Al Pd non resta che Chiudere tutto: Fare il lockdown

La questione, sia detto con rammarico, è poi questa: ma se il Partito democratico non è in grado di governarsi, come può pretendere di governare? Perduto nella sua geografia vietnamita, ha cambiato 7 segretari in 14 anni, dall’antico Veltroni multitasking, all’ultimo Zingaretti, malinconico, ma stavolta finalmente imbufalito dal perpetuo assedio dei cacicchi con voglia di intrigo e di bufera.

Virus o non virus, il suo spettacolo non cambia, offrendosi sempre travolto da lotte intestine e da correnti che nessuno saprebbe distinguere in quell’intrigo di liane scorsoie e personali rancori – da Guerini a Marcucci, dai sindaci ai Giovani turchi – mentre l’intero mondo guarda e vive altrove. Negli anni ha sfinito i suoi elettori, barcamenandosi in mille incertezze. Ha perduto le sezioni su strada per concentrarsi sulla gestione del potere nei Palazzi, dissolvendo nell’indistinto il suo cuore politico. Ha suicidato la sua gloriosa testata l’Unità, ridotta prima all’irrilevanza, poi al fallimento, con coda di debiti rimasti in capo all’ultima Concita, titolare del cerino acceso. Ha subito due scissioni, quella di Bersani e quella di Renzi. Una a sinistra e l’altra a destra, che certifica il capolavoro di masochismo politico, oltre a darci la misura del marasma mentale. Il tutto mentre la buona sorte e l’autodistruzione balneare di Salvini gli riaprivano le porte dei 5Stelle, con il governo il più europeista di sempre. Sfilato in un mese di colpi di scena. Con Mario Draghi a inaugurare il gran finale, grazie all’ultimo complotto di Palazzo & di Partito, anche quello europeista, ma con altri fini: il malloppo di Bruxelles.

Quanto durerà ancora il malanno? Non funzionando l’immunità di gregge, né i vaccini, resterebbe il lockdown che chiude tutto.

Oppure il miracolo.

Sono pure io un coglione come Nicola

In fondo, nel Pd, le frequenti decapitazioni e gli autoaffondamenti dei segretari (7 dal 2007) appartengono alla natura stessa di un partito che nella guerriglia tra le diverse tribù trova la sua ragione d’essere. Per cui nelle dimissioni di Nicola Zingaretti la vera novità è più che altro il modo, colpiscono le parole usate, quel “provo vergogna” verso chi si dedica alla caccia alle “poltrone” quando fuori “c’è la pandemia”. Che cosa doveva dire di più per essere creduto nel suo sdegno visto che l’atto d’accusa verso il partito che dirige è così feroce che forse perfino Salvini e Meloni avrebbero qualche problema a sottoscriverlo? E invece no, non è bastato a evitargli il sarcasmo dei tanti retroscenisti di palazzo, che a furia di frugare nei ripostigli del Nazareno devono aver trovato i costumi di Arlecchino e di Pulcinella comprovanti che quelle di Zingaretti sono classiche dimissioni mascherate.

Altrimenti perché scrivere che il segretario “si è dimesso a sorpresa nella speranza di raggiungere una tregua interna ed essere così riconfermato per acclamazione nell’Assemblea nazionale già convocata per il 13 marzo” (Il Giornale)? Oppure chiedersi: “Zingaretti, dimissioni o finta?” (La Verità). O aggiungere un beffardo “per ora” alla notizia che il fratello di Motalbano “lascia la guida del Pd” (Libero). Sulla stampa nazionale è tutto un ammiccare, un darsi di gomito quasi fosse scontato che le pagliacciate fanno parte del gioco e che stare al gioco significa spiegare al popolo bue, in questo caso gli incolpevoli elettori Pd, di non allarmarsi più di tanto. Perché poi, come sempre, finisce tutto a tarallucci e vino. Una reazione comprensibile dopo che un predecessore di Zingaretti giurò e spergiurò che davanti alla sconfitta del suo referendum avrebbe abbandonato la politica per sempre, e invece eccolo ancora lì che fa saltare in aria i governi altrui e ci sputtana nel mondo omaggiando (a gettone) principi arabi poco raccomandabili. Del resto, la costante assenza di verità ha fatto sì che mentre una certa politichetta da marciapiede spera di sopravvivere continuando a turlupinare i gonzi (il leader leghista che si scopre filo Ue, per dire l’ultima), a Palazzo Chigi è arrivato nel frattempo un signore che se volesse potrebbe governare da solo, senza perdere tempo con i partiti bari. Ragion per cui se Zingaretti mantenesse (come sono convinto che manterrà) la sua decisione, passerà, con il vigente sistema di valori, per un coglione inadatto alle asprezze e ai cinismi della politica. In tal caso, per quel che vale, sarò lieto di sentirmi un coglione anch’io. Orgogliosamente.

Migranti bloccati. Di Maio: “Salvini decideva tutto da solo”

Matteo Salvini? “Si avvantaggiava politicamente dal blocco delle navi”. Lo ha detto Luigi Di Maio già vicepremier del governo gialloverde testimoniando il 19 febbraio davanti al gup che il prossimo 14 maggio deciderà se mandare a processo il leader della Lega imputato per sequestro di persona per la gestione dei migranti della Nave Gregoretti. Stabilendo, per citare le parole del gup Nunzio Sarpietro se “Salvini è un sequestratore seriale oppure se ha posto in essere un atto politico coperto dal dovere di ufficio”.

Dai verbali dell’audizione del ministro degli Esteri emerge però soprattutto il clima di quei giorni di luglio 2019, a partire dalle frizioni interne al Movimento 5 Stelle provocate dallo sbarco ritardato determinato dall’inquilino del Viminale. Frizioni che erano emerse ad esempio nel corso di una riunione interna tenuta dai pentastellati nei giorni successivi alla non concessione del “porto sicuro” alla Gregoretti in cui era montata la protesta affinché i migranti fossero fatti scendere a dispetto delle intemperanze del capo della Lega. “Eravamo e siamo due forze politiche diverse” ha raccontato ai giudici di Catania Di Maio, sottolineando che il M5S era “sensibile al fatto che si dovesse trovare una soluzione prima possibile per lo sbarco e la redistribuzione”. Possibili però solo dopo il Pos su cui Salvini “ha sempre deciso in autonomia essendo un atto riservato al ministro dell’Interno”. Che, sempre a detta di Di Maio, non aveva motivo di negarlo alla nave della Marina militare italiana essendo ormai rodato l’accordo sulle redistribuzioni dei migranti in sede europea, dopo il braccio di ferro che invece si era registrato in precedenza nel caso della Nave Diciotti. In occasione del quale l’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, era ancora costretto a mettersi al telefono “per chiamare uno a uno i singoli Paesi europei” per scongiurare che il problema continuasse a essere scaricato integralmente sulle spalle dell’Italia. Poi c’era stato l’accordo della Valletta in base al quale, ha spiegato Di Maio, “era ancora più tranquillo sulle redistribuzioni. Tant’è vero che poi, non me ne voglia Salvini, nel Conte-2 ne sono state fatte di più che in precedenza”. Dall’udienza preliminare dello scorso 19 febbraio emergono anche le parole fatte mettere a verbale dall’attuale inquilina del Viminale, Luciana Lamorgese, sentita dai giudici per capire se dal passaggio dal Conte-1 al Conte-2 vi sia stata una qualche discontinuità nella gestione degli sbarchi. Incalzata da una gragnuola di domande, alla fine ha tagliato corto: “Da quando ci sono io, quando le navi arrivano in porto, sbarcano”.

Le accuse dei pm alle Ong: “Appuntamenti in mare”

Quando nell’aprile del 2017 Luigi Di Maio definì le navi delle Ong nel Mediterraneo “taxi del mare”, ci fu una dura reazione del mondo della cooperazione, che si sentiva attaccata per il suo impegno nel recupero di vite in mare. Eppure, la chiusura dell’inchiesta della Procura di Trapani, a quasi 3 anni dall’inizio dell’indagine, sembra dare adito a quei sospetti. Nelle carte, in cui i pm Brunella Sardoni e Giulia Mucaria non scrivono mai la parola “taxi del mare”, fanno però riferimento “a più azioni esecutive” di uno stesso “disegno criminoso”, con i ripetuti trasbordi delle imbarcazioni libiche, riconducibili “ai trafficanti”, alle navi ong Jugend Rettet, Save the children e Medici Senza Frontiere. Save the children e Medici Senza Frontiere sono accusate di aver favorito l’immigrazione clandestina, insieme ad altre 22 persone, tra comandanti, team leader o capi missioni delle due ong, per aver gestito le operazioni di search and rescue (ricerca e soccorso) a cavallo tra il 2016 e il 2017. Si trovavano al posto giusto, nel momento giusto.

Dagli atti si legge come le ong una volta “appreso” della “partenza dalla costa libica di numerosi migranti presenti su una o più imbarcazioni”, si dirigevano “verso una precisa zona” dove sarebbero giunti i “migranti”. Un’azione svolta, scrivono i pm, “senza dare comunicazione all’autorità nazionale competente”, quindi il Centro nazionale di coordinamento del Soccorso marittimo (IMRCC), che avrebbe così precluso “ogni decisione sia all’eventuale coordinamento obbligatorio” e “sia all’effettiva qualificazione giuridica dell’evento in atto”. In questo modo, l’ong si sarebbe trovata “nella condizione ideale di luogo e di tempo per essere designata” dall’Imrcc per il soccorso.

Recuperando i naufraghi dalle barche dei “trafficanti libici”, ai quali “riconsegnano” i barchini e non si oppongono al ritorno nella costa nordafricana; le ong non avrebbero fatto “riferimento alla presenza di trafficanti e ai comportamenti palesemente illeciti”. A questo si aggiunge lo spegnimento del transponder per evitare di essere localizzati, e la navigazione con “le luci del ponte della nave spente in ore notturne”, che avrebbe potuto “arrecare un pericolo”.

Le ong si sono sempre difese spiegando di aver agito per salvare le vite, intervenendo per evitare che i migranti potessero naufragare, come spesso purtroppo è successo. Ed è evidente che a lucrare sulla pelle di migliaia di migranti, che per una vita migliore speravano di poter arrivare in Europa, sono sempre stati i trafficanti e gli smuggler.

Su Medici senza frontiere pende anche un’altra accusa, questa volta la richiesta di rinvio a giudizio arriva dalla Procura di Catania, e riguarda le Ong con base in Belgio e Olanda, accusate di aver smaltito in modo illecito i rifiuti accumulati durante la navigazione. “Un ingente quantitativo di rifiuti pericolosi a rischio infettivo, sanitari e non, derivanti dalle attività di soccorso dei migranti a bordo della Vos Prudence e dell’Aquarius”, si legge nell’atto d’accusa, e “conferiti in modo indifferenziato, unitamente ai rifiuti solidi urbani, in occasione di scali tecnici e sbarco dei migranti” nei porti. La Procura di Catania, guidata da Carmelo Zuccaro, è stata una delle prime a puntare le sue indagini sulle Ong, che da un lato non è riuscita a dimostrare il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, mentre dall’altro ha chiesto di archiviare le accuse di sequestro di persona (Diciotti e Gregoretti) per l’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini.

Ancora più grave sembra essere l’accusa della Procura di Ragusa nei confronti del recupero in mare della Mare Jonio dello scorso 11 settembre. La nave, di proprietà della società armatrice Idra Social Shipping ma che agiva per conto della ong Mediterranea Saving Humans, era intervenuta per recuperare i 29 migranti a bordo del mercantile danese Maersk Etienne, fermo in mare da 35 giorni.

Un’operazione che sarebbe stata concordata tra i due armatori, e che non vede coinvolta la ong, con un passaggio di 124 mila euro del 30 novembre, dai conti danesi alla Idra. Al momento, accusati di favorire l’immigrazione clandestina, sono l’armatore e capo missione veneziano Beppe Caccia, il comandante Pietro Marrone, l’attivista no global Luca Casarini e il regista romano Alessandro Metz.

Niente manutenzione e cavalcavia pericolosi Indagati i manager delle autostrade siciliane

Cavalcavia senza manutenzione e rischio “urgente per il crollo”, da mettere in “grave pericolo le persone in transito”. Una situazione preoccupante che ha spinto la Procura di Barcellona Pozzo di Gotto, diretta dal magistrato Emanuele Crescenti, a chiedere il sequestro preventivo di 22 cavalcavia del tratto autostradale A20 Messina-Palermo, di proprietà del Consorzio Autostrade Siciliane, l’ente pubblico al 90% partecipato dalla Regione Sicilia e per la restante da enti locali, che gestisce circa 300 chilometri in tutta l’isola.

Sotto indagine sono finiti quattro manager: l’ex direttore Salvatore Pirrone e il suo successore Salvatore Minardi, nominato dal governatore Nello Musumeci, l’ex direttore dell’area tecnica Giovanni Raffa e Alessia Trombino, presidente del consorzio e capo della segreteria del governatore. L’accusa è omissione di lavori in edifici o costruzioni, perché “essendo obbligati alla vigilanza sui sottopassi”, non avrebbero provveduto alla “conservazione” dei cavalcavia e “ai lavori necessari per rimuovere il pericolo di rovina”. La consulenza tecnica della procura, citata dal gip Salvatore Pugliese, mette “drammaticamente in evidenza l’ammaramento delle selle Gerber dei sovrappassi”, l’assenza di manutenzione ha prodotto un “effetto devastante dell’acqua piovana sul calcestruzzo” e la “diffusa corrosione delle armature”. Al “degrado significativo delle banchine di bordo”, si aggiunge la caduta di “pezzi interi di calcinaccio” che finiscono “in alcuni punti sul manto stradale”.

Già nel 2010 erano stati programmati dal Cas 19 interventi, ma solo 3 sono stati portati a termine. Per questo, secondo il giudice, si “evidenziano forti dubbi” sulle “verifiche periodiche”, perché secondo quanto riscontrato dall’Anas “nessun intervento di tipo strutturale sarebbe stato ritenuto necessario”. Un elemento che farebbe emergere il “preoccupante tema dell’effettività delle verifiche periodiche effettuate”. Iniziato nel 1969, il tratto autostradale Messina-Palermo è stato completato solo nel 2004, con il taglio del nastro del premier Silvio Berlusconi e del governatore Totò Cuffaro. Negli anni, la gestione del consorzio è spesso entrata nelle mire della magistratura. A giugno scorso, due funzionari del Cas e un imprenditore sono finiti in manette nell’inchiesta della Dia e della Procura di Messina con l’accusa di corruzione e truffa, perché avrebbero pilotato appalti in cambio di assunzioni.

Carte Delle Chiaie: possibili contatti Stato-ultradestra

Due dei venti faldoni dell’archivio di Stefano Delle Chiaie, rinvenuti dalla Digos di Roma giovedì mattina nel quartiere Cinecittà della Capitale, contengono il carteggio dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, relativo al periodo fra il 1971 e il 1974 in cui il dipartimento era guidato da Federico Umberto D’Amato. Materiale, secondo gli investigatori, potenzialmente in grado di confermare i contatti, durante gli anni di piombo, fra l’estrema destra e apparati deviati dello Stato, utili ad accrescere la strategia della tensione. È solo un decimo dei sette scatoloni di documenti, fra agende di lavoro, appunti sparsi, manoscritti, note dei servizi segreti e carte processuali varie, appartenuti a Delle Chiaie, neofascista deceduto nel 2019, associato negli anni alle più importanti inchieste sulle stragi italiane dal 1968 (Piazza Fontana) al 1980 (Stazione di Bologna) e sempre uscito assolto per insufficienza di prove. Il materiale, in corso di catalogazione, è al vaglio degli inquirenti e del pm di Roma, Eugenio Albamonte.

Caso Bose, il Papa conferma: Bianchi lasci la comunità

Enzo Bianchi, il fondatore di Bose se ne deve andare dalla comunità. A dirlo stavolta è Papa Francesco che prima di partire per l’Iraq ha voluto, con un comunicato ufficiale della Santa Sede, mandare un segnale inequivocabile sulla vicenda che da mesi travolge la fraternità piemontese. Giovedì il pontefice ha incontrato l’attuale priore Luciano Manicardi e il delegato pontificio padre Amedeo Cencini, che da maggio ha in pratica “commissariato” la comunità. Un’udienza apparsa sul sito del Vaticano per volontà della Segreteria di Stato. Ieri la sala stampa in quindici righe ha liquidato il caso: “Il Santo Padre ha manifestato la sua sollecitudine nell’accompagnare il cammino di conversione e di ripresa della Comunità secondo gli orientamenti e le modalità definite con chiarezza nel Decreto singolare del 13 maggio 2020, i cui contenuti il Papa ribadisce e dei quali chiede l’esecuzione”. Parole che hanno sorpreso il fondatore di Bose. Chi gli è vicino lo definisce stupito perché credeva che l’incontro avesse un altro significato.

Fondi Lega e caso Film Commission, i due contabili verso il rito abbreviato

Dopo due settimane di riflessioni, di ipotesi fatte dai legali e di indicazioni arrivate da altri “consiglieri”, ieri i due ex contabili delle “casse leghiste”, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, attraverso l’avvocato Piermaria Corso hanno fatto richiesta per il rito abbreviato nel processo che li vede imputati nella vicenda della fondazione regionale Lombardia Film Commission (Lfc). Accusa, la più grave: peculato. Scelta coraggiosa rispetto alla sentenza di primo grado, visto che altri magistrati, dal giudice per le indagini preliminari al tribunale del Riesame, hanno già confermato l’impianto della Procura. Di Rubba e Manzoni, commercialisti vicini al “cerchio magico” di Matteo Salvini e già ex soci con il tesoriere del partito Giulio Centemero (non indagato per Lfc), hanno scelto la via meno mediatica (la stampa non potrà assistere) ma forse più rischiosa per una eventuale condanna. Il rito abbreviato non prevede testimoni dell’accusa che avrebbe potuto, in ipotesi, chiamare Centemero. Una scelta, quella dei contabili, che non coincide con quella dell’imprenditore di Casnigo Francesco Barachetti, destinatario (come Di Rubba e Manzoni) di una richiesta di processo immediato confermata dal gip (con prima udienza fissata il 15 aprile), che a ieri (i termini scadono oggi) ancora non aveva scelto il processo abbreviato. Se Barachetti andrà a un processo pubblico porterà in aula molti dei rapporti con la Lega e con gli ex contabili. Non solo: se per il processo a Di Rubba e Manzoni i testimoni dell’accusa sono esclusi, lo stesso non vale per Barachetti (se andrà in aula) dove potrà essere chiamato il commercialista Michele Scillieri che ha già patteggiato una condanna a poco più di tre anni e che avrà il ruolo di testimone, obbligato a dire la verità. Nello studio di Scillieri, nel 2017, la nuova Lega di Salvini ha eletto il suo primo domicilio. Se l’abbreviato mitiga il clamore mediatico, resta aperto (inizierà l’11 marzo) il processo milanese nel quale Centemero è imputato per finanziamento illecito rispetto a 40mila euro dati da Esselunga all’associazione Più Voci, di cui il tesoriere “è stato fondatore con Di Rubba e Manzoni”. A questo si aggiunge il processo che inizierà il 26 marzo a Roma e dove Centemero è sempre imputato per finanziamento illecito rispetto, secondo i pm, a 250mila euro ricevuti dall’imprenditore Luca Parnasi, già accusato per reati legati alla costruzione del nuovo stadio della Roma.

Si pente il boss dell’Acquasanta che sa qualcosa sull’Addaura

Non è solo un “pentito” in più, uno dei tanti, la collaborazione con la giustizia di Gaetano Fontana, boss dell’Acquasanta in pianta stabile a Milano, potrebbe portare la procura di Palermo ad assestare un colpo mortale a quel che resta delle vecchie famiglie di Cosa nostra nel capoluogo siciliano e ai loro interessi “in continente”. Soprattutto sull’asse Sicilia-Lombardia, perché proprio a Milano è stato arrestato Fontana lo scorso maggio in un blitz del Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza nell’ambito di una maxi operazione della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, che passerà alla storia per esser la prima eseguita seguendo le normative anti-Covid.

Sono stati notificati gli avvisi di fine indagine a 84 indagati per associazione mafiosa, estorsioni, intestazione di agenzie di scommesse sportive e corse dei cavalli truccate, con le firme del procuratore capo Francesco Lo Voi, del procuratore aggiunto Salvo De Luca e dei sostituti Amelia Luise, Maria Rosaria Perricone e Dario Scaletta. Ma perché il pentimento di Fonanta – arrestato coi fratelli Angelo, Giovanni e Rita – potrebbe rivelarsi prezioso? Fontana fu assolto in appello, dopo una condanna a sette anni in primo grado, dall’accusa di aver partecipato all’omicidio di Francesco Paolo Gaeta, il tossicodipendente che testimoniò di aver riconosciuto un altro boss dell’Acquasanta, Angelo Galatolo, tra i picciotti in missione all’Addaura il 21 giugno 1989 per far saltare in aria Giovanni Falcone in attesa proprio quel giorno dei magistrati svizzeri Carla del Ponte e Claudio Lehmann per discutere dell’inchiesta “Pizza connection”.

Gaetano Fontana dopo aver scontato nel 2010 una condanna per mafia era sottoposto a sorveglianza con obbligo di dimora a Milano, ma nonostante la “sorveglianza” la famiglia riusciva a smuovere grosse quantità di denari tra Palermo e Milano: arrivano in contanti, trasportati dai classici “spalloni” in borsoni e valigette per esser “ripuliti” passando da numerosi esercizi commerciali, tra cui una nota gioielleria del quadrilatero della moda: la “Luxury Hours” intestata alla convivente di Fontana e sequestrata due anni fa.

Milano-Palermo: la via del denaro andata e ritorno

Èun movimento di soldi che vanno e vengono. Tra Nord e Sud, tra Milano e Palermo. Protagonisti: Silvio Berlusconi e gli uomini di Cosa nostra. I soldi che vanno dalla Lombardia alla Sicilia sono raccontati nella sentenza definitiva che ha condannato Marcello Dell’Utri: sono il pagamento (50 milioni di lire l’anno) della “protezione” che Berlusconi, attraverso Dell’Utri, ha chiesto alla mafia: per sé, i suoi familiari, i suoi business, le sue antenne in Sicilia. Con Vittorio Mangano che sale da Palermo ad Arcore per garantire il patto. Ma ci sarebbero anche i soldi che da Palermo risalgono a Milano, come investimenti che Cosa nostra avrebbe fatto negli affari del Biscione: nell’immobiliare prima e nella tv poi. Su questo non ci sono certezze cristallizzate in sentenze definitive. L’ultimo a parlarne è Giuseppe Graviano, su cui i magistrati di Firenze stanno ora indagando per capire se è vero, per esempio, che 20 miliardi di lire della sua famiglia siano stati affidati all’allora presidente della Fininvest e “investiti nel settore immobiliare”. È solo una provocazione, una strategia per intorbidare le acque e tentare di nascondere le responsabilità dei Graviano nelle stragi del 1992-93? Certo è che una lunga storia, quella delle accuse a Berlusconi di aver avuto Cosa nostra come socio d’affari. Il più pittoresco nel racconto fu Filippo Alberto Rapisarda, discusso finanziere siciliano impiantato a Milano. Testimoniò che nel 1978 Berlusconi aveva incontrato l’allora capo dei capi di Cosa nostra, Stefano Bontate, accompagnato da Mimmo Teresi: “Teresi e Bontate mi dissero che dovevano andare da Dell’Utri, il quale aveva loro proposto di entrare nella società televisiva che di lì a poco Berlusconi avrebbe costituito. Teresi mi disse che occorrevano 10 miliardi di lire”. Lo confermò Antonino Giuffré, braccio destro di Bernardo Provenzano: “Con la scusa di andare a trovare Mangano, Bontate si era spostato da Palermo a Milano per incontrare ad Arcore l’imprenditore emergente Silvio Berlusconi”. Rapisarda, chiuso nella struggente palazzina cinquecentesca di via Chiaravalle, a cento passi dal Duomo, dove nel 1994 nacque il primo club di Forza Italia, si lasciò andare in alcune interviste e davanti ai giudici, ultimi quelli del processo palermitano a Dell’Utri. Ma poi ha sempre fatto marcia indietro, in un eterno stop and go della memoria. A chi scrive raccontò, anni fa, tra un corridoio e il grande salotto della palazzina di via Chiaravalle: “Vede? Questo era l’ufficio di Marcello Dell’Utri. Era un mio uomo, lavorava per me. Poi mi ha tradito ed è tornato a lavorare per un giovane palazzinaro, un certo Silvio Berlusconi. Si è portato via i miei progetti: all’epoca volevo costruire una tv privata. E si è portato via i rapporti, i contatti, i finanziamenti… Vede questa porta? Io un giorno entrai senza bussare. Era l’ufficio di Marcello, ma lui era un mio dipendente e questa in fondo è casa mia. Appena entrato, mi blocco: c’erano due signori palermitani che io conoscevo bene. Uno era Stefano Bontate, allora capo di Cosa nostra. Sulla scrivania un grande sacco da cui venivano rovesciati fuori soldi, tanti soldi. Un fiume di banconote”. Una incredibile scena da film? Un ricatto? Rapisarda si disse disponibile a ripetere il racconto davanti a una telecamera: “Ma certo! Possiamo ricostruire la scena proprio come avvenne”. Poi cominciò un’estenuante trattativa sul giorno e sull’ora e alla fine non se ne fece nulla.

Rapisarda portò con sé nella tomba i suoi segreti e i suoi ricatti. Restano i misteri sull’origine delle prime fortune di Berlusconi e soprattutto sui soldi che entrarono nelle sue società all’inizio della sua irresistibile ascesa imprenditoriale. Le anonime società svizzere che finanziarono la sua Edilnord. E poi la Fininvest, nata il primo giorno di primavera del 1975, in cui via via entrarono molti soldi (circa 16 miliardi di lire dell’epoca). Nel 1978 nacquero 23 società chiamate Holding Italiana Prima, Seconda, Terza eccetera in cui affluirono 93 miliardi di lire dell’epoca. Molte operazioni finanziarie cruciali in questa storia sono realizzate in quegli anni da un operatore siciliano di nome Giovanni Del Santo.

Ma nessuna certezza è stata raggiunta in tanti anni di indagini, a partire da quella della Procura di Palermo che affidò una consulenza all’ex funzionario di Bankitalia Francesco Giuffrida. Ora è la volta delle parole di Graviano.