Il successo di Francesco: sciiti al fianco dei cristiani

Con la prima visita nella storia di un Pontefice a una delle massime autorità dell’islam sciita, il Grande Ayatollah Sayyid al-Sistani, ritenuto anche dagli iracheni sunniti (minoranza in Iraq) una personalità da guardare con rispetto, Papa Francesco ha ottenuto un risultato epocale. Durante il colloquio privato di quasi un’ora nella dimora di Najaf, dove vive il Grande Ayatollah (religioso spesso in dissenso con il dominante regime teocratico sciita del confinante Iran), Bergoglio è riuscito ad assicurarsi ufficialmente l’appoggio degli sciiti iracheni ai cristiani di varie confessioni non solo in capo alla chiesa di Roma.

Diplomazia e politica sono la cifra del viaggio del Papa nel mosaico religioso iracheno intriso, da decenni, di guerre sanguinose che non hanno risparmiato nessuno, nemmeno il tassello sunnita anche se in misura inferiore. In seguito alla Seconda guerra del Golfo nel 2003, quando l’allora presidente americano George W. Bush non si fece scrupolo a inventare l’esistenza di armi di distruzione di massa per togliere di mezzo l’ex dittatore alleato degli americani, Saddam Hussein, l’Iraq è un paese destabilizzato. Anzi, peggio. Oggi combatte un conflitto per procura tra Stati Uniti e Iran.

Anche se nel 2014, quando lo Stato islamico riuscì a conquistare la maggior parte del territorio iracheno, l’aviazione americana e i pasdaran iraniani, assieme ai peshmerga curdi e all’esercito iracheno, collaborarono per annientarlo. La battaglia cruciale si svolse a Mosul nella regione di Ninive, cuore della millenaria cultura mesopotamica, ritenuto il luogo di nascita di Abramo nonché di sepoltura di Eva e Noè per i credenti delle tre religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo, islam). E fu proprio dalla moschea più sacra di Mosul che l’autoproclamato califfo nero al-Baghdadi pronunciò il sermone che “battezzò” la nascita delle milizie tagliagole autrici di massacri aberranti come quelli contro i curdi di religione yazida di Sinjar. Da allora i cristiani furono messi all’indice e la maggioranza sfollò in alcuni villaggi di Ninive e della vicina Regione Autonoma del Kurdistan iracheno dove oggi il Papa si recherà dopo la visita a Mosul per celebrare la messa nella cattedrale di Erbil. Tra le macerie di Mosul il Pontefice pregherà per tutte le vittime dell’Isis nella antica chiesa di Al Tahera che si erge nella piazza centrale circondata da diverse chiese che rappresentano le diverse denominazioni cristiane irachene. Le chiese siro-cattolica, siro-ortodossa, armena-ortodossa e caldeo-cattolica si trovano dentro e attorno alla piccola piazza chiusa da case basse nella città vecchia di Mosul. La battaglia per la riconquista di Mosul del 2017, durata ben 9 mesi, è una delle più cruente della storia recente, tanto che la maggior parte degli edifici sono stati rasi al suolo. “La preghiera del Papa sarà per tutte le sofferenze causate dalla violenza e dall’odio”, ha detto il domenicano padre Olivier Poquillon. “Nel condurre il viaggio, in mezzo alle macerie di Mosul, il Papa fa visita a un membro sofferente della famiglia umana, questo è il messaggio chiave”, ha sottolineato il frate domenicano.

La pericolosa ricostruzione di Mosul, dove tra le macerie si trovano ancora le mine anti uomo dell’Isis, è cominciata solo un anno fa grazie ai finanziamenti degli Emirati Arabi Uniti in occasione della prima Giornata internazionale della fratellanza umana. I cristiani, comunque – terza comunità dopo Baghdad e Bassora – esitano a tornare in città a causa della mancanza di fiducia nel governo che ritengono non offra loro la protezione di cui hanno bisogno. Padre Olivier ha detto che la visita rimette sul tavolo la questione del ritorno. “Il fatto che un Papa scelga di andare a Mosul, non con la forza ma con la pace, è davvero fonte di orgoglio e di speranza per i cristiani sfollati e per quelli già tornati in città, ma Francesco pregherà anche per le vittime delle altre religioni”.

Usa, i dem ostaggi dell’altro Joe

Il senatore democratico della West Virginia, Joe Manchin, il più conservatore dei Democratici, fa valere il suo peso di ago della bilancia tra maggioranza e opposizione. Il piano d’aiuti all’economia per superare l’impatto della pandemia (interventi per 1.900 miliardi) sarà legge nei prossimi giorni, ma Joe Biden ha dovuto darla vinta a Manchin su punti qualificanti del suo progetto: l’aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora, bocciato, oltre che da Manchin, da altri sette senatori democratici; e i sussidi di disoccupazione, estesi fino al 6 settembre, ma ridotti da 400 a 300 dollari per avere il sì di Manchin sul pacchetto. Senza il voto di Manchin, i Democratici sono minoranza in Senato; con il suo voto, fanno 50 pari con i Repubblicani: diventa decisivo il voto del presidente del Senato, che è la vicepresidente, Kamala Harris.

I repubblicani sono compatti contro e non fanno sconti: Ron Johnson, senatore del Wisconsin, ha preteso la lettura integrale delle 628 pagine del progetto, costringendo i suoi colleghi a restare in sessione fino a notte fonda. Il senatore del Montana, Jon Tester, è stato fra i più intraprendenti e pazienti, implorando Manchin di essere ragionevole e fare gioco di squadra: a chi gli chiede cosa stia accadendo, venerdì sera, Tester risponde sconsolato: “Cosa gli passa per la testa, proprio non lo so”.

Sono giorni caldi per la politica Usa: a Washington, in settimana, stato d’allerta e forze di sicurezza mobilitate per la bufala complottista d’un ritorno alla presidenza di Donald Trump il 4 marzo; mentre i Democratici nel Congresso e i Repubblicani negli Stati conducono una battaglia incrociata sulle regole delle prossime elezioni – i Democratici cercano di garantire il diritto di accesso al voto, che i Repubblicani vogliono invece transennare. In politica estera, Biden cerca più la collaborazione che il confronto. A cinquanta giorni dall’insediamento alla Casa Bianca, il consenso per Biden resta rassicurante: secondo un sondaggio per conto dell’Ap, il tasso di approvazione del suo operato è al 60% – Trump non ci andò mai vicino – e sale al 70% per la lotta contro la pandemia, mentre scende al 55% per la gestione dell’economia. Il piano di aiuti post-pandemia da 1.900 miliardi era stato trasmesso al Senato dalla Camera – dove pure c’era stato un voto secondo linee di partito rigide quasi perfettamente rispettate, democratici pro e repubblicani contro – infiocchettato come Biden e pure la sinistra del partito volevano. Ma l’aumento del salario minimo era già stato cassato a priori dal Senato, con un voto procedurale; e pure un tentativo di reintrodurlo in extremis del senatore Bernie Sanders che ne ha fatto una battaglia personale, è stato bocciato. Invece Manchin è stato il protagonista assoluto dei negoziati sui sussidi di disoccupazione e su tutta una serie di altri punti. I Democratici hanno concordato di rendere i primi 10.200 dollari di sussidi del 2020 non tassabili per le famiglie con redditi inferiori ai 150 mila dollari l’anno. La portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, fa sapere che Biden sostiene l’accordo del Senato, anche se non è passato l’emendamento Sanders. L’aumento del salario minimo è una promessa elettorale del presidente, che s’è impegnato a trovare altre vie per la sua approvazione. Dopo l’ok del Senato, giunto ieri dopo una seduta ‘non stop’ di quasi 24 ore, il pacchetto deve ora tornare alla Camera per il voto finale, prima d’essere firmato dal presidente, forse già in settimana. Dei 1.900 miliardi, 1.400 saranno distribuiti ai cittadini americani sotto forma di assegni, 350 sono per Stati e città in crisi, 130 per le scuole, altri per assistenza alimentare, pagamento degli affitti e distribuzione del vaccino, la cui somministrazione sta procedendo molto rapidamente.

A ricordare l’urgenza di stimoli all’economia sono venuti, in settimana, i dati sul mercato del lavoro nel mese di febbraio: i posti di lavoro creati sono stati 379 mila e il tasso di disoccupazione è sceso al 6.2%: era andato in doppia cifra, nella primavera scorsa. A questo ritmo pur sostenuto, Biden rileva che solo nell’aprile 2023 si tornerà sui livelli del febbraio 2020, perché “i posti in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno sono 9,5 milioni.”

Ed è boom di migranti al confine col Messico, dopo che Biden ha ‘rottamato’ le politiche restrittive del suo predecessore: in febbraio, la polizia ne ha arrestati quasi 100 mila, mai così tanti nel mese dal 2006; e marzo è cominciato con 4.500 arresti in un solo giorno.

Trump è balzato sul dato: “Il nostro confine è totalmente fuori controllo grazie alla disastrosa guida di Biden”. Psaki gli ha risposto: “Non accettiamo da lui lezioni sulla politica migratoria, che non è stata solo disumana ma anche inefficace negli ultimi quattro anni… Tracceremo la nostra strada e tratteremo i bambini con umanità e rispetto”.

“Basta penalizzare le donne: di ogni legge si valuterà l’impatto di genere”

“Da questa settimana nei dossier che il servizio studi della Camera mette a punto per accompagnare le leggi di natura parlamentare ci sarà una parte dedicata all’impatto di genere”. Maria Edera Spadoni, vicepresidente M5S della Camera, in occasione dell’8 marzo presenta questa novità che nasce da un suo ordine del giorno al bilancio di Montecitorio.

Onorevole, come funzionerà esattamente?

Faccio un esempio: se una norma va a implementare il trasporto pubblico, lo studio ci dirà se le novità introdotte favoriranno un genere piuttosto che un altro.

Se l’impatto per le donne è negativo?

Ove possibile, si provvederà, nell’iter parlamentare, a presentare emendamenti migliorativi.

Qual è secondo lei il problema maggiore per le donne in Italia?

Il lavoro. Non è possibile che nel 2021 molte di noi siano ancora costrette a scegliere se fare un figlio o tenersi il posto. Nel 2020 su 101 mila posti persi 99 mila erano occupati da donne. E nel 2019 37 mila neo-mamme hanno lasciato il lavoro. Poi è arrivata la pandemia, che ha colpito più duramente l’occupazione femminile.

Secondo lei, perché?

Le donne hanno contratti più precari e fragili. E con le scuole chiuse, torna la domanda: figli o lavoro?

Cosa si può fare?

Occorre togliere dalle spalle delle donne la cura non solo dei figli, ma anche di anziani e disabili. Bisogna aumentare il congedo dei papà. Una maggiore occupazione femminile aumenterebbe il Pil e la ricchezza delle singole famiglie. Senza dimenticare che una donna economicamente indipendente ha più facilità nel liberarsi da certe spirali di ricatti e violenze.

Revenge porn e bullismo: i doc-denuncia dei ragazzi

“Ehi, come stai?”. “Eiiii, tutto beneeee”. “Ma quindi ’ste foto?”. Lo schermo dello smartphone illumina la stanza semibuia, il suono dei messaggi whatsapp è continuo. Le dita di lei, nonostante le unghie lunghissime, curate, rispondono velocissime: “No, dài, non servono”. Ma la domanda arriva subdola: “Ma come, non ti fidi di me?”. Il resto è facile da intuire, la ragazza cede e si spoglia, si atteggia come le modelle di intimo, ancora circondata dei peluche dell’infanzia. E manda foto seminuda o nuda. Lui, forse più per ignoranza e inconsapevolezza che per cattiveria, le invia a tutti gli amici. I display di ragazzi e ragazze squillano. E la ferocia arriva anche dalle ultime: “Che troia”, “Secondo me l’avrà data a mezzo quartiere”. Soprattutto: “Che gambe ciccione”. Faccine di vomito, faccine di scherno. Il video – che si interrompe poco dopo con la vittima che, per fortuna, chiede aiuto – è del liceo Gassman di Roma. Si chiama “Corpo e cuore allo scoperto” ed è uno dei 25 video del progetto che da 17 anni il Telefono Rosa organizza con le scuole della Capitale, quest’anno aperto anche a quelle di Campania, Sicilia e Calabria. Partito il 25 novembre scorso, si chiude domani 8 marzo, quando saranno premiati da una giuria i video dei vincitori. Violenza sulla donna, bullismo e cyberbullismo, discriminazione, violenza assistita, revenge porn: questi i temi tra cui le classi potevano scegliere. Sorprendentemente, è stato soprattutto l’ultimo, il revenge porn, a catturare spasmodicamente l’attenzione di ragazze e ragazzi. Che nei video hanno parlato molto poco di temi astratti o esterni alle loro vite – i femminicidi, le molestie sul lavoro, i problemi sociali delle donne – per riportare invece le dinamiche vere e crude che avvengono tra di loro, sui loro smartphone soprattutto, ma anche in classe. Gli spunti di cronaca nera ci sono, ma i video si concentrano su quelli che più hanno a che fare con le loro esperienze dirette: due dei filmati sul revenge porn si concludono infatti con due suicidi. “Il senso di vergogna e di imbarazzo mi hanno fatto sprofondare in un abisso. Me ne vado senza portare niente con me perché io non sono niente”, dice Luisa prima di lanciarsi dalla finestra, tradita, questa volta, da un’amica (“La cultura della vergogna”, Istituto Lucrezia Della Valle a Cosenza). Nel video “Sempre la stessa”, del liceo Matisse di Cave, c’è un ragazzo lasciato che si vendica mandando le foto. Lui finirà davanti alla polizia (perché come è stato spiegato a questi ragazzi durante la formazione il revenge porn ha conseguenze penali) ma nel frattempo a lei arrivano – nell’isolamento della Dad, che tutto amplifica e peggiora – messaggi come “Vergognati sei una puttana”, “Lo hai lasciato come un cane”.

Quello che è chiaro, osservando le dinamiche tra questi ragazzi di 15-16 anni, è che a cambiare non è la ferocia, il bullismo, la violenza, identica ieri come oggi, come identici sono i fragili sentimenti degli adolescenti. Ciò che è mutato è la tecnologia, che rende possibile quello che era impossibile un tempo: ad esempio che foto nude arrivino sotto lo sguardo di centinaia di persona con un click. E proprio “Basta un click” si chiama infatti il video dell’Istituto Margherita di Savoia. Anche qui la stessa insistenza: “Foto foto!!!, dice lui in chat. “Mmmm”, risponde lei, che esita. “Dai, solo perché ti amo”. E poi, ancora, l’illusione di essere protetta, la derisione, la disperazione.

Non mancano, oltre al revenge porn, anche i temi dello stupro, che può portare alla morte (come nel video “Le matite spezzate colorano ancora”, dell’Istituto Radice di Bronte), oppure quello delle molestie, con l’immagine inquietante di un Barbablu che dalle favole dell’infanzia ritorna anche nella vita di un’adolescente (“C’era una volta”, liceo Russell). Ancor più presenti sono però il bullismo e cyberbullismo, dove la persecuzione – almeno per come i ragazzi la raccontano – può arrivare da entrambi i generi. “Sfigata”, “Ucciditi”, “Chi te li ha dati i cracker, mammina?”, “Dove li ha presi questi vestiti al mercatino?” sono i messaggi di due bulli, un ragazzo e una ragazza, che in classe aggiungono alla violenza delle parole anche quella fisica, spintoni e palle di carte lanciate addosso alla vittima (“Non brancolo nel buio io mi ribello”, Liceo Majorana, Roma). Anche quando si parla di discriminazione e razzismo il branco è composto da ragazze e ragazzi indistintamente, come – nel video “Liberiamoci dall’ignoranza” dell’istituto Leonardo da vinci di Roma – l’intera classe che attacca la nuova compagna araba Amel, che appena entra in classe viene accolta con insulti come “Ma quando esplodi?”, “Me lo fai un felafel?”. “Quando siamo partiti, 17 anni fa, i ragazzi non volevano partecipare e nei video le ragazze dovevano travestirsi da maschio: oggi non è più così e già questo spiega che si è fatto un pezzo di strada, anche se dobbiamo ancora far capire che la donna non è un oggetto ma una persona”, spiega Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente di Telefono Rosa (0637518282). Che aggiunge: “È interessante vedere in questi video che, se nel revenge porn così come nella violenza fisica, è sempre la donna ad essere colpita – non a caso il nostro percorso inizia il 25 novembre, Giornata contro la violenza sulle donne, e termina l’8 marzo – per gli altri reati, dal bullismo alla discriminazione, gli autori di violenza possono essere sia ragazzi che ragazze. È una realtà che emerge da questi lavori e su cui dobbiamo ragionare”.

Ricreare un senso dallo stesso simbolo. Il modello è noto

La mia ex aveva un pappagallo. Dio! Non se la finiva mai di parlare. Ma il pappagallo era simpatico (Anthony Jeselnik)

IL TESTO SEMIOTICO

Un sistema semiotico è qualunque codice che correla un’espressione a un contenuto (linguistico, visivo, gestuale, musicale, filmico, &c.). La semiotica considera “testo” il prodotto di ogni sistema semiotico, e descrive con modelli in che modo un testo comunica il suo senso. Un testo semiotico è una rete di interdipendenze fra metabole (linguistiche, del racconto, degli interlocutori, del supporto, visive, plastiche, ritmiche, musicali, &c.) in cui giocano concatenazioni (lineari e spaziali) e sono poste relazioni di equivalenza.

Per chi si occupa di prassi divertente, i modelli più utili sono quelli che spiegano in dettaglio cos’hanno in comune i testi, le loro regolarità. Ne sono un esempio il modello retorico del Gruppo di Liegi (Questioni comiche # 16), quello argomentativo di Lucie Olbrechts-Tyteca (Qc # 20) e quello narrativo di Greimas (Qc # 44). Sono modelli operativi: ti danno la struttura portante (a livelli di analisi che vanno dal micro al macro) che puoi attualizzare da subito con le tue gag, unico limite la tua fantasia. Poco utili, invece, le ipotesi che sistemano la materia in modo generico, come fa Eco (1997) quando descrive l’interpretazione dei testi parlando di “schemi mentali”, di “enciclopedia” (cioè del repertorio di conoscenze che ciascuno di noi condivide con altri), e di processi cognitivi di categorizzazione (momento strutturalista) e abduzione (momento interpretativo), che si alternano e si completano l’un l’altro via via. Applicando questo modello, ogni gag diventa uno scherzo sull’enciclopedia, ovvero si ribadisce l’ovvio: non viene indicato come procedere. Il modello interpretativo di Eco richiama Helmholtz (1867) che considerava i percetti come l’equivalente neurale della conclusione di un sillogismo. L’analogia è suggestiva, ma non è esatta: meglio attenersi ai dati scientifici sulla percezione e sui processi cognitivi. Come abbiamo visto (Qc # 13), il nostro cervello interagisce col mondo creando una sequenza continua di stati di coscienza. Lo stato di coscienza è un pattern, ovvero l’integrazione di gruppi neuronali appartenenti a zone cerebrali diverse (Qc # 14). Il cervello astrae le proprietà comuni a percezioni diverse attraverso la mappatura delle proprie aree cerebrali: percetti e concetti sono mappature, non proposizioni linguistiche o sillogismi. Uno stato di coscienza è la coscienza di qualcosa: il colore verde di un prato, una ragazza che munge una mucca, un appetito, un’idea malandrina, una proposta oscena, una gag. Si può manifestare come percezione, immagine, pensiero, discorso interiore, emozione, sentimento (Edelman & Tononi, 2000). “Non so che educazione daremo a nostro figlio, mio marito e io, perché lui è ebreo, io protestante, e il padre del bambino è cattolico” (Bonnie McFarlane).

Lo stato di coscienza è modulato da (e a sua volta modula) percezioni, movimenti, nuclei valoriali, abitudini, routine di sopravvivenza e adattamento, abilità simbolica, e memorie a breve e a lungo termine. La percezione è creazione: modifica le memorie; a loro volta, le memorie modificano la percezione. Consideriamo un oggetto e il disegno che lo ritrae: il rapporto fra i due è il pattern attivato dalla vista del disegno (creato in base a certe convenzioni), pattern che contiene, evocandolo dalla memoria, ciò che sappiamo dell’oggetto. Allo stesso modo, il rapporto fra il suono della parola “cane” e un cane è il pattern attivato dal suono della parola “cane”, pattern che contiene, evocandolo dalla memoria, ciò che sappiamo del cane. Ovvero, il pattern è l’interfaccia anatomo-funzionale fra parola e mondo. C’era arrivato Morris (1946): l’interpretante è una realtà biologica. Immagini, parole ed emozioni sono la stessa cosa, per la coscienza. Un segno è uno stimolo che agisce sul comportamento come ogni altro stimolo. Il pattern rende possibile la relazione di un simbolo con altri simboli (sintassi), con gli oggetti (semantica) e con le persone (pragmatica). L’equivalenza pragmatica e l’isomorfismo fra le gag si basano su questo (vedi Qc #5).

ISOTOPIA E ALLOTOPIA

Le arti, compresa quella comica, fanno cose sorprendenti attraverso procedure (metabole) fondate su quattro operazioni logiche (aggiunzione, sottrazione, sostituzione, permutazione). La metabola è ogni specie di trasformazione di un qualunque aspetto di un sistema semiotico.

Ogni unità del testo semiotico è un percorso di senso (isotopia); una metabola ne introduce un altro (allotopia): questa non-pertinenza (Qc # 16) crea una sorpresa che può avere un effetto divertente. “Sono dipendente dai placebo. Smetterei, ma non farebbe alcuna differenza” (Steven Wright). Non a caso, le avanguardie artistiche, dai surrealisti a Cattelan, adottano tattiche tipiche della comunicazione spiritosa per imporsi sulla scena: lo vedremo in una delle prossime puntate.

Un’allotopia si staglia, come un pallino rosso fra pallini neri, sullo sfondo di senso (campo isotopico) che ipotizziamo durante la lettura semiotica in base alla nostra memoria del mondo. L’esperienza fenomenologica primaria (l’immagine mentale dell’ambiente, collegata alle esperienze passate) ci accomuna agli animali. In più, abbiamo le aree cerebrali del linguaggio, che ci danno l’abilità simbolica e metaforica, e che ci rendono coscienti di avere una coscienza. Il linguaggio è un nuovo tipo di memoria, che espande enormemente le nostre abilità concettuali. L’integrazione realizzata da uno stato di coscienza collega un’espressione (linguistica, visiva &c.) al contesto, alle circostanze, agli usi. In altri termini, il sistema degli stati di coscienza rende significativi i segni, dotandoli della triplice dimensione sintattica, semantica e pragmatica di cui parlava Morris (1946); inoltre, le parole possono essere analizzate in base alle sceneggiature (“frame”, vedi Eco, 1979) cui rimandano (Violi, 1997). Lo stesso vale per le vignette comiche.

L’interpretazione di un testo semiotico (lettura semiotica) è il procedimento di ri-creazione del suo senso. Stimolato dagli elementi che compongono il testo (linguistico, visivo, musicale &c.), il lettore semiotico pondera man mano le non-pertinenze che incontra, creando ipotesi di significato: le modifica continuamente durante l’esplorazione, fino all’ipotesi definitiva, quella che gli sembra più probabile. Il procedimento è molto rapido, come dimostra la risata dopo una gag. “Non ci sono incidenti. È solo Dio che cerca di restare anonimo” (Brett Butler).

(46. Continua)

Il mutismo di Draghi e il silenzio dei media

Non parla da quasi 20 giorni. Lo sorvegliano in molti, attenti al minimo segnale, fiduciosi che prima o poi uscirà dal mutismo. Dall’inviato del talk con il microfono aperto, al direttore di quotidiano pronto a sfidare i colleghi per raccoglierne l’esordio vocale. Lui però resta in silenzio, un silenzio assordante, unica vera discontinuità.

Fedele al motto di Wittgenstein secondo il quale ciò di cui non si può parlare si deve tacere, Draghi deve avere molte cose di cui non può, o non vuole parlare. Lo spiazzamento per l’informazione è totale, soprattutto per la tv, dopata in questi anni da un bla bla bla ininterotto che un certo giornalismo lap dog alleva sotto le mentite spoglie del cane da guardia.

Detto ciò però la strategia del premier impone qualche domanda. 1) È giusto non comunicare nulla, da nessuna parte e con nessun mezzo, in un momento così drammatico, o farlo solo al Parlamento? Parleranno i fatti, sembra essere la linea. Lo si spera, anche se finora hanno parlato poco (il governo è neonato) e male (vedi i sottosegretari). Ma savoir faire e faire savoir è bene trovino un equilibrio: la storica patologica prevalenza del secondo, che a volte ha coinciso con quella del cretino, non può giustificare la totale afonia di oggi. 2) Quali saranno gli effetti sul sistema mediatico di una simile scelta, se duratura? Fino a ieri il premier temperava lo strapotere di Salvini, ma ora questi la fa da padrone assoluto, debordando, dichiarando, esternando. Se diventerà un problema per lo stesso Draghi lo capiremo presto. Intanto la storia ci dice che Prodi nel 2006 optò per un bassissimo profilo comunicativo: il risultato fu un’insopportabile cacofonia di governo, causa non ultima della tempesta antipolitica che seguì e della sconfitta di chi lo aveva sostenuto.

Viale Mazzini: Giorgetti e Letta rivogliono Masi al posto di Foa. E l’Ad andrà al Pd

Finito Sanremo, da domani i vertici della Rai dovranno iniziare a pensare al loro futuro: entro maggio va approvato il Bilancio 2020, ma poi l’amministratore delegato Fabrizio Salvini e il presidente Vittorio Foa dovranno fare gli scatoloni. Niente proroghe, nemmeno fino alla fine dell’emergenza pandemica, come hanno chiesto i partiti di maggioranza. E allora, nel risiko delle 500 nomine che il governo Draghi dovrà fare in primavera, c’è anche la televisione pubblica. Dossier che scotta e su cui, da sempre, si scatenano gli appetiti dei partiti. Al momento, Draghi e il ministro dell’Economia, Daniele Franco, hanno affidato a Giancarlo Giorgetti il dossier: il ministro leghista è stato incaricato di fare una fotografia sullo stato della Rai e muoversi a livello politico per il rinnovo dei vertici.

E così si è messa in moto la ragnatela di relazioni del vicesegretario della Lega che, insieme a Dario Franceschini e Gianni Letta, sta provando a trovare la quadra. I dem vorrebbero piazzare uno tra Paolo Del Brocco (ad di Rai Cinema) o Tinny Andreatta (ex Rai Fiction) al posto di Salini come Ad, mentre per la presidenza anche Matteo Salvini si è convinto che Foa deve lasciare. Per prendere il suo posto circolano tanti nomi ma Giorgetti e Letta spingono per far tornare in Rai l’ex direttore generale ai tempi del governo Berlusconi Mauro Masi. Sarebbe un nome gradito anche a Salvini per arginare Giorgia Meloni che da tempo ambisce a quella poltrona per Giampaolo Rossi. E così Masi potrebbe essere la carta giusta: Giorgetti e Letta sanno che l’ex dg conosce ogni angolo di viale Mazzini. Masi, 79 anni, è stato da poco riconfermato al quarto mandato al vertice di Consap, la società partecipata dal Mef che fa l’assicuratore pubblico ma è cosa nota che l’ex dg ambisca a una poltrona più importante. Tant’è che ieri su Italia Oggi ha firmato una sorta di manifesto sulla sua concezione di “servizio pubblico”. Il suo curriculum però non piacerà al M5S che si era già espresso contro la sua riconferma in Consap per una condanna per danno erariale della Corte dei Conti, confermata dalla Cassazione, per le dimissioni di due direttori: Masi ha risarcito la Rai con 100 mila euro.

Della carriere di Masi si ricorda la sua telefonata del 2011 ad Annozero per dissociarsi da Michele Santoro ma anche per le intercettazioni del Trani-gate in cui Berlusconi chiedeva a Masi e Giancarlo Innocenzi (Agcom) di “chiudere Santoro”. Per non parlare delle intercettazioni dello scandalo P4 tra lui e il faccendiere Bisignani in cui i due parlavano di programmi Rai. Storica una frase di Masi a Bisignani: “Se io metto Cicciolina che fa le p… a un toro la sera faccio il 30%…”.

Il ritorno del pregiudicato Tredicine: ora fa comizi elettorali a Roma con Gasparri

A volte ritornano. Nonostante la condanna a 2 anni e 6 mesi per corruzione nell’inchiesta Mondo di Mezzo, Giordano Tredicine si riaffaccia alla politica insieme a Maurizio Gasparri. Eccolo, seduto al centro con la mascherina scura, sabato 27 febbraio a un’iniziativa elettorale con Gasparri (che gli sta di fronte) in vista delle Comunali romane, al mercato di Serpentara, periferia nord di Roma. Una settimana fa ancora non si sapeva che le Amministrative sarebbero state rinviate in autunno. Insieme a Gasparri e Tredicine c’è Rocco Belfronte (seduto a destra), possibile candidato alle Comunali per FI, sponsorizzato proprio dai Tredicine, famiglia che da anni detiene il monopolio dei camion bar e delle bancarelle di caldarroste in città, spesso al centro di inchieste e polemiche. Tredicine è stato consigliere comunale azzurro per due consiliature raccogliendo migliaia di preferenze, prima di essere coinvolto in Mafia Capitale. Belfronte, invece, nel 2015 subentrò in consiglio nelle file forziste, per poi passare subito dopo nell’Udc. Nel 2016 è stato candidato, non eletto, nella lista Popolari per Giachetti.

Beni confiscati: 5 su 10 non sono stati riassegnati

Cinque beni immobili su dieci confiscati alla criminalità organizzata non sono ancora stati destinati al riutilizzo sociale. Così su 4.384 aziende confiscate solo il 34% è stata già destinata alla vendita o alla liquidazione, all’affitto o alla gestione da parte di cooperative formate dai lavoratori delle stesse mentre il 66% è in questo momento ancora in gestione presso l’Anbsc, l’agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.

A suonare il campanello d’allarme è don Luigi Ciotti, il presidente di “Libera”, che nel 1996 promosse un’azione popolare per l’approvazione della Legge 109 sul sequestro e la confisca dei beni ai mafiosi. A 25 anni da quella data, “Libera”, ha presentato il dossier “Fatti perbene” che fotografa la situazione del riutilizzo dei beni. “C’è una debolezza strutturale dello Stato – denuncia don Ciotti – nei confronti delle mafie che vive di lungaggini burocratiche, disordine normativo, competenze non adeguate. Non possiamo permettere che tutto questo si traduca in un messaggio pericoloso: cioè che la 109 è un bluff, nient’altro che un giocattolino per illudere gli onesti”.

Il problema riguarda anche le aziende confiscate: la maggior parte giungono nella disponibilità dello Stato prive di reali capacità operative e sono destinate alla liquidazione e chiusura, se non si interviene in modo efficace nelle fasi precedenti. “Molte però – spiega “Libera” – sono scatole vuote, società cartiere o paravento per le quali risulta impossibile un percorso di emersione e continuità produttiva”. Ma non basta. Secondo l’associazione di don Ciotti anche i Comuni non fanno la loro parte sul livello ditrasparenza della “filiera” della confisca dei beni mafiosi: su 1076 municipi monitorati destinatari di beni immobili confiscati 670 non pubblicano l’elenco sul loro sito internet. Ciò significa che ben il 62% dei comuni è inadempiente.

“Non lascio Bose: il Vaticano così ci vuole umiliare”

“Silenzio sì, assenso alla menzogna no!”. È il titolo del comunicato che nel pomeriggio di ieri, Enzo Bianchi, il fondatore della comunità monastica di Bose, ha pubblicato sul suo blog. Dopo mesi di silenzio, il 79enne monaco, torna a parlare e lo fa per annunciare che darà vita a una nuova realtà monastica e per ricostruire la vicenda che dallo scorso mese di maggio ha sconvolto la vita della comunità.

Dopo il comunicato di venerdì della Santa Sede nel quale si rendeva noto che il Papa “chiedeva l’esecuzione” del Decreto singolare del 13 maggio scorso che obbliga Bianchi ad allontanarsi a tempo indeterminato da Bose, l’anziano monaco ha deciso di rendere noto a tutti la sua versione dei fatti.

Rispetto al decreto, Bianchi denuncia che è stato chiesta la loro cacciata “a causa di comportamenti mai indicati e spiegati che avrebbero intralciato l’esercizio del ministero del priore di Bose, Luciano Manicardi. Pur non avvallando le calunnie espresse nel Decreto, coscienti che non ci era consentito l’esercizio del diritto fondamentale alla difesa abbiamo obbedito”. Il fondatore spiega perché fino ad oggi non ha abbandonato l’eremo dove vive: condizioni di salute “precarie” e difficoltà economiche nella ricerca di una nuova casa. Ma non basta. Bianchi racconta di aver ricevuto dal Segretario di Stato, Pietro Parolin, la proposta di trasferirsi nella fraternità di Cellole insieme ad alcuni fratelli e sorelle. Una soluzione ostacolata dal delegato pontificio e dall’economo Guido Dotti: “Hanno da subito posto – cita la nota del fondatore – alcune condizioni, tra le quali la perdita di tutti i diritti monastici per i fratelli e le sorelle che si sarebbero trasferiti a Cellole nella condizione di extra domum”. Inutile ogni trattativa: “A queste condizioni che non sono mai state rese note alla comunità, non ho mai dato il mio assenso, mi sembrano disumane e offensive della dignità dei miei fratelli e delle mie sorelle”.