“All’inizio suonavamo in via del Corso. Ragazzi, non fatevi mai imbavagliare”

La prima banconota non si scorda mai. “Suonavamo in via del Corso. Arriva questo ragazzetto. Con gli occhi sgranati: ‘mio Dio, senti questi’. Prende il portafoglio e ci lascia 20 euro”, ricorda Damiano, frontman dei Maneskin. Dalla strada al trionfo a Sanremo è una questione di smorfie, di facce sorprese. Come quella di Amadeus dopo la proclamazione: chiede ai vincitori di rieseguire “Zitti e buoni” e la bionda Victoria risponde “Col cazzo!”. “Che figuraccia”, sogghigna la bassista. “Ero incredula, non capivo più nulla!”. O come quella di Fedez alla prima audizione della band, X Factor 11. Loro si beccano una standing ovation, il giudice riflette e approva, senza presagire il futuro.

Quattro anni dopo eccoli a duellare all’Ariston. Alla fine la spuntano gli allievi, con il doppio dei suffragi rispetto al marito della Ferragni. “Ma non è stato uno scontro, semmai un incontro tra modi diversi di fare musica. L’abbiamo vissuta con leggerezza”, spiegano i Maneskin. Sì, ma con 22 milioni di follower della influencer, molto attiva nella campagna dell’ultim’ora per Fedez, piegati anche dall’endorsement di Vasco per i pischelli romani. “È stato come un regalo di Natale inaspettato. I complimenti di un’icona del rock che ha attraversato quattro generazioni sono una benedizione”. Intanto ecco lì il technopop e la melodia rivierasca spazzati via dal power rock di questi ventenni, che con la loro potenza di fuoco mutuata dai genitori (“Ci facevano ascoltare Red Hot Chili Peppers, Nirvana, Bowie”) hanno ribaltato il tempio del Festival. Occhio: non può essere una “rivoluzione epocale”, come se i Led Zeppelin o gli Who non avessero aperto il sentiero già mezzo secolo fa. Semmai è un tardivo riallineamento: nel ciclo vichiano del kulturmarket il r’n’r è tornato a fungere da miccia. “Non c’è niente di distruttivo nel nostro messaggio. Ai coetanei diciamo: incanalate la frustrazione in qualcosa in cui riconoscervi. Trovate la vostra identità, date un senso all’energia, senza farvi imbavagliare”. Il pezzo vincente, “Zitti e buoni”? Un tweet a loro nome aveva fatto credere fosse dedicato a un professore dello Scientifico di Trastevere, il Kennedy, da loro frequentato. “Abbiamo affidato per una settimana i nostri social a @Dio, dandogli carta bianca. È sua questa boutade. Nessuna vendetta. Siamo bravi ragazzi”. Anche se Damiano è stato bocciato un paio di volte, e prima di diventare una star era un atleta. “Giocavo con l’Eurobasket, sognavo di diventare un Totti”. Ieri la Roma ha omaggiato i Maneskin diffondendo la canzone all’Olimpico prima della partita col Genoa: “Avemo portato fortuna… Finalmente qualcosa di nostro risuona in uno stadio, lo faremo presto dal vivo”.

Intanto l’agenda è zeppa: il 19 marzo esce il nuovo album, “Teatro d’Ira Vol.1”, a maggio andranno a Rotterdam per l’Eurofestival. In dicembre due palasport a Roma e Milano. La Capitale li ha già eletti tra i figli nobili con un tweet della Raggi: “Se ci invitasse in Campidoglio? Ne saremmo orgogliosi”. Ma non guasterebbe neppure il ritorno in quel ristorante della Garbatella: “Il Sedicidiciotto. Fu lì il nostro debutto. Invitammo un sacco di amici, ci pagarono con una cena. Un successo della madonna”.

Sanremo: parole e musiche da arresto, ma con lieto fine

Mentre le sardine finivano con tenda e sacco a pelo sotto il ritratto di Berlinguer, noi altri, sabato sera, finivamo con tenda e sacco a pelo davanti alla tv in attesa fino a notte fonda della proclamazione di un vincitore che, tra le altre cose, rischiava di essere Fedez. Un livello di masochismo che non è possibile riscontrare neppure nei selfie di Bonaccini con l’occhiale a goccia. Hanno vinto i Maneskin, quelli ribattezzati “Naziskin” da Orietta Berti e la faccenda ha già l’aria di una premonizione su come andrà per la sinistra alle prossime elezioni. È stato un Sanremo musicalmente opaco, con molte buone canzoni, ma quasi nessuna da ricordare con gioia e con almeno un paio da ricordare come un monito, come quelle immagini dei bambini che piangono per la fame del terzo mondo. Della serie “queste cose non devono succedere mai più”. Penso a Bugo, che nonostante le buone intenzioni ha avuto la maleducazione di presentarsi con una canzone già scartata da Baglioni, il quale aveva avuto la delicatezza di restituirgliela senza chiedergli di farla brillare in qualche landa disabitata, come le bombe inesplose della seconda guerra mondiale.

Penso, anche, ad Aiello, uno che sembra Fabrizio Corona ma un po’ meno elegante e che aveva una canzone tipo quella di Bugo ma un po’ più brutta.

Ci sarebbe anche Fedez, che a Sanremo ha dichiarato di indossare il braccialetto elettronico vibrante per l’ansia, ma che con quella canzone meritava il braccialetto elettronico per i domiciliari. Fedez il quale, messo malissimo in classifica nelle prime serate, nella finale ha pensato bene di farsi supportare dalla moglie e dai suoi 22 milioni di follower, piazzandosi secondo. Peccato non abbia seguito il consiglio dell’amico Nicola Zingaretti, il quale gli aveva suggerito di guadagnare consenso con un tweet in cui raccontava di picchiare i gattini appena nati, quando è nervoso, ma niente. Fedez ha preferito fidarsi della moglie. E ha perso.

Sempre a proposito di cose brutte che con questa pandemia non ci meritavamo io credo che la Palombelli passerà alla storia come il momento più imbarazzante del Festival di Sanremo dopo quella volta in cui il signor Giancarlo, a La Ruota della fortuna, a proposito delle Amazzoni diede la soluzione: “Vinsero battaglie grazie alla loro figa” anziché “fuga”. Voi direte: “E che c’entra il signor Gianfranco con Sanremo?”. Niente, esattamente come la Palombelli, appunto. A proposito. C’è un vuoto legislativo molto serio riguardo la presenza massiccia dei monologhi a Sanremo. Andrebbe regolata da una normativa seria, che impedisca agli ospiti di fracassare le palle con questi soliloqui infiniti per celebrare qualsiasi cosa, dalle donne alla bellezza, dalle sconfitte (non sarà che la Palombelli ha scritto pure il monologo di Ibrahimovic?) ai colpi di sole fatti con il pettine. Poi c’è la Botteri in versione sciura truccatissima e io la preferivo genuina e spettinata, ma è meglio non più dire nulla sui suoi capelli perché poi c’è il pericolo che la facciano papa.

Bella, bellissima Orietta Berti, perfino sexy con due molluschi sulle tette, una canzone così così ma una voce perfetta e l’aria spaurita di chi non riconosce più Sanremo, di chi sente che le mancano i riferimenti, che so, il Panama di Albano, una giacca da ussaro di Ivana Spagna, un secondo posto di Toto Cutugno. Si guarda intorno, legge “Fulminacci” e “Colapesce” sul grande schermo del palco e lo vedi che non capisce come ci sia finita tra le nuove proposte, ma non dice niente, perché è una donna educata, d’altri tempi. Mica come certi ragazzi di oggi.

Peccato per Noemi che arriva radiosa e magrissima con un pezzo molto sanremese e sembra tutto perfetto se non che tutti continuano a parlare di quanto sia magra e alla fine si piazza a metà classifica, perché diciamocelo: taglia 40 e pure prima a Sanremo sarebbe diventata insopportabile.

C’è poi da aprire una breve parentesi su Fiorello. Fiorello che tra i giornalisti è più intoccabile di Mario Draghi, che anche se sale sul palco e dice “cacca pupù”, tutti “Che bravo Fiorello”, “che genio Fiorello”, “che fuoriclasse Fiorello”. C’è più coraggio nel sacco a pelo al Nazareno di Mattia Santori che nella recensione media del giornalista italiano su Fiorello.

Infine, la vittoria dei Maneskin. Quella che non si aspettava nessuno. Quella che incorona Damiano, anni 22, come il nuovo sex symbol per ragazzine e carampane. Ho letto dei commenti femminili sulle sue performance di una tale sboccataggine che neppure se si organizzasse la sfilata di Victoria’s secret al parcheggio camion dell’autogrill Brianza Sud. Una vittoria che rende tutti felici. A parte Orietta Berti, ovviamente, convinta che abbiano vinto i Naziskin e da due giorni dorme nella sede nazionale dell’Anpi.

Grillo vede Conte al mare: entro fine mese il nuovo M5S

Non avevano mai parlato così a lungo da soli, faccia a faccia. D’altronde la sfida, ovvero la rifondazione del Movimento 5 Stelle, lo richiedeva. E così ieri pomeriggio Beppe Grillo e Giuseppe Conte si sono incontrati e hanno avuto un lungo colloquio nella villa sul mare del fondatore a Marina di Bibbona (Livorno), dove nel settembre 2019 lo stato maggiore del M5S decise di far nascere il governo giallorosa. La riunione a villa Corallina con i big per affidare a Conte la leadership si sarebbe dovuta tenere lo scorso fine settimana, ma una fuga di notizie aveva fatto infuriare il Garante, che aveva spostato l’incontro all’Hotel Forum di Roma. Ma Grillo voleva un faccia a faccia per studiare insieme all’ex premier le prossime mosse e ieri l’ha invitato a pranzo nella sua casa nel Livornese, lontano da telecamere e occhi indiscreti (ma non da un nostro lettore, che ci ha inviato una foto dal cellulare). Dopo pranzo, Grillo e Conte si sono seduti sulla spiaggia adiacente la villa e hanno parlato di tutto per tre ore: di come rifondare il Movimento, del nuovo simbolo che conterrà il nome dell’ex premier e la data-traguardo del 2050, del rapporto con Davide Casaleggio e la piattaforma Rousseau, della linea politica del futuro M5S, dei primi passi del governo Draghi. Su quest’ultimo tema, chi nelle ultime ora ha parlato con Conte l’ha trovato critico sulla decisione di arruolare consulenti esterni (e privati) a partire da McKinsey per lavorare sul Recovery Plan, mentre il suo governo aveva consultato solo tecnici delle partecipate di Stato (come Cdp e Invitalia).

Al centro del colloquio non poteva mancare la spinosa questione del rapporto tra il M5S e Davide Casaleggio, patron della piattaforma Rousseau, che potrebbe finire a colpi di carte bollate dopo la richiesta di 450 mila euro di arretrati ai parlamentari. Non solo: questa settimana Casaleggio presenterà il suo manifesto che sarebbe l’addio definitivo al M5S. Grillo, anche per motivi affettivi, sta provando a mediare fra Casaleggio e i parlamentari che vorrebbero troncare ogni rapporto con lui. Ma non è facile sia perché la piattaforma Rousseau è un elemento essenziale, anche da statuto, per le votazioni degli iscritti sia perché la rottura di molti big del Movimento con Casaleggio è ormai consumata.

Eppure regolare i rapporti tra il M5S e Rousseau sarà fondamentale perché, una volta che tutto sarà più chiaro, Conte potrà presentare il suo piano per rifondare il Movimento 5Stelle. Negli ultimi giorni, chiuso in casa a Roma, Conte si è studiato gli statuti dei principali partiti europei – apprezzando in particolare quello dei Verdi tedeschi, ma anche quello della Spd che coinvolge nelle decisioni gli iscritti via posta, come il M5S online – per raccoglierne il meglio nelle regole che dovranno tenere insieme i principi della democrazia diretta, una solida organizzazione e un’ampia apertura alla società civile.

Poi, entro la fine del mese, Conte presenterà il suo piano per rifondare il M5S che si baserà su alcuni punti cardine: l’ambientalismo e la transizione ecologica, la legalità e le politiche sociali. Su questi temi – ripete – il nuovo M5S dovrà diventare una casa “accogliente ma intransigente” sui valori fondativi. Una volta presentato il piano, se sarà accettato Conte ha già annunciato una serie di incontri in giro per l’Italia per presentare il nuovo Movimento. Emergenza Covid permettendo.

Scuola, i tanti errori di Bianchi per far pace con Pd e sindacati

È entrato al ministero con il piglio aperturista, pieno di buone intenzioni ma al ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ora la situazione rischia di scappare di mano. È arrivatocome la testa d’ariete che,sotto le spoglie del tecnico, avrebbe dovuto riportare nell’alveo Pdil comparto scuola col suo enorme bacino elettorale. Passato qualche giorno si è trovato sommerso dalle proteste di studenti e genitori perquelle chiusure generalizzate che da oggi diventeranno sistematiche. Grande traguardo dei ministri (dem e LeU) e governatori che da mesiaspicavano lo stop.

L’assenza di una personale e chiara visione, quanto meno nell’immediato, degli interventi che servono alla scuola inizia a pesare. Si parte dall’ultimo dpcm che da un lato identifica un nuovo parametro per le chiusurenei territori (250 contagi su 100mila abitanti) e dall’altro però concede agli amministratori locali la libertà di prendere le misure “motivate” che preferiscono. Il neo ministro, insomma, si trova di fronte una situazione fuori controllo: 9 studenti su 10 pronti a tornare alla Didattica a distanza (Dad), lui chenella task force dello scorso anno aveva contribuito a stilare le linee guida per tornare in classe in sicurezza.

Nei giorni precedenti, aveva provato invece ad accontentare i sindacati che chiedevano lasciare all’autonomia scolastica l’eventuale prolungamento dell’anno scolastico auspicato da Mario Draghi. Bianchi li ha rassicurati e un minuto dopo il ministro della Salute Roberto Speranza lo ha smentito riproponendo il prolungamento generalizzato.E ancora, le classi pollaio: la riduzione del numero di studenti per classe, lunghissima battaglia dell’ex ministra Lucia Azzolina (e oggi richiesta finanche dalla Lega) e la riduzione delle dimensioni delle scuole “è un tema importante”ha detto Bianchi a La Stampa:“Lo proporrò in Consiglio dei ministri”. Non una parola di più, nonostante le tante interviste rilasciate.

Come se non bastasse, la prima mossa del ministro è stata prorogare (evitando nuova elezioni) il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, un organo consultivo del ministero che ha compiti di “supporto tecnico-scientifico per l’esercizio delle funzioni di governo nelle materie di istruzione universitaria, ordinamenti scolastici, programmi scolastici, organizzazione generale dell’istruzione scolastica e stato giuridico del personale”.La vera bizzarria è che la proroga viene effettuata con una “nota di chiarimento”che potrebbe non avere alcun valore.L’organismo, infatti, il cui mandato dura solitamente cinque anni non solo è istituito con una legge, ma aveva già ricevuto una prima proroga a maggio 2020 (decreto Scuola). La mossa è stata chiesta dai sindacati, che hanno contestato la possibilità di svolgere le elezioni spostando la scadenza al 31 agosto 2021. A dicembre il ministero aveva dettato le procedure per il rinnovo, fissando le elezioni al 13 aprile 2021 : Azzolina aveva pure nominato i membri in quota ministero.

Le scuole, insomma, si sono organizzate per garantire l’elezione dei membri in sicurezza, ma i sindacati hanno chiesto una nuova proroga di un anno. A farsi portavoce dell’istanza, il Pd che aveva provato a inserirla nel decreto Milleproroghe (primo firmatario la capogruppo Pd alla Commissione Istruzione, Flavia Piccoli Nardelli) ma la modifica non era passata. A viale Trastevere questa procedura – una nota di chiarimento con cui si sospendono i termini e le scadenze “nelle more di un eventuale intervento normativo di proroga della componente elettiva” ha lasciato allibiti molti. Il testo, inoltre, preannuncia una nuova ordinanza e avvisa che “qualora fossero state costituite commissioni elettorali di istituto le medesime pur non potendosi insediare potranno essere mantenute in attesa di nuove indicazioni sulla procedura”.

Al di là dello scetticismo sulla norma, si tratta di un’altra concessione che il ministro fa alle sigle prima della prossima battaglia, che riguarderà la mobilità. Nelle ultime settimane ci sono stati diversi incontri tra le organizzazioni sindacali e il suo Capo di Gabinetto sulla questione del vincolo quinquennale per i docenti e i direttori dei sevizi generali amministrativi appena assunti. I sindacati chiedono che questo blocco, inserito per garantire continuità scolastica agli studenti ed evitare che si trovino a cambiare ogni anno professori, sia eliminato. La norma che lo istituisce, però (la 159 del 2019) spiega che non è possibile modificarlo per via contrattuale. Un bel problema per i sindacati, visto che avrebbero bisogno di un veicolo normativo adatto prima di aprile, quando partiranno le domande per la mobilità. La palla potrebbe passare – dati i contrasti nella maggioranza sul tema – nelle mani di Palazzo Chigi. Le sigle sostengono ci sia apertura da parte del ministero, ma è evidente che la buona volontà non basta. Per fortuna.

Verso 9 ragazzi su 10 a casa. “Lombardia, numeri da lockdown”

Quasi sei milioni già da oggi, più di 7 milioni e mezzo, ovvero nove ragazzi su dieci, tra qualche giorno. Sono i numeri degli studenti costretti alla didattica a distanza, in virtù delle regole approvate settimana scorsa dal governo e delle varie ordinanze regionali. Il tutto mentre la Lombardia, un anno dopo la prima zona rossa, torna nella fase 4 dell’emergenza, la più grave.

Il lockdown delle aule è reso inevitabile – nelle idee del governo – dall’impennata di contagi tra le fasce di popolazione più giovani. Il precedente esecutivo aveva stabilito di non rinunciare alla didattica in presenza almeno per i bambini della materna e delle elementari, anche nelle zone più colpite dal virus. Adesso la rotta è invertita e così da oggi sono a casa tutti i ragazzi e i bambini nelle zone rosse (Campania, Molise, Basilicata, oltre a diverse province sparse per l’Italia), quelli della Lombardia (zona arancione scuro), di buona parte del Piemonte e dell’Emilia Romagna (dove sono state isolate le aree più a rischio). Senza dimenticare le zone sottoposte a ordinanze locali (Puglia, Abruzzo, Alto Adige) che limitano gli accessi a scuola.

E come se non bastassero i colori e le loro sfumature, ad aggiungere confusione ci ha poi pensato il governo: in un primo momento una circolare del ministero dell’Istruzione aveva chiarito che la didattica in presenza fosse sempre garantita per “l’uso di laboratori”, per gli alunni “con disabilità” e per i figli “di personali sanitario o di altre categorie di lavoratori le cui prestazioni siano ritenute indispensabili per la garanzia dei bisogni essenziali”. Se non fosse che ieri una nuova nota del ministero ha sconfessato quest’ultima eccezione, sbianchettando i figli dei lavoratori “essenziali” dai casi in cui è prevista l’attività in presenza.

A preoccupare, poi, c’è la tendenza dei contagi: secondo Tuttoscuola, presto le chiusure totali delle scuole potrebbero riguardare anche Lazio, Veneto e Toscana, oltre alle province ancora “salve” di Piemonte e Emilia. Calcolatrice alla mano, si arriverebbe al 90 per cento di alunni costretti a casa, 7,6 milioni su meno di 9. D’altra parte l’allarme c’è e anche il ministro della Salute Roberto Speranza, intervenuto ieri a Mezz’ora in più (Rai3), non si nasconde: “Mi aspetto che l’impatto delle varianti possa far crescere la curva e che altre Regioni vadano verso il rosso”. Con il governo che presto potrebbe correggere il dpcm appena varato, restringendo le misure fino a Pasqua, perché in questo senso a poco serve l’ottimismo sui vaccini ribadito ieri dal ministro: “Entro fine estate conto che tutti gli italiani potranno essere vaccinati”.

L’ultimo bollettino non è confortante: 20.765 nuovi casi su 271.336 tamponi (tasso di positività al 7,6 per cento), con 447 ricoveri in più di cui 34 in terapia intensiva. E in Lombardia torna l’incubo dei giorni peggiori, sotto forma di una comunicazione – “Ulteriori indicazioni organizzative per l’intera rete ospedaliera nell’attuale fase emergenziale – aggiornamento” – con la quale la direzione Welfare del Pirellone ieri ha avvertito d’urgenza tutte le strutture sanitarie regionali che in Lombardia da oggi scatta la Fase 4 dell’emergenza. La più alta, quella che prevede l’apertura di 1.005 letti di terapia intensiva e di 7.250 letti di degenza acuti. Nonché “la riduzione fino alla sospensione dell’attività di ricovero e dell’attività chirurgica procrastinabile”. Sia nelle strutture pubbliche che in quelle private a contratto, sia in SSN che in libera professione/solvenza.

Il tutto perché “stiamo assistendo a un netto e rapido aumento dei casi di Covid-19 che necessitano di ospedalizzazione e di terapia intensiva – scrive la Direzione Welfare – in particolare, il numero di pazienti ricoverati nelle terapie intensive è aumentato di 100 unità in 5 giorni”. Ripercussioni si avranno anche sul sistema ambulatoriale, la cui attività “viene di norma confermata, fatta salva la possibilità per ciascuna Direzione di intervenire programmando temporanee riduzioni di prestazioni non prioritarie”. A dimostrazione che l’arancione scuro sbandierato da Attilio Fontana è servito solo come propaganda.

Ma mi faccia il piacere

Da Conte a Laocoonte. “Colao riscriverà il Recovery, ma aspetta deleghe e uffici” (Stampa, 25.2). “Il premier ha fretta, il Recovery Plan se lo riscrive da solo” (Repubblica, 1.3). “Franco riscrive il Recovery” (Stampa, 4.3). “Il governo si affida agli esperti McKinsey per il Recovery Plan” (Repubblica, 6.3). Ma quindi alla fine chi lo riscrive?

Un altro vulnus. “Giovannini: opere del recovery con i commissari” (Sole 24 ore, 3.3). “Giovannini: ‘La vera sfida del Recovery: completare le opere. Una task force per le verifiche’” (Messaggero, 7.3). Morto un tiranno se ne fa un altro.

Prosciolto a giudizio. “Corruzione: prosciolto Romeo, ma le agenzie scrivono il contrario” (Piero Sansonetti, Riformista edito da Romeo, 6.3). Infatti l’hanno rinviato a giudizio per associazione a delinquere, frode in pubbliche forniture e traffico di influenze illecite.

Condannato assolto. “Tognoli fu cacciato dalla politica con il rituale avviso di garanzia nel ‘92” (Paolo Guzzanti, Giornale, 6.3). “Un uomo onesto” (Messaggero, 6.3). “Indagato e poi condannato, Carlo Tognoli verrà assolto dalla Corte d’appello” (Corriere della sera, 6.3). No, verrà condannato definitivamente a 3 anni e 3 mesi per ricettazione delle tangenti di Mario Chiesa.

Vilipendio di cadavere/1. “Mio nonno sarebbe stato molto orgoglioso di un presidente del Consiglio come Draghi… E avrebbe voluto incontrare Greta Thunberg” (John Elkann, editore de La Stampa, intervistato da Massimo Giannini, direttore de La Stampa, sul centenario dalla nascita di Gianni Agnelli, già editore de La Stampa, 7.3). Povero Avvocato, nonostante tutto non meritava.

Vilipendio di cadavere/2. “Mio nonno farebbe subito il vaccino” (John Elkann, editore di Repubblica, intervistato da Repubblica, 7.3). Anche perchè avrebbe 100 anni. Comunque pure il mio.

Che schivo. “Anche a Roma serve un Draghi: sì a Vittorio Sgarbi sindaco” (Fabrizio Cicchitto, Il Tempo, 27.2). Li accomuna il riserbo.

Le vie di fatto/1. “Pd irreversibile proprio come l’euro” (Graziano Delrio, capogruppo Pd alla Camera, La Stampa, 7.3). Che cos’è, una minaccia?

Le vie di fatto/2. “Bonaccini? Una risorsa, ma non è il solo” (Andrea Marcucci, capogruppo Pd al Senato, Messaggero, 6.3). Vero: c’è pure Renzi.

Campa cavallo. “Serracchiani: io vicesegretaria? Prima le idee” (Corriere della sera, 4.3). Quindi c’è tempo.

Spuntature. “Pd, spunta l’idea di Fassino reggente” (La Stampa, 6.3). “Spunta Finocchiaro” (Repubblica, 6.3). “Bonaccini è il favorito, ma insieme a lui c’è Orlando. Spunta anche Roberta Pinotti” (Fanpage, 6.3). “Per la successione spunta Letta” (Repubblica, 7.3). Il seguito alla prossima spuntata.

Good news. “Il felice ritorno in primo piano dello Stato, simboleggiato dai ruoli assunti dal Capo della Polizia, da un Generale degli Alpini, da un Direttore generale di Bankitalia…” (Antonio Polito, Corriere della sera, 7.3). Per non parlare di McKinsey, Ernest&Young, Pricewaterhouse Coopers e Accenture: gli Stati.

Quante dosi, Figliuolo? “I miei consigli al generale Figliuolo: per battere il nemico faccia come Churchill”, “Carissimo generale Figliuolo, chi le scrive è una persone che ha grandissima fiducia nelle nostre Forze Armate e ripone grandi speranze nel suo operato… In bocca al lupo e massima fiducia nelle sue capacità, sperando che presto ‘i resti di quello che fu uno dei più potenti virus del mondo risalgano in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza’” (Roberto Burioni, Corriere della sera, 7.3). Bravo, ora riponi anche la lingua e va’ a ciapà i ratt.

Elementare, Mario. “Caro Draghi, Di Maio ha delle responsabilità per la morte di Attanasio”, “Di Maio, rispondi: perchè Attanasio è stato mandato allo sbaraglio?”, “Gli 007 lo avvisarono: Di Maio spieghi o lasci” (Paolo Guzzanti, Riformista, 24 e 26.2). Ha sparato lui: gliel’ha detto Scaramella in commissione Mitrokhin.

Slurp/1. “La parola è d’argento, il silenzio è Draghi” (Salvatore Merlo, Foglio, 5.3). E la lingua è di velluto.

Slurp/2. “Guardare Joe, Justin, Angela con la consueta ammirazione, ma senza invidia. È più bello essere l’Italia, oggi” (Luciano Nobili, deputato Iv, postando una foto di Draghi al G7, Twitter, 20.2). È il Nuovo Rinascimento.

Il titolo della settimana/1. “Patto Macron-Draghi per costruire il dopo Merkel” (Repubblica, 1.3). Mo’ scelgono pure il nuovo cancelliere tedesco.

Il titolo della settimana/2. “Cos’ha veramente detto Ratzinger al Corriere. C’è un Papa solo. Ma non è detto che sia Francesco” (Antonio Socci, Libero, 2.3). Vuoi vedere che è Pio IX?

Il titolo della settimana/3. “I partiti tornano centrali, grazie a Draghi” (rag. Claudio Cerasa, Foglio, 6.3). Uahahahah.

Il titolo della settimana/4. “Recovery, scoppia il caso della consulenza a McKinsey. ‘Ma a deciderà (decidere, ndr), sarà il Mes (il Mef, ndr)’” (La Stampa, 7.3). Comprendiamo il panico, ma qualcuno li avverta che il Mes è finito.

E poi ci sarà Cattelan: per riscattare il flop 2021 si rincorrono i giovani sempre più “ggiovani”

Da Ama ad Ale: avanti tutta verso Sanremo Factor. La firma di Cattelan sul contratto con la Rai (e con Netflix) era una sentenza sulla conduzione del Festival 2022 prima ancora dell’annuncio dell’attuale direttore artistico. Che si è sfilato dall’ipotesi di un Ama-Ter appena 24 ore dopo l’atto di volontà di Fiorello (“Ho dato tutto”). Stritolati dalla crudeltà degli avvicendamenti storici, i due traghettatori dell’inferno pandemico si sono avviati all’uscita prima di fare la figura dei trombati. Concluse le grandi manovre (auspice l’ad uscente Salini), sarebbe lunare ipotizzare una prossima edizione della kermesse senza l’aspirante Jimmy Fallon italiano. A lui spetterà il compito di spazzare via le residuali macerie lasciate dalla precedente gestione. Già rimosso il busto del Rottamatore, l’Amadeus eroe eponimo dei sessantenni brillanti ma irrimediabilmente boomer, che come Fiorello ha inseguito i linguaggi dell’era dei social trasformando l’Ariston in un polo 3-d per gli idoli acchiappalike cresciuti sfruttando le sponde di Instagram e Twitter, la trasmigrazione su Spotify e i balletti di Tik Tok. Amadeus aveva negato la residenza sanremese alle cariatidi, con l’eccezione di Orietta Berti, scesa dal Partenone per dare lezioni alle squinzie. Ma era inevitabile che a finire travolto dal proprio impeto rivoluzionario fosse lui per primo. Perché Rai1, ha spiegato Coletta, deve provvedere al ricambio dei volti di punta. E l’insistito salmodiare del direttore sui trionfi della piattaforma web certifica che l’azienda non può restare aggrappata al comodo riferimento del pubblico agée. I superplayer mondiali sono pronti a mangiarti vivo, profittando della vertigine tecnologica innescata dal virus. Serve essere sul pezzo: e non solo sul piano della scrittura televisiva. Bisogna portare a compimento l’aggancio del Festival alla generazione Zeta. Il Rottamatore aveva già sancito una cesura col passato, con il suo cast spendibile per i fans adolescenti. Date un’occhiata alle classifiche di download e streaming: diversamente dagli anni scorsi, la top ten è militarmente occupata da questo Sanremo, da Michielin&Fedez a Colapesce-Dimartino passando per Irama, Madame, Coma_Cose, Gaia, La Rappresentante di Lista, più Meta, Annalisa, Noemi. Aveva visto giusto, Ama. Ora, dopo di lui, chi meglio del quarantenne Cattelan, che a Sanremo sfrutterà il decennale know-how maturato su Sky, con la lungimiranza di chi a XFactor ha fiutato chi può far canzoni buone per la contemporaneità, magari tirando dentro l’avventura un direttore musicale come Dardust o l’ospite fisso Marco Mengoni, sodale di scuderia? Cattelan porterebbe in dote a Sanremo anche l’ossessione del ritmo: mai più torture da cinque ore. E sarà persino più attento di Ama ai giovani. Sì, ma quali? Che scenario offrirà la filiera tra dodici mesi, senza una vera ripartenza dei live? Avrà ancora senso il distinguo tra le gare dei “giovani” e dei “big”? La Rai studia una “Academy” permanente per coltivare artisti in fiore. Questa sì sarebbe una mossa risarcitoria. Dopo aver macinato illusioni con i talent, il Sanremo di Cattelan potrebbe investire sui talenti. Con la “i”.

Tra noia e supponenza. Ama e Fiorello salutano Sanremo

Anche i proverbi, come le regole, conoscono le loro eccezioni. E a Sanremo il due senza tre non vale: Amadeus e Fiorello si guarderanno il festival numero 72 dal salotto di casa. Lo dicono prima della fine, ed è la certificazione di una resa. “Sono stati due Sanremo storici. Non ci sarà l’Ama ter, e questo l’avevamo già deciso io e Fiorello. Se in futuro la Rai vorrà affidarci ancora il Festival sarà una grandissima gioia, magari prima di compiere 70 anni, non un terzo consecutivo”. Era stato Fiorello a lanciare per primo l’assist all’amico, con interviste ad alcuni giornali, ieri: “Con Sanremo ho già dato parecchio, negli ultimi quattro anni sono stato qui 3 volte, una con Baglioni e due con Amadeus. Se avrò la fortuna di arrivare a 70 anni ne riparliamo, in realtà so che non verrò perché a quell’età sarò già in pensione”. Ma gli artisti non vanno mai in pensione: ieri abbiamo visto Ornella Vanoni, superospite per il gran finale con Francesco Gabbani (sul palco anche Giovanna Botteri, Alberto Tomba, Federica Pellegrini, Umberto Tozzi e Riccardo Fogli).

È tempo di bilanci e non solo per i due conduttori. Gli ascolti sono andati male (10-11 punti meno dell’anno scorso), le ragioni restano in mente dei anche se in questa settimana si sono fatte ipotesi di ogni tipo, scomodando financo Freud e l’effetto perturbamento. C’era il campionato di calcio, la ggente sono tristi, gli ospiti sono saltati causa Covid. Manca solo l’invasione di cavallette. Naturalmente la Rai non poteva dire la verità: ovvero che peccando di hybris (Coletta apprezzerà) si è fatto un festival come se tutto fosse andato davvero bene, e invece si sono ritrovati nel pieno della terza ondata. E dunque l’ipertrofia di scalette lunghe come maratone Mentana per cinque sere di fila, in un contesto complicato dalla pandemia che ha sfinito un pubblico meno consensuale del solito. Nessuno ricorda che anche quest’anno, come è ormai cattivo costume da tempo, non c’è stata alcuna controprogrammazione, a parte Barbara Palombelli che è andata in onda mercoledì su Rete4 e venerdì a Sanremo, con una appassionante, imperdibile agiografia in musica. Mai più senza. E siamo anche tutti a casa, per via del coprifuoco.

La difesa d’ufficio, però, se è comprensibile entro certi limiti, non lo è più quando sfiora il ridicolo. “È stato un atto eroico della Rai aver fatto un’operazione culturale fortissima. Questo è stato un Festival di grande resilienza, di chi ha tenuto il punto per poter portare in scena una operazione culturale con grande valenza etica. Questo è quello che il servizio pubblico deve fare. La kermesse ha rimesso in moto un mercato fermo da un anno, che era morto” ha detto il direttore di Rai1 Stefano Coletta. Aggiungendo che “il modello Sanremo” farà scuola e mica solo qui, anche fuori dai patri confini: “Credo che il protocollo a cui abbiamo lavorato per tanti mesi diventerà un modello per eventi simili. È ammirato in Italia ma anche in Europa. Stiamo ricevendo tanti complimenti”. Non ci è stato risparmiato nulla: dalla “valenza epica” a quella “semantica”, fino al “miracolo”. Ci si consola con l’ajetto: tanti commenti su Twitter e su Raiplay le prime tre puntate hanno registrato un aumento del +44%. A proposito di piattaforme: non vi sarà sfuggito che il Festival, farcito di pubblicità come un tacchino del Ringraziamento, ha regolarmente ospitato gli spot di Amazon prime video e Netflix. Ovvero le piattaforme che fanno concorrenza alla tv generalista (e a Raiplay): inedita forma di autolesionismo. Ingrediente che non ha giovato alla ricetta di un Festival nel complesso sbadiglioso e poverissimo di idee, illuminato da qualche guizzo. Raro.

“La sbandata per le donne mi ha distratto per un po’. In Tv mi sento un leone ”

Per niente semplice scovare un po’ di tempo nell’agenda di Gigi Marzullo: si alza presto (“e leggo tutti i giornali, ma il primo è sempre il Fatto”), poi è un tourbillon di telefonate, appuntamenti, trasmissioni (“ho Fazio, la Bortone e i miei programmi”) e soprattutto una tappa fissa, giornaliera, strutturata, imprescindibile con il parrucchiere (“ci vado ogni mattina”. Per modo di dire… “no, realmente”). Così, quando finalmente si scovano gli attimi giusti, la prova di cotanto daffare è scandita dal cellulare: squilla, squilla, squilla, e lui con modi gentili ma fermi risponde con laconici “sono impegnato, ci sentiamo dopo”.

Non ha uno smartphone.

E neanche la carta di credito: giro con i contanti e per cifre superiori utilizzo il libretto degli assegni.

Come mai?

Non è nato il feeling.

Riservatezza.

No, abitudine; (sospira) non approccio nemmeno al computer, e se mi chiedono un’email chiedo il favore a mia moglie o a chi lavora con me.

E quando scrive uno dei suoi libri?

Prendo appunti su dei foglietti e li consegno ai collaboratori; anche le domande le scrivo a mano.

Le sue domande l’hanno resa un aggettivo.

In che senso?

“Marzullo” è un aggettivo.

Non so se è un complimento o una presa in giro, comunque è a mia insaputa, perché da 35 anni porto in tv quello che sono, il mio modo di pormi con qualche linea di esasperazione.

Cioè?

“La vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio” nasce perché il programma era ed è di notte; “si faccia una domanda e si dia una risposta” era per dare la possibilità all’ospite di raccontare qualcosa di importante che non gli avevo chiesto.

Pozzetto le ha risposto “ma va a cagher”.

Vabbè, era un gioco, è stato gentilissimo.

Nel 2001 ha chiamato Sabelli Fioretti per lamentarsi dei giudizi sprezzanti dei critici televisivi. Alla fine ha vinto lei…

(Sorride) Non è una lotta, la televisione è come una grande tavola imbandita: se hai la possibilità porti te stesso, e non è una sfida.

E cosa?

È come l’amore: tu non lo decidi, ne puoi solo prendere atto, e io ho preso atto che amo la tv; (ci pensa) poi sono stato fortunato perché ho capito presto quale era la mia strada.

A che età si è illuminato?

Verso i 22-23 anni, quando sono nate le radio libere, anche se prima volevo diventare attore e contemporaneamente studiavo Medicina a Pisa; poi ho iniziato a collaborare con il Mattino, e spesso dovevo andare a Benevento, ma in realtà il mio obiettivo era Roma; così ho comprato una Golf e due giorni la settimana li passavo nella Capitale.

Lavoro dei suoi genitori?

Insegnanti alle elementari.

A Roma si è mai sentito un provinciale?

No, mi dava la sensazione di calma.

Roma?

Raccontato così sembra tutto facile, invece sono stati anni di vicissitudini interiori, di turbamenti, di paure; (cambia tono) appartenevo alla media-borghesia, molto media, anche se frequentavo quella alta; dovevo diventare medico e secondo mia madre fidanzarmi prima e sposarmi poi, sempre ad Avellino: un futuro delineato.

Con fidanzata designata?

Quella che avevo non era “designata”, altre erano state valutate dai miei, ma non appartenevano al mio modo di essere.

Incontri combinati?

No, però si diceva “Gigi si può fidanzare con questa” e nascevano delle ipotesi.

Come andava a scuola?

Elementari e medie benissimo, mentre il quarto ginnasio, con la classe mista, è stato di sbandamento. Mi sono distratto.

Ha scoperto l’universo femminile.

Ho iniziato a frequentare l’altro sesso e sono stato rimandato in latino e greco; in quinto mi hanno dato italiano, ma non lo meritavo: era una questione tra mio padre e l’insegnante. Storie di provincia.

Marzullo alle interrogazioni.

Bravo, non sempre preparato, ma riuscivo a cavarmela. Ero molto eclettico.

Politica?

Mio padre sì, io l’ho sempre attenzionata: andavo ai comizi, li ascoltavo, però non mi sono mai dedicato.

Hanno mai provato a candidarla?

Scansavo a priori; volendo avrei potuto: nella mia città sono nati politici importanti.

Con De Mita ha un rapporto antico.

Un grande amico; poi c’è Nicola Mancino, e sono tutti legati a mio padre (ci pensa) aggiungo Antonio Manganelli, ex capo della polizia (morto nel 2013, ndr) e l’attuale prefetto di Roma, Matteo Piantedosi.

Eppure niente politica attiva.

Ci confrontavamo con le ragazze, passeggiavamo lungo il corso di Avellino e pensavamo al nostro futuro professionale; mi sono laureato tardi.

A quarant’anni.

Mia madre ha sempre pagato le tasse: ogni tanto mi presentavo e davo un esame.

La riconoscevano.

Qualcuno sì e un po’ mi vergognavo, così indossavo gli occhiali da sole; non sempre bastavano; (cambia tono) mamma sognava il posto fisso.

Alla Checco Zalone.

Siamo nati così, ed è per questo che non sono mai voluto uscire dalla Rai: potevo strappare un contratto di due anni e guadagnare molto di più; mi è mancato il coraggio e sono contento lo stesso; i soldi non sono fondamentali quando hai il giusto per vivere.

La situazione sarà mutata.

Ho il mio stipendio e ribadisco: non ho mai puntato all’aspetto economico ma sul lavoro che mi piaceva; lavoro e basta, non sono capace di altro.

Uno sport?

Penso solo al lavoro.

Tra quindici anni dove si vede?

Mi auguro ancora in trasmissione; fino a quando potrò e fino a quando me lo concederanno, voglio lavorare, è un impegno fondamentale; prima mi dedicavo a cinema, teatro e calcio, ora è tutto fermo.

Va allo stadio.

Mi piace (sa tutto dell’Avellino), seguo la Roma, la Lazio, quando sono a Milano, il Milan, ora il Monza del mio amico Galliani, e il Napoli.

Quante chiamate al giorno riceve?

Sono sempre al telefono, ma ho quattro o cinque rubriche televisive, quindi è normale, e poi sono democraticamente accentratore: devo controllare tutto.

Andava spesso pure alle feste.

Non mi piace partecipare attivamente, ma amo guardare gli ospiti, chi c’è, chi non c’è, le belle ragazze, chi balla, ascoltare la musica.

Balla?

No, mi sentirei ridicolo; preferisco restare nel mio angolo visivo e notare come si comportano gli altri.

Serve per il lavoro.

Soprattutto; la mia vita è solo incentrata in funzione della professione e dell’amore.

Perché giornalista?

Non lo so; (ci pensa) incontrando molti attori, stando sul set, ho capito che non era il mio mondo: chi recita deve ripetere più volte, io amo la diretta, la seconda volta non mi viene bene. E pensare che sono relativamente timido.

Ma?

Davanti alla telecamera divento un leone; se ho un po’ di raffreddore, un po’ di febbre, di astenia, vado in onda e mi passa tutto.

Quante camicie a righe ha?

Settanta, ottanta. Boh.

Tutte uguali.

È nata con Fazio: l’ho indossata in una puntata e per evitare la cravatta: la sua trasmissione ha un tono più informale; poi Fabio ha iniziato a giocarci sopra e ho capito che funzionava; ora in parecchi mi imitano.

Dal parrucchiere, sempre.

Quando il lunedì il mio è chiuso, vado da un’altra.

Si è mai sentito sottovalutato?

Forse potevo meritare qualcosa di più, ma con gli anni sono stato valutato per quello che valgo, ma è stata fondamentale la tenacia e il tempo a disposizione.

Conta di più l’intelligenza o la tenacia?

La tenacia in primis, associata all’intelligenza.

Lei a chi non piace?

Ad alcuni invidiosi, a chi desiderava o sognava una carriera come la mia, senza riuscirci.

A cosa è sopravvissuto?

Alle critiche.

E a vent’anni?

Dicevano: vuole fare televisione, eppure non ci riuscirà mai; il problema non è quello che dicono gli altri, ma quello che gli altri scatenano in te, magari aizzano le tue paure.

Soluzione?

È come un grande amore per una donna: se ami lei non vedi alternative, allo stesso modo la mia unica scelta era la tv.

Ed è diventato un personaggio da imitazione…

Crozza è bravissimo e mi sarebbe piaciuto vederlo in Rai; lui non mette cattiva fede, in altri casi l’ho percepita.

Il salotto di Fazio l’ha sdoganata.

Credo di sì; Fabio è una persona perbene e vera: a lui sono legato, ed è protagonista di un’ottima televisione, forse la migliore di questa fase.

Si sveglia mai la notte perché ha pensato a una delle sue mitologiche domande?

Eccone una: il bacio è più una concessione in attesa di una conferma o è una conferma per una nuova concessione?

Risposta?

È una conferma per una nuova concessione; non ci si può fermare al solo bacio.

Contano più i soldi o il potere?

Forse il potere, ma dipende come lo si utilizza, se è un servizio: con le mie trasmissioni ho intervistato tante persone, ho il potere di decidere chi invitare, e per questo ho coinvolto tanti giovani che lo meritavano.

La Gregoraci: “Mi sono sentita famosa quando mi ha invitato Marzullo”.

(Sorride) Lo dicono in molti.

È citatissimo.

In che senso?

Anche ora con l’autointervista marzulliana di Renzi.

Con la Lucarelli avete dedicato una pagina a questo, ma non capisco.

Per Totti, Cassano è il Marzullo del calcio.

Pure loro? Simpatici; la gente mi vuole bene, intorno a me sento dell’affetto.

Più sedotto o seduttore?

Sedotto, e sono riuscito a sedurre qualche donna che non meritavo.

Tradotto?

Donne bellissime e non ho capito come ci sono riuscito.

Non si fanno nomi.

Come dice Sgarbi: l’amore si vive, non si racconta; e poi due anni fa mi sono sposato.

Il suo incubo ricorrente?

La morte.

Ci pensa molto?

Sempre, e mi devo distrarre per non rifletterci; la morte non l’accetterò mai.

Nel 2018 è stato operato d’urgenza.

Di ernia, ma tempo fa ho subito pure la riduzione di prostata eppure avevo tenuto il catetere quaranta giorni proprio per evitare l’intervento. Ho anche uno stent.

Il suo personaggio letterario preferito.

Coelho. E l’ho intervistato; è un uomo saggio, come saggio è Richard Gere: con lui sono stato a cena; (cambia tono) fantastico pure Woody Allen, mi ha regalato i suoi occhiali.

Chi altro l’ha colpita?

Ugo Tognazzi: quando l’ho incontrato nel suo camerino, a un certo punto, si è messo a urlare contro la morte. Allora non capivo. Oggi sì; stessa storia con Vittorio Gassman: eravamo a Cortina, a un certo punto mi guarda: ‘Quanti anni hai?’ Quaranta. ‘Mi fai schifo’.

Il suo supereroe?

Tipo?

Batman, Hulk…

Rocky, l’ho visto più volte.

Gioca alla lotteria?

Non scommetto mai.

Neanche da giovane?

Da ragazzo qualche volta, ma appena vincevo ventimila lire, me ne andavo per il timore di perdere.

Va a messa?

Da piccolo ero chierichetto, buttavo l’incenso.

Oroscopo?

Non ci credo ma lo leggo.

Perché Flavio Cattaneo testimone di nozze?

Ho pochissimi amici e lui e Galliani sono tra questi; e poi loro, insieme a De Mita, hanno spinto per il matrimonio.

Era giunta l’ora.

Mi sono sposato tardi, così non ho problemi di separazione.

Uno schiaffo lo ha mai dato?

Credo di sì, però in un’altra vita, da giovincello.

Lei chi è?

Ancora lo devo scoprire; comunque non so chi sono ma un po’ mi piaccio.

Crisi nera, si litiga anche per il latte

Mai piangere sul latte versato. Si sa. Ma in Libano dietro al video divenuto virale sui social di due cittadini che in un supermercato di Beirut litigano per il latte, c’è una crisi molto profonda, che da quattro giorni si sta manifestando anche in strada sotto forma di violente proteste contro istituzioni e politici incapaci di salvare il Paese. Segno ne sono le minacce – che da un momento all’altro potrebbero concretizzarsi – da parte del premier uscente, Hassan Diab che ieri si è detto pronto a smettere di svolgere i suoi doveri in quanto capo del governo dimissionario se i politici non si mettono d’accordo nel formare al più presto un nuovo esecutivo. Il nuovo premier, Saad Al-Hariri, infatti, è stato designato a ottobre, dopo le dimissioni del gabinetto di Diab all’indomani dell’incendio del 4 agosto che ha devastato il porto della Capitale e i quartieri limitrofi. Da allora però il Paese è ancora in attesa di un nuovo governo a causa dello stallo tra il primo ministro e il presidente Michel Aoun. “La corsa al latte non costituisce un incentivo sufficiente per trascendere le formalità e smussare i margini per formare un governo?”, ha detto Diab ieri in un discorso tv. Senza governo infatti non si possono attuare le riforme necessarie per far arrivare i miliardi di dollari di aiuti promessi dalla Comunità internazionale, Francia in primis. Intanto martedì la lira libanese è crollata di nuovo a 10.000 per dollaro, ai minimi dal 2020, poco prima dell’esplosione al porto e l’85% meno del suo valore, fattore che fa sì che il salario minimo valga circa 68 dollari al mese. Niente se paragonato ai prezzi triplicati dei beni di consumo come cereali o pannolini. I manifestanti frustrati hanno bloccato le strade per il quarto giorno di seguito in tutto il Paese, bruciato pneumatici fino all’arrivo del corteo ieri davanti alla Banca libanese per chiedere l’accesso ai propri depositi e poi al palazzo del Parlamento dove in coro hanno espresso tutta la loro rabbia per le condizioni economiche da fame. “La situazione sociale si sta aggravando, quella finanziaria sta mettendo a dura prova il Paese e la situazione politica è sempre più complessa”, ha denunciato Diab nel suo discorso, sottolineando come “queste enormi sfide non possono essere affrontare da un governo provvisorio”. “Non vogliamo emigrare dal Libano per lasciarlo a loro. Questo è il nostro Paese”, gridano i giovani manifestanti che già avevano messo a ferro e fuoco il Paese nel 2019, quando i leader politici non erano riusciti a concordare un piano di salvataggio contro la crisi incipiente aumentando invece le tariffe, come la tassa giornaliera di 20 centesimi per le chiamate Whatsapp. “Tra le persone non esistono fazioni politiche, protestiamo perché siamo tutti affamati”, ripetono ancora oggi i cittadini libanesi.