banca d’Italia per sostenerne la quotazione. Spuntò informalmente, come scusante, l’aspettativa del premier craxiano di un improbabile aiuto della Germania alla moneta italiana sotto attacco della speculazione, che da Berlino non arrivò.
In ogni caso Ciampi si vide respingere le dimissioni e fu confermato al vertice di Via Nazionale, nonostante la perdita di migliaia di miliardi di lire. Fu nominato presto premier, poi ministro del Tesoro e presidente della Repubblica, molto apprezzato dai media fino alla scomparsa. Amato collezionerà incarichi pubblici importanti, sarà più volte ministro e di nuovo capo del governo. Dini lasciò Bankitalia per decollare come ministro del Tesoro di Silvio Berlusconi, divenne premier “tecnico” e poi passò al vertice della Farnesina con il centrosinistra. Se si esclude Barucci, che preferì dedicarsi a lucrose attività finanziarie private, tutta “la squadra del ’92” è stata gratificata con la guida del governo. L’ultimo che mancava a Palazzo Chigi era Draghi.
(1, continua)