Una delle scene madri che hanno scatenato la “vergogna” di Nicola Zingaretti per un Pd che discute “solo di poltrone”, si è consumata venerdì 12 febbraio, meno di un mese fa. Quel giorno Mario Draghi presentò la lista del suo governo e i ministri democratici di peso erano i tre capi delle principali correnti del partito: Dario Franceschini, Lorenzo Guerini, Andrea Orlando. I primi due ex democristiani, il terzo un laburista anomalo, considerando che è stato a lungo il prediletto del migliorista Napolitano, il Re Giorgio del Quirinale.
Al netto allora delle feroci polemiche sul Pd sessista che ha fatto fuori le donne, la fotografia dem del governo Draghi è l’ennesima conferma della correntocrazia interna. Per dirla con Pintor buonanima, il Pd è morto democristiano. Ché in fondo questo è il prodotto della fusione fredda avviata da Walter Veltroni nell’autunno del 2007. Altro che l’incontro tra le migliori tradizioni del comunismo e della Dc, incarnate da Berlinguer e Moro.
Il partito liquido si è progressivamente doroteizzato, attingendo al peggio del repertorio scudocrociato. Non fu solo un’americanata, per citare il revisionismo postumo di D’Alema. E il povero Zingaretti che dice basta a tutto questo e se ne va, assomiglia al De Mita di metà anni ottanta che voleva rinnovare la Dc rimuovendo le correnti. Diceva l’affilato Ciriaco, intellettuale della Magna Grecia: “Gli organigrammi sono parte della politica ma non la politica”, “i nuovi meccanismi interni non devono essere più quelli delle quote percentuali”. Oltre trent’anni dopo i figli, anzi i nipoti dell’antica Balena Bianca si sono impadroniti del Pd spartendosi potere e poltrone con quei criteri che De Mita voleva azzerare. Anche perché sia Franceschini (Areadem) sia Guerini (Base riformista) sono gli azionisti di maggioranza del Pd. Franceschini è ormai l’Andreotti dem: sopravvive a tutto e tutti, pugnala leader e premier con sequenza regolare e ottiene sempre una poltrona. Guerini, invece, è soprannominato il Forlani del Pd, in onore dell’Arnaldo fanfaniano che poi si fece doroteo e mediatore con Gava e Scotti nel correntone del Golfo. E qui s’impone una domanda: in termini di consenso popolare quanto valgono le loro posizioni di potere? Nulla o quasi.
Basta guardare un dato decisivo. In questi giorni molto si è parlato dei 7 segretari democratici “sacrificati” in nemmeno tre lustri. Bene. Ma nessuno ha valutato il fatto che nei suoi 13 anni e passa di esistenza, il Pd è stato al governo per ben dieci, senza dimenticare che la sua fondazione nel 2007 innescò il meccanismo distruttivo del secondo governo Prodi. Dieci anni di gestione del potere per arrivare al modesto 18 per cento di oggi. Certo, Zingaretti ha dovuto fare i conti con le macerie della devastazione di Matteo Renzi (altro leader di matrice Dc), ma la percentuale attuale è la stessa che avevano i Ds nel 2007 quando si fusero con la Margherita, che vantava uno scarso dieci per cento. Impressionante. Un’erosione continua nonostante la presenza costante al governo. Stalin usava un termine per indicare la più grave malattia in politica: poterismo.
E il Pd è un partito malato di poterismo, probabilmente giunto alla fase terminale. Soprattutto se dopo il segretario dimissionario arriverà un reggente come la Finocchiaro o la Pinotti. La prima è stata la disastrosa madrina di Maria Elena Boschi per le riforme istituzionali bocciate dal referendum del 2016. La seconda perse nel 2012 le primarie per il sindaco di Genova e per questo fu premiata dopo con una poltrona da ministro. Del resto quando la classe dirigente si atrofizza per auto-conservarsi e perde di vista la costruzione del consenso per concentrarsi sulla gestione del potere, questi sono i risultati.