Un calcio alle regole. Juve e Lazio, tamponi in ritardo: la multa-stangata vale 937,5 euro

Mentre si è ufficialmente aperta la Pagliacciata n. II del “Calcio-Covid” made in Italy (dopo la partita Juventus-Napoli non giocata, col 3-0 assegnato alla Juve, il punto di penalizzazione inflitto al Napoli e la cancellazione finale di ogni provvedimento preso, è ora la volta del match Lazio-Torino, non disputato e che seguirà presumibilmente lo stesso iter), col mondo intero che ci guarda e ci sbertuccia visto che solo da noi avvengono baracconate simili, divampa il caso tamponi-Lazio, col presidente Lotito e il medico Pulcini deferiti per il “mancato rispetto delle norme in materia di controlli sanitari”.

Il sospetto della Procura è che in avvio di stagione le positività di alcuni giocatori non siano state segnalate e che un calciatore, Immobile, sia stato mandato in campo positivo nel match Torino-Lazio (guarda un po’ il caso). Tutto bene, anzi tutto male, ma la domanda è: con che credibilità il calcio italiano sta facendo tutto questo? Anche se a molti sarà sfuggito, il protocollo Figc, messo a punto la primavera scorsa quando la Serie A venne sospesa per cento giorni da marzo a giugno, venne gravemente infranto già allora, alla ripresa del campionato avvenuta il 20 giugno, per le inadempienze di due club di primo piano e in lotta per lo scudetto: la Juventus e la Lazio. Nonostante le sanzioni minacciate fossero pesanti (in base alla gravità della violazione si andava, e ancor’oggi si va, dell’ammenda ai punti di penalizzazione fino alla retrocessione e all’esclusione dal campionato) successe che in 3 occasioni la Juventus e in 2 la Lazio non rispettarono l’obbligo, osservato invece dagli altri 18 club, di sottoporre i giocatori al tampone ogni 4 giorni. Juventus e Lazio fecero a modo loro; per 3 volte la Juve allungò l’intervallo tra i tamponi a 5 giorni e per 2 volte la Lazio lo dilatò a 6. Una scorrettezza grave: se commessa da tutti i 20 club avrebbe trasformato la Serie A in una giungla moltiplicando a dismisura i rischi di contagio per i giocatori.

Ebbene, non solo il torneo si concluse con lo scudetto della Juventus e la qualificazione-Champions della Lazio ratificati senza alcun tentennamento, non solo la notizia delle gravi infrazioni commesse venne tenuta nascosta, ma a distanza di quattro mesi, il 23 novembre 2020, nel più totale silenzio il presidente Figc Gravina firmò un comunicato con cui avallava il patteggiamento intercorso tra Juventus, Lazio e Procura Federale, accordo che prevedeva le seguenti risibili sanzioni: per quanto riguarda la Juventus, “per responsabilità diretta e oggettiva”, un’ammenda di 4 mila euro al club e una multa di 1500 euro al medico sociale Tzouroudis e al responsabile sanitario Stefanini; per quanto riguarda la Lazio, un’ammenda di 2500 euro al club, di 1875 al presidente Lotito e di 937,5 al medico sociale Pulcini e al responsabile sanitario Rodia. Il tutto all’insaputa del mondo, che solo due mesi dopo, il 22 gennaio 2021, venne informato dell’avvenuta farsa.

Ora, per un secondo caso-tamponi, la Procura ha deferito Lotito e il dr. Pulcini della Lazio. Detto che non si capisce perché i deferimenti non siano scattati anche a fine campionato scorso, magari con l’adozione dei seri provvedimenti previsti, la curiosità è vedere come finirà stavolta. C’è chi dice che la multa a Lotito potrebbe essere raddoppiata, da 1875 a 3750, e lo stesso per il dottor Pulcini, da 937,5 a 1875. Mamma mia che paura, si salvi chi può!

 

Appello alla Treccani: via “zoccola” e “cagna” dai sinonimi di “Donna”

 

Promossi

Televisione spazzatura.

Dal microfono televisivo al cassonetto dei rifiuti la discesa non è breve, ma Salvo Aiello l’ha percorsa tutta, fino al traguardo, dove non c’era la maglia rosa bensì la divisa da netturbino. Torniamo ai nastri di partenza. Tre anni fa il telecronista Aiello è la voce del ciclismo sul canale satellitare Eurosport. Poi il licenziamento, le promesse d’aiuto, l’odissea di cercarsi un lavoro (uno qualunque per sbarcare il lunario con moglie e figlia) e l’epilogo dignitosissimo come operatore ecologico. Oggi il cronista pulisce le strade di Milano, ma prima s’è tolto il sassolino dalle scarpe: “Annuncio a tutti quelli che 3 anni fa mi dissero che non si sarebbero dati pace, finché non mi avessero trovato un lavoro alla mia altezza, per poi sparire, che possono rilassarsi. Sono a posto così”. Con un post su Facebook e la foto di lui, sorridente sul predellino del camion dei rifiuti, Salvo Aiello ha regolato i conti. Non sarà poesia come una rimonta di Pantani, ma un solido punto di partenza sì.

 

Il vangelo di Masterchef.

Cala il sipario su Masterchef 10: ha vinto Francesco Aquila, il cuoco gentile e curioso col vizio di sbirciare per imparare. E un po’ siamo contenti, perché l’andazzo generale è che il più “stronzo” vince sempre. Soprattutto non è dispiaciuta Sky: giovedì scorso il cooking show ha collezionato 1.040.372 spettatori medi e il 3,87% di share; più 3% rispetto alla semifinale della settimana prima. Masterchef ha pregi e difetti. Il lato positivo è la cura del dettaglio: il montaggio, la scrittura, il ritmo rapido dei “siparietti” tra giudici e concorrenti, senza perdere la spontaneità e l’improvvisazione di una gara di cucina (in apparenza, che è quel che conta). Però non si capisce una cosa: perché mai i giudici-chef dovrebbero insegnare a vivere ai concorrenti che fanno un altro mestiere? Tra un consiglio sulle gelatine e una tirata d’orecchie per la cottura, infatti, ci scappa sempre la ramanzina moraleggiante, l’insegnamento etico, il consiglio di vita. Forse, in cucina, il mistero del cosmo si dischiude come un uovo, affinché il cuoco stellato abbracci la missione di evangelizzare il mondo?

 

Bocciati

Sanremo, picco di novità.

Mentre Masterchef incoronava Aquila, su Rai1 andava in scena la terza serata di Sanremo: 44,3% di share, in risalita rispetto al 41,2 del secondo capitolo, ma un tracollo al cospetto dell’anno prima, quando il terzo atto all’Ariston raccolse il 54,5% del pubblico. Il picco d’ascolto, giovedì scorso, arriva alle 21.46: 13 milioni 194mila spettatori s’inchiodano sul primo canale ad ascoltare Fiorello che canta “Fatti mandare dalla mamma”, immortale brano del 1962 cantato da Gianni Morandi. Il prossimo anno la canzone compie 60 anni: immaginiamo che l’età media degli spettatori Rai non sia così distante; peccato non siano immortali come le canzoni. Se viale Mazzini volesse rinnovarsi per togliere un po’ di polvere dal palinsesto, un consiglio: guardare Sky, e Masterchef.

 

La lingua del male.

Cento donne firmano la lettera per chiedere alla Treccani di correggere la voce “donna” nel dizionario dei sinonimi online. A sostenere l’appello Laura Boldrini, Michela Murgia, la vicedirettrice di Bankitalia Alessandra Perrazzelli. Di nuovo, la bonifica lessicale travolge l’enciclopedia. Già nel mirino per l’espressione “lavorare come un negro”, l’istituto allora si difese spiegando la sua missione: “In un dizionario non è solo normale ma doveroso che sia registrato il lessico nelle sue varietà e nei suoi ambiti d’uso”. Perciò la voce “donna” elenca le espressioni “bagascia”, “baldracca”, “battona”, “cagna”, “mignotta”, “zoccola”. Ma il dizionario ne specifica l’uso spregiativo e volgare. Non basta: “Simili espressioni rinforzano stereotipi negativi e misogini”, scrivono le firmatarie dell’appello. E hanno ragione. Ma non ha torto nemmeno la Treccani: se gli italiani chiamano le donne in malo modo, spetta davvero ai linguisti censurare le “brutte” parole?

 

Alberghiero anticlan. Dal diritto alla cucina: 10 giorni di lezione sull’inchiesta di Gratteri

E poi dice i professionali. Sono o no gli istituti scolastici con i maggiori tassi di abbandono? Racconta un luogo comune che le migliori iniziative antimafia le trovi nei licei. E spiega perché: cultura umanistica, famiglie benestanti, materie adatte per ragionare di storia e società. E invece una delle idee più brillanti in assoluto l’hanno avuta (e benissimo realizzata) la scorsa settimana in un istituto alberghiero alla periferia di Torino, Barriera di Milano: il “Bartolomeo Beccari”, popolosa scuola dalle grandi tradizioni antimafiose, l’aula magna dedicata a Lea Garofalo e un attivissimo presidio di Libera, animato da Pierangela Mela, intitolato a Felicia Impastato. All’origine di tutto la Rinascita-Scott, ossia la grande inchiesta su ’ndrangheta e facoltosi dintorni promossa dalla procura della Repubblica di Catanzaro e guidata da Nicola Gratteri, giunta in gennaio a dibattimento nell’aula bunker di Lamezia Terme.

Un autentico maxiprocesso, 355 imputati affiliati alle più diverse cosche calabresi. E se i media sembrano tenere sull’evento, uno dei più importanti della storia giudiziaria italiana, un bassissimo profilo, se in scuole più blasonate si preferisce non discutere di un processo ancora in corso prima che ne siano fuoriusciti colpevoli e innocenti, qui hanno pensato che vale comunque la pena informarsi del contesto generale, del mondo in cui si stagliano i fatti emersi da filmati e intercettazioni. Il collegio docenti ha deciso che quel formidabile e intricato malloppo di vicende non dovesse passare inosservato agli occhi degli studenti, anche se ambientato a mille chilometri di distanza. “Prima di tutto la formazione dei futuri cittadini”, ha pensato.

Gli insegnanti si sono quindi rimboccati le maniche sotto la guida del dirigente scolastico Pietro Rapisarda, origini siciliane, un vulcano di iniziative civili e nel poco tempo libero grande ballerino di tango. E hanno programmato dieci giorni di lavoro sul processo. Nessun ospite famoso a fare da attrazione per la stampa. Ma un grande lavoro comune, come sempre dovrebbe essere. Gli insegnanti di diritto si sono dedicati ad analizzare la fitta rete dei reati contestati al maxiprocesso, per illuminare il rapporto concreto tra presenza mafiosa e ingiustizia sociale. Altri insegnanti si sono invece dedicati a valorizzare il bello della Calabria, così da prevenire i pregiudizi criminalizzanti verso la regione. Per esempio quelli di accoglienza turistica hanno provato a simulare con i loro allievi i più bei percorsi turistici – spiagge, archeologia – sui posti sfregiati dalla arroganza e dalla violenza mafiose. Mentre quelli di cucina hanno lavorato alla realizzazione dei piatti più tipici e tradizionali della gastronomia dei luoghi.

Con un particolare fondamentale: che i piatti sono stati rigorosamente confezionati con ingredienti provenienti da aziende “pizzo-free”. Pietro Armentano, insegnante cuoco di Cerchiara Calabra, ha fatto confezionare speciali dolcetti che, imbustati e accompagnati da pensierini della III B e della III C, sono stati mandati in dono alla Dia torinese. Si sono dati da fare anche i docenti di scienze motorie.

Insomma, dieci giorni alternativi. Utili per capire che cos’è la ‘ndrangheta, chi è un collaboratore di giustizia, qual è la differenza tra indagati e imputati, o che cos’è la Dia. “È venuta fuori un’ignoranza socratica”, spiega Lidia Calamia, professoressa di lettere, palermitana, che ha avuto l’idea di avvertirmi dell’impresa in corso. “Tanti pregiudizi verso la figura del pentito. Ma mi ha colpito soprattutto un ragazzo: mi ha chiesto come sia possibile che ancora in questi tempi qualcuno possa farsi ammaliare dalla mafia”.

Santa domanda. Da girare a chi magari non ha fatto l’alberghiero ma si è preso una laurea senza che nessuno gli insegnasse né la mafia né l’etica delle professioni.

 

Vaccino, la lotteria. Quelli che vogliono la dose per primi (e i depressi che “tifano” lockdown)

 

“Mio marito, malato polmonare: niente antidoto, e ora è positivo”

Cara Selvaggia, voglio rivolgere un appello alla Regione Lombardia sulla situazione drammatica che vivo da lungo tempo, insostenibile negli ultimi giorni. Antonio, mio marito, soffre di gravi problemi polmonari: ha trascorso 7 mesi tra un ospedale e l’altro e da ottobre era ricoverato per una lunga riabilitazione in una struttura privata. L’impegno economico è stato notevole, ma confidavo che almeno mio marito fosse “protetto” dal Covid. Invece no, e ora è positivo al virus. Data la sua patologia polmonare speravo fosse tra i primi, dopo gli ottantenni s’intende, ad essere vaccinato. Ma l’impressione era che, secondo i medici, Antonio fosse lontano dalle priorità della Regione Lombardia, l’unica istituzione a decidere sulla somministrazione delle dosi.

Il dibattito su chi debba vaccinarsi per primo, in Italia, ha perso ogni ragionevolezza: nessuna decisione e indicazione chiara da parte di istituzioni nazionali e locali. Come nelle peggiori tradizioni, il confronto si è spostato su quale “casta” vaccinare per prima, senza dimenticare le fiale che giacciono incomprensibilmente nei frigoriferi. Antonio non rappresenta alcuna casta, non è un insegnante, non è un poliziotto, non è un amministrativo della sanità che magari lavora in “smart working”, non è un avvocato. È una persona malata e per lui il vaccino è un salva-vita. Nonostante questo, né Regione Lombardia, né la struttura privata dove era ricoverato hanno ritenuto prioritario vaccinare Antonio, considerando l’età e la fragilità ai polmoni.

Siamo ai giorni nostri, è il 3 marzo e vengo avvertita dal medico del reparto che Antonio è risultato positivo al Covid. Viene trasferito all’Ospedale San Giuseppe di Milano e nella stessa giornata alla Multimedica di Castellanza. Ora sta lottando contro due nemici, la malattia polmonare che già aveva e il Covid. Chi devo ringraziare, io? E Chi deve ringraziare Antonio, per essere stato trattato come una “non-persona”, invece di un malato da tutelare con ogni mezzo? Perchè non è stato vaccinato? Antonio è un grande lottatore e l’ha dimostrato negli anni, ma quest’ultimo sforzo se lo sarebbe risparmiato, se solo vivesse in un Paese diverso, e serio con chi ha perso la salute. Per mio marito e per tutti i malati dimenticati, stritolati dalla burocrazia di una nazione da “manuale Cencelli”; alle loro sofferenze in solitudine e senza nessuna garanzia, da parte di istituzioni con l’obbligo, sulla carta, di tutelare le persone.

Francesca

 

Cara Francesca, il tuo Antonio è la dimostrazione di come e quanto non si sia imparato dal passato e non si sia stati in grado di organizzare il futuro. Da una parte ci sono gli ospedali, tornati ad essere un luogo di contagio come nella prima ondata. Dall’altra il futuro, in cui non esiste un piano vaccinale limpido e giusto, in cui persone già ricoverate in strutture pubbliche o private, non vengono considerate un’urgenza. Nel frattempo il virus corre e gli “Antonio del paese”, allettati e fragili, non possono scappare.

 

“Io, sociofobico, sto meglio in pandemia, e mi sento in colpa”

Cara Selvaggia, sono una di quelle persone che durante i lockdown stanno meglio. Non so se hai sentito parlare di noi, ma esistiamo. Siamo quelli che hanno leggere o acute forme di depressione (leggere nel mio caso, ma costanti) e che se il mondo si ferma ci sentiamo più in sintonia, più allineati alla realtà. Non fraintendermi. Io non godo delle disgrazie altrui, non mi piace che la gente muoia e io stesso ho paura per i miei genitori e le persone a cui voglio bene. Però, in pandemia, mi sento psicologicamente meglio. Non avverto la pressione del mondo che mi chiede di uscire, produrre, essere all’altezza, correre, brillare. Non devo interagire con gli altri, cosa che mi costa sempre una fatica mostruosa. Soprattutto, so che gli altri vivono una condizione simile a quella che vivo io nella quotidianità, più o meno da quando sono nato. Mi sento meno strano, meno atipico. Sento che finalmente tutti fanno la vita che io faccio sempre (o quasi) e non mi importa che siano costretti dalle contingenze. Mi importa che mi somiglino. Sono diventato meno scontroso, quando sento i miei sono di buon umore, non ho paura di sentirmi chiedere “che fai? Che hai fatto questa settimana? Dove vai nel weekend? Ti sei fidanzato?”. Addio domande dolorose, perché l’unica vera risposta – “non esco da 15 giorni, uscire mi affatica e non ho voglia di affrontare il mondo, è un peso anche scendere sotto casa” – gettava in una profonda angoscia i miei genitori. Perciò inventavo una vita in cui nei weekend andavo con gli amici a Viareggio e presto gli avrei fatto conoscere la mia fidanzata.

Dico la verità. L’inaspettato benessere psicologico in pandemia mi spaventa, perché da una parte tifo per il mondo e per il bene delle persone; dall’altra, ti prego di non giudicarmi, quando si è saputo dell’arrivo del vaccino, io ho avuto paura. Mi è dispiaciuto, quasi, e sentendomi in colpa. Ho capito che l’umanità presto ricomincerà a vivere e io un po’ a morire, giorno dopo giorno.

Mattia

 

Caro Mattia, non sei il primo a descrivermi questa sensazione. Ho un caro amico che mi ha confessato di non essere mai stato così bene mentalmente come in pandemia. Mi ha detto: “Non devo più cercare alibi alla mia sociofobia”. Anche lui soffre di depressione. Ti abbraccio.

Manon Aubry, la sinistra che striglia l’Europa: “Sudditi di Big Pharma”

 

Bocciati

Tutta la politica è paese.

C’è un confine, neanche troppo sottile, che in politica separa la responsabilità della decisione dal decisionismo sordo, e ottuso. Se la capacità di distinguere il confine è sempre una caratteristica fondamentale per un buon politico, lo è a maggior ragione quando la politica è chiamata (come non mai) ad assumersi la responsabilità di scegliere la strada migliore per limitare i danni; dopo aver ascoltato la scienza, certo, ma senza pretendere che sia lei ad assumersi l’onere della decisione. A scavallare ben oltre il confine, facendo sì una scelta politica, ma trascurando del tutto i consigli di chi conosce la materia e ignorando gli enormi rischi che essa comporta, sono stati i governatori di Texas e Mississipi, che hanno deciso di riaprire tutte le attività al 100%, e di revocare l’obbligo di utilizzo della mascherina. “Appare chiaro dalla ripresa, dalle vaccinazioni, dal calo dei ricoveri e dalle sicure pratiche che i texani stanno seguendo, che l’obbligo (delle mascherine) non è più necessario”, ha dichiarato il governatore del Texas Greg Abbott. In realtà lo scontro politico continua sulla pelle dei cittadini americani: Texas, Mississipi, Florida e South Dakota compongono il fronte repubblicano, in asse con Donald Trump, che con la linea aperturista ha dichiarato guerra alla nuova presidenza. Joe Biden ha commentato così: “Ragionamento da primitivi, roba da Neandhertal”. “Mutatis mutandis”, una scena che siamo abituati a vedere quotidianamente anche qui. In politica tutto il mondo è Paese.

4

 

Promossi

Dritto al cuore.

Povera Ursula von der Leyen, che settimana da incubo. Come se non bastassero le strigliate di Mario Draghi sulla debolezza della Commissione europea con le case farmaceutiche, ci si è messa anche Manon Aubry. Sconosciuta ai più fino a questa settimana, la Aubry, 31enne eletta in Francia nelle file della sinistra radicale di France Insoumise, e diventata co-presidente del gruppo Sinistra Unitaria Europea e Sinistra Verde Nordica, è balzata alle cronache inchiodando la presidente della Commissione europea alla sua sudditanza nei confronti di Big Pharma. Durante la seduta plenaria del parlamento Ue, di fronte ad un’imbarazzata von der Leyen, la giovane europarlamentare ha esordito così: “Non ci andrò alla leggera signora von der Leyen. Ho una domanda importante per lei oggi: come ha potuto la Commissione europea accettare di inchinarsi così di fronte alle case farmaceutiche?”. Nessun preliminare per una tirata di 4 minuti che ha provocato un profondo senso di catarsi in molti cittadini europei, arrabbiati per le prepotenze delle case farmaceutiche e con chi non ha saputo tenerle a bada. “Siamo in grado di imporre ai nostri concittadini una restrizione senza precedenti delle nostre libertà ma non saremmo in grado di stabilire le regole per Big Pharma?”, ha proseguito la Aubry. Non ha 73 anni di prestigioso curriculum, non è stata presidente della Banca centrale europea, e non porta con sé dietro le spalle l’aura di un “whatever it takes”, eppure il rimprovero di questa giovane donna ha colpito nel segno quanto quello di Super Mario. E Ursula lo sa bene.

9

 

Il mistero di Bose. Tra Kafka e il noir, fratel Bianchi dopo un anno non conosce le accuse contro di lui

Quando Josef K. venne arrestato chiese invano di cosa fosse accusato. Di fronte all’irrisione dei suoi custodi, ribatté: “Sarete costretti a rispondere”. Invece né lui né i lettori conosceranno mai i reati per cui fu processato e messo a morte. Il monumentale processo kafkiano sembra perfetto per il tragico tormentone che da oltre un anno tritura la vita di Enzo Bianchi, il carismatico monaco laico che dopo il Concilio Vaticano II, nel 1965, fondò la comunità di Bose, in Piemonte.

Ancora la settimana scorsa, nel comunicato in cui rifiuta le condizioni “disumane” per trasferirsi a Cellole, in Toscana, fratel Bianchi scrive: “Nel Decreto del Segretario di Stato consegnatoci il 21 maggio 2020, veniva chiesto a me, a due fratelli e a una sorella l’allontanamento da Bose a causa di comportamenti a noi mai indicati e spiegati che avrebbero intralciato l’esercizio del ministero del priore di Bose”.

La vicenda della clamorosa espulsione da Bose del suo fondatore comincia appunto nella primavera di un anno fa. Al termine di una visita apostolica avviata il 6 dicembre 2019, il 13 maggio il segretario di Stato cardinale Pietro Parolin firma un decreto ad personam di papa Francesco contro Enzo Bianchi. Deve andare via subito dal monastero. Da allora fino a oggi è tutto un susseguirsi di ultimatum vaticani e risposte del fondatore cacciato, ma che tuttora alloggia a Bose dopo aver rifiutato il trasferimento a Cellole (la cronologia è sul blog di Sandro Magister, Settimo Cielo). In ogni caso, il mistero delle accuse contro Bianchi non è stato sciolto. Già il 27 maggio 2020, il monaco obiettava: “Invano a chi ci ha consegnato il decreto abbiamo chiesto che ci fosse permesso di conoscere le prove delle nostre mancanze e di poterci difendere da false accuse”.

Così nei mesi si sono moltiplicate voci e illazioni di varia natura. Non solo. Autorevoli difensori di fratel Bianchi hanno accusato il Vaticano di violazioni giuridiche fondamentali. È stato pure messo in rilievo che il delegato pontificio Amedeo Cencini sia un conduttore di Radio Maria, nota emittente dei clericali di destra. E qui c’è un altro grande punto interrogativo dell’enigma di Bose: perché Francesco ha “condannato” il suo ex amico Bianchi?

Per quanto riguarda le accuse, nel giugno scorso il sito Confini ha intervistato il teologo Riccardo Larini, che per 11 anni ha fatto parte della comunità. Dice: “Ci sono tantissime persone, (…), in Italia e in tutto il mondo, che, non per il desiderio malsano di spiare ma per il loro cammino spirituale personale, hanno in qualche modo un bisogno profondo di sapere dove voglia e debba andare Bose, se le diatribe interne riguardino anche questo o siano solo questioni di debolezza umana”.

Mentre Alex Corlazzoli, altro conoscitore di Bose, nel suo blog del 17 febbraio scorso sul fattoquotidiano.it, annota: “Dopo nove mesi sono giunto ad una conclusione, dettata dalla conoscenza di fonti certe e dal prendere atto di eloquenti silenzi: quanto accaduto a Bose è solo frutto di una lotta di potere, di un tentativo da parte dell’attuale priore e di altri apparati della Chiesa di cambiare il volto della comunità”. Perché, allora, il Vaticano non si decide a rivelare il contenuto delle accuse?

 

La sai l’ultima?

 

Arezzo Il marito 93enne pretende il divorzio: “Mi sono innamorato, rivoglio la mia libertà”

Lui vuole rifarsi una vita, si è innamorato di un’altra, vuole ricominciare da capo. Lei non gli concede il divorzio, prova a resistere, chiede aiuto ai figli, mette in mezzo i nipoti. Lui ha 93 anni, lei solo 86. Lui pretende il divorzio: “Rivoglio la mia libertà”. Si affida agli avvocati e alla fine vince le resistenze della moglie, ottiene la separazione. Inutili i tentativi di intercessione dei figli della coppia, il papà è irremovibile, ha conosciuto un’altra signora al circolo del quartiere e non ne vuole sapere di tornare alla vita di prima. La contesa sul divorzio – scrive Repubblica Firenze – “è finita sul tavolo del presidente del tribunale. Che alla fine, dopo una faticosa mediazione tra i due coniugi non più di primo pelo, è riuscito a formulare una proposta di conciliazione che entrambi hanno accettato. Lei, l’ex moglie 86enne, manterrà l’usufrutto della loro casa di Arezzo. Lui se ne andrà di casa e dovrà versarle un assegno mensile da 300 euro”. Per ricominciare da capo.

 

Sudan Un gatto entra nella cabina dei piloti e dirotta l’aereo, costringendoli all’atterraggio di emergenza

La storia ha conosciuto le gesta di terroristi e attentatori posseduti dall’idea di un dio radicale e invasato, che misura la fede sui tributi di sangue. Ma secondo la cronaca recente, a quanto pare, per dirottare un aereo può bastare anche un gatto. È successo su un volo di linea sudanese, costretto a un atterraggio di emergenza dalla furia di un simpatico felino. “Stando a quanto riportato dal quotidiano Al-Sudani – scrive Fq Magazine – il fatto è avvenuto questa settimana su un volo della compagnia aerea Tarco con destinazione Doha, Qatar. Trenta minuti dopo il decollo, il gatto è stato trovato all’interno della cabina dell’aereo, dove ha dato in escandescenze ed è stato aggressivo: ha attaccato l’equipaggio, compreso il pilota”. Impossibile placarlo: “È stato doveroso prendere la decisione di deviare la rotta per tornare a Khartoum. Secondo Al Sudani, il felino potrebbe essere salito all’interno dell’aereo mentre era parcheggiato in un hangar”.

 

Hawaii L’uccello più vecchio del mondo è un albatro di 70 anni e ha appena messo al mondo un pulcino

Le vie della natura sono davvero infinite. L’uccello più vecchio del mondo, un albatro femmina di 70 anni di nome “Wisdom” (Saggezza), ha appena fatto schiudere un pulcino. È successo sull’Atollo di Midway, un’isoletta a ovest dell’arcipelago delle Hawaii. Wisdom – scrive Sky News – è studiata e tenuta sotto osservazione dai biologi dal lontano 1956 ed è vissuta più a lungo del primo scienziato che aveva iniziato a classificarla. Gli albatri – apprendiamo – sono monogami: si scelgono un solo partner e ci restano assieme per tutta la vita. Tuttavia, spiega la biologa Beth Flint, “possono trovare dei nuovi compagni se è necessario, ad esempio se sopravvivono al loro primo partner”. È il caso della longeva e prolifica Wisdom, che ha avuto molti amanti. Secondo gli scienziati hawaiani potrebbe aver covato in tutta la sua vita tra i 30 e i 36 pulcini. Una cifra notevole, visto che gli albatri si riproducono ogni qualche anno e portano alla luce non più di un uovo alla volta.

 

California L’allegro chirurgo partecipa all’udienza su Zoom mentre è in sala operatoria con un paziente

Nuovi aneddoti imbarazzanti dal mondo oscuro di Zoom. Solo poche settimane fa un avvocato si era presentato alla video-udienza in tribunale con il filtro di un gattino (gridando disperato al giudice “non sono un gatto”). Stavolta niente felini, ma un chirurgo col bisturi in mano: si è presentato al cospetto della corte (in videoconferenza) mentre stava operando un paziente. Il dottor Scott Green – scrive il Guardian – aveva già iniziato l’operazione quando è stato chiamato dai funzionari della Corte Superiore di Sacramento per un’udienza su una multa per un’infrazione stradale. Alla domanda se fosse pronto per partecipare all’udienza, il chirurgo ha risposto senza imbarazzo: “Sì signore, sono in sala operatoria. Sono a disposizione. Proceda pure”. L’udienza, per fortuna del paziente, è stata interrotta lì dal presidente di commissione. L’allegro chirurgo è finito sotto indagine. All’avvocato-gatto era andata molto meglio.

 

La Zampa Il micio con le orecchie piatte viene isolato dalla colonia felina: “Pensano sia sempre arrabbiato”

Una struggente storia di anticonformismo e educazione alla diversità dalle colonne de La Zampa.it, il mai abbastanza celebrato spin off animalesco della Stampa, una voce libera (o un guaito?) nella babele del gruppo Gedi. Per i gatti tenere le orecchie basse è in genere un sintomo di ansia, frustrazione o aggressività. Ma il micio Romeo, cresciuto in una colonia felina dell’Arizona, non ha mai avuto scelta: le sue orecchie sono state appiattite per sempre da una grave infezione da acari. Ora il gatto sta bene, ma non potrà mai tirarle su. Una circostanza che ha reso davvero penosa la sua vita sociale: gli altri felini vedendolo con questa postura “pensavano fosse sempre arrabbiato”, racconta la volontaria Jen, che ha finito per adottare il gatto con le orecchie “ad areoplano”. Nella sua nuova vita domestica Romeo è rinato e si è scoperto essere un gatto molto socievole, a dispetto delle apparenze, soprattutto con i cuccioli.

 

Australia Un atleta corre la maratona trainando un camion da 1,6 tonnellate in 16 ore e 12 minuti

Nel florido filone dei primati più inutili del mondo si può inserire la titanica impresa del 23enne australiano Corey Phillpott. Il nostro eroe è entrato in una pagina di giornale per aver percorso la distanza della maratona – 26,2 miglia o 42,2 chilometri – trascinando un camion da oltre una tonnellata e mezza. Ci ha messo solo 16 ore e 12 minuti, segnando, pare, il nuovo record del mondo (quello precedente era di 17 ore, opera di un atleta americano). Il fatto molto triste è che le gesta di questo carroattrezzi umano sono inutili, non sono registrabili per il Guinness dei primati, perché il mezzo che ha trainato è addirittura troppo pesante per essere preso in considerazione: “Il mio record non sarà ratificato – ha riconosciuto – perché avrei dovuto spingere una city car grande la metà del mio camioncino”. Philpott non sembra dispiacersene più di tanto. Alla fine della sua maratona non vedeva l’ora di ricominciare: “Non ho nessun infortunio, mi sento alla grande, domattina andrò a farmi una corsetta”.

 

Torino Ruba tre bici e tenta di portarle via tutte insieme: arrestato mentre scappa lentissimo e in equilibrio precario

Il titolo della settimana è una perla della Stampa. “Torino, ruba tre bici e tenta di portarle via insieme: fermato dalla polizia in precario equilibrio e con andatura lentissima”. In tre righe si apre un mondo meraviglioso: un ladro ingordo, a metà tra il più scemo della Banda Bassotti, Sante Pollastri e l’ispettore Gadget con le sue gambe allungabili, prova a dividersi tra tre biciclette in contemporanea, con risultati tragici. “Il problema non è stato tanto rubarle – scrive la Stampa – quanto trasportarle: come si fa a portare via tre biciclette? Nell’unico modo possibile: in sella a quella da uomo, più grande, e tenendo quella da donna con una mano e quella da bambino con l’altra. Non proprio comodissimo. Infatti il ladro, un 47enne, ha percorso solo pochi metri prima di essere intercettato da una volante della polizia chiamata su segnalazione. Quando la polizia lo ha fermato, in precario equilibrio sul sellino e con andatura lentissima, si è giustificato dicendo di aver trovato le bici vicino a un cassonetto”. È stato arrestato per furto aggravato.

Rivolta, repressione e mistero: la donna cancellata dalla Storia

La rivoluzione liberale cominciò duecento anni fa con l’insurrezione militare alla Cittadella di Alessandria, nella notte fra venerdì 9 e sabato 10 marzo 1821. Si voleva la concessione di una Costituzione dal re di Sardegna Vittorio Emanuele I di Savoia, e la guerra all’Austria. Divampò per un contrordine mancato, o ignorato. Annibale Santorre Derossi di Santa Rosa, Giacinto Provana di Collegno, Carlo Asinari di San Marzano, Guglielmo Moffa di Lisio e gli altri protagonisti del moto avevano deciso di sospendere la sollevazione perché il principe di Savoia-Carignano, Carlo-Alberto, erede al trono e inizialmente favorevole, aveva ritirato il suo assenso. Le guarnigioni di Alessandria, tuttavia, e di Pinerolo, di Fossano, poi di Torino, agirono lo stesso. Un mese dopo, ai primi di aprile, tutto sarebbe finito: la rivoluzione venne schiacciata dalle truppe di Carlo Felice, il nuovo re dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele, e soprattutto da quelle austriache.

La gran parte dei piemontesi era all’oscuro di tutto. Fu una rivoluzione che nacque per un impeto di gioventù. Erano giovani aristocratici che leggevano Vittorio Alfieri, e avvocati, medici, letterati, studenti, ufficiali che avevano militato nelle armate di Napoleone. Con la rivoluzione di Napoli del 1820-’21, segnò l’inizio del nostro Risorgimento.

La repressione da parte di Carlo Felice non si fece attendere. La Regia Delegazione, da lui istituita, pronunciò 71 condanne a morte, di cui ne vennero eseguite tre, e 5 alla galera perpetua, 20 a pene varianti dai 5 ai 20 anni di reclusione. Quasi tutte le sentenze furono messe in opera solo in effigie, perché i rivoluzionari erano in maggioranza riusciti a fuggire. Oltre un migliaio di loro, infatti, riparò a Genova e partì per l’esilio in Spagna, in Francia, in Inghilterra, anche in Africa e in America.

C’è però una quarta condanna a morte che manca all’appello, tanto che nessun storico la rammenta. A morire fu una donna, rimasta sconosciuta, della Valle Uzzone, nell’Alta Langa, tra Cortemilia e la Liguria. Il suo sacrificio venne alla luce circa un secolo e mezzo dopo, quando, negli anni Sessanta del Novecento, qualcuno la raccontò a Domi Gianoglio, un giornalista e scrittore, che volle riportarla nel suo Invito alle Langhe, uscito nel 1965.

Gianoglio scrisse che “la tradizione orale ha tramandato che nella casa Resio, in località Porcavio”, a Torre Uzzone (oggi comune di Pezzolo Valle Uzzone), “trovarono ricetto, dopo il moto piemontese del 1821, alcuni carbonari braccati e che, invaso il rifugio dagli sbirri di Carlo Felice per una delazione, una generosa popolana pagò con la vita il tempestivo avvertimento che aveva consentito la fuga dei cospiratori. Una semplice croce segna il luogo dove cadde fucilata l’oscura eroina del nostro Risorgimento”. Gianoglio non aggiunse altro.

Chi era la “generosa popolana”? Una domestica o una contadina di “casa Resio”, o Palazzo Resio di Porcavio? Oppure si trattava della figlia o della moglie, comunque di una parente, dei signori del palazzo, i Resio per l’appunto, originari di Bormida, nel Savonese?

Anche la storica e antropologa Lucia Carle e un gruppo di altri ricercatori, che hanno dedicato a Pezzolo Valle Uzzone un bel libro nel 2003, non sono riusciti a dare un volto all’eroina. Gianmaria Mezzano riferisce in uno dei saggi del volume come “dopo i moti rivoluzionari del 1821, un gruppo di carbonari si fosse rifugiato in Palazzo Resio di Porcavio”. A causa “di una spiata questi stavano per essere catturati dalla polizia di Carlo Felice ma, avvertiti da una donna, poterono fuggire e mettersi in salvo. Sempre secondo la tradizione orale, l’eroina (per alcuni la figlia dei Resio, proprietari del palazzo, per altri una loro domestica) venne fucilata nel giardino del Palazzo dagli sbirri per punirla dell’azione compiuta”. Negli archivi parrocchiali di Torre, in ogni caso, “non si è trovata nessuna notizia di una donna deceduta in quegli anni di morte non naturale”.

La “semplice croce” e gli archivi non svelano il nome della donna, e neppure le ragioni che la spinsero a sacrificare la vita. Il suo gesto fu un atto d’amore per uno dei “carbonari”, un amante o un parente? O agì per patriottismo? È sconosciuta anche l’identità dei “carbonari” che trovarono ricetto a Palazzo Resio di Porcavio, non lontano dal santuario del Todocco.

Perché ripararono in quei posti? Forse perché la Valle Uzzone, all’epoca, era senza strade carrozzabili e percorribile solamente su sentieri impervi e spesso interrotti da frane ed esondazioni. Ciò “ne faceva un luogo tra i più isolati”, scrive Gianoglio, “insospettabile all’occhiuta polizia del reazionario Carlo Felice”.

L’unica vittima femminile della rivoluzione piemontese del 1821 è rimasta pertanto un fantasma, mai conteggiato dalla Storia. Eppure quella donna, contadina o signora, contribuì con la vita a dare inizio al Risorgimento. Anche grazie a lei, “fu posto il fondamento di quella costituzione”, come scrisse Carlo Beolchi, uno degli esuli, “che ventisette anni dopo”, nel 1848, “venne a segnare una nuova epoca in questa fortunata provincia”.

Draghi: ritratto profetico di un governo pericoloso

Una delle ragioni più profonde tra quelle che dovrebbero impedirci di guardare ai nostri musei, e dunque alla storia dell’arte, come ad un grande giacimento di petrolio da sfruttare economicamente, è che l’arte – proprio come la letteratura – è uno dei più potenti antidoti al veleno del pensiero unico che domina la nostra epoca. Il patrimonio culturale è contro per definizione: perché contiene sguardi, testi, forme, figure che ci liberano dai dogmi, fanno cadere il velo dagli occhi, fulminano le parole vuote e untuose con cui ci compiacciamo dello stato delle cose e lusinghiamo i potenti. Ha scritto Virginia Woolf: “Credo che se conoscessimo la verità sull’arte, invece di vagolare tra le pagine imbrattate e deprimenti di coloro che devono sopravvivere prostituendo la cultura, allora godere l’arte e fare l’arte diventerebbero cose così desiderabili che al confronto la guerra apparirebbe un gioco tedioso per dilettanti attempati bisognosi di un passatempo per tenere a bada gli acciacchi (…). Insomma, se i giornali fossero scritti da persone il cui unico scopo fosse quello di dire la verità sulla politica e la verità sull’arte, noi non crederemmo nella guerra, e crederemmo nell’arte”.

Una delle ragioni per credere nell’arte, è che solo nell’arte troviamo uno sguardo sul nostro tempo che noi, da soli, non avremmo il coraggio e la forza per esercitare. Prendiamo la situazione della democrazia italiana di oggi. Sono tra i non molti che pensano che i modi, la sostanza e le implicazioni della nascita del governo Draghi rappresentino un pericolo serio per la democrazia italiana. Innanzitutto, per il rapporto che lega noi tutti all’idea stessa di democrazia: un rapporto allentato, sformato, compromesso. Ci stiamo dicendo che l’emergenza giustifica, anzi richiede, la sospensione della democrazia, il rinnegamento di tutto ciò in cui credevamo: ora ci va bene la banca sopra la politica, il nord sopra il sud, i maschi sopra le donne (come ha scritto Marco Revelli). Ci vanno bene i fascisti al governo, e l’opposizione lasciata ad altri fascisti. Ci va bene negare i vaccini all’Africa, e ci va bene che la scuola resti a distanza anche dopo la fine della pandemia. Ci vanno bene i generali. Cosa ci sta succedendo?

Non trovo risposta migliore di quella che offre un quadro. Sì, un quadro: di quasi cento anni fa. L’ha dipinto George Grosz nel 1926, e il suo titolo è Eclissi di sole. È una allegoria politica: la rappresentazione dello stato della democrazia tedesca alla vigilia dell’ascesa del nazismo. Vediamolo.

Tutto si svolge al tavolo del potere: è un ritratto collettivo del governo. Ma i politici, i ministri, sono tutti dipinti senza testa: senza pensiero politico, senza autonomia, senza intelligenza. Senza occhi per vedere lo stato del Paese, senza un cervello per leggerlo e per provare a cambiarlo. Sono letteralmente “senza capo”: qualcun altro comanda al posto loro. Chi? Un generale, che ha deposto la sciabola sul tavolo. È un cristiano, ci dice la croce posta sul tavolo: dunque non sarà poi così cattivo! I tratti del volto e la corona d’alloro ci dicono che non è un generale qualsiasi, è Paul von Hindenburg: il presidente della Repubblica tedesca, la Repubblica di Weimar. Sarà lui, nel 1933, a nominare cancelliere Adolf Hitler. Ma il presidente non decide da solo: ha un suggeritore, che gli sta accanto in piedi e gli sussurra all’orecchio. È un banchiere, col cappello a cilindro, che porta sottobraccio i frutti dell’industria che finanzia: Grandi Opere, e armi. È lui che comanda sul presidente, che a sua volta comanda su una schiera di politici senza testa.

Sul tavolo del potere c’è anche il popolo: è un asino, accecato dai paraocchi, che si nutre dei giornali asserviti al presidente e al banchiere. Un popolo prigioniero della sua stessa credulità, della sua ignoranza. Sulle poche voci libere, sui pochi dissidenti che da sotto il tavolo provano a rivolgersi all’asino, a svegliarlo, incombono le sbarre del carcere, e una scheletrica morte. Nulla sembra poter salvare il popolo dai suoi stessi capi: dai suoi padroni. Su tutto incombe l’eclissi di sole, che dà il titolo al quadro. Il sole non dà luce perché è oscurato da un grande oggetto rotondo. Cos’è? Un’enorme moneta, con sopra il segno del dollaro: la “buona moneta”, l’unico vero dio a cui il banchiere ha consacrato la propria vita.

Il potere del capitale ha sostituito ogni altro potere, l’avidità e il profitto governano il mondo. Pochi anni dopo, nel 1933, un grande economista scriverà: “Questa regola autodistruttiva di calcolo finanziario governa ogni aspetto della vita. Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Saremmo capaci di fermare il sole e le stelle, perché non ci danno alcun dividendo”. Sono parole di John Maynard Keynes: quello stesso Keynes così spesso, oggi, citato a sproposito nel tentativo di farci credere che, no, oggi in Italia non ci sia nessuna eclissi di sole.

“Italia a volto coperto. Queste mascherine non le toglieremo più”

“Le parole contano. E l’addio di Nicola Zingaretti è così sanguinoso che contiene la rinuncia a frequentare quel partito. Vergognandosene afferma l’ineluttabile esito: lasciare quella casa, di cui appunto conserva solo la vergogna. Io così l’ho capita”

Erri De Luca ha capito che Zingaretti si sia dimesso non solo da segretario ma dal partito. O almeno da quel partito.

Esattamente. Le sue sono state parole di grande e crudo sentimento. Mi hanno colpito ed emozionato perché illustrano il disonore che è un concetto lontano dall’alfabeto del Palazzo, l’espressione di uno stato d’animo colpevolmente trascurato dalla politica. È insieme fuoco che arde, questo suo feroce e anomalo atto d’accusa, e difesa della propria innocenza.

La politica sparisce, il Parlamento diviene puro ornamento, la società McKinsey assicura gli studi preliminari del Recovery ora in mano al ministro dell’Economia, che è l’ex ragioniere generale dello Stato.

Quale dubbio c’era? Mario Draghi è l’amministratore delegato di un circuito di potere più potente tra quelli conosciuti (esistono infatti i “poteri impotenti”), e il suo compito è quello di concentrare e decidere la strada che deve prendere quella gran massa di danari in arrivo. Non ha altro da fare.

Come? C’è la pandemia?

Non è il suo problema principale. Non ha alzato il sopracciglio quando Salvini gli ha indicato un proprio commilitone al ministero dell’Interno. Prego, s’accomodi! Non gliene fregava nulla. E neanche ha fatto storie quando gli ha chiesto di revocare l’incarico ad Arcuri, il commissario all’emergenza. Prego, si accomodi. Gli frega quell’altra roba.

Non le sembra che con la teoria del governo dei migliori abbiamo spalancato la porta al principio che ci sono sempre altri ancora migliori dei migliori in campo? Il coinvolgimento di McKinsey, al di là del ruolo che avrà la società di consulenza, allunga la fila degli eccellenti.

Beh questa linea ci porterebbe a domandare a mister Draghi: perché affidarci all’esercito e non ai contractors? Dopo tutto i mercenari sono più professionali e meglio addestrati della fanteria di caserma. Forse con loro faremmo prima con le vaccinazioni.

Qui però il portato del cambio di governo attiva un’altra riflessione: dall’uno che non più vale uno, perché il competente non può valere quanto l’ignorante, al ridimensionamento del valore del suffragio universale. Bersani dice che Giuseppe Conte è stato fatto fuori perché prende i voti che non contano, quelli dell’Italia pop.

Conte era fuori dal potere affluente e decidente. Mi sembra così chiaro, anche alla luce delle parole dei protagonisti della defenestrazione. Corpo estraneo e pericoloso nel momento in cui tra le sue mani c’era il malloppo del Recovery. E infatti gliel’hanno tolto.

Conte avrà la forza di tornare in scena?

Assolutamente sì. Vedrà che traghetterà molti voti sotto il suo simbolo e confermerà che non è un passante a cui è stata data in mano per un fraintendimento la guida del fuoristrada.

E il Pd cosa ne farà delle parole di Zingaretti?

Assolutamente nulla. Quel partito è una macchina impermeabile ai sentimenti e alle passioni. È congegnata per restare serbatoio di governo e sottogoverno. Dimenticherà presto.

Intanto noi ancora con le mascherine.

Credo che le mascherine non le toglieremo mai più. Quando il virus sarà debellato, e non sarà questione di mesi, conserveremo l’abitudine a indossarle.

Un popolo mascherato a vita?

Ci diremo che la mascherina non ci fa prendere l’influenza (ed è vero) e ci diremo che serve come segno di solidarietà, perché l’infezione sarà sempre possibile e ciascuno di noi potrà essere l’untore. Quindi accetteremo l’esito.

A volto coperto cos’altro scopriremo?

Tanti nuovi poveri tra i nostri amici.