Potere & correnti: i dem sono morti democristiani

Una delle scene madri che hanno scatenato la “vergogna” di Nicola Zingaretti per un Pd che discute “solo di poltrone”, si è consumata venerdì 12 febbraio, meno di un mese fa. Quel giorno Mario Draghi presentò la lista del suo governo e i ministri democratici di peso erano i tre capi delle principali correnti del partito: Dario Franceschini, Lorenzo Guerini, Andrea Orlando. I primi due ex democristiani, il terzo un laburista anomalo, considerando che è stato a lungo il prediletto del migliorista Napolitano, il Re Giorgio del Quirinale.

Al netto allora delle feroci polemiche sul Pd sessista che ha fatto fuori le donne, la fotografia dem del governo Draghi è l’ennesima conferma della correntocrazia interna. Per dirla con Pintor buonanima, il Pd è morto democristiano. Ché in fondo questo è il prodotto della fusione fredda avviata da Walter Veltroni nell’autunno del 2007. Altro che l’incontro tra le migliori tradizioni del comunismo e della Dc, incarnate da Berlinguer e Moro.

Il partito liquido si è progressivamente doroteizzato, attingendo al peggio del repertorio scudocrociato. Non fu solo un’americanata, per citare il revisionismo postumo di D’Alema. E il povero Zingaretti che dice basta a tutto questo e se ne va, assomiglia al De Mita di metà anni ottanta che voleva rinnovare la Dc rimuovendo le correnti. Diceva l’affilato Ciriaco, intellettuale della Magna Grecia: “Gli organigrammi sono parte della politica ma non la politica”, “i nuovi meccanismi interni non devono essere più quelli delle quote percentuali”. Oltre trent’anni dopo i figli, anzi i nipoti dell’antica Balena Bianca si sono impadroniti del Pd spartendosi potere e poltrone con quei criteri che De Mita voleva azzerare. Anche perché sia Franceschini (Areadem) sia Guerini (Base riformista) sono gli azionisti di maggioranza del Pd. Franceschini è ormai l’Andreotti dem: sopravvive a tutto e tutti, pugnala leader e premier con sequenza regolare e ottiene sempre una poltrona. Guerini, invece, è soprannominato il Forlani del Pd, in onore dell’Arnaldo fanfaniano che poi si fece doroteo e mediatore con Gava e Scotti nel correntone del Golfo. E qui s’impone una domanda: in termini di consenso popolare quanto valgono le loro posizioni di potere? Nulla o quasi.

Basta guardare un dato decisivo. In questi giorni molto si è parlato dei 7 segretari democratici “sacrificati” in nemmeno tre lustri. Bene. Ma nessuno ha valutato il fatto che nei suoi 13 anni e passa di esistenza, il Pd è stato al governo per ben dieci, senza dimenticare che la sua fondazione nel 2007 innescò il meccanismo distruttivo del secondo governo Prodi. Dieci anni di gestione del potere per arrivare al modesto 18 per cento di oggi. Certo, Zingaretti ha dovuto fare i conti con le macerie della devastazione di Matteo Renzi (altro leader di matrice Dc), ma la percentuale attuale è la stessa che avevano i Ds nel 2007 quando si fusero con la Margherita, che vantava uno scarso dieci per cento. Impressionante. Un’erosione continua nonostante la presenza costante al governo. Stalin usava un termine per indicare la più grave malattia in politica: poterismo.

E il Pd è un partito malato di poterismo, probabilmente giunto alla fase terminale. Soprattutto se dopo il segretario dimissionario arriverà un reggente come la Finocchiaro o la Pinotti. La prima è stata la disastrosa madrina di Maria Elena Boschi per le riforme istituzionali bocciate dal referendum del 2016. La seconda perse nel 2012 le primarie per il sindaco di Genova e per questo fu premiata dopo con una poltrona da ministro. Del resto quando la classe dirigente si atrofizza per auto-conservarsi e perde di vista la costruzione del consenso per concentrarsi sulla gestione del potere, questi sono i risultati.

Beppe cerca la tregua con Casaleggio. Verso la nuova associazione

Il Garante parla e scrive ogni giorno per dare la linea. Arriva a candidarsi a segretario del Pd, per ribadire che la direzione di marcia del M5S deve restare quella, verso sinistra, e del resto è proprio la rotta del rifondatore, Giuseppe Conte. Ma il Beppe Grillo che insiste come un mantra sulla transizione ecologica, l’obiettivo da ostentare per salvare l’anima del Movimento al governo, ha anche altro da fare.

Per esempioprovare a scongiurare la guerra nei tribunali tra il M5S e Davide Casaleggio, ormai separati da un oceano di rancore e accuse incrociate. Per questo, dicono, nelle ultime ore Grillo ha (ri)sentito il figlio di Gianroberto. Proprio per cercare un punto di caduta politico e anche economico, visto che il patron della piattaforma Rousseau pretende versamenti arretrati dai parlamentari per circa 450mila euro, e da Roma gli hanno risposto che se li può sognare: anzi “ormai anche il contratto di servizio per rendere Rousseau un fornitore esterno è una chimera” soffia un big. Ma è più complicato di così, perché l’attuale Statuto rende centrale la piattaforma per il Movimento, e liberarsi di questo legame potrebbe non essere indolore.

Per questo “Casaleggio sta alzando la posta”, come sussurra un veterano che ben conosce la casa madre di Milano. Anche a livello politico, con il manifesto che presenterà in settimana a cui hanno già aderito alcuni ex di nome come Nicola Morra e Barbara Lezzi. E il Garante non ha affatto gradito, raccontano. Nonostante questo non vuole lo strappo con Casaleggio junior, che peraltro continua a citarlo come punto di riferimento. Cerca comunque una mediazione con il patron di Rousseau, a cui lavora a fari spenti anche l’ex capo politico Luigi Di Maio. Sono gli unici interlocutori del Movimento con cui Casaleggio accetta contatti: un canale tenuto aperto, anche perché ci sarebbero importanti votazioni da effettuare su Rousseau. A cominciare da quella sull’accordo tra Pd e Movimento nella Regione Lazio guidata dal dimissionario segretario dem, Nicola Zingaretti. L’intesa è chiusa in ogni dettaglio, e prevede l’entrata in giunta di due grilline, la capogruppo Roberta Lombardi e la consigliera Valentina Corrado. Ma Casaleggio, dicono i 5Stelle, bloccherà ogni votazione se non arriveranno i soldi invocati. E allora, “se lui ferma tutto dovrà essere Grillo a dare il via libera”, dicono. Magari tramite il suo blog, che di fatto sta sostituendo il blog delle Stelle, ancora controllato dall’associazione Rousseau, come voce ufficiale del Movimento. Di certo l’asse di comando sta profondamente cambiando. Con Conte capo prossimo venturo, certo, aiutato da una segreteria fatta di nomi di sua scelta. Perché l’avvocato è l’uomo della rifondazione, che lavora a un nuovo Statuto (in questi giorni sta studiando norme e Statuti dei partiti di mezzo mondo).

E assieme alla nuova normativa potrebbe arrivare una nuova associazione per il Movimento. O meglio, tornare. Perché Conte e Grillo stanno discutendo se abbandonare quella attuale, fondata a Roma nel dicembre 2017, con atto depositato presso un notaio in via Nomentana da Di Maio e Casaleggio. E così l’associazione di riferimento del M5S, ma con uno Statuto profondamente diverso, tornerebbe quella fondata a Genova nel 2012, che ha come soci Grillo, il nipote Enrico e il commercialista del Garante, Enrico Maria Nadasi. Ovvero la stessa associazione che detiene il simbolo del Movimento, concesso in uso a quella nata quattro anni fa. Ma ora lo stemma cambierà, come ha confermato Grillo nel video pubblicato ieri sul suo blog. “Metteremo con Conte fino al 2050” ha spiegato il Garante.

E d’altra parte un dominio internet movimento2050.it è già stato registrato, spiegano fonti qualificate. Perché è una strada tracciata. Proprio come quella dell’alleanza con il Pd, tanto che si potrebbe riaprire anche una trattativa a Milano con il sindaco uscente, Beppe Sala.

Sardine in difesa di Zinga. Appello giallorosa di Grillo

Sotto al Nazareno, si riunisce una falange di giovani che si sono scoperti zingarettiani: le Sardine. Mattia Santori e i suoi vogliono occupare fisicamente la sede del Pd, dopo le dimissioni del segretario. Portano sacchi a pelo, tende e grandi sorrisi: sembra un film di Muccino sull’autogestione di un liceo del centro, un classico della borghesia progressista. Circondato da una schiera di giornalisti, Santori assume la posa messianica che l’ha reso famoso: “Ci siamo stancati della politica fatta con i comunicati, noi ci mettiamo il corpo e la faccia. Si sta aprendo una fase costituente del centrosinistra. Vogliamo che sia democratica e aperta a tutti. Noi ci siamo”.

Santori, Jasmine Cristallo, Lorenzo Donnoli e altre due sardine sono ricevuti da Marco Furfaro e dalla presidente del Pd Valentina Cuppi. Entrando al Nazareno Santori mostra il pugno chiuso a tre persone che sventolano la bandiera del Pci. Restano nella sede del Pd per quattro ore. Ne escono persuasi: l’occupazione è rimandata. Zingaretti ha mandato un messaggio simpatizzante: “Le Sardine sono energia positiva dell’Italia e della democrazia italiana”. Prima di levare le tende (e i sacchi a pelo), Santori dichiara il suo appoggio al segretario che si è appena dimesso: “Il progetto Piazza Grande – la piattaforma di Zingaretti per aprire il Pd alla società civile – va continuato e certificato nell’assemblea del 13 e 14 marzo, altrimenti chiederemo a Zingaretti di proseguire il progetto fuori dal partito”. Come a dire: le Sardine stanno con Zinga, dentro o fuori dal Pd.

Già l’assemblea. Perché in quella sede, dove si sarebbe dovuto parlare della nuova fase politica aperta col governo Draghi, il partito dovrà eleggere un nuovo segretario. E qui arrivano i nodi politici. Oltre alle Sardine ieri è arrivata la provocazione di Beppe Grillo che vuole preservare l’alleanza progressista Pd-M5S-LeU del Conte II. In un video sul suo blog il Garante del M5S si è candidato come segretario “elevato” del Pd: “Mettete 2050 nel vostro simbolo, come sarà nel nostro prossimo con Conte – ha detto provocatoriamente – facciamo un progetto in comune, ne usciremo in un modo straordinario e io vengo lì, metto a disposizione i progetti, sarà tutto diverso nel futuro”. E se a diventare il prossimo segretario reggente fosse Piero Fassino, si ripeterebbe la situazione del 2009 quando Grillo provò a fare la tessera dem ad Arzachena ma gli fu restituita dall’allora segretario Fassino, che si prodigò in una celebre profezia: “Grillo fondi un partito e vediamo quanti voti prende”. Al di là della boutade, l’uscita di Grillo provoca tra i dem due reazioni contrapposte. Da una parte la maggioranza che fa riferimento a Zingaretti, Franceschini e Orlando ritiene che l’alleanza strutturale col M5S sia “necessaria” e l’apertura alla società civile con le Sardine sia “fondamentale”. Gli ex renziani di Base Riformista, corrente di Lotti e Guerini, invece vanno all’attacco: “Quella di Grillo è una buffonata, pensi al M5S” dice il portavoce Andrea Romano. Il capogruppo dem alla Camera Graziano Delrio (che dice no alla candidatura alla segreteria) sta nel mezzo: “Le alleanze sono un mezzo, non un fine”. Anche Matteo Renzi nella sua enews mette il dito nella piaga: “Dopo il fallimento della strategia ‘O Conte o morte’ era normale che qualcosa potesse accadere – scrive – l’asse col M5S è così inossidabile che Grillo si candida segretario”.

Nel frattempo restano pochi giorni per capire che ne sarà del prossimo Pd. I big stanno provando a convincere Zingaretti a ritirare le dimissioni. Non ci riusciranno e non è escluso che lui possa candidarsi a sindaco di Roma: “Deciderà lui stesso” ha detto ieri il segretario dem del Lazio Bruno Astorre. L’assemblea nazionale per eleggere il prossimo segretario è prevista per sabato e domenica prossimi ma non è escluso che alla fine possa essere rinviata di un’altra settimana per trovare un accordo tra le correnti. Base Riformista vorrebbe eleggere un segretario reggente, sul modello di Martina ed Epifani, magari all’unanimità, per traghettare il Pd al congresso di fine anno e preparare la corsa di Stefano Bonaccini, mentre la maggioranza del partito non esclude la possibilità di un candidato che duri fino al 2023. Ipotesi molto complicata. I nomi in pole sono quattro con preferenza sulle donne: Roberta Pinotti di Area Dem che piacerebbe a tutti (tranne a Orlando con cui ci sono dissidi “liguri”), Anna Finocchiaro, Debora Serracchiani ma anche Piero Fassino. Un déjà vu.

I legami con Mbs. Il piano saudita lodato da Renzi è scritto da loro

Le società di consulenza americane hanno una lunga storia di rapporti con governi mediorientali. Sarebbe sbagliato pensare però che società statunitensi come Bechtel (della quale facevano parte negli anni 80 numerosi esponenti dell’Amministrazione Reagan) abbiano teleguidato le monarchie del Golfo. Tanto per fare un esempio, la nazionalizzazione negli anni 70 dell’industria petrolifera in tutti i Paesi esportatori, inclusa l’Arabia Saudita, era tutt’altro che in linea con i desideri delle imprese a stelle e strisce. Quando dopo il 2014 i prezzi del petrolio hanno iniziato a scendere dal picco di oltre 100 dollari al barile, quasi tutti i petroStati si sono avvitati in crisi drammatiche e hanno preteso di voler “diversificare” la propria economia dal petrolio.

Invece di consentire maggior coinvolgimento popolare e un ampio dibattito pubblico, le monarchie del Golfo hanno cercato di contenere il dissenso mostrando i muscoli (vedi guerra in Yemen) e hanno arruolato stuoli di consulenti per inseguire gli investitori stranieri. Nasce così il rapporto strettissimo tra McKinsey e il principe saudita Mohamamd bin Salman che ha prodotto quello che Renzi considera uno straordinario sforzo riformatore. Si tratta del programma Saudi Vision 2030, approvato nel 2016, abbozzato proprio da McKinsey nel 2015. Il programma prevedeva investimenti per 4mila miliardi di dollari incardinati su “riforme strutturali, privatizzazioni e sviluppo delle piccole e medie imprese, con l’obiettivo di diversificare l’economia”. Tanto era forte l’influenza della McKinsey, che il ministero della Pianificazione saudita è stato soprannominato “il ministero McKinsey”. Vision 2030 è un pamphlet patinato che prevede montagne di investimenti, tra i quali quello da 500 miliardi di dollari in NEOM, una città da un milione di abitanti sul Mar Rosso supersostenibile, ma dotata dell’“aeroporto più grande del mondo”. Quanto di più lontano dalle necessità del popolo saudita, il cui interesse è piuttosto che la rendita del petrolio sia usata con moderazione, e congelata in fondi finanziari per garantire il benessere delle future generazioni nell’era post-petrolifera.

“È una scelta pericolosa. Serve rafforzare la PA, non indebolirla ancora”

“Sconforto”. La parola che viene d’istinto a Fabrizio Barca, ex ministro della Coesione sociale, lunga esperienza in Bankitalia e al Tesoro, oggi impegnato nel Forum Diseguaglianze e Diversità, è sconforto. “Sono amareggiato. Apprendere, in base alle precisazioni, che il ‘supporto tecnico-operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro del Piano’ è affidato a un intermediario generalista di consulenza come McKinsey segnala una debolezza di chi governa che non posso capire”. Senza contare le scarse garanzie di trasparenza di strutture che han combinato guai in giro per il mondo: “A quali informazioni strategiche del Paese ha accesso McKinsey?”.

Perché è sconfortato?

Perché quando entrai nel 1998 al Tesoro insieme a tante persone di grande valore, provammo a liberarci di questa sudditanza strategica a consulenze intermediate da terzi. Abbiamo rafforzato l’amministrazione pubblica con contributi esterni, e quando necessario selezionato con cura consulenze specialistiche. E abbiamo attinto ai saperi delle organizzazioni della società. Vedere che 22 anni dopo siamo ‘da capo a quindici’ è deprimente.

Si sostiene però che la consulenza tecnica sia utile.

L’assistenza serve, certo, con dei “se”. Se i committenti che fanno le domande sono molto bravi e quindi con grandi competenze dentro la pubblica amministrazione; se gli “assistenti” hanno forti competenze specialistiche per rispondere a quelle domande; e poi essi non devono essere coinvolti nella parte “alta” della programmazione e offrire la garanzia che le informazioni che acquisiranno non siano assolutamente utilizzabili da altri soggetti privati con cui essi lavorano. La scelta in questione non pare soddisfare questi requisiti.

Perché?

Be’, la funzione cui danno “supporto” è di alta strategia, perché tocca il coordinamento fra i filoni di lavoro, il ruolo nevralgico in cui tante idee diverse devono diventare una strategia-Paese; in cui vuoi coinvolgere, motivare, spingere con coraggio i tuoi funzionari. Pensate se un’impresa privata possa fare mai una cosa del genere…! E poi, non so oggi, ma nella mia esperienza ventennale ho potuto osservare che questo tipo di società tende ad avvalersi per queste funzioni orizzontali di giovani mal pagati che non apportano valori. Per non parlare del rischio che le informazioni possano circolare nella società di consulenza a vantaggio di altri.

Non si poteva fare diversamente?

La cosa che mi colpisce di più è che il 1º luglio del 2020, otto mesi fa, come Forum Diseguaglianze e Diversità abbiamo avanzato a quel ministero una dettagliata proposta per dotarsi all’interno di un nucleo forte di competenze specialistiche per dialogare con le maggiori imprese pubbliche e con esse sviluppare strategie. Parliamo delle stesse aziende che oggi saranno decisive per il Piano di ricostruzione e resilienza. Se lo avessero fatto, oggi il Piano avrebbe già una struttura di riferimento.

Cosa andrebbe fatto ora?

Rafforzare urgentemente le amministrazioni settoriali, anche con immissioni esterne, come avevo proposto assieme a Mario Monti quando criticammo la governance ipotizzata dal governo Conte. Mi auguro che il governo Draghi lo stia facendo. Poi occorre programmare l’attuazione dei progetti che per il 60 per cento sarà affidata ai Comuni. Occorre rinnovare con assunzioni mirate le amministrazioni locali attuatrici dei progetti. Abbiamo avuto riscontri dall’ex ministro del Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano, e dalla neo ministra, Mara Carfagna. Attendiamo un segnale dagli altri. E poi, lo ripetiamo ogni giorno, vanno ascoltate proposte e saperi delle organizzazioni di cittadinanza, come quella avanzata oggi sull’assistenza agli anziani non auto-sufficienti. Qui stanno i saperi che mancano.

McKinsey&C., il ritorno del metodo Draghi

L’arruolamento di McKinsey sul Recovery plan imbarazza il governo e il ministero dell’Economia. La notizia che il gigante mondiale della consulenza aiuterà la cabina di regia insediata al Tesoro nel valutare i progetti da inserire nella versione finale del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) ha creato diversi malumori. Fratelli d’Italia, LeU e 5Stelle chiedono chiarimenti e presenteranno interrogazioni parlamentari per chiedere all’esecutivo di riferire alle Camere, ma anche il Pd è molto critico. “La governance del Pnrr è al Tesoro con la stretta collaborazione dei ministeri competenti aveva detto Draghi. Se lo schema è cambiato, va comunicato al Parlamento”, dice l’ex viceministro all’Economia, Antonio Misiani. Stessa linea dell’ex ministro per il Sud, Peppe Provenzano. “Se fosse vero sarebbe abbastanza grave”, dice Francesco Boccia. A quanto risulta al Fatto, il ministro del Lavoro e vicesegretario Pd Andrea Orlando ha chiamato ieri il titolare dell’Economia Daniele Franco per avere chiarimenti sul ruolo del colosso e ha chiesto un incontro quanto prima. Il centrodestra tace.

Nessuno sapeva dell’incarico, anche buona parte della tecnostruttura ministeriale era all’oscuro. Il Tesoro ieri ha spiegato in una nota che gli aspetti decisionali dei progetti restano in capo ai ministeri, ma la società avrà il compito di “elaborare uno studio sui piani nazionali Next Generation già predisposti dagli altri Paesi dell’Ue e fornire un supporto tecnico-operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano”. Un incarico, se possibile, perfino più rilevante. Il contratto è però di 25 mila euro, soglia che non obbliga a fare una gara e nemmeno consultare altri concorrenti.

Lunedì Franco è atteso in audizione alle Camere dove sarà potrà chiarire diversi aspetti. I più critici puntano il dito sui guai del colosso (90 anni di storia, 10 miliardi di fatturato), che negli ultimi tempi è stato coinvolto in diversi scandali, dalla crisi dei farmaci oppioidi negli Usa (ha patteggiato una multa da 400 milioni), agli stretti legami con regimi autoritari come quello saudita di Mohammed bin Salman. McKinsey è stata poi arruolata da Macron per contribuire al piano vaccinale francese. Ma il discorso è più di sistema e riguarda il ruolo dei consulenti privati in una fase decisiva del piano che dovrà spendere 210 miliardi e regolare gli investimenti pubblici dei prossimi sei anni.

Appena insediatosi Draghi ha spiegato che il Pnrr lasciato dal governo Conte sarebbe stato rivisto dalla cabina di regia che coinvolge, tra gli altri, i ministeri della Transizione ecologica e di quella digitale. Il Parlamento sarebbe stato “informato costantemente”, ma le decisioni spettano a questa ristretta task force, supportata dai consulenti privati. McKinsey non è l’unico colosso coinvolto sul piano. Al lavoro ci sono anche i giganti della revisione come Ernest & Young e Pwc e il colosso Accenture, specializzato sul settore digitale (il capitolo vale il 20% dei fondi del Recovery). Molte delle “big four” (Kpmg, Deloitte, E&Y e Pwc) già lavorano con ministeri e Pa con appalti anche milionari. Stessa cosa vale per quelle della consulenza come Boston consulting, il cui managing director, Giuseppe Falco, sedeva nella task force presieduta da Vittorio Colao, oggi ministro della Transizione digitale ma cresciuto proprio in McKinsey, che avrebbe lavorato, insieme alle altre società, anche nella fase di redazione del famoso Piano Colao dell’estate scorsa, un embrione del Pnrr.

Di norma questi colossi lavorano nelle fasi preparatorie su singoli aspetti dei progetti, ora – ed è la vera novità del governo Draghi – vengono coinvolti nella fase più alta e finale delle decisioni, quella che conta. Si tratta di giganti con fatturati a sei zeri, i contratti poco onerosi per pagare i rimborsi spese mostrano che il vantaggio è di posizionamento: lavorare al più importante piano di investimenti pubblici degli ultimi decenni avendo accesso a un grande patrimonio informativo è il vero valore aggiunto di questi incarichi. Anche perché le grandi società lavorano soprattutto con i privati e i progetti vanno poi implementati e coinvolgeranno centinaia di imprese, dai grandi colossi alle Pmi.

D’altra parte l’uso esteso dei consulenti nelle grandi operazioni pubbliche che determinano le linee programmatiche per decenni è un po’ il modello Draghi da sempre, fin dalla grande stagione delle privatizzazioni di inizio anni 90, quando l’ex Bce – uno dei padri ideologici di quella fase – era direttore generale del Tesoro (lo diventa nel 1992 nel governo Ciampi). Un periodo in cui vennero assunti molti colossi in qualità di consulenti (“contractors”) per gestire le cessioni di pezzi dell’apparato industriale italiano, da Autostrade a Tim passando per l’Iri. Stando ai dati della Corte dei conti, per le 48 privatizzazioni direttamente effettuate dal Tesoro tra il 1994 e il 2008, si ricorse a 32 società a vario titolo (Advisor, Valutatore, Global coordinator, Intermediario) per un totale di 163 incarichi. Le operazioni di cessione dell’Iri furono 36, con dozzine di consulenti. Una lista che comprendeva i colossi del settore (Deloitte, Kpmg, E&y), ma anche società specializzate e numerose banche italiane ed estere, compresi i gruppi Usa Rotschild, Morgan Stanley e Goldman Sachs (che poi hanno aperto le porte ai dirigenti del Tesoro, lo stesso Draghi è finito poi in Goldman uscito dal ministero). Complessivamente, lo Stato spese per incarichi ai consulenti 2,2 miliardi di euro, quasi il 2% di quanto incassato dalle privatizzazioni (120 miliardi).

Analizzando i 15 anni di lavoro del “Comitato permanente di consulenza globale e di garanzia per le privatizzazioni”, dove Draghi sedette dal 1993 al 2002, in una corposa relazione la Corte dei conti nel 2012 ha stigmatizzato l’eccessivo ruolo riservato ai consulenti (“una cerchia alquanto ristretta”), accusando il comitato di essersi appiattito troppo sulle loro valutazioni generando spesso procedimenti caotici: “In alcuni dei casi esaminati – scrissero i magistrati contabili – si è avuta la conferma di una tendenza del Comitato ad avvalorare il parere già espresso dai consulenti dell’Amministrazione, finendo con l’assumere un ruolo quasi formale, senza svolgere sempre quella funzione incisiva di indirizzo che il quadro normativo gli attribuisce”.

Vale la pena di ricordare che oggi la partita del Recovery coinvolge le grandi partecipate statali e ammonta a 210 miliardi di euro. Il 2% stavolta varrebbe quattro miliardi.

Addio a Tognoli, nei giornali molti elogi e qualche amnesia di troppo

Carlo Tognoli è stato un sindaco amato, a Milano. Buon amministratore, inventò, prima delle estati romane, il risotto in piazza e la musica gratis al Castello. Era chiamato, con affetto, “Tognolino”.

Ora che se n’è andato, a 82 anni, portato via dal Covid, i giornali lo celebrano con molti elogi e qualche amnesia. Fu indagato e condannato, ma poi assolto in Appello — scrive il Corriere della Sera — durante la “parentesi nera di Mani pulite”. Fu nera, in effetti, per chi — amministratore, politico, imprenditore — vide arrivare la giustizia uguale per tutti dopo aver triplicato o decuplicato, causa tangenti, i costi al chilometro della metropolitana, del passante ferroviario, del terzo anello dello stadio di San Siro, della nuova sede del Piccolo Teatro e di ogni gara, di ogni appalto pubblico, nessuno escluso. Un sistema scientifico, con tangenti predeterminate in percentuali fisse per ogni tipo di lavoro e carature predefinite da distribuire ai partiti, di maggioranza e di opposizione.

Tognoli era simpatico, non puntò mai all’arricchimento personale, ma era dentro questo sistema. Non fu affatto assolto in Appello, ma condannato in via definitiva a 3 anni e 3 mesi, per ricettazione: per aver incassato i soldi delle tangenti raccolte da Mario Chiesa, imputato numero uno di Mani pulite, che con le mazzette imposte al Pio Albergo Trivulzio finanziava sia lui sia il suo successore a Palazzo Marino, Paolo Pillitteri, il “sindaco cognato” (di Bettino Craxi). Ma la memoria non è più una virtù, anche perché abili manine ripuliscono pure le voci di Wikipedia, per non lasciare traccia della verità storica, o almeno giudiziaria, e far vincere l’oblio.

E chi intervista, il Corriere, per ricordare Tognoli? Nientemeno che il capo di “miglioristi” milanesi del Pci, la corrente “riformista” che aveva deciso di entrare nel sistema e spartirsi il malloppo delle tangenti insieme con i craxiani del Psi.

Repubblica sorvola il curriculum giudiziario. Il Messaggero parla di avviso di garanzia nel 1992 “a una persona onesta”. Tutti sembrano dimenticarsi perché Tognoli fu costretto a dimettersi da sindaco di Milano: nel 1986, sei anni prima di Mani pulite. Fu per l’esplodere dello “scandalo delle aree d’oro”, quando la città scoprì che la “giunta rossa”, i campioni del “riformismo” (Psi craxiano e Pci “migliorista”) avevano reso edificabili, guarda caso, proprio le aree del nuovo re del mattone, un amico di Bettino Craxi di nome Salvatore Ligresti.

“Giudice Esposito diffamato”. Pm contro i trombettieri di B.

Lungo, l’elenco di giornalisti e politici accusati ora dalla Procura di Roma di aver realizzato una violenta campagna denigratoria contro il giudice Antonio Esposito, presidente del collegio della Cassazione che nell’agosto 2013 condannò in via definitiva Silvio Berlusconi a 4 anni per frode fiscale. Si è conclusa l’inchiesta aperta dal pm Roberto Felici dopo la denuncia di Esposito, attaccato e diffamato da una lunga serie di articoli, interviste, interventi, dichiarazioni, talk show televisivi. L’avviso di fine indagini prelude alla richiesta di rinvio a giudizio per quindici persone, giornalisti, direttori, politici.

Tutto è iniziato a fine giugno 2020: Nicola Porro nel suo programma tv Quarta Repubblica manda in onda la voce di un giudice, Amedeo Franco, toga a latere del processo in Cassazione a Berlusconi, che dopo aver firmato ogni pagina della sentenza di condanna era andato dal condannato ad Arcore e – registrato a sua insaputa – gli aveva detto che non era d’accordo e che si era trattato di una sentenza “guidata dall’alto”, “una grave ingiustizia”, “una porcheria”. In una seconda registrazione, la voce di Franco aggiungeva che il giudice Esposito era “pressato” per il fatto che il figlio, anch’egli magistrato, era “stato beccato con droga a casa di…” (notizia falsa: Ferdinando Esposito, allora pm alla Procura di Milano, non ha avuto alcuna denuncia per droga, è stato indagato dalla Procura di Brescia per tutt’altro e poi ha lasciato la magistratura).

Dopo la serata tv di Porro, si scatena la campagna. Intervengono Pietro Sansonetti sul Riformista, Alessandro Sallusti e Stefano Zurlo sul Giornale, Pietro Senaldi, Vittorio Feltri e Renato Farina su Libero, più altri loro colleghi. Si aggiungono al coro i politici intervistati (tutti di Forza Italia) Anna Maria Bernini, Andrea Ruggieri, Giorgio Mulè, Fabrizio Cicchitto. Per il pm della Procura di Roma, hanno tutti realizzato una campagna di denigrazione costruita con commenti di “opinionisti dello stesso orientamento”, “senza dare spazio alle repliche dell’interessato”. Risultato: “Una ricostruzione artificiosa degli eventi” che “offendeva la reputazione del giudice Esposito”, “sulla base di prove non verificabili”.

Undici giudici, in primo grado, in appello e in Cassazione, hanno ritenuto provata la frode fiscale di Berlusconi, che per l’importazione di film dagli Stati Uniti all’Italia aveva costruito un sistema che ha “realizzato maggiorazioni di costo negli anni” di ben “368 milioni di dollari”, nascosti al fisco e infrattati all’estero. Hanno valutato prove, testimonianze, ma soprattutto documenti bancari. A percorso giudiziario concluso, uno di questi giudici è corso dal suo condannato a smentire la sua firma apposta a ogni pagina della sentenza. E un anno dopo la sua morte, le registrazioni della sua voce sono usate per dare la stura a una “campagna giornalistica a contenuto demigratorio” — scrive il pm — in cui Sansonetti accusa Esposito, “dipinto come soggetto prevenuto e condizionabile”, di “aver emesso una sentenza preconfezionata al solo intento di recare danno all’imputato quale capo di un noto movimento politico”. Con espressioni quali: “Sentenza pilotata, metodi vigliacchi, complotto, potere illegale, processo fasullo… Il giudice Esposito è uno scandalo vivente”.

Sallusti non è più tenero: “Plotone d’esecuzione, la magistratura ha fatto un lavoro sporco, la democrazia è stata truccata con una manovra giudiziaria assolutamente spregiudicata, la sentenza è stata taroccata, qualcuno ci ha preso per il culo”. A Senaldi il pm contesta di aver raccontato il falso almeno due volte, scrivendo del “figlio beccato con la droga” e di una “sentenza che assolve Silvio”, inducendo “il lettore a credere che una sentenza del Tribunale civile di Milano avesse smentito la precedente decisione della Cassazione”. Feltri: “Processo manovrato come un’arma da fuoco”. Farina: “La giustizia come un’arma”. E i politici? Per Cicchitto “fu costituito un tribunale speciale… per colpire definitivamente Berlusconi”. Per Mulè “è stato stracciato e calpestato un diritto… plotone d’esecuzione, truffa giudiziaria, montagna d’infamia”. Bernini: “Una violazione di tutti i precetti costituzionali”. Ruggieri: “Una bisca, malfattori in toga, associazione a delinquere, banda della Magliana”. Ora la parola passa ai giudici.

“Repubblica”: Meloni e i 35mila euro ai clan: “Tutto falso”

“Una busta del pane” con “35mila euro in contanti”, perché “c’era bisogno di pagare i ragazzi”. Soldi consegnati in un parcheggio di un distributore di benzina del quartiere Eur di Roma. Ma questi “ragazzi”, stando agli atti della dda di Roma, erano manovalanza di un clan sinti del basso Lazio, ritenuto mafioso. A consegnare loro quei soldi sarebbe stato, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del 2013, “il segretario di Giorgia Meloni”.

È il racconto fatto ai magistrati romani da Agostino Riccardo, collaboratore di giustizia, e riportato in un verbale anticipato ieri dal sito del quotidiano Repubblica.

Il documento è agli atti dell’inchiesta sul clan Travali di Latina, colpito nei giorni scorsi da 19 arresti. In quel periodo, fra i principali candidati della neonata formazione politica Fratelli d’Italia, c’era Pasquale Maietta. L’ex presidente del Latina Calcio fu poi eletto deputato e ricoprì il ruolo di tesoriere di Fdi, fino al suo coinvolgimento, nel 2015, in un’inchiesta della Procura di Latina sui legami con il clan Casamonica. Secondo il pentito, a un certo punto della campagna elettorale 2013, Maietta “disse alla Meloni che noi eravamo i ragazzi che si erano occupati delle campagne precedenti per le affissioni e per procurare voti”.

Dunque, “Maietta ha detto alla Meloni che c’era bisogno di pagare i ragazzi presenti e la Meloni ha risposto ‘di’ a questi ragazzi che ne parlino con il mio segretario’”. Il quale, sempre dal racconto di Riccardo, “è arrivato da una strada interna (…) e ci ha portato all’interno di una busta del pane 35 mila euro”. Poi “prima di andare via ci disse ‘mi raccomando io non vi conosco, non vi ho mai dato niente’”. Dura la reazione della leader di Fratelli d’Italia, durante una diretta Facebook: “Io non faccio affari con i rom, io non metto i soldi nelle buste del pane, la notizia è inventata”. Secondo Meloni “è strano che questa notizia arrivi mentre siamo l’unico partito di opposizione e l’unico partito che cresce”. Il capogruppo di Fdi alla Camera, Francesco Lollobrigida, parla invece di “macchina del fango”.

I guai del tesoriere, pm: “I fondi Esselunga per l’evento politico”

Già portaborse di Matteo Salvini, Giulio Centemero ha fatto una carriera fulminante e oggi è diventato il depositario delle finanze della Lega. Milanese, classe ’79, commercialista, in politica sempre all’ombra del Carroccio, prima in Europa, poi in Parlamento e dal 2014 tesoriere delle casse di partito, compito condiviso con gli ex contabili bergamaschi Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, oggi imputati nell’inchiesta milanese sulla fondazione regionale Lombardia Film Commission (Lfc). Di questo fascicolo coordinato dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco e dal pubblico ministero Stefano Civardi, Centemero è presenza ingombrante ma non indagata. I guai per l’enfant prodige del cerchio magico salviniano riguardano due accuse per finanziamento illecito, trasformate in processi gemelli a Roma e a Milano rispetto a “erogazioni liberali” arrivate sui conti dell’associazione Più Voci, riferibile a partire dal 2015 allo stesso Centemero che compare tra i fondatori.

Nel processo che inizierà il 26 marzo nella Capitale, il tesoriere è accusato di aver incassato con Più Voci 250mila euro in due tranche arrivati sul conto numero 5970 aperto presso la filiale Ubi di Seriate. Denaro bonificato dall’immobiliare Pentapigna riferibile all’imprenditore Luca Parnasi, già a processo anche per reati legati alla costruzione del nuovo stadio della Roma. Due erogazione tra il dicembre 2015 e il febbraio 2016 che in parte, secondo l’accusa, sono finite nelle casse di Radio Padania. Il 13 giugno 2016, come si legge negli atti, dopo un incontro tra Centemero e i referenti della comunicazione di Esselunga, la società della famiglia Caprotti decide un’erogazione liberale da 40mila euro sul conto di Più Voci. Questo terzo contributo rappresenta il nodo centrale del processo milanese coordinato dal pm Stefano Civardi e che inizierà l’11 marzo. Accusa identica: finanziamento illecito. La storia contabile dell’associazione Più Voci con sede a Bergamo è riassunta in un documento, agli atti dell’inchiesta su Lfc, con cui i vertici di Ubi contestano mancate segnalazioni per “operazioni anomale” al capo della filiale di Seriate Marco Ghilardi. Si tratta di contestazioni legate a operazioni riferibili ai suoi ex amici Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni. Il 2 dicembre 2015 arrivano sul conto i primi 125mila euro da Parnasi. Nello stesso giorno dal conto di Seriate partono 50mila euro verso Radio Padania che ne riceverà altri 50mila il 17 dicembre. Il 12 febbraio 2016 da immobiliare Pentapigna arrivano a Più Voci altri 125mila euro. Tra il primo marzo e il 22 aprile, dal conto corrente 5970 partono circa 165mila euro verso Radio Padania, causale: contributo anno 2015 e 2016.

E si arriva ai soldi di Esselunga accreditati il 13 giugno 2016 a Più Voci per “contributo volontario”. Il 15 giugno 30mila euro da Seriate vengono bonificati alla Mc srl riferibile a Centemero e partecipata per il 100% da Pontida Fin. Il denaro finito a Mc, come ha ricostruito la Procura, sarà destinato a un evento politico. Altri 10mila euro finiscono a Radio Padania. Scrivono i vertici di Ubi: “L’operatività risulta anomala tenuto conto che il denaro ricevuto a titolo di liberalità non è stato utilizzato per le finalità dell’associazione ma è stato sistematicamente trasferito a Radio Padania (275mila euro) e a Mc srl (30mila euro)”. Il conto di Seriate è, secondo gli atti, il legame con Lfc. Qui Centemero non è indagato, ma citato anche per le cariche avute in società nel mirino dell’antiricilaggio senza rilievo penale.