Il disastro. L’Alitalia ridimensionata è stata un flop. Ridurla ancora è un autogol. Serve una vera scelta

Nello sport della boxe vi sono precise regole e non è ammesso che chiunque possa lottare con chiunque: i pesi piuma combattono coi piuma, i medi coi medi e i massimi coi massimi. La competizione sui mercati non è tuttavia così gentile e chiunque può sfidare chiunque, se si ritiene sufficientemente forte o è sufficientemente incosciente. Chi perde troppe volte esce tuttavia dal mercato e non vi torna.

Alitalia è stata per lungo tempo un peso medio e si confrontava con altri pesi medi in un ring nazionale protetto. Un quarto di secolo fa l’Unione Europea ha liberalizzato i ring, permettendo agli atleti di ogni nazione di combattere anche sui mercati di altre nazioni. In conseguenza alcuni competitori sono divenuti pesi massimi attraverso processi di consolidamento e dominano ognuno in differenti paesi. Inoltre sono nati e cresciuti nuovi atleti, i vettori low cost, dimostrando una grande bravura nelle gare di breve raggio, pur non partecipando a quello di lungo.

Dalla liberalizzazione in avanti la strategia di Alitalia è stata una sola, quella di rimpicciolirsi. Mentre gli altri divenivano pesi massimi Alitalia ha continuato a scendere di categoria, prima peso leggero nel 2009 coi capitani coraggiosi di berlusconiana memoria e poi peso piuma nel 2015 con gli emiri coraggiosi di renziana memoria. In tutto questo tempo ha continuato a prendere botte crescenti dai pesi massimi e nel 2017 è finita stabilmente al tappeto e giace da allora affidata alle cure omeopatiche dei rianimatori commissariali. Da allora sono passati quasi quattro anni e il Paese ha saputo solo tirar fuori l’idea di un’Alitalia nuova di zecca, che si chiama ITA, la cui idea strategica fondamentale è di scendere ancora di categoria: non più un’azienda piuma, che non ha funzionato, ma una molto più piccola, un’azienda paglia. Che tuttavia pensa di ritornare sul ring, una volta riaperto dopo la pandemia, e di affrontare vittoriosa gli stessi pesi massimi che già l’avevano facilmente sconfitta quando era il doppio di ora e il quadruplo di quanto vorrebbe essere in futuro. Per far tutto questo pensa di utilizzare tre miliardi di fondi pubblici già stanziati.

Come scrisse Orwell commentando un famoso scritto di von Hayek, “Il problema della concorrenza è che qualcuno vince”. Nella concorrenza europea del trasporto aereo a vincere sono stati altri, il nostro paese semplicemente ha perso. Prendiamone atto ed evitiamo di insistere con errori costosi. Questo non implica tuttavia di rinunciare a un ruolo attivo nel settore, ma non possiamo più far salire sul ring un atleta debole. Siamo in grado di mandarvi uno forte? Se la risposta è no vi sono solo due strategie ragionevoli: uscire definitivamente dal ring oppure, poiché il libero mercato permette di acquistare le aziende, provare a divenire comproprietari di un peso massimo già esistente, al quale affidare quel che resta del nostro atleta nazionale al tappeto. Impossibile? Può darsi, ma se non ci proviamo non lo sapremo mai.

 

Stop all’assalto di banche&C. I contanti non vanno aboliti

Da quando esiste il denaro, pagare in contanti è la cosa più naturale di questo mondo. Ed è filato tutto liscio, finché le banche non hanno scoperto di potere raschiare via soldi anche da lì. Hanno così inventato la guerra ai contanti. Furbescamente hanno messo in giro la storiella della lotta all’evasione. Così hanno tirato dalla loro parte anche persone in buona fede. L’equazione “contante=evasione fiscale” viene spacciata per una verità assodata, mentre è smontata da ricerche a livello europeo e da valutazioni di economisti non omologati. In ogni caso la grossa evasione o elusione delle multinazionali non passa attraverso i contanti. L’utilità della war on cash contro l’illegalità è molto limitata, per giunta a fronte di gravi controindicazioni. Tanto che alla banca centrale tedesca provocatoriamente si chiedono se “presto dovranno essere proibiti i telefoni cellulari”, perché anch’essi facilitano comportamenti illeciti? È probabile che la percentuale di pagamenti elettronici aumenterà ancora; e non c’è nulla di male in ciò. Ma non si vede nessuna fine del contante. Lo conferma il progressivo aumento delle banconote in circolazione in euro, dollari, sterline, ecc.

In Italia, poi, la questione ha assunto una sconcertante connotazione politica. Si sente tenuto a osteggiare il contante chi si professa di sinistra, progressista; sono invece favorevoli Giorgia Meloni, Forza Italia, Lega o Matteo Renzi. Eppure i tanti vantaggi del contante non dipendono dalle preferenze politiche: non costa nulla, perché né banche né società di pagamenti digitali raschiano commissioni e balzelli vari, astutamente caricati tutti sul venditore. Così un consumatore non s’accorge che vengono poi ribaltati sui prezzi. Funziona sempre, perché non richiede né corrente elettrica né accesso a Internet né particolari apparecchiature. Non permette il tracciamento delle abitudini di consumo. Garantisce riservatezza in particolare per regali, beneficenza, ecc. È inclusivo, perché non taglia fuori quanti sono senza conto in banca: immigrati o italiani, falliti, homeless, bambini. Prelevare contanti e pagare con i contanti dà il senso della spesa e della disponibilità residua. Sono così davvero molte le fake news che circolano. L’ultima trovata è che i contanti trasmetterebbero il coronavirus. Ma la banca centrale tedesca ha approfondito ed escluso tale pericolo, in virtù anche di specifiche caratteristiche delle banconote in euro. È anche falso che l’Italia sia la pecora nera d’Europa per la preferenza per i contanti. Li usano altrettanto in Germania, dove però nessuno li colpevolizza e, anzi, la Bundesbank li difende in tutti i modi, all’opposto che in Italia. Già, ma essa ha a cuore l’interesse dei suoi concittadini, Bankitalia quello dei banchieri. È una frottola che il costo del contante ammonti a 10 miliardi l’anno. Questa sparata circola anche in Germania, contestata però dalla banca centrale, secondo cui “la cifra è campata in aria e non provata. Per esempio la Bundesbank spende dai 60 agli 80 milioni di euro l’anno per la stampa delle nuove banconote”. E in modo ancor più tranchant spiega: “Gli argomenti, secondo cui il contante sarebbe il mezzo di pagamento più caro, sono semplicemente falsi”.

Approfondendo l’analisi, si scopre che i contanti convengono non solo a negozianti, ristoratori, artigiani, ma anche ai consumatori. Anche se è probabile che la percentuale di pagamenti elettronici aumenterà ancora, non si vede nessuna fine del contante. A parte i pagamenti, i contanti sono comunque insostituibili come riserva di valore. I soldi su conti e libretti sono moneta bancaria e le banche possono fallire. Le banconote sono la moneta della banca centrale, che non fallisce. Sono addirittura più sicure dell’oro. Prendiamo un lingotto da un chilo e lo stesso controvalore in una mazzetta di biglietti di banca da 500 euro. È vero che psicologicamente il lingotto infonde un senso di sicurezza maggiore. Eppure da un confronto puntuale le banconote risultano superiori ai lingotti a difesa dei propri risparmi. Ma questo, ad esempio, viene nascosto ai risparmiatori dal progetto di Educazione finanziaria. Cioè che i contanti in cassetta di sicurezza tutelano dai vari rischi che si corrono con conti correnti, libretti, buoni e titoli. In un’ottica di diversificazione una percentuale del proprio patrimonio va senz’altro tenuta in contanti. Resta scoperta solo la perdita di potere d’acquisto, che consiglia una quota dei risparmi in impieghi indicizzati all’inflazione. Vedi i Btp Italia, ma anche il buono fruttifero postale Obiettivo 65, apprezzabilissima novità del 2020, per altro annus horribilis.

8 marzo&lavoro. Occupazione femminile: cresce il divario con l’Ue

L e donne italiane sono state in prima linea nella lotta contro la pandemia, anche perché la loro presenza è predominante nel settore sanitario quanto nei servizi essenziali rimasti sempre aperti, come i supermercati. Eppure a un anno dalla diffusione del Covid, la ricaduta sociale ed economica ha già innescato impatti a lungo termine sull’uguaglianza di genere che affossa ulteriormente la condizione delle lavoratrici italiane: secondo un report dei Consulenti del lavoro, tra aprile e settembre 2020 sono stati persi dalle donne 402mila posti di lavoro. Ma se in Italia le lavoratrici tra 15 e 64 anni sono diminuite del 4,1%, in Europa il calo è stato solo del 2,1%. L’Italia è così al secondo posto per calo dell’occupazione femminile. Del resto, negli scorsi mesi sono state le donne a sacrificarsi rispetto ai compagni nella scelta di continuare a lavorare nei casi in cui non è stato possibile fare smartworking. Numeri drammatici che se ne aggiungono a un altro: in Italia le donne rappresentano meno del 40% della forza lavoro, mentre negli altri Stati sviluppati si va dal 60 all’80%. Ma c’è di più: delle donne lavoratrici in Italia un terzo è part-time: troppo per una nazione ricca. E tra i Paesi G7 abbiamo la percentuale più alta di gender gap salariale: circa il 44%. Un indicatore, sviluppato da Eurostat, che misura l’impatto di tre fattori specifici – guadagni orari, ore retribuite e tasso di occupazione – sul reddito mensile medio di uomini e donne. Il 4 marzo la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha presentato la proposta di una direttiva sulla trasparenza salariale per garantire che nell’Ue donne e uomini ricevano la stessa retribuzione per uno stesso lavoro. Ne dovrà discutere il Parlamento Ue e poi passerà all’esame dei singoli governi che potranno anche decidere di non accoglierla. Intanto quando le italiane accedono al lavoro, la loro condizione occupazionale è caratterizzata da una debolezza strutturale che finisce per renderle più esposte ai rischi di espulsione dal mercato rispetto agli uomini e alle colleghe di altri Paesi. A fare la differenza sono il mix di interventi messi in campo da decenni negli altri Paesi europei in grado di incentivare il lavoro femminile e, di conseguenza, la natalità: soldi in tasca subito, aiuti nella cura dei bambini, congedi parentali più flessibili e benefit vari. Ma il welfare italiano resta più attivo solo per le politiche di invecchiamento. L’Italia non è un Paese per donne.

 

Bpifrance, il braccio armato di uno Stato che fa l’imprenditore

“La banca degli imprenditori”. Così si definisce Bpifrance, società transalpina con un obiettivo ambizioso: finanziare le imprese dall’avviamento alla quotazione in Borsa. Qualcuno si potrebbe stupire guardando ai suoi azionisti. Metà della società è nelle mani della Caisse des dépôts et consignations (la Cdp francese) e la restante metà in quelle dell’Epic, agenzia per le partecipazioni statali. Non c’è però da sorprendersi: l’economia francese è saldamente imperniata sulla cooperazione pubblico-privato.

Bpifrance è nei fatti il braccio armato dello Stato imprenditore francese. Non è il residuo di un polveroso passato novecentesco, ma il risultato di un processo di rinnovamento dell’apparato pubblico. La società nasce infatti alla fine del 2012, su spinta di Francois Hollande, dalla fusione di Oséo, CDC Entreprises e FSI.

Dal punto di vista giuridico è una “società anonima”, soggetta alla vigilanza della Bce. Si finanzia con fondi pubblici e obbligazioni, ma le sue passività non rientrano nel debito nazionale. Formalmente ha il ruolo di “banca pubblica d’investimento”, ma di fatto è molto simile a un fondo sovrano. Tanto che Nicolas Dufourcq, direttore generale della banca dal 2013, usò esattamente quella definizione in un’intervista del 2017 a Firstonline.

La figura di Dufourcq ci aiuta a capire le ramificazioni di Bpifrance nell’economia francese: una lunga carriera alle spalle fra ministeri e imprese, fa parte del comitato di supervisione di STM, partecipata da Bpifrance (per l’appunto) e dal ministero dell’Economia italiano. Il manager è anche nel cda di Stellantis, nata dalla fusione fra Fca e Peugeot, dove proprio Bpifrance ha appena rilevato una quota del 6,2%. Una mossa che, assieme all’entrata nell’azionariato di Essilor Luxottica, mostra la volontà di contro-bilanciare il peso degli italiani nelle imprese italo-francesi.

Bpifrance, però, non opera solo nelle grandi aziende strategiche. Il suo core business è sostenere imprese micro, piccole e medie. Un ruolo che si è rafforzato nella crisi, in cui la banca è diventata il braccio operativo di Parigi per i prestiti garantiti dallo Stato (PGE), grazie ai quali oltre 600mila imprese hanno ricevuto ben 110,6 miliardi di liquidità. La banca ha poi assunto una funzione economica di stabilizzazione, evidenziata dal +27% dei prestiti a medio e lungo termine alle imprese (10,3 miliardi), mentre quelli a breve sono scesi del 23% rispetto al 2019, fermandosi “solo” a 7,1 miliardi.

Nonostante la pandemia, il finanziamento all’innovazione è salito del 138%, toccando quota 3 miliardi. In quest’ambito la banca ha avuto un ruolo primario nel canalizzare i fondi del piano France Relance. Sono cresciuti anche gli investimenti diretti, che hanno raggiunto i 3,6 miliardi. Un segnale importante in un periodo di estrema incertezza.

Certo, anche i settori tradizionali come il turismo sono stati supportati, ma la crisi non ha impedito il lancio di progetti innovativi. Se da una parte è stato dato impulso al fintech, dall’altra è stato creato un nuovo fondo (LAC1) per dare supporto a lungo termine alle multinazionali francesi. Anche la transizione ecologica ha trovato posto nell’agenda di Bpifrance, che insieme alla Banque des Territoires ha lanciato un piano per il clima da 40 miliardi.

Venture capital, credito all’export, innovazione, difesa delle partecipazioni strategiche. Bpifrance è l’asso pigliatutto della politica industriale francese.

Un ruolo criticato in patria dalla Corte dei Conti e dal Consiglio di analisi economica (un gruppo di esperti che coadiuva il primo ministro). Nel 2016, il Consiglio ha pubblicato una nota, cofirmata dal premio Nobel per l’economia Jean Tirole, in cui si suggeriva un progressivo ritiro di Bpifrance dai fondi che hanno raggiunto una dimensione critica. La banca, scrivevano gli studiosi, si sarebbe dovuta concentrare di volta in volta nello stimolare la nascita di nuovi fondi innovativi. Il timore, condiviso dalla Corte dei Conti, era la sovrabbondanza di capitale pubblico, che avrebbe “spiazzato” i fondi privati, oltre a essere percepito negativamente dagli investitori stranieri.

Il Consiglio sottolineava poi che “l’obiettivo dovrebbe essere la nascita di un’industria autonoma e internazionalizzata di capitale di rischio” e non un intervento pubblico strutturale a tempo indeterminato. A Bpifrance, però, sembrano aver fatto orecchie da mercante, dato che dal 2016 a oggi la banca si è rafforzata, consolidandosi come un presidio di primaria importanza per indirizzare il capitalismo privato secondo gli interessi dello Stato francese. L’arrivo di un liberale come Emmanuel Macron all’Eliseo non ha cambiato nulla.

Le odi di giornali e tv, che aspettano solo il Recovery

Come i lettori sapranno, Il Fatto Quotidiano dall’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi ospita una rubrica chiamata “Santo subito”: certi capolavori agiografici al presidente del Consiglio meritano di essere sottolineati. Certo, la figura dell’ex presidente Bce incute timore reverenziale nei cronisti abituati ai solitamente più dozzinali e abbordabili politici (ognuno scelga il nome che crede) e di sicuro Draghi incarna al meglio la cultura – tra molte virgolette – dominante nelle redazioni, ma se l’egemonia culturale può valere per giornalisti e commentatori, gli editori – tanto cartacei che televisivi – hanno anche altre e più prosaiche ragioni per lisciare il premier dal verso del pelo, ragioni che riassumeremo nelle parole “Recovery Plan”.

Il settore dell’editoria cartacea è quello che è: il mercato è in calo da anni, molte aziende se la passano male e va ancora trovato un modo profittevole per portare questo mondo nel digitale. Il Covid non ha aiutato: dal 2007 al 2019 il fatturato era sceso del 60%, il 2020 ha aggiunto 600 milioni in meno di ricavi, dice la Federazione degli editori. Un programma di aiuti pubblici, insomma, serve come il pane e se ne discuteva già col precedente governo (come con tutti i governi, che – da ultimo nel 2019 – non hanno lesinato in fondi per i pre-pensionamenti, che però hanno dato un’altra spallata alla già malmessa Inpgi, la cassa previdenziale dei giornalisti). Il punto è: stabilito che qualche briciola del Recovery andrà anche alla carta stampata, come sarà impiegata? Uno dei quattro filoni d’intervento presentati in Parlamento dal presidente della Fieg Andrea Riffeser Monti – peraltro impegnato in un pesante piano di tagli (per i lavoratori) nel suo gruppo – spiega tutto: transizione digitale di qua, informatizzazione delle edicole di là, consegna a domicilio sopra e sotto a tutto “ricambio generazionale”, che nelle proposte Fieg pre-pandemia si accompagnava sempre a “moderazione del costo del lavoro” su cui ci si porta comunque avanti. “Ricambio generazionale” significa pre-pensionamenti, che per pubblicazioni in genere ossessionate dalle deroghe alla legge Fornero (tipo Quota 100) è abbastanza bizzarro. La digitalizzazione e il resto erano già nel piano “Editoria 5.0” dell’ex sottosegretario delegato Andrea Martella del Pd: ora vediamo se quello nuovo, il berlusconiano Giuseppe Moles, vorrà aprire al futuro liberando le redazioni dal passato. Intanto gli editori si sono eccitati per il sostegno al settore di Anna Maria Bernini, sempre Forza Italia: “La comunicazione è uno degli asset degli indicatori di performance di un Paese e deve essere uno dei nostri detonatori di futuro” (sic).

I padroni delle tv, al contrario di quelli dei giornali, non prenderanno le briciole del Recovery Plan: i miliardi destinati alla transizione digitale – banda larga in testa – finirà per ridisegnare il settore per come l’abbiamo conosciuto, a partire dall’integrazione tra i broadcaster e le aziende di telefonia (l’alleanza tra Dazn e Tim per i diritti tv del calcio che potrebbe mandare all’inferno Sky è solo un antipasto). Silvio Berlusconi, come al solito, s’è piazzato al centro dell’incrocio: debole a livello industriale e finanziario, presidia il governo (al Mise c’è il leghista Giorgetti, anche se le deleghe sulle tlc dovrebbero andare alla grillina Todde) per strappare se non altro il miglior prezzo possibile quando il dinosauro Mediaset sarà spinto a forza nel nuovo mondo (presente Netflix o gli Ott tipo Amazon?).

Ovviamente come questo avverrà, secondo quali linee guida, attraverso quale ruolo e quanti soldi dello Stato è il centro della partita: il governo dovrà soprattutto decidere quale missione assegnare a Cassa depositi e prestiti (già azionista di Tim e Open Fiber) e cosa fare coi francesi di Vivendi, che comanderanno in Tim e vorrebbero farlo anche in Mediaset. Silvio, Draghi permettendo, spera tanto di no.

Tutti gli errori di Supermario: il disastro sulla lira del 1992

L’ex presidente della Banca centrale europea ed ex governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, è giustamente accreditato di capacità, esperienza, competenza e credibilità internazionale. Può fare bene, ora che è capo del governo, soprattutto nel difficile risanamento dei conti pubblici nazionali, gravati dal pesante debito, e nel sempre complicato confronto con l’Europa, ancora super-influenzata dalla Germania. Ma Draghi dovrebbe non esaltarsi troppo per le tante celebrazioni preventive dilagate sui media e prestare comunque molta attenzione a non ripetere gli errori, i disastri finanziari e i potenziali conflitti d’interessi, che non sono mancati nella sua lunga e brillante ascesa nelle istituzioni pubbliche italiane e sovranazionali. E che gli hanno fatto rischiare di infrangere definitivamente le sue ambizioni già all’inizio.

Era il drammatico 1992, l’anno dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino assassinati dalla mafia a Palermo, e dell’arresto di Mario Chiesa del Psi, che diede il via alle inchieste della Procura di Milano su Tangentopoli. Draghi, proveniente dalla Banca Mondiale di Washington, dal ’91 era stato nominato direttore generale del ministero del Tesoro su “segnalazione” del governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. In quel ruolo partecipò a una inutile e autolesionistica difesa del cambio della lira, che in settembre polverizzò le riserve valutarie della banca centrale italiana, stimate in circa 48 miliardi di dollari. E che portò egualmente a una svalutazione della moneta nazionale sui mercati di circa il 30%.

Mega-speculatori come il controverso ungherese-americano George Soros, banche multinazionali e investitori stranieri, “intuito” che la Banca d’Italia intendeva andare avanti a oltranza in quella strategia suicida di difesa del cambio, guadagnarono somme colossali attaccando la debole valuta italiana vendendola in massa. Ma anche banche, imprese e politici nazionali ebbero la possibilità di beneficiare del tempo per uscire da debiti in monete forti, per acquistare dollari e marchi da Bankitalia (pagando con lire vicine al deprezzamento) e per esportare o occultare capitali all’estero.

Draghi, insieme al suo mentore Ciampi e al numero due di Bankitalia Lamberto Dini, fu tra i responsabili tecnici di quel disastro finanziario per l’Italia e per i suoi cittadini, pilotato nel livello politico-istituzionale dal premier craxiano Giuliano Amato e dal ministro del Tesoro dc Piero Barucci. Questo quintetto – per la passione di Draghi e di Barucci per la pallacanestro – fu soprannominato ironicamente da cambisti arricchitisi con le speculazioni sulla lira “dream team” e “la squadra del ’92”, prendendo spunto da quella Usa di basket che vinse l’oro alle Olimpiadi di Barcellona.

Ciampi, avendo diretto da Via Nazionale la difesa tecnica della lira, in sintonia con il capo del governo e con il Tesoro, fu il primo a dover presentare le sue dimissioni appena le riserve valutarie si esaurirono, fu necessario svalutare e la moneta italiana fu costretta a uscire dal sistema europeo Sme. Amato, Barucci, Draghi e Dini avrebbero dovuto seguirlo a ruota, chiudendo lì la loro carriera nelle istituzioni pubbliche italiane. Ma il premier craxiano riuscì in qualche modo a convincere il Quirinale, dove si era da poco insediato il dc Oscar Luigi Scalfaro, e i principali partiti a perdonare “la squadra del ’92”, evitando così ulteriori clamori in una realtà già offuscata dall’emersione della corruzione politico-affaristica. Grandi gruppi imprenditoriali e finanziari italiani, che controllavano o influenzavano il grosso dell’informazione nazionale, appoggiarono la linea del buonismo silenzioso verso il “dream team”. Nelle direzioni di molti giornali quel tracollo sulla lira fu rapidamente dimenticato.

Il “settembre nero” della moneta italiana veniva invece evocato spesso – riservatamente – in scontri finanziari e in contrasti tra poteri “sotterranei”. Provocò velenose voci di collegamenti con la discussa mini-crociera all’Argentario sul panfilo reale inglese Britannia, del giugno ’92, dove Draghi in pratica aprì le porte del suo ministero del Tesoro ai banchieri anglo-Usa, ansiosi di guadagnare in Italia con la vendita dei beni dello Stato e con altri affari.

Anni dopo, quel tonfo della lira fu richiamato apertamente in un esposto alla magistratura italiana di una lobby schierata contro Soros nell’area del partito democratico Usa. Evidenziava anche il rapporto tra lo speculatore ungherese-americano e l’allora premier Romano Prodi, a sua volta molto vicino a Ciampi, nominato suo ministro del Tesoro con il fidato Draghi sempre più potente direttore dello stesso dicastero. L’indagine, passata dalla Procura di Milano a quella di Roma, si dissolse davanti all’impossibilità di ricostruire le speculazioni miliardarie contro la lira occultate dietro il rigido segreto dei paradisi fiscali. La Procura di Napoli sospettò che, nel 1992, avesse speculato contro la moneta nazionale perfino la criminalità organizzata, dopo aver in qualche modo “intuito” la decisione del governo Amato e di Bankitalia sull’inutile difesa a oltranza del cambio. Ma non emersero prove.

Nel 1997 il Corriere della Sera – con le due indagini giudiziarie in corso a Roma e a Napoli – ricostruì fatti inediti e pubblicò le giustificazioni richieste ai protagonisti del “dream team”. A intervenire pubblicamente sul tema fu però solo il super-inquisito leader del Psi Bettino Craxi, latitante ad Hammameth, con una lettera al direttore del Corriere Paolo Mieli. Nel testo di fatto negava di essere tra i politici che potrebbero essersi arricchiti speculando contro la lira nel ’92, magari utilizzando informazioni riservate trapelate da quel governo craxiano-democristiano. Craxi ammise di essere stato informato dal suo braccio destro e premier Amato sulla difesa della moneta, che definì “sconsiderata” e accolta “con sconcerto”. Rivelò di avergli segnalato inutilmente “lo spreco di risorse” dello Stato e che “governo e Banca d’Italia si stavano addentrando in un tunnel senza via d’uscita”. A sostegno delle sue affermazioni scrisse che, delle sue telefonate con Amato, “dovrebbe esserci traccia”. E auspicò una “commissione d’inchiesta” del Parlamento su quell’azzeramento di “70 mila miliardi di lire in valuta estera” e sulla conseguente perdita per l’Italia, che stimava in “14 mila miliardi di lire”. Chiedeva poi di “accertare quali gruppi finanziari italiani, e se per caso anche istituti di credito nazionali, abbiano partecipato, rafforzandolo, all’assalto condotto dalla speculazione internazionale contro la lira”.

Ma Craxi era ormai un politico squalificato e vicino alla fine. Prevalse di gran lunga la versione difensiva di Amato e degli altri del “dream team”, che ammisero esclusivamente il pur rovinoso errore di valutazione sugli effetti dei maxi acquisti di lire attuati dalla Banca d’Italia per sostenerne la quotazione. Spuntò informalmente, come scusante, l’aspettativa del premier craxiano di un improbabile aiuto della Germania alla moneta italiana sotto attacco della speculazione, che da Berlino non arrivò.

In ogni caso Ciampi si vide respingere le dimissioni e fu confermato al vertice di Via Nazionale, nonostante la perdita di migliaia di miliardi di lire. Fu nominato presto premier, poi ministro del Tesoro e presidente della Repubblica, molto apprezzato dai media fino alla scomparsa. Amato collezionerà incarichi pubblici importanti, sarà più volte ministro e di nuovo capo del governo. Dini lasciò Bankitalia per decollare come ministro del Tesoro di Silvio Berlusconi, divenne premier “tecnico” e poi passò al vertice della Farnesina con il centrosinistra. Se si esclude Barucci, che preferì dedicarsi a lucrose attività finanziarie private, tutta “la squadra del ’92” è stata gratificata con la guida del governo. L’ultimo che mancava a Palazzo Chigi era Draghi.

(1, continua)

L’insetto. “Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano”. Aiuto, le ho uccise (quasi) tutte!

Ho trovato un’invasione di formiche nel mio bagno, tutte in fila, come in processione. Ho cercato invano di capirne la provenienza tra gli angoli remoti del bagno: nessuno sa da dove vengano e dove vadano!

Certo sono attratte da qualcosa, forse qualche residuo alimentare. Ma non c’era nessuna traccia di cibo per terra, quindi, perché si sono radunate nel mio bagno di notte? Vivono sotto terra in assenza di luce, l’ho letto sull’enciclopedia degli animali, per cui invadere il mio bagno, di mattina o di sera, per loro non fa differenza. Io non ho nulla contro le formiche: non sono fastidiose come le zanzare, non fanno male a nessuno, hanno una loro società organizzata, sempre secondo l’enciclopedia, basata su una gerarchia precisa. Esiste una regina che si riproduce senza l’aiuto del maschio, mentre le femmine sterili, diventano o soldati o operai; e i maschi? Boh. Non pervenuti. Le formiche passano la vita a cercare il cibo e a farne scorta, guidate dalla formica scout, da qui la differenza con le cicale, come nella poesia di La Fontaine.

Le formiche creano accampamenti tenendosi per le zampette, edificano vere e proprie città, oppure conducono una vita nomade, e lì dipende dal carattere. Però, tutte queste informazioni, le ho apprese dopo avere svuotato un’intera scatola di polvere bianca velenosa sul corpo delle malcapitate! Per colpa della mia ignoranza, ho sterminato un’intera società organizzata, una collettività, un consorzio animalesco. Non nascondo un forte senso di colpa e un certo rimorso. D’improvviso ho notato, nel campo di battaglia, un puntino bianco che camminava solitario, era l’unica superstite che, tutta polverosa, cercava disperatamente una via di fuga. L’ho guardata allontanarsi, forse ce l’aveva con me, si sa: “Anche le formiche, nel loro piccolo s’incazzano”.

 

Walter Pedullà. Passeggiata nel bosco letterario del Novecento, incontrando l’amore (e Pasolini)

“Il pallone di stoffa” di Walter Pedullà edito da Rizzoli è, dichiarato nei titoli e sulla copertina, le “memorie di un nonagenario”. In realtà non è la biografia dell’autore (protagonista della critica letteraria del secolo scorso) ma la narrazione di una straordinaria movida letteraria che ha animato scrittori, editori, librerie, premi, concorsi e insegnamenti, durante un lungo periodo creativo.

È stata un’epoca felice e infelice, carica di cose nuove prima del tempo. In questo libro l’autore (un faro della letteratura italiana) si mischia alla folla di scrittori e critici tra cui viaggia la sua memoria; e benché lui stesso abbia generato movimenti, aggregazioni e mutamenti, non fa di sé il protagonista, non lascia imperversare un “io” che guida e giudica. Piuttosto accosta il lettore a nuovi modi di ciò che conosce o lo avverte di spazi vuoti, o ingiustamente trascurati.

Solo i primi capitoli sono memoria privata. Pedullà ci porta al tempo dell’infanzia, ormai antica (posso dirlo da coetaneo) della famiglia, delle dispute sul suo nome con la V o con la W, della prima frase in latino. Due realtà si confrontano: le differenze di età (avere 8 anni, averne 18) e vivere al Sud o al Nord (che comincia a Roma e dura per sempre). Ma verso Roma Walter Pedullà non arriva da solo. Ci sono già Giacomo Debenedetti, Leonardo Sciascia, il D’Arrigo dello Horcynus Orca. Nella lunga passeggiata arrivano ad ogni capitolo gli autori di quell’Italia miracolosa: Vittorini e Mondadori, Cesare Garboli e Calvino. Intanto, sul fondo della fremente scena letteraria, compare e ricompare, ossessione e meraviglia, l’Ulisse di Joyce. Come nei film della prima Hollywood, ci sono tanti illustri cameo roles. Passano Moravia, Morante, Guttuso, per accompagnarsi a Pasolini. E Pasolini aggiunge, nella movida letteraria di Pedullà, i nomi di partecipanti essenziali: Bassani, Calvino, Cassola, Fenoglio, Ottieri.

Come accade con i fuochi artificiali in certe feste, scoppia improvviso l’amore, fra le pagine bene organizzate di Pedullà; che sono tempo, storia, politica (appena intravista ma molto importante) e vengono usate con bravura nei due sensi di farti conoscere l’autore e farti sostare accanto al libro. L’amore è la donna che, a partire da un punto, brevissimo e forte, occupa nel poderoso volume due pagine bellissime. E tutta la vita dell’autore.

L’avventura continua e questa escursione vuole indurre il lettore a entrare nel bosco pieno di avventure del coltissimo critico (che sarà persino presidente della Rai) e a non perdere due citazioni sparse tra le pagine, di un libro quasi festoso. Una è di Bismarck, citata da Pedullà: “Ci sono persone che celebrerebbero il loro compleanno ogni giorno”. L’altra è portata qui dalle memorie di Olaf Palme: “La pecora va tosata, non scannata”. Ecco, in Il pallone di stoffa c’è un senso di tolleranza, un tono lieto, una voglia di capire più che di giudicare che identificherebbe questo libro persino se si perdesse la copertina.

 

Il pallone di stoffa. Memorie di un nonagenario

Walter Pedullà

Prezzo: 20,90

Editore: Rizzoli

Sudan. La corte serrata di Usa e Russia a Khartum

Scene da film a Port Sudan, sul Mar Rosso, dove un cacciatorpediniere della marina Usa – la USS “Winston Churchill” – ha attraccato la scorsa settimana sullo stesso molo che ospitava la fregata russa “Ammiraglio Grigorovich” arrivata il giorno prima. Nonostante le tensioni da “guerra fredda” fra le due superpotenze, c’è stato grande fair play fra gli equipaggi: si sono ignorati. L’arrivo della nave militare russa segna l’attuazione di un recente accordo con Khartoum che consentirà a Mosca di stabilirvi una base navale. Per contrastare l’espansionismo russo in Africa orientale da tempo Washington cerca di allargare i suoi legami con il governo post-rivoluzionario del Sudan. La rivolta pro-democrazia che ha spodestato il dittatore Omar al-Bashir nel 2019 ha fornito agli Stati Uniti l’opportunità di contrastare i tentativi della Russia. Il mese scorso, la “Carson City”, una nave da trasporto, è stata la prima nave militare statunitense ad attraccare in Sudan da decenni. Gli scali seguono una visita in cui l’ammiraglio della marina Usa Heidi Berg – vice di Africom – e l’ambasciatore Andrew Young si sono incontrati con gli uomini del governo a Khartoum per discutere “percorsi di collaborazione”. Nel 2020 gli Usa hanno rimosso il Sudan dalla lista dei Paesi sponsor del terrorismo, dopo che i nuovi governanti sudanesi hanno compiuto passi verso la creazione di una democrazia e deciso di normalizzare i legami con Israele. L’amministrazione Trump ha offerto una significativa riduzione del debito e la rimozione dalla “black list” per spuntare quest’ultima concessione. Nel frattempo, il Sudan ha concesso alla Russia – già mentore di Al Bashir – di costruire un centro navale in grado di ospitare navi a propulsione nucleare a Flamingo Bay, appena a nord di Port Sudan per i prossimi 25 anni. Mosca in cambio fornirà al Sudan armi ed equipaggiamento militare. La Russia mantiene anche il diritto di trasportare armi e munizioni alla base, che sarà protetta dalle forze armate del Sudan. L’accordo consente inoltre alle forze armate russe di offrire addestramento e supporto cooperativo all’esercito di Khartoum, una tattica di rafforzamento dell’influenza che i comandanti statunitensi stanno cercando di parare con offerte concorrenti.

 

Sull’economia gli Usa indicano la via, che l’Ue non seguirà

Distratta dalla, pur sacrosanta, discussione sul disastro della strategia vaccinale, l’Unione europea rischia di perdere un’altra sfida posta dalla pandemia. Sabato il Senato americano ha dato l’ok al grande piano di stimoli dell’amministrazione Biden da 1900 miliardi di dollari. Il neo presidente democratico deve rinunciare (per ora) a portare il salario minimo federale a 15 dollari, ma il pacchetto resta di dimensioni notevoli: il cuore sono i pagamenti diretti alla maggior parte dei cittadini Usa per circa 1.400 dollari, ma vengono estesi anche i sussidi federali di disoccupazione, gli aiuti alle famiglie con figli a carico e i fondi agli Stati.

Il piano è contestato da diversi economisti perché porterebbe l’economia Usa al di sopra del suo potenziale di crescita, aumentando le spinte inflazionistiche. Il Segretario al Tesoro Janet Yellen ha replicato che “il rischio di fare troppo poco è maggiore del rischio di fare troppo”. Secondo l’economista Adam Tooze, è lo spostamento a sinistra di una discussione che la leadership democratica ha delegato per decenni a scelte tecnocratiche. Anche con Clinton e Obama la politica fiscale e quella monetaria si sono mosse con l’idea di sbagliare solo nell’ eccesso di cautela, dosando attentamente gli stimoli e alzando i tassi preventivamente per evitare di surriscaldare l’economia. Per Tooze, questo ha aumentato la disoccupazione, indebolito i salari e disincentivato gli investimenti per aumentare la produttività. L’America, pur con le sue grandi disuguaglianze, oggi vuole spostare l’equilibrio e spendere subito per avere la ripresa più rapida possibile.

E l’Europa? Bruxelles ha deciso di congelare fino al 2023 le rigide regole di bilancio. I singoli Stati sono intervenuti con forti stimoli anche se sbilanciati a favore di garanzie e prestiti piuttosto che sulle spese aggiuntive. Il piano europeo (Recovery fund) vale 800 miliardi, di cui solo la metà in sussidi e in un arco temporale di 6 anni. Il confronto è impietoso: il piano Usa permette di recuperare il terreno perso, quello Ue no, anche perché gli Stati Uniti partivano da una posizione migliore. Eppure in Europa oggi la discussione è solo su come riformare le regole di bilancio. Perderemo altro terreno.