Soldi della Lega, Salvini vuol cancellare le impronte

Matteo Salvini ha deciso di andare allo scontro in tribunale. Contro la Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti, l’organo da cui dipende l’erogazione del 2 per mille alle forze politiche. Motivo? La Commissione ha preso a pallettate la catena di comando della Lega Nord, che deve allo Stato i famosi 49 milioni di euro di rimborsi non dovuti spariti nel nulla e che ancora percepisce i benefici di legge accordati ai partiti a patto che siano puri come un giglio. La Commissione presieduta dal magistrato della Corte dei Conti, Amedeo Federici, ha imposto l’alt al nuovo statuto voluto dal Capitano e approvato al congresso di fine 2019 che ha rottamato la vecchia Lega e che prevede che la rappresentanza legale del partito sia affidata non già al vertice politico, come previsto dalle Linee Guida redatte dalla Commissione di garanzia, ma all’amministratore federale, in sostanza il tesoriere: quel Giulio Centemero a cui l’organismo di controllo ha chiesto infruttuosamente in passato di esibire i verbali relativi ai finanziamenti alla Editoriale Nord e a Media Padania e pure di certificare la natura dei rapporti tra il partito e altri soggetti come l’associazione Più Voci (di cui è fondatore) sospettata di aver ricevuto finanziamenti per conto della Lega.

Ma cosa c’è scritto esattamente nelle Linee guida tanto invise a Salvini e a Roberto Calderoli che è il deus ex machina del nuovo statuto? Che la famosa rappresentanza legale oggetto del contendere va “unitariamente riferita a un solo organo, esclusivamente quello di vertice del partito, nelle denominazioni usuali di presidente o di segretario generale”. Invece nel caso della Lega Nord il presidente, Umberto Bossi, è stato ridotto a una funzione onoraria, mentre al posto del segretario, carica da cui Salvini si è sfilato, c’è un commissario, Igor Iezzi. Con la rappresentanza legale attribuita all’organo a cui è affidata la gestione economico-finanziaria del partito. Ossia Centemero, lasciato a firmare ogni atto e a fare da parafulmine per ogni grana in sede giudiziaria e non. Con buona pace di quanto prescritto dalla Commissione di garanzia che pretende con chiarezza che a mettere la faccia e la firma sugli atti sia appunto il “soggetto esponenziale degli interessi della formazione politica”.

Di queste pretese della Commissione Federici la Lega non vuole saperne arrivando addirittura a lamentare al Tar, che deciderà il prossimo 17 aprile, una lesione delle proprie prerogative politiche legate all’autonomia statutaria riconosciuta dalla legge. Probabilmente, con i magistrati di mezza Italia alle calcagna del Carroccio, anche per mettere al riparo lo stesso Salvini. Che pur continuando a controllare e governare con i suoi uomini la vecchia Lega, nella stessa non riveste formalmente più alcuna carica essendo ora solo segretario della sua nuova creatura, la Lega per Salvini premier.

Le mani dei clan sul virus: 26 nuove inchieste in Italia

Venti febbraio 2020, ore 21: Codogno, Lombardia, Italia. È certificato il paziente 1. Sars-Cov2 morde. Da lì sarà panico. Che fa la mafia? Attende e “nella prima fase” evita “azioni palesi in grado di aumentare le tensioni sociali”. I clan ragionano in prospettiva, e oggi, a oltre un anno da Codogno, l’emergenza Covid è il vero business delle cosche e di quella criminalità finanziaria che con i boss va a braccetto.

Che il nuovo “settore” aperto dalla pandemia e irrorato da denaro pubblico sia oggi il vero obiettivo delle mafie, per la prima volta, lo spiega una nota della Direzione nazionale antimafia (Dna). La relazione, del novembre scorso, svela un numero inedito: 26. Tanti sono i fascicoli aperti dalle Direzioni distrettuali antimafia rispetto alle mire mafiose sull’affare Covid: da Venezia a Catanzaro, passando per Torino, Milano, Roma, Napoli. A prevalere, per il 31%, è la camorra.

È la prima concreta mappatura illustrata attraverso le storie che hanno preso impulso da accertamenti pre-investigativi nati da segnalazioni per operazioni sospette (Sos), condivise con la Dna dall’Unità di informazione finanziaria (Uif) presso la Banca d’Italia. Da qui si comprende come il settore sanitario, declinato in diversi modi, sia oggi il target dei clan: dalle mascherine a nuove strutture sanitarie, fino a investimenti dall’estero verso l’Italia con schermi societari per fare rientrare i capitali mafiosi.

Nell’area della Capitale si registrano ben sette fascicoli. A Roma si indaga su “una società caratterizzata da elevati profili di rischio attinenti all’importazione di materiale sanitario” che funge “da schermo di soggetti riconducibili a noti esponenti della banda della Magliana”. Sempre nel distretto romano la Procura “investiga” gli affari-Covid dei Casamonica. “Qui – si legge – gli accertamenti hanno condotto a una società, che ha convertito la propria attività dalla compravendita di prodotti di abbigliamento e accessori importati dalla Cina a quella del commercio all’ingrosso di mascherine e altri Dpi”. L’attività rilevata è quella “dell’interposizione fittizia per realizzare reati finanziari a beneficio dell’amministratore di fatto, collegato con soggetti emersi in ambiti associativi con noti esponenti del clan Casamonica”.

Nel mirino dei magistrati non ci sono solo le quattro mafie tradizionali. Per tutti, si legge nella nota, l’obiettivo è quello di “inserirsi nei settori più appetibili alla luce anche dei cospicui contributi che il governo e l’Ue hanno destinato ai settori produttivi del Paese”. Davanti a questa prospettiva, i clan “hanno saputo ampliare gli orizzonti, e indirizzeranno quantità ingenti di denaro di provenienza illecita verso nuove opportunità derivanti dalla post-epidemia, quali quelle offerte dal settore sanitario e dalle forniture medicali”. Ancora una volta la mafia cambia volto mettendo le procure di fronte a reati complessi come quelli economico-finanziari. Per questo negli ultimi mesi i rapporti tra Dna e Uif sono quotidiani, con grande rilevanza data alle Sos. Ed è per questo che i 26 fascicoli trovano un denominatore comune nelle “pedine umane che non si identificano nel mafioso tout court ma si ritrovano in quei circoli affaristico-politici in grado di agevolare, anche con la corruzione, la realizzazione degli interessi del crimine organizzato”.

A Torino, le cosche reggine hanno “interessi nelle Rsa” attraverso un’attività illecita “organizzata con strutture societarie in grado di insinuarsi nell’economia locale”.

Tra Napoli e Caserta, i Casalesi attraverso “operatività sospette” si infiltrano “nel circuito economico intorno all’acquisto di materiale sanitario”. Sempre riferibile ai Casalesi sono “i contributi statali nel periodo dell’emergenza Covid, che hanno come beneficiario i titolari di una attività di servizi, risultati tutti pregiudicati”.

La Dda di Trieste, invece, punta su “faccendieri a disposizione di clan siciliani e calabresi (…) per la gestione di capitali di provenienza delittuosa con il pretesto del loro successivo utilizzo in Italia in collegamento con l’emergenza Covid-19”.

E se la mafia catanese si occupa di “forniture di mascherine”, a Milano la ’ndrangheta e i suoi prestanomi stanno avendo accesso ai contributi Covid.

La Dna segnala infine “come gli interessi criminali hanno saputo cogliere il carattere dell’estrema urgenza nella tutela della salute pubblica, subentrando attraverso schermature societarie nelle procedure pubbliche dirette all’affidamento della fornitura di beni e servizi, anche in deroga alle norme previste dal Codice degli appalti”.

Le dosi in eccedenza? A sindaci e consiglieri

La gente di San Fili (2.100 abitanti in provincia di Cosenza) se lo chiede da giorni: ma perché mai a febbraio sono stati vaccinati sindaco e consiglieri (ma solo quelli di maggioranza) che ottantenni, di certo, non sono? Il Fatto può offrire ai sanfilesi la soluzione del mistero. Ce la rivela un medico che ha eseguito le vaccinazioni: “Per non sprecare le dosi!”.

La sindaca Linda Cribari e, con lei, i consiglieri di maggioranza che abbiamo contattato non hanno confermato né smentito di essere stati vaccinati. Non hanno risposto alle nostre domande. Ci ha risposto però il medico Giovanni Carbotti, chiamato a vaccinare i circa 200 ultraottantenni del Comune di San Fili. E risponde così, almeno in parte, alle domande che tre consiglieri di minoranza – Andrea Perrone, Danilo Mazzulla e Ivan Iantorno – rivolgono pubblicamente da circa una settimana, da quando hanno segnalato “irregolarità nella somministrazione dei vaccini”. I tre hanno presentato anche un esposto alla Guardia di Finanza (e non solo).

Una (mezza) soluzione al mistero ce la fornisce il dottor Carbotti: “Abbiamo fatto solo vaccini – premette – e non atti delinquenziali. Comunque, a un certo punto, nella seconda giornata, mancavano i vaccini per gli ultimi sette o otto anziani. I vigili urbani sono andati all’Asp per chiedere le dosi mancanti e sono tornati con quattro flaconi. E poiché da ogni fiala si ricavano sei dosi, ce ne siamo trovati con una quindicina in più. Il mio compito – continua il medico – era solo quello di fare iniezioni e non certo di scegliere chi vaccinare. Posso dirle che abbiamo chiesto alla nostra stazione dei carabinieri, che conta 5 o 6 militari, se qualcuno voleva vaccinarsi: hanno declinato l’invito. Se ci fosse stata premeditazione, non avremmo certo chiesto ai carabinieri”. Il Fatto ha verificato che un’interlocuzione con l’Arma c’è stata e i carabinieri hanno preferito non penalizzare gli anziani del Comune.

“A quel punto – conclude il medico – abbiamo chiesto ai presenti, inclusi i consiglieri, per non sprecare le dosi. Altrimenti le avremmo dovute inviare nuovamente alla Asp? Tra le persone che abbiamo vaccinato in quel frangente immagino che vi siano state anche giovani o soggetti senza patologie, ma non posso saperlo, e comunque non ho deciso io: quello che so, è che i consiglieri hanno ritenuto di doversi vaccinare per non sprecare le dosi”.

Chapeau: il senso del dovere, innanzitutto. Ma c’è chi ha qualcosa da obiettare: “Noi consiglieri di opposizione – ci dice Mazzulla – il 28 febbraio abbiamo ricevuto molte segnalazioni: alcuni cittadini ci rappresentavano le presunte irregolarità nella somministrazione dei vaccini del giorno 27, poiché, a loro dire, si sarebbero vaccinati amministratori di maggioranza, dipendenti pubblici e loro parenti e amici”. Ha prevalso il senso del dovere, come ci ha spiegato il dottor Carbotti. “Prendo atto di quel che dice il medico e a maggior ragione chiedo: è stata applicata correttamente l’ordinanza regionale? Sono state rispettate le fasce di priorità? Ultraottantenni, poi settantenni e cittadini con le patologie previste? Abbiamo chiesto ai dirigenti dell’Asp gli elenchi dei vaccinati: non abbiamo avuto copia, neanche la possibilità di leggere gli atti, nonostante ne abbiamo diritto.

Se fosse vero, come sostiene il medico, che mancavano dosi per sette o otto anziani, e quindi al massimo due fiale, perché ne arrivano quattro e vengono consumate tutte le 24 dosi? Non potevano essere utilizzate per soggetti che ne avevano ufficialmente diritto? Vorrei far notare che proprio nelle ultime 48 ore, a Cosenza, la Asp ha dovuto rinviare le giornate vaccinali già organizzate perché non ci sono dosi sufficienti per gli over 80”. Le uniche risposte di sindaco e giunta arrivano su Facebook: la campagna vaccinale ha raggiunto la quasi totalità degli over 80 e qualcuno, con queste accuse, cerca di screditare la giunta. E su un manifesto – con logo del Comune – si legge: “Nell’eventualità di dosi in surplus la valutazione è rimessa esclusivamente al personale sanitario”.

I tecnici: “Inasprire le misure”. Ma vietato parlare di lockdown

Alcuni membri del Comitato tecnico scientifico, venerdì, avrebbero voluto suggerire al governo la chiusura dei centri commerciali anche nelle aree non appartenenti a Regioni rosse, dove le scuole sono chiuse perché si superano i 250 nuovi casi a settimana ogni 100 mila abitanti. Alla fine la formulazione è più generica, richiede solo l’“innalzamento delle misure su tutto il territorio nazionale”. E ieri dal Cts hanno fatto sapere che “nessuno ha chiesto il lockdown”. Parola indicibile con Mario Draghi come con Giuseppe Conte, però la Cabina di regia Salute-Iss ha scritto di “crescita esponenziale” e ha chiesto “il massimo livello di mitigazione anche laddove l’incidenza settimanale superi la soglia di 250 casi per 100.000 abitanti.”. Il “massimo” è la zona rossa: Trento (385 per 100.000 abitanti al 28 febbraio), Bolzano (377), Emilia-Romagna (342), Marche (265) e Lombardia (254) sono arancioni, sia pure con ulteriori restrizioni a livello locale – rosso o arancione scuro – che però non riguardano i centri commerciali. Questo perché per la zona rossa il Dpcm richiede Rt a 1,25 e non c’è. A livello nazionale è a 1,06. Il Viminale intanto ha disposto l’intensificazione dei controlli sugli assembramenti nelle zone della movida e sui confini delle zone rosse anche infraregionali.

I numeri sconfortano, ieri altri 23 mila casi, 46 pazienti in più nelle terapie intensive e almeno nove Regioni oltre la soglia d’allerta. L’incidenza nazionale media indicata venerdì, calcolata al 28 febbraio, era 195 ogni 100 mila abitanti/settimana, ma è già salita a 230. Aumentano le varianti: ieri a Varese hanno individuato quella thailandese, non è detto che sia pericolosa, ce ne sono decine di migliaia. Per ora a preoccupare sono quella inglese, la brasiliana e la sudafricana.

Si lavora al nuovo piano vaccinale. Ieri nuova riunione del Comitato operativo della Protezione civile, presieduta dal neodirettore Fabrizio Curcio con il neocommissario generale Francesco Paolo Figliuolo e la partecipazione in videoconferenza delle Regioni, a cui è stato chiesto un censimento delle capacità esistenti e del fabbisogno per aumentare le somministrazioni, ad aprile, dalle attuali 150-180 mila giornaliere fino a 300-350 mila se non oltre. Curcio e Figliuolo hanno ribadito che serve “maggior coordinamento”, sei dosi di AstraZeneca su 10 sono nei frigoriferi, anche di più in alcune Regioni.

Ai 42 mila medici di famiglia si aggiungeranno i giovani medici specializzandi. Il ministro Roberto Speranza ha fatto l’accordo con le loro associazioni, su base volontaria guadagneranno 40 euro l’ora, non dovranno lavorare gratis come vorrebbero la legge finanziaria e Guido Bertolaso. Sono 38 mila, l’Anaao giovani (sindacato dirigenti medici) stima che possano aderire in 10 mila, per l’Associazione liberi specializzandi (che dichiara 3.000 iscritti) anche di più. “Ma non dovrebbero fare le iniezioni, dovrebbero farle gli infermieri”, dice Massimo Minerva dell’Als. Per il ministero della Salute, invece, le faranno. Gli specializzandi delle Uscar del Lazio non le fanno. Ma anche Pierino Del Silverio dell’Anaao giovani dice che le faranno. Altri 7.300 medici e infermieri potrebbero essere assunti dalle agenzie interinali vincitrici del bando dell’ex commissario Domenico Arcuri. I contratti fatti sono 1.740, di cui oltre 1.100 a medici, altri 360 potrebbero firmare in settimana e coprire gran parte del fabbisogno di febbraio indicato da Arcuri. Lazio, Toscana, Campania e Umbria hanno coperto oltre il 70%, altri sono indietro compresa la Lombardia. Il ministero lavora ad altri accordi con pediatri e dentisti.

Lombardia, sistema in crash. Vaccini “abusivi” per 3 giorni

Centinaia di insegnanti lombardi, che si erano registrati sul portale per il vaccino, non hanno ricevuto l’sms di conferma degli appuntamenti fissati per domani mattina, giorno di avvio delle somministrazioni per i docenti. In compenso, per tre giorni, la piattaforma ha permesso a migliaia di cittadini di prenotarsi.

Una scorciatoia passata attraverso le farmacie. Chiunque, pur non appartenendo alle due categorie per le quali sono aperte le liste – cioè over 80 e insegnanti – si è potuto quindi registrare sulla piattaforma per diversi giorni, a causa di un baco del sistema. Il tam tam è stato immediato. Ora la falla è chiusa, tanto che in farmacia da ieri si prenotano nuovamente solo gli over 80. Il paradosso è anche che molti degli insegnanti che avrebbero avuto diritto a vaccinarsi a partire da lunedì non hanno potuto invece iscriversi: per accedere al proprio fascicolo sanitario, dove è riportato l’appuntamento della somministrazione, bisogna infatti essere in possesso di Spid o carta d’identità elettronica, ma molti ne sono privi. Morale? Non tutti i 7 mila docenti in lista per lunedì, si presenteranno.

Ecco le due ultime “performance” della piattaforma (costata 22 milioni di euro, come raccontato dal Fatto) gestita dalla Centrale acquisti regionale Aria. Un’agenzia che non ne ha imbroccata una: dagli appalti alla famiglia Fontana (camici), ai vaccini antinfluenzali, fino al disastro della piattaforma. E su cui la Corte dei conti ha aperto un fascicolo. Entro tre settimane, come annunciato dalla vicepresidente di Regione Lombardia Letizia Moratti, la piattaforma sparirà, sostituita da quella (gratuita) di Poste.

C’è da chiedersi, però, se fino ad allora continuerà a fare “danni”. In gioco c’è la salute di 10 milioni di cittadini, molti dei quali oramai disperano di poter avere un vaccino a breve. Lo dicono i numeri degli over 80: il 5 marzo sono state vaccinati 10.809 anziani, 118.883 in tutto, su una platea di 720.000. Dall’inizio della campagna di vaccinazione, risultano somministrate 802.423 dosi per i lombardi.

Tra chi si è “intrufolato”, saltando la fila, c’è S.P., mamma 50enne di una ragazza disabile che si è fiondata venerdì in farmacia. “Mia sorella mi ha chiamato e mi ha detto: corri e registrati tu e registra V., che almeno fate il vaccino”, racconta. Chi si è registrato abusivamente, non avrà però l’appuntamento perché il Pirellone confronterà le liste dei prenotati (128.949 persone) con quelle dei docenti (200.000) ricevute dal ministero e dalle scuole paritarie (liste che avrebbe dovuto caricare sulla piattaforma ma che invece non ha caricato). Chi è in regola sarà convocato, chi non lo è, dovrà aspettare. Ma l’operazione richiederà tempo, quindi si profilano nuovi ritardi all’orizzonte. “Sono colpita dall’ennesima disfunzione – commenta Jessica Merli, segretario Flc Cgil Milano – ma non me la sento di condannare quanti si sono iscritti grazie al baco. La Regione ci ha assicurato che non ci saranno ritardi, vedremo”.

Chi invece non ha più pazienza è l’associazione “Nessuno è Escluso”, che raccoglie famiglie di minori con disabilità gravi e gravissime, la quale giovedì scorso ha diffidato il Pirellone affinché stabilisca entro 10 giorni una data per l’inizio delle vaccinazioni dei fragili (un milione). L’esposto per la Procura è pronto.

E intanto la Regione questa settimana varerà anche la delibera per le vaccinazioni all’interno delle imprese private. Una decisione dovuta alla necessità di sgravarsi di parte dell’organizzazione della vaccinazione di massa, prevista da inizio aprile. E sono già numerose le aziende che si stanno organizzando. Tuttavia, se il vaccino “aziendale” inizierà prima che la Regione abbia finito di vaccinare gli over 80, avremo una parte della popolazione “giovane”, cioè in età lavorativa, coperta prima di quella ad alto rischio. L’ennesimo paradosso lombardo.

Perché non parli?

Non siamo così ingenui da meravigliarci se il governo Draghi assolda alcune multinazionali, tra cui l’americana McKinsey, per farsi assistere sul Recovery Plan. E non siamo neppure così sprovveduti da stupirci se i partiti che ieri accusavano Conte di “aggirare il Parlamento” (con la cabina di regia chiesta dall’Ue per monitorare spese e lavori, non per la stesura del Piano) e “sostituire i ministeri e le Camere con task force e consulenti” (dopo che il Parlamento aveva approvato la prima bozza e ricevuto la seconda) e oggi non muovono un sopracciglio sulla privatizzazione del Next Generation Eu. Lo stupore l’abbiamo esaurito e diamo tutto per scontato: anche il doppiopesismo della grande stampa, passata dall’imputare una “gestione personalistica e autoritaria” all’unico premier che parlamentarizzava il Recovery (tutto scritto dai suoi ministri) all’osannare il nuovo premier che “riscrive il Piano tutto da solo” e ora si scopre che si fa dare una mano da consulenti privati e stranieri, come se fosse ancora a Bankitalia o alla Bce.

Draghi però è persona seria e uomo di mondo, ergo deve conoscere il significato di “trasparenza”. O, per dirla più chic, “accountability”: il dovere di chi amministra la cosa pubblica e il denaro pubblico di render conto dell’uso che ne fa. Ora, per rendere conto, bisogna per forza parlare. Draghi non l’ha fatto sul suo primo Dpcm, mandando avanti Speranza e financo la Gelmini. Ma ora dovrà farlo su McKinsey&C., possibilmente in Parlamento dove – come gli ha ricordato l’ex sottosegretario Pd Antonio Misiani – aveva assicurato che “la governance è incardinata nel Mef in strettissima collaborazione coi ministeri competenti”. Ora si scopre che ci sono pure McKinsey e altre multinazionali ancora ignote. Contrattualizzate e retribuite con denaro pubblico. Chi le ha scelte? Con quali criteri? Perché quelle e non altre? A quali informazioni strategiche hanno accesso?. Perché non usare le strutture tecniche dei ministeri, della PA e delle partecipate di Stato (da Cdp a Invitalia)? Perché non fare un bando di gara per far emergere i migliori? È un caso che il ministro Colao venga da McKinsey? Perché nessuno l’ha comunicato al Consiglio dei ministri e al Parlamento, che l’hanno appreso da Fatto e da Radio Popolare, e solo dopo il Mef s’è affrettato a precisare l’incarico a McKinsey da 25mila euro (sotto la soglia per le gare), senza dire una parola sulle altre tre società ingaggiate? È vero, come dice il Mef, che McKinsey ha già studiato i Recovery Plan di altri Paesi Ue. Ma, come non dice il Mef, ha redatto pure il piano Saudi Vision 2030 di Bin Salman, quello del Nuovo Rinascimento renziano. Tutto normale?

Lo studio partigiano che ricorda le buone ragioni di chi aveva ragione

Con il libro di Chiara Colombini, Anche i partigiani però…, la collana Fact Checking di Laterza compie la prima trilogia (anche se continuerà). Dopo Carlo Greppi con L’antifascismo non serve più a niente e il volume di Eric Gobetti, E allora le foibe? (che ha dato vita a una dura polemica anche con Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni), la ricercatrice dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza decide di affrontare un altro luogo comune incistato nel dibattito pubblico e che riguarda la lotta partigiana.

È incredibile, nota Colombini, come a distanza da quegli avvenimenti e nonostante un dato storico innegabile, risuoni ancora nel rumore di fondo, ergendosi spesso a clamore dominante, l’idea dei partigiani come “massa di esaltati”, “tutti comunisti”, “avventurieri e mezzi delinquenti”. Affermazioni singole che spesso però vanno a comporre una sinfonia più ragionata e insidiosa che punta a liquidare la Resistenza come fatto politico e collettivo.

L’operazione si incarica, così, di “rinsaldare gli anticorpi” antifascisti, perché in fondo quelle singole affermazioni servono a recuperare quella che è stata definita impropriamente “la memoria dei vinti”, operazione impossibile nel caso del fascismo e nazismo, ma utile perlomeno a relativizzare la memoria di chi invece era dalla parte giusta della storia.

Più che rispondere alla narrazione distorta del dileggio postumo, magari esaltando le gesta eroiche per annullare le ricostruzioni di “crimini e pagine oscure”, il libro punta a “raccontare la storia della Resistenza e le storie degli uomini e delle donne che l’hanno vissuta”. Con cifre, dati alla mano, con ricostruzioni puntuali, il fact checking coglie l’obiettivo che si è dato: un piccolo manuale di difesa delle idee e che restituisce le giuste ragioni a chi ha sempre avuto ragione.

 

Anche i partigiani però… di Chiara Colombini – Pagine: 194 – Prezzo: 14 – Editore: Laterza

“Basta etichette: non esiste letteratura gay”

“Per molto tempo ho temuto che mi fosse permesso di scrivere solo romanzi sui gay”. Dietro la boutade con cui si apre una deliziosa chiacchierata con lo scrittore americano Edmund White (classe 1940), in effetti, non c’è soltanto la soddisfazione per il successo di pubblico e di critica che ha scatenato il suo ultimo romanzo Una santa del Texas, apparso da poco in Italia per il suo fedelissimo editore Playground.

Si aggiunge un’amara constatazione. Di White, infatti, si compilano sempre gli stessi appellativi, codificate ndr: “Scrittore omosessuale”, “sopravvissuto all’ondata di Aids degli anni 80”, “padre della letteratura omosessuale”. Sebbene in un Paese come l’America convenga a fini commerciali catalogare per il pubblico i suoi scrittori in “neri/gay/lesbiche/cattolici…”, una certa critica ha sempre voluto come sminuire l’intera opera di White, relegarla a un grado minore. Questo perché l’uso che ha fatto del biografico è stato frainteso.

Anche nella meravigliosa tetralogia di ispirazione più autobiografica scritta in vent’anni che inizia dal commovente Un giovane americano (1982) – il racconto di formazione di un adolescente negli Stati Uniti ingenui e moralisti degli Anni 50 – e giunge al decadente L’uomo sposato (2000), la storia di un amore tardivo tra un cinquantenne sieropositivo e un giovane uomo maritato, White è sempre universale, cioè simbolico. Membro dal ’99 dell’American Academy of Arts and Sciences, la sua non è mera memoria, per natura selettiva, come spiega in Ragazzo di città (2010): “Nella scrittura si tracciano le linee anche delle parti dimenticate. Si ricompone la propria improvvisazione in un viso nuovo, mai visto prima, che somiglia a un’invenzione”.

Volendo, però, come sbarazzarsi del memoir, Una santa del Texas è meravigliosamente pura fiction (o almeno, così pare). È la storia delle vite opposte di due ricchissime gemelle texane, Yvette e Yvonne, dall’America di Eisenhower degli Anni 50 fino a oggi. La prima – spirituale e coltissima – diventa suora, fa voto di castità e povertà, parte come missionaria in Sudamerica dove compirà miracoli; la seconda – sensuale e ingenuamente attratta dalla mondanità – si trasferisce in Francia dove sposa un fatuo barone per diventare nobile e inseguire la scia di un moderno Ritratto di signora tra amici della foggia di Yves Saint-Laurent e Audrey Hepburn.

Come in La sinfonia degli addii (1997) o in My Lives (2005), torna qui il nodo tematico che gli deriva da Henry James, la contrapposizione tra Vecchio e Nuovo Mondo. “Mi sono divertito a raccontare le vite di queste due ragazze così diverse (sebbene gemelle), è stato esaltante” ci dice. Tuttavia, la loro opposizione non è stantia. “La suora precipita verso una relazione sessuale con una consorella, mentre l’aristocratica perde tutte le sue illusioni sui blasoni e sull’amore”. Così, a mano che si procede nella storia – narrata da Yvonne – White sovverte gli equilibri. Se all’inizio ridiamo con e delle protagoniste, della loro stolidità, nel raccontare l’amore saffico di Yvette e l’ossessione per la propria vagina, o la reazione della gemella all’ipocrisia della mondanità francese, lo scrittore suggerisce che le etichette (quelle che diamo agli altri o che danno a lui) non valgono. “Pensiamo all’oggi – commenta – ogni Paese ha cambiato posizione. Gli americani, famosi per la scienza e l’efficienza, sono sprofondati nell’ignoranza; gli italiani, reputati spensierati, sono diventi più cupi con la pandemia”.

Se vogliamo salvarci, sacro e profano devono contaminarsi. Nel capolavoro che è Una santa del Texas (come nei suoi romanzi più riusciti) White attua un funambolico contagio tra carne e spirito, come fanno gli autori da lui amati in veste di saggista: Rimbaud, Genet, Proust. E se ci riescono è proprio perché – qui sì che vale la pena ricordarlo – sono tutti omosessuali. Come scrive in Stati di desiderio (1980) sulla sua omosessualità: “La vita mi ha offerto un tema nuovo di zecca e il mio compito è quello di presentarlo nella luce più chiara e meno tremolante possibile”, questo perché solo uno scrittore gay – che non ha secoli di tradizioni sulle spalle – “è libero e non ha bisogno di espedienti retorici”.

“Il simpatizzante” odia tutto. Pure il foie gras

Il cinquantenne vietnamita Viet Thanh Nguyen, vincitore nel 2016 del Pulitzer con Il Simpatizzante, trascina ancora una volta sul palco l’io narrante del suo esordio. Il sipario si riapre su quattrocento pagine fittissime sotto il titolo Il Militante, in libreria per Neri Pozza.

Il Simpatizzante, raccontando la guerra del Vietnam dal punto di vista di un vietnamita, ha regalato alla narrativa recente un personaggio a metà tra il camaleontico Zelig di Woody Allen e il cinico Mister Hyde di Stevenson. Il nostro è una spia dei comunisti ma che si trova perfettamente a proprio agio nell’edonismo yankee. Una doppia personalità, mezza orientale e mezza occidentale (figlio di un prete francese e di una adolescente vietnamita) che dopo la caduta di Saigon nel 1975 ripara negli Usa e all’insaputa del suo amico Bon, viscerale anticomunista, invia i suoi rapporti a Man, suo addestratore tra le fila Vietcong. La sua abilità nell’intelligence persuade gli States a rispedirlo in patria per rovesciare il regime ma finisce, vittima di torture, in un campo di rieducazione. Ne Il Militante lo ritroviamo agli inizi degli Anni 80 a Parigi, in virtù del diritto d’asilo concesso dalla Francia. Il nostro – in pagine che mescolano aneddotica storica e umorismo al vetriolo – si lancia in una vera e propria requisitoria contro la cultura oltralpe (dopo avere svelato le crepe del sogno americano). Tra le canzoni insipide di Johnny Halliday e la crudeltà del foie gras, è convinto che il popolo francese offra “più libertà, amore e comprensione ai suoi cani che alla gente con la pelle gialla”.

Il j’accuse è centrato sulla dominazione coloniale, sull’intolleranza che alligna anche tra i progressisti. Uno tra gli svariati passaggi rivelatori: “I francesi vedevano il nostro passato condiviso come una tragica casualità della storia, una romantica storia d’amore finita male mentre io vedevo il nostro passato come un crimine che erano stati loro a commettere”. Il simpatizzante ha un obiettivo: riconciliare i fratelli di sangue di un tempo, Bon e Man, che la Storia ha collocato su fronti opposti. Libero da tare ideologiche, confessa a se stesso: “Avendo assistito ai fallimenti del comunismo e dell’anticomunismo, avevo scelto il nulla”. Trova ospitalità da una zia che lavora nell’editoria e il cui appartamento è un ritrovo per un gruppo di intellettuali tanto di sinistra da provocare il suo stupore ogni volta che vede uno di loro “mangiare con la destra.” Blaterano di estremismi perché a credere nella rivoluzione “sono solo quelli che non ne hanno vissuta una”. Dietro la copertura di un ristorante si arruola nella manovalanza criminale con lo spaccio di droga.

Il finale scivola tra morti e feriti in una spirale per il controllo del territorio con una gang rivale di spacciatori arabi e si chiude con la definitiva resa dei conti tra i due amici Bon e Man (che riappare con un trito e macchinoso cliché). Lo scenario, tra prostitute e intellettuali prostituiti, è quello torbido di una classica spy story, invero con poca azione. Grava su questo pur brillante romanzo di idee un gioco erudito che talvolta comprime il ritmo. Una stanza vuota, buia e senza finestre, con una sola lampadina che pende dal soffitto, è sublimata nella penna dell’autore in “un palcoscenico minimalista pronto per uno spettacolo d’avanguardia di Beckett”.

Il militante di Viet Thanh Nguyen – Pagine: 432 – Prezzo: 19 – Editore: Neri Pozza

Tra webcam porno e nazisti “moderati”, un assassino svedese che ama le bambole

Il neonazismo; un killer che odia le donne; un’eroina antifa (antifascista) che in passato è finita in prigione per aver hackerato la polizia. E ancora: un mistero da risolvere nell’arco di un libro e un altro che invece si distende per una trilogia, in questo caso dell’odio. Insomma l’adesione agli stilemi larssoniani (ovviamente Stieg buonanima) è totale in questo primo libro di Magnus Jonsson, L’uomo che giocava con le bambole (traduzione di Francesco Peri) che nella madrepatria svedese ha riscosso un certo successo, ben centomila copie. A Stoccolma c’è un serial killer che soffoca le donne e smalta i loro corpi per farle diventare macabre bambole. La prima vittima si chiama Anna, studentessa universitaria con un altissimo tenore di vita: “I due grandi occhi lo fissavano senza vita, pieni di terrore. Occhi da bambola. Era il momento di mettersi al lavoro. Il bello veniva ora”.

A indagare sono due poliziotti: il quarantacinquenne commissario Rickard Stenlander e il più giovane Erik Svensson, ispettore di colore che si veste come un rapper. In loro aiuto, per “entrare” nel computer della vittima, arriva Linn Ståhl che dopo la guerriglia antifa e due anni in carcere insegna crittografia informatica. Si scopre così che la ragazza uccisa, Anna, si esibiva in webcam per una piattaforma porno riconducibile a un movimento di estrema destra. Ormai da tempo nazisti o populisti nazionaldemocratici cercano di camuffarsi da moderati per infiltrare con loro uomini Parlamento e magistratura. E l’antifa Linn è da un decennio la bestia nera del leader svedese dei nazisti. Nel suo tentativo di apparire affidabile, il movimento patriottico dipende da un ricco finanziatore danese. L’indagine su Anna e Lisa (la seconda vittima del serial killer) incrocia quindi quella sul nuovo nazismo scandinavo. Nel libro c’è solo la soluzione della prima. Per la seconda bisogna attendere la fine della trilogia.

 

L’uomo che giocava con le bambole di Magnus Jonsson – Pagine: 412 – Prezzo: 19,50 – Editore: Piemme