A Clooney e Roberts un biglietto per il paradiso

Dopo Ocean’s Eleven, Ocean’s Twelve e Money Monster – L’altra faccia del denaro George Clooney e Julia Roberts reciteranno per la quarta volta insieme in Ticket to Paradise, una commedia prodotta da Universal Pictures e Working Title che verrà diretta a fine anno da Ol Parker, già sceneggiatore di Marigold Hotel. Al centro due ex coniugi divorziati che si riuniscono volando fino a Bali per cercare di impedire alla loro figlia di sposarsi e di ripetere lo stesso errore che pensano di avere fatto 25 anni prima.

Edoardo Leo ha iniziato a dirigere e interpretare tra Roma e il litorale laziale Non sono quello che sono, il suo sesto film (dopo il recente e ancora inedito Lasciarsi un giorno a Roma): una storia senza tempo ambientata nei primi anni 2000, in cui il bene e il male si mescolano in un vortice di tradimenti, inganni e folli gelosie. Nella coproduzione tra Italian International Film, Groenlandia e Vision Distribution accanto al 49enne attore e regista romano recitano anche Antonia Truppo, Javad Moraqiib e Ambrosia Caldarelli.

I romanzi di Diego De Silva che hanno come protagonista l’avvocato Vincenzo Malinconico diventeranno una serie tv di Rai 1 in quattro serate da due episodi ciascuna interpretata da Massimiliano Gallo, diretta da Alessandro Angelini e prodotta tra Salerno, Napoli e dintorni da Alessandro Passadore per Viola Film e Rai Fiction.

Claudia Gerini e Sunny Pawar interpretano tra Nepal e Trentino Alto Adige Il nido della tigre, un nuovo film di Brando Quilici – da lui anche prodotto con la sua Hd Productions e Medusa – incentrato su una favola di fratellanza in cui un ragazzo orfano salva nelle valli dell’Himalaya un cucciolo di tigre del Bengala dagli spietati bracconieri che hanno ucciso la madre del tigrotto.

Sesso, bugie e video: Orso d’oro a Jude, ma è “Mauritanian” a stregare la Berlinale

Un’edizione online che non ha trascurato la qualità. A provarlo è il vincitore dell’Orso d’oro, il talentuoso romeno Radu Jude, amato dalla cinefilia, il cui Bad Luck Banging or Loony Porn è un gioiello di provocazione sull’eterna ipocrisia di usi & costumi aggravata dall’abuso del social.

Linguaggi mescolati, trionfo del simbolismo, un finale aperto già cult, l’ottavo lungo di Jude racconta la vicenda di un’ordinaria insegnante di Bucarest le cui “gesta” sessuali filmate diventano virali. Tra premiati e non, dentro e fuori concorso, il film era in ottima compagnia a questa 71esima Berlinale, la seconda diretta dall’italiano Carlo Chatrian.

Da notare tra gli ultimi titoli in programma, sezione Special Gala, il legal drama di grande appeal mediatico The Mauritanian. Siglato dallo scozzese premio Oscar Kevin Macdonald e con un cast stellare formato da Jodie Foster (recentemente premiata per questo ruolo con il Golden Globe, sicura nomination ai prossimi Academy Award), Tahar Rahim e Benedict Cumberbatch, il film rivisita la drammatica vicenda del mauritano Mohamedou Ould Slahi (l’ottimo Rahim), imprigionato senza accusa specifica né prove di colpevolezza per 14 anni nel campo di detenzione Usa di Guantanamo, basandosi sul suo best-seller Guantanamo Diary. Grazie alla tenacia dell’avvocatessa Nancy Hollander (Foster) Slahi fu rilasciato dopo giusto processo: la sua storia rappresenta una delle più esemplari testimonianze della vergognosa violazione dei diritti umani consumatasi nell’inferno di Guantanamo, ma anche della manipolazione della verità compiuta dall’Amministrazione Bush nell’era post 11 settembre.

E ugualmente legata a una tragedia controversa del passato, la piaga dell’Aids lungo gli anni 80, è la notevole serie It’s a Sin creata dal britannico Russell T Davies proposta in Berlinale Series: un’opera già acclamata in madrepatria e Usa che presto vedremo in Italia su StarzPlay.

 

C’è un sottomarino marcio in Danimarca

Raccontare un omicidio senza mai mostrare l’assassino. Di più: senza nemmeno nominarlo. È la scommessa di The Investigaton, la nuova miniserie danese targata Hbo in onda su Sky Atlantic e in streaming su Now Tv dal 15 marzo. Un true crime drama che inaugura un nuovo modo di raccontare i crimini. Nessuna spettacolarizzazione, nessun dettaglio scabroso (e pure ce ne sarebbero). Solo la ricostruzione fedele del lavoro investigativo che ha portato alla condanna di Peter Madsen per l’omicidio di Kim Wall.

La vicenda è nota come il “caso del sottomarino”. L’8 agosto 2017 la giornalista svedese Kim Wall sale a bordo del sottomarino UC3 Nautilus per intervistare Peter Madsen, l’inventore che l’ha costruito. Madsen riappare la mattina successiva: il sottomarino è affondato e di Kim Wall non c’è traccia. “L’ho fatta sbarcare ieri sera” dice in un primo momento Madsen. Poi cambia versione. La ragazza, spiega, è morta dopo essere stata colpita in testa dal portellone e il corpo è affondato nella baia di Køge.

The Investigation ripercorre i sei mesi di indagini che hanno condotto all’arresto e poi alla condanna di Madsen. Il protagonista è Jens Møller, il capo della squadra omicidi di Copenaghen che ha collaborato alla scrittura della serie insieme al procuratore capo Jakob Buch-Jepsen e ai genitori della vittima. Peter Madsen, invece, non compare mai e aleggia sui sei episodi come uno spettro.

“Morte naturale, incidente, omicidio, suicidio” scrive Møller sulla sua lavagna. La verità è chiara sin da subito a tutti: Madsen ha ucciso Kim Wall, ha gettato il suo corpo in mare e poi ha fatto affondare l’UC3 Nautilus. Ma bisogna dimostrarlo oltre ogni ragionevole dubbio, occorre trovare le prove e anche un movente. Il puzzle si compone poco a poco. Prima il ripescaggio del sottomarino, operazione non semplice considerate le sei tonnellate di peso. Poi, dopo giorni di ricerche da parte dei sub, il ritrovamento su una spiaggia di un torso femminile. Quindi le prime tracce di un movente: sul computer di Madsen, noto per aver partecipato a festini fetish, vengono scoperti video che mostrano l’uccisione di alcune donne. Il quadro sembra completo quando dall’acqua spuntano due buste di plastica che contengono la testa, le gambe e i vestiti di Kim Wall, ma la causa della morte rimane un mistero e Madsen continua a negare e cambiare versione.

The Investigation ricostruisce il lavoro della polizia con una lentezza voluta e disperante, che fa emergere fino in fondo la frustrazione dei detective e il dolore dei genitori della vittima. Jens Møller, assediato dai giornalisti e pressato dalla procura, passa le sue giornate a rispondere al telefono. I colpi di scena a cui ci hanno abituato i procedural americani alla Csi sono sostituiti da dialoghi bruschi e lunghi silenzi. Non c’è nemmeno il tentativo di costruire una storia intorno ai personaggi principali: ad eccezione di Jens, di cui vengono raccontati i rapporti complicati con la figlia, gli altri sono poliziotti impegnati nelle indagini, punto e basta.

Il risultato è una serie rigorosa, molto curata dal punto di vista estetico, per alcuni probabilmente noiosa ma senza dubbio diversa dalle altre. “Spero che il modo in cui abbiamo raccontato questa storia possa stimolare il dibattito su come tutti noi consumatori dei media possiamo ferire i parenti delle vittime e su come ci capita di celebrare assassini brutali che non meritano la nostra attenzione” ha detto il creatore e regista Tobias Lindholm. Inevitabile, poi, trovarsi a riflettere sulla bontà di un sistema giudiziario che mette l’accusato in una posizione di chiaro vantaggio rispetto a chi deve dimostrare la sua colpevolezza.

The Investigation raduna il meglio della serialità e del cinema danesi. Lindholm, candidato all’Oscar per il film A War, è stato co-autore di Borgen e sceneggiatore di Mindhunter. Anche il protagonista Søren Malling aveva una parte in Borgen, mentre Pilou Asbæk, nella parte del procuratore generale, ha interpretato Euron Greyjoy ne Il Trono di Spade.

 

The Investigation di Tobias Lindholm dal 15 marzo su Sky Atlantic

Silenzio, parla Fulci maestro di brivido e di irriverenza

“La mia dicotomia è fra la mia vita di scialacquatore, dilapidatore, tentato amatore, qualche volta amatore e il desiderio culturale di uscire dai generi, per cui io sono ogni tanto un evaso riacciuffato dal genere”. Quanto ci manca, Lucio Fulci. Se n’è andato venticinque anni fa, il 13 marzo 1996, da originale, senza copie possibili: è stato molte cose, forse una sola, un autore prestato al genere, e anche il contrario.

Nel 1959, dopo aver collaborato con Steno alla sceneggiatura di Un giorno in Pretura e Un americano a Roma, il debutto dietro la macchina da presa con I ladri, starring Totò e Giovanna Ralli. Seguiranno i film di Franco (Franchi) e Ciccio (Ingrassia), poi il western Le colt cantarono la morte e fu… tempo di massacro (1967), quindi la piena maturità artistica di Beatrice Cenci (1969), Non si sevizia un paperino (1972), Sette note in nero (1977), thriller e horror che lasciano il segno, da Zombi (1979) a Lo squartatore di New York (1983). Un gigante minore, che autarchicamente avremmo condannato all’oblio, non ci fosse stata la rivalutazione di Quentin Tarantino – e prima di sparute penne nostrane. Abbiamo ora una bella opportunità per celebrarlo, giacché Antonietta De Lillo ha ripreso in mano la sorprendente conversazione che ebbe trent’anni addietro, adiuvata dal critico Marcello Garofalo, con il regista: Fulci Talks gonfia in versione uncut il suo mediometraggio del 1994 La notte americana del Dr. Lucio Fulci.

Sono 80 minuti zeppi di intelligenza, divertimento e sprezzo: dice De Lillo che “Fulci ha una cultura cinematografica a 360° e una straordinaria ironia. Non aveva paura di dire cosa gli piaceva e cosa non gli piaceva, facendo nomi e cognomi”, e ha ragione. È un flusso di incoscienza, quello di un “terrorista del genere” autoconfesso “anarchico mite”, che non risparmia nessuno, dai colleghi: “Farebbe meglio forse ad Argento e Bellocchio più delle loro nevrosi montare su una barca a vela, purtroppo non la sanno portare, e andare verso un orizzonte invece che nevrotizzarsi e psicanalizzarsi e andare dai maghi” agli uomini di potere: “Sono loro gli zombi. Non li puoi distruggere se non sparandogli in fronte, e in fronte è difficile coglierli perché la nascondono sempre la faccia, li vedi solo attraverso la televisione”. Tantomeno la psicanalisi: “È un’enorme fregnaccia inventata da Sigmund Freud, noto cocainomane. Praticamente ha mosso alcuni gruppi di persone per guadagnare soldi facendosi raccontare stupidaggini. Una cosa che mi disse un’amica psicanalista: ‘Insomma, con la psicanalisi tu ti puoi conoscere…’, e io non mi voglio conoscere”.

Ma Lucio si concedeva la redenzione autoriale, quella sì: “Mi ritengo come quelle prostitute che dopo vent’anni di strada si innamorano e si sposano per amore”. Fulci Talks passa in anteprima al 30° Noir in Festival lunedì 8 marzo sulla piattaforma Mymovies e dal 10 sarà on demand su cgdigital.it e Chili: fatevi questo regalo.

 

Irama, Annalisa o Meta: la vittoria a Sanremo n. 71 è appesa ai “teen”

Le ore della vigilia sono le più insidiose, per un habitué della Sala Stampa. D’improvviso, senti risuonare la domanda su cui, una volta l’anno, rischi la credibilità: “Chi vince?”. Seguita dalla minacciosa postilla: “Tu azzecchi sempre il podio nell’ordine, dammi i nomi che mi gioco cento euro”.

Ma con il Festival 2021 serve oculatezza: “colpa” di Amadeus e della sua infornata di teen idols, molti dei quali in grado di recuperare posizioni in vista della terzina finale. Lì, poi, tutti i suffragi già sommati si azzereranno e si comincerà da capo, con buona pace delle tre giurie (demoscopica, dei giornalisti e del televoto) consultate per il verdetto. E a spippolare lo smartphone, verso le 2.40 di stanotte, saranno più i ragazzi intruppati dietro il beniamino che non i teleutenti agée sfiancati da una ipertrofica sfilata di artisti young.

Sì, ma chi vince? A spanne, il trofeo potrebbero contenderselo tre fra Ermal Meta, Annalisa, Irama, Michielin & Fedez o gli stessi Maneskin. Willie Peyote dovrebbe aver già espresso il massimo, a Noemi serve grinta per lo sprint, Colapesce & Dimartino si sono un filo smarriti lungo il percorso. L’importante è arrivare sul filo di lana con una nutrita “fan base” da social. All’ultimo metro il duello potrebbe riguardare l’altezza autorale di Ermal e l’intuizione creativa da smash hit di Irama. Se la spuntasse quest’ultimo (che può sfruttare una spinta empatica supplementare per il caso Covid) consegneremmo agli annali un caso emblematico di vincitore da remoto: due prove, nessuna ansia da stecca per la diretta, incoronazione in ambiente smart. Irama icona del Festival pandemico.

Sanremo farebbe giurisprudenza per altre competizioni: inutile rischiare focolai olimpici a Tokyo, facciamo correre gli atleti sul campo di casa. Le medaglie verranno assegnate grazie a clip registrate. Tanto, ormai.

L’Ariston è delle donne (nonostante il turn-over)

Ama che ama le donne: sarà per questo non se n’è tenuta accanto una per più di una sera? “Ho voluto fare un festival molto al femminile, e farlo al femminile voleva dire avere molte presenze. Ho voluto che molte donne portassero il loro mondo, mi piaceva di più che avere presenze fisse. È un mio pensiero artistico, ovviamente, ma ne sono orgoglioso”.

Pensiero artistico e pure un po’ debole. Quest’anno così, come l’anno scorso, le donne hanno fatto la staffetta. Quest’anno come l’anno scorso, il cast fisso è di soli uomini: oltre ad Amadeus, all’irrinunciabile Fiorello (monumento), anche Zlatan Ibrahimovic e Achille Lauro. Eppure le donne si sono prese il palco (con alcuni distinguo, naturalmente). Matilda De Angelis (a cui gli autori hanno scritto un monologo “da Baci Perugina”) se l’è cavata benissimo, nonostante la comprensibile emozione. Per non dire di Elodie: ha cantato e ballato che Lady Gaga levati, ha presentato e si è scritta pure un monologo per niente ovvio. “Il mio quartiere mi ha dato tanto e mi ha tolto tanto e non parlo solo delle privazioni materiali, come non avere l’acqua calda o non riuscire ad arrivare a fine mese, ma anche della voglia di sognare. Non bisogna sempre sentirsi all’altezza delle cose, l’importante è avere il coraggio di farle e poi si aggiusta in corsa. Essere all’altezza non è più un mio problema, perché essere all’altezza è un punto di vista”. Beatrice Venezi, giovane ma già affermata direttrice d’orchestra, in giuria ad AmaSanremo, è stata la madrina dei giovani: “Se Sanremo è lo specchio del Paese l’attenzione ai giovani è un importante segnale di innovazione e modernità. I giovani non sono solo il futuro, sono il presente dell’Italia”. La presenza all’Ariston è anche l’occasione per far affermare l’idea che “la musica classica non è roba da vecchie signore… Portarla in un contesto diverso dal solito è veramente importante, consente di arrivare a un pubblico più ampio, di dimostrare che un contenuto apparentemente elitario invece appartiene a tutti. L’italiano perde un po’ la dimensione ludica della musica, in altre lingue è più evidente: play piano, o jouer du piano”. E a proposito di messaggi, la dirompente Loredana Bertè (che ha risollevato la prima serata) con una sola frase e un gesto (le scarpe rosse sul palco) ne ha mandato uno potentissimo: “Al primo schiaffo bisogna denunciare”.

Vittoria Ceretti, super top chiamata dopo la defezione di Naomi Campbell, è l’unica presenza femminile a interpretare l’ormai desueto ruolo della valletta. Simona Ventura, fermata ieri dal tampone positivo, salterà la serata finale e probabilmente non sarà sostituita. Ieri abbiamo visto Barbara Palombelli, che in conferenza stampa (oltre a un amarcord stucchevole, “Gianni Borgna, Walter Veltroni, Goffredo Bettini e io eravamo già pazzi di Sanremo ai tempi della scuola”) ha citato due volte Mediaset. Non proprio fair, anche considerando che mercoledì sera è andata in onda con la sua trasmissione contro il festival.

A proposito di genere, sono da segnalare due polemichette: una riguarda i fiori, che Francesca Michielin ha passato a Fedez (idem Victoria dei Maneskin e Arisa). L’altra querelle riguarda il machismo di Ibra, molto alpha. In modi diversi lo sono un po’ tutti i protagonisti. E dunque: la scelta della staffetta rosa è dettata da un’incapacità di lavorare accanto alle donne o dal timore di essere messi in ombra? Speriamo che l’anno prossimo si prenda atto di un cambiamento che nei fatti è già avvenuto. Se sarà un Ama ter è presto per dirlo: gli ascolti non sono stati incoraggianti nemmeno giovedì (44,3% di share, 11 punti meno del 2020).

Pechino e la riforma elettorale: candidati solo i veri “patrioti”

L’Europa ha invitato le autorità cinesi a considerare le implicazioni politiche ed economiche di una riforma elettorale ad Hong Kong.

Impermeabile a proteste interne e inefficaci sanzioni internazionali, Pechino procede spedita nella repressione della democrazia a Hong Kong. Dopo gli ulteriori arresti di attivisti e l’avvio di una vera e propria opera di rieducazione pro-cinese dei cittadini a partire dai primi anni di scuola, la stretta ora va al cuore di ciò che resta delle istituzioni democratiche dell’isola: la rappresentatività. All’inaugurazione del meeting annuale del National People’s Congress, l’assemblea chiamata ad approvare senza reale dibattito le linee guida del Partito comunista cinese, il premier Li Kequiang ha sottoposto ai 3.000 delegati un documento di cui non si conoscono i dettagli, ma che mira a stravolgere la Costituzione di Hong Kong, imponendo cambi sostanziali sia nella ampiezza del comitato che oggi elegge il governatore di Hong Kong sia nel potere di determinare tutte nelle nomine del consiglio legislativo tramite l’imposizione di “un sistema di selezione per l’intero processo”. In sintesi, cambiano le procedure elettorali, e al voto vengono ammessi solo “patrioti”, i candidati fedeli alla linea di Pechino. “Le proteste e i disordini che si sono verificati nella società di Hong Kong mostrano che l’attuale sistema elettorale ha evidenti lacune e limiti” ha dichiarato Wang Chan, vicepresidente del Comitato esecutivo del Npc. “Sono necessarie misure che migliorino quel sistema e rimuovano gli attuali rischi per le istituzioni, in modo che Hong Kong sia amministrata da patrioti”. La linea è chiara: non solo reprimere ogni critica ed eradicare il concetto stesso di democrazia dal dibattito e dalla coscienza della popolazione, ma impedire ogni forma di accesso alle istituzioni di chiunque non aderisca al pensiero unico dettato da Pechino alla ex colonia britannica. L’obiettivo è chiudere il cerchio aperto con l’approvazione a Pechino, lo scorso anno, della legge sulla sicurezza nazionale sotto il cui ampio ombrello sono stati arrestati, finora, circa 100 attivisti pro democrazia: mettere il dissenso fuorilegge. Intanto, forte del rimbalzo dell’economia nel 2021 dopo la “grande incertezza” del Covid, la Cina rilancia le spese militari al 6,8% annuo.

“Il nome di Dio non può giustificare il terrorismo”

Il viaggio di Papa Francesco, appena atterrato in Iraq, inizia con la novità di un’auto blindata, una Bmw con i vetri antiproiettile messa a disposizione dalle forze di sicurezza irachene, a testimoniare lo stato di allerta per la visita del Pontefice in un territorio ancora martoriato dalle violenze.

Questa tappa è destinata a cambiare per sempre i rapporti tra la Chiesa cattolica e il mondo islamico. Con quello sunnita il dialogo è ormai intenso dopo i numerosi incontri tra Bergoglio e il grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, la massima autorità dell’islam sunnita, e soprattutto la firma congiunta della dichiarazione sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune avvenuta ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019.

Un atto che ha sancito la fine definitiva delle ostilità seguite al discorso di Benedetto XVI all’Università di Ratisbona, nel 2006, con la citazione dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo che criticava Maometto. È l’Iraq, invece, dove la maggioranza della popolazione è di fede musulmana sciita, a offrire a Bergoglio la possibilità di stabilire un dialogo anche con questa altra importante realtà islamica. È questo il significato dell’incontro previsto oggi con il grande ayatollah Sayyid Ali Al-Husayni Al Sistani, la massima autorità sciita dell’Iraq. Un incontro che non si svolge in un luogo neutro, ma a Najaf, la città santa dei musulmani sciiti, a casa di Al Sistani che si alzerà, cosa che non fa mai, per ricevere l’illustre ospite. Il grande ayatollah è un uomo molto influente in Iraq, soprattutto sul piano politico. La sua interpretazione della rivelazione islamica quietista, che predica l’astensione delle autorità religiose dall’attività politica diretta, lo ha reso un interlocutore riconosciuto da varie correnti politiche. Dopo la caduta di Saddam Hussein, Al Sistani sostenne le libere elezioni in Iraq dando così un contributo importante alla pianificazione del primo governo democratico nel Paese, mentre nel 2014 invitò gli iracheni a unirsi per lottare contro il sedicente Stato Islamico. Alla fine del 2019, quando la popolazione scese in piazza in segno di malcontento contro il carovita e l’instabilità politica nazionale, il grande ayatollah invitò manifestanti e polizia a mantenere la calma e a non fare ricorso alla violenza. Successivamente chiese e ottenne le dimissioni del governo e la riforma elettorale. Anche con Al Sistani il Papa avrebbe voluto firmare una dichiarazione congiunta.

Alla vigilia del viaggio, entrambe le diplomazie hanno lavorato perché ciò avvenisse, ma, salvo sorprese dell’ultim’ora, questa ipotesi è tramontata. Per Bergoglio stabilire un rapporto con Al Sistani ha lo scopo principale di contrastare il terrorismo islamico. Francesco lo ha ribadito nel suo primo discorso rivolto alle autorità irachene: “La religione, per sua natura, dev’essere al servizio della pace e della fratellanza. Il nome di Dio non può essere usato per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione. Al contrario Dio, che ha creato gli esseri umani uguali nella dignità e nei diritti, ci chiama a diffondere amore, benevolenza, concordia”. Sottolineando che “anche in Iraq la Chiesa cattolica desidera essere amica di tutti e, attraverso il dialogo, collaborare in modo costruttivo con le altre religioni, per la causa della pace”. Non a caso, salutando i fedeli musulmani iracheni, il Papa ha citato il documento di Abu Dhabi auspicando che “Dio ci conceda di camminare insieme, come fratelli e sorelle, nella forte convinzione che i veri insegnamenti delle religioni invitano a restare ancorati ai valori della pace, della reciproca conoscenza, della fratellanza umana e della convivenza comune”.

“Nella prigione Ik-2 rischi stupri e torture: Navalny è all’inferno”

“La Russia intera è una bolshaya kolonia, un’enorme colonia penale, che al suo interno contiene altre prigioni. Le carceri russe sono un Paese nel Paese, luoghi con leggi e regole a parte”. Lo dice al telefono, da Berlino, Vladimir Pereverzin, autore di Ostaggio. Storia di un manager della Yukos, il libro di memorie in cui racconta di abusi e umiliazioni subìte nelle celle del Cremlino.

Quando descrive la sua lunga detenzione lei non usa la parola prigioniero, ma zalozhnik, ostaggio.

Perché è quello che sono stato per sette anni e due mesi. Gli ultimi due anni li ho scontati nell’Ik-2, lo stesso penitenziario in cui ora c’è Navalny, ma prima ho fatto il giro delle celle di quattro prigioni e tre diverse colonie penali nella regione di Vladimir. All’Ik-2 c’è una linea diretta con l’amministrazione presidenziale, che un giorno contattò la direzione per informarsi su di me. Ora c’è Navalny e immagino che quel telefono squillerà ogni giorno.

Leggo dal suo libro: “I detenuti fanno scioperi della fame, si tagliano le vene, le arterie, la carotide, lo stomaco… vengono picchiati, torturati, costretti a confessare crimini che non hanno commesso”. Tra le mura della colonia lei ha trascorso giorni durissimi, notti disumane.

Vale una sola regola nelle prigioni russe: possono farti tutto quello che vogliono, sono zone fuori controllo da ogni potere, il capo di un penitenziario può fare tutto ciò che gli passa per la testa. In Germania, dove ora vivo, tutte le prigioni del Paese funzionano in maniera uguale perché in ognuna vige la stessa legge di Stato. Gli europei non lo immaginano: i penitenziari russi funzionano non secondo uno standard unico, ognuno ha una vita a sé e il livello di sopravvivenza dei prigionieri dipende solo dalla volontà del capo e dal suo circolo. Possono ucciderti, stuprarti, picchiarti, torturarti, farti confessare cose mai commesse, aumentare la tua pena: tutto questo anche senza motivo.

Lei ha rifiutato ogni giorno di testimoniare contro i vertici della Yukos, poi è stato il primo manager della compagnia a essere rilasciato nel febbraio 2012. Nel libro racconta di come gli addetti alle pulizie accorressero a guardarla sbalorditi: “Non potevano credere che il ‘complice di Khodorkovsky’ pulisse i pavimenti”.

Sono stato condannato con prove false dopo un processo ingiusto, tutto quello che potevo raccontare riguardava il mio lavoro, non sono stato mai testimone di crimini e delitti che volevano confessassi. Se rientrassi in Russia, ancora oggi, potrei essere arrestato senza motivo o per le mie posizioni: mi manca Mosca dove sono nato, ma in prigione non ci torno.

Come finirà il caso Navalny?

La sua condanna attuale è di due anni e mezzo, penso che resterà in carcere per almeno cinque. Parlo per esperienza: sanno sempre come aggravare le sentenze con pene aggiuntive. Finché il circolo di Putin rimarrà in carica, Navalny rimarrà nel posto dove è ora. Come me e altri ha subito un processo ingiusto: i giudici non sono indipendenti, eseguono ciò che il gabinetto presidenziale e l’Fsb decidono. Cekisti vce ruljat, gli uomini dei servizi controllano tutto, è un gruppo criminale che può fare ciò che vuole.

Migliaia di persone sono finite in galera quando hanno protestato contro l’arresto di Navalny.

In piazza per lui c’erano prima 5.000, poi 50mila persone, ma non 500mila. In Russia il cambiamento dipende solo dalla crisi economica: è un Paese ricchissimo, ma abitato da poverissimi, che ora si governano facilmente. Ho paura che prima o poi l’economia stagnante istigherà radicali e nazionalisti contro la polizia e parlo di un’opposizione brutale, non di quella di studenti e insegnanti, che sostengono Navalny e non usano violenza.

In solidarietà al dissidente, Stati Uniti e Unione europea hanno emesso sanzioni.

Le faccio un esempio: da tempo vivo in Germania, dove sono attivi molti businessmen russi, uomini da centinaia di milioni di dollari. Se le sanzioni occidentali avessero voluto essere efficaci, avrebbero dovuto colpire questo tipo di tycoon, non qualche procuratore o capo dello staff russo a cui ora è impedito di entrare in Europa: non ci sarebbero comunque mai venuti, loro in vacanza vanno in Crimea.

Dopo quegli anni da detenuto come vive adesso?

Almeno una volta alla settimana, per gli incubi, mi sveglio urlando di notte. Sono fuori dalla prigione, ma non me ne sono mai liberato.

Concessioni, un affare per pochi Gavio fa il pieno di quelle in gara

Doveva essere il sistema che, dopo il crollo del Ponte Morandi, avrebbe archiviato la stagione delle concessioni autostradali trasformate in un bancomat perpetuo. Le concessioni che scadono devono essere divise in lotti e messe a gara o tornare allo Stato, basta proroghe pluriennali in cambio di investimenti solo promessi. Si sono scelte le gare, ma finora non è certo aumentata la concorrenza nel settore. Ai bandi si presentano in pochissimi e vincono quasi sempre i soliti, di norma quelli uscenti. Per ora a primeggiare è il gruppo Gavio, racchiuso nella holding Astm controllata dalla famiglia piemontese con solidi legami nel centrosinistra. Con 1.400 km di rete gestita (4.500 nel mondo) è il secondo gruppo italiano, dopo Autostrade per l’Italia controllata dalla Atlantia dei Benetton, impegnata nel negoziato col governo per la cessione alla Cassa depositi.

Delle cinque concessioni finora messe a gara, tre le ha vinte Gavio, in due casi già le controllava: si tratta del sistema delle autostrade liguri/toscane (A12 Sestri Levante-Livorno, A11/A12 Viareggio-Lucca e A10 Savona-Ventimiglia) e di quelle piemontesi (durata: 12 anni). In quest’ultimo caso, peraltro, si è arrivati a un vero paradosso: la A21 Torino-Piacenza, la A5 Torino-Ivrea-Quincinetto, la bretella A4/5 Ivrea-Santhià e la tangenziale torinese, racchiuse in un unico lotto. Parliamo di quasi il 10% della rete nazionale e del 25% di quella del Nord Italia, quattro tratte assai redditizie per un totale di 321 km. Eppure si sono presentati solo due operatori: il concessionario uscente, Gavio (attraverso il consorzio capitanato da Salt) e il consorzio Sis, che controlla la Pedemontana veneta e altre infrastrutture. La gara l’ha stravinta Gavio anche se, in teoria, non aveva i requisiti. Le concessioni erano scadute nel 2016, nell’autunno 2019 il ministero delle Infrastrutture guidato da Paola De Micheli avvia la gara, ma a dicembre la commissione estromette Salt perché non in possesso dei requisiti richiesti. Scatta il ricorso al Tar, nel frattempo però la Commissione ammette il consorzio “con riserva” e, il 27 novembre scorso, gli assegna la vittoria. Meno di un mese dopo il Tar boccia il ricorso di Gavio e conferma la prima decisione della Commissione.

Il Mit per ora non ha preso provvedimenti, perché Salt ha fatto ricorso al Consiglio di Stato. Risultato: in attesa della sentenza (potrebbero volerci anni) le concessioni restano a Gavio, e con il vecchio sistema tariffario più generoso. Il colosso, peraltro, ritiene che in caso di sconfitta la gara vada rifatta: essendosi presentati solo in due salterebbe la “verifica di convenienza”. Per il Mit, invece, si assegnerà “al secondo in graduatoria”, cioè Sis. Chi ha ragione? Non si sa, di certo arriveranno altri ricorsi. Sono autostrade ammortizzate da tempo e non bisognose di rilevanti investimenti, le concessioni potrebbero tornare allo Stato (come sta avvenendo in Spagna). Tratte così redditizie dovrebbero fare gola a molti. Secondo il Mit, sono i contenziosi a rendere poco “appetibile” il mercato italiano. La realtà, però, è che a pesare sono soprattutto i maxi-indennizzi di subentro previsti dalle vecchie e generose concessioni: se una tratta passa di mano, il gestore va indennizzato e sono in pochi a poterselo permettere (per le tratte in questione, parliamo di 700 milioni totali). Gavio, per dire, ha da poco ottenuto dal Mit un generoso accordo per completare la Asti-Cuneo: per costruire quei 40 km ha ottenuto un aumento delle tariffe sulla A4 Torino-Milano che gestisce e un diritto di subentro, quando la concessione scadrà nel 2026, di 800 milioni (e di 325 per la Asti-Cuneo). Così le concessioni vengono blindate a vita, anche con le gare.

Un sistema del genere non vede certo aumentare la concorrenza. Delle altre concessioni messe a gara: la A21 (Piacenza-Brescia) l’ha vinta Gavio, strappandola a Centropadane (Enti locali di Brescia e Cremona), l’A3 Napoli-Salerno è stata aggiudicata a Sis, ma pende un ricorso di Aspi e per la Roma-Latina, dopo anni di contenziosi, ancora non è chiaro se verrà rimessa a gara o affidata in house. Insomma, è cambiato assai poco.