Graviano “canta” coi pim: nuova indagine su B.

Si muove come un fiume carsico l’ inchiesta fiorentina per strage su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. L’ipotesi più volte sollevate e più volte scartata è che ci siano stati rapporti tra Silvio Berlusconi e Marcello dell’Utri con i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, poi condannati definitivamente per le stragi del 1992 e 1993.

Berlusconi e Dell’Utri sono stati già indagati e archiviati negli anni novanta e duemila. Sono di nuovo indagati da più di quattro anni per le parole dette contro Berlusconi in carcere da Giuseppe Graviano nel 2016 e 2017 poi ribadite dal boss con affermazioni, tutte da riscontrare, sui suoi rapporti con Berlusconi risalenti al 1993 in aula al processo Ndrangheta Stragista.

L’indagine è stata rivitalizzata dalle dichiarazioni di Giuseppe Graviano del febbraio 2020 in aula sugli investimenti fatti negli anni settanta dalla sua famiglia materna nelle imprese milanesi di Berlusconi. Parole di un boss che non è un collaboratore e non si è mai pentito e sembrano più messaggi minacciosi che rivelazioni. Al Fatto risulta che nell’ inchiesta è stato sentito anche Salvatore Baiardo, l’ex gelataio ad Omegna, condannato per favoreggiamento più di venti anni fa perché ospitò quando erano latitanti i due fratelli di Brancaccio, arrestati nel gennaio 1994.

Dopo la scossadella trasmissione Rai Report che ha intervistato a gennaio il favoreggiatore sui presunti rapporti tra Berlusconi e dell’Utri con i due boss, qualcosa si muove. Anche Baiardo è un soggetto dalle rivelazioni carsiche. Nel 1995 aveva accennato qualcosa sui rapporti tra il gruppo Berlusconi e i Graviano ai Carabinieri che avevano arrestato i due boss a Milano. Fu ritenuto inattendibile. Poi l’inchiesta passò a Francesco Messina, attuale Direttore centrale Anticrimine della Polizia di Stato, allora capo della Dia di Milano. Messina andò a sentire Baiardo e scrisse un’informativa basata sulle sue rivelazioni che Baiardo non firmò per paura. Baiardo parlava vagamente dei rapporti tra dell’Utri e i Graviano, mai riscontrati. Messina in tv a Report ha detto che non ricevette nemmeno un impulso a indagare dai magistrati su quell’informativa. Era il novembre del 1996, quasi 25 anni fa.

Poi Salvatore Baiardo, ormai una decina di anni fa si è fatto vivo con Il Fatto, che lo ha intervistato. Tirò il sasso alludendo alle vacanze in Sardegna nel 1992 e 1993 dei fratelli Graviano a poca distanza dalla villa di Berlusconi, facilmente raggiungibile via mare da villa Certosa. Poi tirò indietro la mano dicendo che comunque da lì a dire che si erano incontrati “c’è di mezzo il mare”.

Infine Baiardo ha parlato a Report nell’intervista trasmesa due mesi fa. Secondo lui i rapporti finanziari tra i Graviano e Berlusconi sarebbero stati reali ma più importanti di come li racconta Giuseppe Graviano. Affermazioni non riscontrate e talvolta fumose e discordanti che sono senza alcun fondamento per i legali di Berlusconi. Al Fatto risulta che, dopo quelle affermazioni a Report, Baiardo è stato sentito a verbale dai pm di Firenze. Di nuovo. Era già stato sentito in gran segreto nei mesi scorsi altre tre volte e avrebbe parlato a lungo.

Secondo L’espresso i pm fiorentini sarebbero scesi in trasferta a Palermo per cinque giorni tra 8 e 12 febbraio per fare verifiche sul territorio proprio nel filone dell’inchiesta che riguarda i presunti rapporti economici del passato tra la famiglia Graviano e il gruppo Berlusconi. Inoltre i pm di Firenze prima sono andati a interrogare in carcere a Terni Giuseppe Graviano per chiedergli conto delle sue rivelazioni fatte al processo Ndrangheta Stragista su suoi presunti rapporti con Silvio Berlusconi. Il boss di Brancaccio è stato ascoltato il 20 novembre e il giorno prima era stato ascoltato il fratello Filippo Graviano nel carcere di L’Aquila. Da più di dieci anni Filippo a differenza di Giuseppe dice di essersi dissociato. Il boss ha ammesso di essere stato un associato a Cosa Nostra anche se nega di essere mai stato il capo del mandamento o di aver preso parte alle stragi del 1992 e 1993 per le quali è stato condannato.

I due fratelli Graviano sono stati condannati per le stragi del 1992 (costate la vita ai giudici Giovanni Falcone, con la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta e al giudice Paolo Borsellino con 5 agenti di scorta) nonché per le stragi del 1993 a Firenze e Milano, costate la vita a 10 persone in tutto tra le quali due bambine, nonché per gli attentati contro le basiliche e contro il conduttore Maurizio Costanzo e la moglie Maria De Filippi, nonché per l’esecuzione del beato don Pino Puglisi, parroco del loro quartiere Brancaccio. Nonostante tutte le condanne definitive i due fratelli che hanno ormai 57 (Giuseppe, il boss vero del clan) e 59 anni (Filippo, il più grande che però era in realtà più l’uomo dei conti) continuano a sperare di potere uscire. Filippo Graviano ha chiesto recentemente un permesso premio motivandolo con la sua dissociazione. Nel 2010 Giuseppe Graviano e Filippo Graviano furono convocati al processo di appello contro Marcello Dell’Utri per concorso esterno. Alla domanda se lo conoscessero, Filippo ha risposto di no raccogliendo i complimenti di dell’Utri sul suo ravvedimento mentre Giuseppe si è avvalso della facoltà di non rispondere. Dell’Utri, che era stato ritenuto colpevole in primo grado anche per la fase politica del suo impegno pubblico, in appello è stato assolto anche perché il racconto di Spatuzza in quel processo non è stato ritenuto attendibile.

Nell’agosto del 2013 Giuseppe Graviano scrisse dal carcere una lettera all’allora ministro Beatrice Lorenzin, che al Fatto disse di non averla letta. Nella lettera, svelata ieri da L’espresso, chiedeva un miglioramento delle sue condizioni carcerarie e sosteneva di essere in carcere “perché dal primo giorno del mio arresto mi è stato detto che se non avessi accusato il presidente di Forza Italia e collaboratori venivano accusato di tutte le stragi del 1993 in poi, lo stesso i miei fratelli, per i parenti altre accuse di 416 bis”. Il boss sosteneva di esser stato spinto “a confermare le accuse dei collaboratori di giustizia nei confronti del senatore Berlusconi, (…) per la provenienza dei capitali per formare il patrimonio della famiglia Berlusconi e in questi ultimi 20 anni altri che conoscete anche tramite i mass-media per ultimo Spatuzza che accusa il senatore Berlusconi e l’ex senatore dell’Utri delle stragi del 1993 e il senatore Renato Schifani per affari con i fratelli Graviano”. Il boss però scriveva “ho la forza di non cedere ai ricatti”.

“Mi vaccino io”. “No, io”. Quelli che saltano la fila

Non ci sono solo i senatori a chiedere la via prioritaria. La corsa ai vaccini scatena tutti. Con motivazioni più disparate: chi perché svolge un servizio essenziale al Paese, chi perché è a stretto contatto con i malati o le categorie a rischio, chi perché lavora col pubblico. Una folle corsa dove il minimo è rifilare una gomitata a quello che ti sta a fianco e superarlo.

Numerose sono infatti le categorie che chiedono di saltare la fila per i vaccini, passando davanti a chi ne ha più diritto per età, patologie e reale esposizione al rischio. Poi c’è chi ci riesce e chi no. Paiono esserci riusciti, per esempio, i magistrati della Corte dei conti. I quali nei giorni scorsi hanno ricevuto una comunicazione in cui si annuncia l’avvio del programma di vaccinazioni tra la fine di marzo e l’inizio di aprile. Senza distinzioni per età o malattie: saranno vaccinati tutti. Anche se molti di loro stanno lavorando in smart working.

Ma anche altri settori della magistratura hanno fatto richiesta di vaccini. In alcune regioni le vaccinazioni ai magistrati ordinari sono già iniziate. Così come ai giudici amministrativi dei Tar. Provocando la reazione degli altri. “I giudici tributari chiedono di essere trattati al pari delle altre magistrature”, ha scritto Daniela Gobbi, presidente dell’Amt, in una lettera al governo.

E le toghe sono solo una goccia nel mare. Ci sono anche gli avvocati. “Frequentiamo le aule di tribunale come gli altri, siamo una categoria a rischio in un settore che non si può fermare”, dicono le associazioni di categoria. E non mancano i giornalisti. “Si valuti la priorità per chi garantisce l’informazione in situazione di pericolo”, ha detto il presidente dell’Ordine Carlo Verna. E a proposito di giornalisti, si raggiungono anche punte surreali. Come il fatto che siano stati già vaccinati tutti i dipendenti di Tv1, emittente di Isernia dell’europarlamentare forzista Aldo Patriciello, proprietario del gruppo Neuromed che vanta diverse cliniche private proprio in quel territorio.

Ma pure commercianti e ristoratori sono sul piede di guerra. “Noi stiamo a stretto contatto col pubblico. Perché loro sì e noi no?”, si chiedono, sentendo puzza di casta. Tra gli ultimi arrivati pure i notai, perché “andiamo spesso in ospedali e Rsa”. Due giorni fa ecco spuntare le imprese di pompe funebri. “Entriamo nelle case di chi è morto di Covid. Per noi l’iniezione dev’essere prioritaria”, ha spiegato Gianni Gibellini, presidente di un’associazione che rappresenta 250 aziende.

Ma che dice la legge? Nell’ultimo aggiornamento sui soggetti da vaccinare, datato 8 febbraio 2021, dopo le categorie che distinguono per fasce di età e soggetti a rischio per malattie e comorbidità, si arriva alla tabella 5, che prevede vaccinazioni per personale scolastico e universitario docente e non docente, forze armate e di polizia, penitenziari, luoghi di comunità (civili, religiosi, etc.), altri servizi essenziali. Ed è proprio su quest’ultima voce che fanno leva le richieste più disparate giunte al ministero della Salute.

“Se tengono i brevetti, le case farmaceutiche vanno nazionalizzate”

Il video in cui accusa Ursula von der Leyen di “essersi inchinata di fronte alle case farmaceutiche”, di aver permesso loro “di fare le leggi al posto” della Commissione europea, ha raccolto in poche ore centinaia di migliaia di clic . Manon Aubry, 31 anni, francese, eurodeputata del gruppo The Left (5,4% dei seggi), dice che serve una commissione d’inchiesta sui vaccini per “scoprire davvero come sono andate le cose”.

Onorevole Aubry, l’errore principale della commissione?

Quello di pensare di essere più debole di Big Pharma. Il risultato è che nei contratti sui vaccini le condizioni sono state imposte dalle compagnie private. Eppure, la ricerca sui vaccini è stata finanziata con soldi pubblici, di tutti noi cittadini.

L’Italia ha appena bloccato l’esportazione di un carico di vaccini Astrazeneca verso l’Australia. Qualcosa i governi possono ancora fare, no?

Il blocco dell’export non risolve la radice del problema, cioè il fatto che le case farmaceutiche abbiano il monopolio della produzione. Dobbiamo pensare in ottica globale, perché il virus tornerà se non viene sradicato in ogni parte del mondo. L’obiettivo non dev’essere quindi quello di rubare vaccini a un’altra nazione, ma di aumentare la produzione a livello mondiale, così che ogni nazione possa avere i vaccini di cui necessita.

Lei critica il fatto che i brevetti siano privati e che su questi le compagnie facciano profitti. L’alternativa?

L’alternativa era rendere pubblici i brevetti, così che la produzione potesse essere maggiore. Invece, per come stanno le cose oggi, il rischio è di avere persone vaccinate nei Paesi ricchi e persone non vaccinate in quelli poveri.

Senza la prospettiva di poter fare profitti, pensa che le compagnie private avrebbero comunque investito grandi risorse nella ricerca e sarebbero arrivate a produrre vaccini in meno di un anno, come è avvenuto?

Non è il modo giusto di inquadrare il problema. Il vaccino non dovrebbe essere visto come un bene uguale agli altri. La Commissione avrebbe dovuto trattare in modo diverso con le compagnie, imponendo fin dall’inizio la condivisione dei brevetti con chiunque volesse produrli. Invece ha prefinanziato la ricerca sui vaccini, assumendosi il rischio finanziario, ma ora sono le compagnie a fare profitti.

I dati dicono che Paesi come il Regno Unito o Israele, che pagano di più per i vaccini, li hanno ottenuti prima dell’Ue. Non pensa che la Commissione avrebbe dovuto offrire un prezzo più alto?

Se fossimo in un mercato normale, sarebbe una buona idea, ma noi dovremmo uscire da questa logica. Da un lato l’errore è stato non coordinarsi a livello globale, permettendo così alle compagnie di mercanteggiare sul prezzo, dall’altro l’Ue sta pagando il prezzo di decenni di mancati investimenti nell’industria farmaceutica, decenni di accordi di libero scambio e austerità, che ci hanno portato alla perdita di quella che possiamo chiamare sovranità sanitaria.

Parliamo di quello che si può fare adesso. Qual è la sua proposta?

Oltre ad allargare al massimo la platea di vaccini e diversificare le produzioni, bisogna rendere pubblici i brevetti: c’è una proposta in discussione al Wto per istituire una moratoria, idea appoggiata ormai da oltre cento nazioni.

Se alla fine un accordo di questo genere non verrà trovato, e se le compagnie farmaceutiche continueranno a opporsi a rinunciare ai propri brevetti, cosa propone?

In questo caso, si possono nazionalizzare le compagnie farmaceutiche.

Come?

Faccio un esempio. Se in Francia Sanofi non vuole rendere pubblico il suo brevetto e metterlo a disposizione di tutti, possiamo nazionalizzare la società per un breve periodo, così che lo Stato possa produrre più vaccini possibili senza pensare al profitto. È stato fatto nel passato in momenti di crisi. Durante le guerre sono state nazionalizzate molte industrie per produrre armi. Oggi le armi sono i vaccini, per questo potremmo applicare la stessa ricetta.

Campania rossa, Veneto e Friuli arancioni. Rezza: “Sos brasiliana”

Per la prima volta, dopo sette settimane, l’indice di trasmissione del virus Rt supera 1 e si colloca a 1,06 (range 0,98-1,20) nel periodo 10-23 febbraio. C’è “un’importante accelerazione nell’aumento dell’incidenza”, scrive la Cabina di regia di ministero della Salute e Istituto superiore di sanità: da 145 a 195 nuovi casi ogni 100 mila abitanti, con un aumento del 34,5% in sette giorni. Sono i dati al 28 febbraio: ieri era già a 222. “In netto aumento” i malati in terapia intensiva che sono passati in una settimana da 2.146 ai 2.327 (+8,4%) del 2 marzo, ma ieri erano 2.525 con un ulteriore +8,5% in appena tre giorni. Siamo al 28%, la soglia d’allerta è al 30% e nove Regioni l’hanno superata.

Non ci vuole molto a prevedere che il virus, anche per effetti delle varianti e di quella inglese in particolare ormai “prevalente” (54% dei nuovi contagi al 18 febbraio, chissà da allora…), non si fermerà da solo. “Bisogna intervenire in maniera tempestiva e radicale per contenere le varianti del virus”, ha detto ieri il professor Silvio Brusaferro, presidente dell’Iss. Il direttore della Prevenzione della Salute, professor Gianni Rezza, ha sottolineato i pericoli della variante brasiliana: corrisponde al 4,3% dei casi al 18 febbraio, è radicata soprattutto in Umbria, Toscana, Abruzzo, Marche e Lazio e ha mostrato una parziale resistenza al vaccino. Secondo il matematico Giovanni Sebastiani del Cnr, i numeri sono paragonabili a quelli del marzo 2020: “Le curve delle terapie intensive di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna in crescita esponenziale, con tempo di raddoppio di poco sopra a 4 giorni per le prime due e pari a 7 giorni circa per l’ultima. E ci sono situazioni critiche anche in alcune regioni del Centro-Sud”.

Eppure mezzo Paese rimane in zona gialla, mantiene cioè la normativa che secondo il Comitato tecnico scientifico “ha dimostrato una capacità di contenere l’aumento dell’incidenza ma non la capacità di ridurla” (dal verbale del 23 febbraio). Solo la Campania, che ha Rt medio a 0,96 e i nuovi casi in rapido aumento, passerà lunedì in zona rossa, dove ci sono già Basilicata e Molise, ma solo perché l’ha chiesto il presidente Vincenzo De Luca. Veneto (Rt a 1,08) e Friuli-Venezia Giulia (0,92), ha disposto il ministro della Salute Roberto Speranza, raggiungeranno le altre Regioni in arancione. Che sono Lombardia (1,13 ma la stessa Regione ritiene più attendibile il dato degli ospedalizzati: 1,24), Piemonte (1,15), Trento (1,1), Bolzano (0,75 e incidenza in calo ma sempre altissima: 377 nuovi casi in 7 giorni per 100 mila abitanti), Marche (1,08), Toscana (1,18) e Umbria (0,79: il peggio sembra passato ma le terapie intensive sono al 55%, quasi il doppio della soglia di allerta) ed Emilia-Romagna (1,13 e ospedali in affanno). Lombardia ed Emilia-Romagna hanno dati peggiori della Campania, ma Rt non supera 1,25 e quindi la zona rossa, con il Dpcm attuale come col precedente, non è possibile. Le due Regioni hanno adottato misure locali. Bologna è da tre giorni zona rossa e altre province sono “arancione scuro”. La Lombardia da giovedì è “arancione scuro”: scuole chiuse e restrizioni varie per i parchi e il commercio. Secondo il presidente Attilio Fontana “le misure rafforzate hanno scongiurato la zona rossa”. Ma in realtà i dati analizzati a Roma risalgono ai giorni precedenti.

Si ipotizza che Rt salga meno anche perché con le varianti aumentano i casi fra i giovani, spesso asintomatici, mentre l’indice è calcolato sui soli sintomatici: “È possibile, almeno in parte”, dicono i tecnici della Salute. Che, se i numeri e le regole lo consentissero, avrebbero preferito provvedimenti più drastici.

Tutte le Regioni meno la Sardegna, già zona bianca, sono a rischio “alto” o “moderato”. Restano gialli il Lazio, la Liguria e la Puglia, dove Rt è rispettivamente a 0,98, 0,96 e 0,93, perché gli ospedali sono sotto le soglie d’allerta. Speriamo che duri.

Si conferma il calo dei contagi tra gli operatori sanitari e gli over 80, molti dei quali già vaccinati. Il piano vaccinale cambierà: ci lavorano il neocommissario, generale Francesco Paolo Figliuolo e il nuovo capo della Protezione civile, ingegner Fabrizio Curcio.

Draghi chiama McKinsey e soci per il Recovery Plan

Magari il Recovery Plan – come ci ricorda certa stampa – “se lo scrive da solo Mario Draghi” con il ministro dell’Economia, Daniele Franco. Di certo, però, al Tesoro non hanno disdegnato un aiuto esterno, quantomeno nel valutare i progetti. Il ministero ha infatti appena arruolato il gigante mondiale della consulenza McKinsey per farsi dare una mano sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che deve stabilire come spendere i 209 miliardi del piano europeo entro il 2026.

Il coinvolgimento di McKinsey – rivelato ieri da Radio Popolare – va inquadrato in un contesto più ampio. A quanto risulta al Fatto, ci sarebbero altri tre o quattro colossi del settore al lavoro sulla revisione del Pnrr. Con la Pa, specie coi ministeri già lavorano le big four contabili (Kpmg, Deloitte, E&Y, Pwc) ma anche quelle della consulenza (Bain & Company e Boston Consulting). Nella prima versione del Piano, quella redatta ai tempi del governo Conte nella cabina di regia a Palazzo Chigi coordinata dal Comitato per gli affari europei (Ciae), qualcuna è stata già coinvolta (per esempio Kpmg e Pwc nelle schede di progetto della parte Sanità). Si trattava di una fase, come si suol dire, di lavoro bottom up (dal basso verso l’alto). La novità è che con l’arrivo di Mario Draghi si è deciso di coinvolgerle nella fase di cesura finale, quella che conta davvero.

Il ministero dell’Economia ha deciso di rivedere in parte il Piano trovato in eredità e, vuoi anche per i tempi assai stretti, ha chiamato i colossi. McKinsey è il leader mondiale nella consulenza strategica (dove si muovono anche Bain & Company e Boston Consulting): avrà un ruolo di supporto alle scelte, che restano politiche. In sostanza fornisce analisi dei dati e di impatto sui progetti selezionati dal Tesoro. Dovrà spiegare, per esempio, se un investimento ha funzionato o no in altri Paesi e fornire studi sui possibili effetti. Dall’analisi di questi dati può dipendere la scelta politica.

Il contratto, pare, non si basa su cifre elevate, è pensato per coprire i costi di lavoro del team (di norma poche persone) che si interfaccia col ministero. Il Tesoro è formalmente il cliente unico, ma i gruppi starebbero lavorando con tutta la cabina di regia incaricata di rivedere il Pnrr insediata al ministero sotto il coordinamento del dirigente della Ragioneria, Carmine Di Nuzzo, fedelissimo di Franco, e che coinvolge diversi ministeri, dalla Transizione ecologica (Cingolani) a quello della Transizione digitale guidato dall’ex manager Vodafone, Vittorio Colao, che proprio in McKinsey si è formato. Sul fronte digitale, peraltro, già lavorano con la Pubblica amministrazione colossi specializzati come Accenture.

Difficile che questi nuovi contratti siano particolarmente onerosi per il Tesoro. Contribuire alla stesura del Piano che determinerà gli investimenti pubblici dell’Italia nei prossimi sei anni vale già come riconoscimento. E, magari, come posizionamento.

I sostegni? Identici ai ristori, sperando che arrivino presto

Le bozze, come da che mondo è mondo, sono tornate a circolare. Sono talmente piene di buchi, però, che fare una previsione su quando si transustanzieranno in un decreto è al momento impossibile: la prossima settimana, dicono gli ottimisti; forse quella dopo, dice chi vede il bicchiere mezzo vuoto. Ci si riferisce al decreto Ristori, oggi ribattezzato Sostegni (non più “sostegno” al singolare, com’era stato detto inizialmente): quale che sia il nome, niente male per un testo che a suo tempo fu annunciato entro i primi dieci giorni di gennaio.

Non sembra ci sia fretta, il tema è sparito anche dai media che lo hanno cavalcato fino a poco fa, eppure le imprese alla canna del gas continuano a dire le stesse cose di prima e gli ultimi soldi li hanno visti tra dicembre e gennaio. Venendo ai contenuti, parliamo al momento di 26 articoli coi capitoli che erano già previsti: sanità, vaccini e farmaci, cassa integrazione, scuola, enti locali e, tagliando corto, i trasferimenti diretti alle imprese, che pesano per 9,7 miliardi sui 32 di maggior deficit autorizzato a dicembre (si è scritto che il conto potrebbe salire, ma al momento non se ne sa nulla). Parlando dell’ultimo capitolo da quasi dieci miliardi, va detto che – pur trattandosi di bozze – i nuovi sostegni non paiono tanto diversi dai vecchi ristori: la divisione per fasce di ricavi (400mila euro; un milione; 5 milioni) è identica a prima, come lo sono le percentuali (20, 15 e 10%) di risarcimenti sul fatturato perso (almeno il 33%, come prima). Le cifre? Uguali pure loro: da mille a 150mila euro.

Quanto al resto, già il mai nato dl Ristori 5 – come è pacificamente desumibile dall’ultima audizione dell’ex ministro Gualtieri – doveva risolvere un problema: l’abbandono degli ormai famigerati codici Ateco (che peraltro avevano escluso alcune categorie, partite Iva in primis) e la soluzione delle disparità innescate dal criterio adottato finora per quantificare i danni al fatturato (il paragone tra ricavi aprile 2019/aprile 2020). La soluzione indicata dal Tesoro – nelle bozze, per carità – non è peraltro meno a rischio di distorsioni: il paragone tra ricavi del primo bimestre 2020 e il primo del 2021. Periodo di relative aperture e che non risolve il tema delle attività a forte connotazione stagionale (non si parla qui del settore sciistico, che dovrebbe avere un intervento ad hoc). Per capirci, in Parlamento quasi tutte le forze politiche avevano proposto a Gualtieri di usare il paragone fatturato 2019/2020.

Infine, ma non è tema da poco, c’è il problema già accennato dei tempi. Di fatto l’ultimo intervento di sostegno all’economia è il cosiddetto “decreto Natale”, lo scostamento da 32 miliardi andava usato a gennaio mentre siamo a marzo e il testo ancora non c’è: le imprese in difficoltà, com’è ovvio, stanno continuando ad accumulare debiti o a chiudere. Di fronte a loro, in ogni caso, c’è un’attesa che dovrebbe superare i 40 giorni: approvato il decreto, infatti, ci sarà da attendere per la lavorazione delle pratiche. Cambiando i parametri, infatti, bisognerà aggiornare anche la piattaforma digitale: quella usata da ultimo è dell’Agenzia delle Entrate, ma il ministro Daniele Franco pare intenzionato a farne costruire una ad hoc da Sogei, la società in house del Tesoro che si occupa di informatica (anche per le Agenzie fiscali, peraltro). Un’operazione che, oltre a riservare sempre possibili incognite tecniche, dovrebbe portare a pagare i primi sostegni nella seconda metà di aprile. Forse non c’è più fretta.

Condono, lite in maggioranza. Lega e FI per una maxi-soglia

Le misure fiscali da inserire nel decreto Sostegni sono il primo serio fronte di scontro nel governo Draghi. L’ala destra della maggioranza che sostiene l’esecutivo, rappresentata da Lega e Forza Italia, vuole introdurre la proroga della sospensione della riscossione dei debiti fiscali e l’annullamento delle cartelle inferiori a 5mila euro dal 2000 al 2015. L’ala sinistra, formata da Pd e LeU, si oppone a questa misura che ritiene la riedizione dello stralcio varato nel 2018 dal governo Conte 1. Quell’operazione azzerò le cartelle fino a mille euro dal 2000 al 2010 e ridusse il “magazzino fiscale” dell’Agenzia delle Entrate di circa 32,2 miliardi, eliminando 123 milioni di atti.

Il problema è che la legge prevede che l’Agenzia delle Entrate consideri inesigibili le cartelle solo dopo aver tentato tutte le possibili azioni di riscossione a prescindere dalla loro efficacia. In molti chiedono una riforma che elimini i crediti inesigibili per evitare al fisco un lavoro inutile e infruttuoso. Al 30 giugno, il valore del cosiddetto “magazzino fiscale” dell’Agenzia ammonta a 987 miliardi: 405,3, il 41% del totale, sono difficilmente recuperabili perché i contribuenti sono falliti, deceduti, hanno cessato l’attività o sono nullatenenti. Il 35% del “magazzino” (344 miliardi) ha oltre 10 anni; il 34% (333 miliardi) va dal 2011 al 2015.

In tutto si tratta di 130 milioni di cartelle: 859mila valgono oltre 100mila euro ciascuna per 626 miliardi (il 63% del totale), 47,5 milioni di cartelle hanno un importo tra 1.000 e 100mila euro per altri 305 miliardi. I contribuenti coinvolti sono 17,9 milioni, di cui 14,9 milioni persone fisiche tra i quali 2,5 milioni di partite Iva. Il governo sta esaminando diverse ipotesi con simulazioni sull’impatto della misura per i conti pubblici. Potrebbero essere cancellati 60 milioni di atti con un onere di 2 miliardi nel biennio 2021-22.

Il responsabile economia del Pd, Emanuele Felice, denuncia che “la sanatoria per tutte le cartelle sotto i 5mila euro è un condono. Bisogna invece sanare solo le cartelle non più esigibili e senza soglia come chiedono da tempo l’Ocse e il Fmi. I crediti inesigibili sono un problema che va affrontato da Paese civile: non è possibile che gli unici a pagare sempre le tasse siano i lavoratori con ritenuta alla fonte. La soglia crea ingiustizia perché chi ha un debito non più esigibile sopra i 5mila euro deve pagarlo a differenza di chi ne ha uno esigibile sotto i 5mila. Il Pd vuole equità ed efficienza. Definire l’esigibilità di una cartella è il lavoro dell’amministrazione, se necessario cambiando le norme”.

L’onorevole Massimo Bitonci della Lega, che nel governo Conte-1 da sottosegretario all’Economia fu il padre della rottamazione delle cartelle, ribatte che “il decreto del 2018 ha avuto risultati positivi cancellando 12,9 milioni di atti inesigibili. Non fu un condono: la dilazione di pagamento in cinque anni fu consentita solo a chi aveva presentato la dichiarazione dei redditi. Non sono evasori, sono contribuenti che non pagano per difficoltà. Noi proponiamo cinque misure: ampliare la rottamazione includendo 2018 e 2019; cancellare le cartelle ante 2015 sino a 5mila euro, già svalutate e in buona parte non escutibili; applicare il saldo e stralcio non solo alle famiglie ma anche alle imprese in difficoltà; ridurre il contenzioso tributario in Cassazione con stralci per chi vince in primo e secondo grado; riaprire la rottamazione a chi non è riuscito a pagare le rate della rottamazione nel 2020: una proroga di un mese o due non basta”.

La sottosegretaria all’Economia Maria Cecilia Guerra (LeU) ribadisce però che “la misura è indirizzata a ridurre il magazzino fiscale, a impedire che si formi di nuovo e a evitare di inseguire debiti inesigibili. L’inesigibilità potrebbe essere definita in base allo stato dei contribuenti, ad esempio al fallimento, o in base all’esecuzione. Una pulizia di questo tipo ci trova d’accordo. Siamo contrari invece a cancellare tutti i debiti sino al 2015: i condoni non sono la strada da seguire. Anche perché la sentenza della Cassazione sulla ‘pace fiscale’ del 2018 ha stabilito che la soglia dei mille euro per lo stralcio si applica alla singola cartella e non al loro importo complessivo. Se il tetto sale a 5mila euro, per un singolo contribuente lo stralcio può arrivare anche a somme rilevanti”.

Marcucci, Lotti & C.: quelli della “vergogna”

Nicola Zingaretti arriva a dire che si “vergogna” del suo partito, che “da 20 giorni parla solo di poltrone”. Uno sfogo maturato dopo mesi di sconfessioni pubbliche e richieste di sfratto che è utile ripercorrere.

A partire dalle parole di Andrea Marcucci: “Il congresso è una necessità riconosciuta da tutti. Bonaccini? Se volesse candidarsi, avrebbe la statura necessaria”. Poi ci sono gli esponenti di Base Riformista, la corrente degli ex renziani. Lorenzo Guerini: “Serve un congresso vero, una discussione franca, il Pd non può cedere alla sindrome del fortino assediato”. E Luca Lotti, infastidito dall’alleanza coi 5S: “La linea Bettini era sbagliata, torniamo alla vocazione maggioritaria”.

Tema toccato anche da Tommaso Nannicini: “Abbiamo sacrificato tutto sull’altare dell’alleanza coi grillini senza capire che rappresenterebbe la fine del Partito democratico”.

Il tutto mentre Stefano Bonaccini, pur senza sbilanciarsi, invocava una svolta: “Il Pd ha bisogno di tornare più centrale nel dibattito politico”. Linea seguita dal sindaco di Bergamo Giorgio Gori: “L’indicazione di Conte come riferimento è parsa una manifestazione di debolezza così come il costante, ossessivo insistere sull’alleanza con 5 Stelle e Leu”. Con Dario Nardella che invitava a “recuperare lo schema bipolare”. Dura con Zingaretti è stata anche Alessia Morani, esclusa dalle nomine dei sottosegretari: “Chi ha fatto queste scelte? Ovviamente il segretario Pd. Non ho ricevuto nemmeno una telefonata”. E sul congresso: “Serve, anche perché prima di parlare di alleanze con il M5S dobbiamo definire la nostra identità”.

Il disastro giallorosa battezza il governo Draghi-Salvini (e B.)

L’ ultima beffa è il messaggino su Whatsapp. Quello che Matteo Salvini dice di aver mandato a Nicola Zingaretti, per rammaricarsi di una scelta – le sue dimissioni da segretario del Pd – che rischia di far perdere tempo al governo Draghi. “Spero non ci siano ripercussioni – ha commentato il leghista – perché ogni giorno conta. È grave che il segretario del secondo partito italiano si dimetta perché nel Pd parlano solo di poltrone”. Dopo un anno e mezzo di apnea, tra marginalità, delusioni elettorali e sondaggi decrescenti, Salvini respira a pieni polmoni. La Lega è tornata al centro della scena. Per la destra l’avvento di Mario Draghi è stato una tempesta perfetta. Forza Italia si gode il pieno di ministri e sottosegretari e appoggia acriticamente qualsiasi spiffero (o silenzio) draghiano. Il Carroccio sta iniziando a riprendersi il posto che aveva fino a due estati fa, prima della crisi del Papeete.

Da un punto di vista tecnico, l’operazione di Matteo Renzi da sicario del centrosinistra è riuscita perfettamente: i partiti progressisti sono a pezzi. Cinque Stelle e Pd sono ai margini della mega-coalizione che sostiene l’esecutivo. Spalle al muro, hanno assecondato senza entusiasmo un cambio di governo che poteva solo svantaggiarli. Poi si sono spaccati e hanno perso entrambi la propria guida politica. In un momento tanto delicato della storia nazionale sono nelle mani dei reggenti, in attesa di affrontare una fase (ri)costituente e scegliersi un nuovo leader. E pure quando avranno scelto un capo, si troveranno nella stessa acqua di prima: in una grande ammucchiata dove rischiano di contare poco.

I problemi a sinistra hanno spalancato a destra le praterie del governo Draghi. Salvini è tornato a fare proprio quello che faceva nel Conte I: corre su un doppio binario. Tiene insieme un’alleanza spuria di governo (con dentro tutti) e un’alleanza politica (con la Meloni) che tornerà utile alla prima scadenza elettorale.

Nell’assenza di Pd e Cinque Stelle e nel totale silenzio comunicativo del premier, la Lega si agita in modo ossessivo per piazzare bandierine di governo e successi mediatici. La pace fiscale e i 60 milioni di cartelle che dovrebbero essere condonati con il decreto Sostegni potrebbero essere a buon diritto rivendicati da Salvini come una vittoria leghista. Il “capitano” apre un tavolo al giorno: la battaglia per la cancellazione del codice degli appalti, le schermaglie sulla Giustizia, Alitalia, ovviamente l’immigrazione. E poi i vaccini. Mentre gli altri partiti sono impegnati a risolvere i propri guai, Salvini e i suoi si dedicano alla partita più importante. Per quanto improbabili possano sembrare i proclami della diplomazia salviniana – che cerca fiale tra San Marino e l’India per sbloccare i ritardi europei – il capo della Lega è tornato a prendersi le telecamere come succedeva nei momenti di grazia. Alle cose “serie” ci pensa Giancarlo Giorgetti, che si muove come un vicepremier e negli uffici del Mise ha incontrato prima i virologi e i rappresentanti di Farmindustria, poi Thierry Breton, il capo della task force europea sulla produzione vaccinale. L’improvvisa e ridicola cosmesi europeista è servita a Salvini per legittimarsi alla corte di un governo dove è l’unico leader politico con un po’ di visibilità. Per la prima volta, dopo una lunghissima flessione, anche i sondaggi hanno iniziato a cambiare verso. Nella supermedia di YouTrend, il partito di Salvini è risalito di mezzo punto a quota 23,5%. La Lega era già la prima forza politica quando perdeva decimali ogni settimana, in una crisi strategica che pareva irreversibile. Ora è anche cambiato il quadro.

Zinga non torna indietro. Si litiga pure sul reggente

Via un leader, se ne fa un altro. Ci vogliono meno di 24 ore perché il Pd passi dallo psicodramma delle dimissioni di Nicola Zingaretti, che – pur se annunciate – hanno bruciato sul tempo gli avversari, a quello di un salto nel buio, in cui ciascuno rischia di perdere pezzi di potere. Perché più passano le ore, più appare evidente che il presidente della Regione Lazio non ha intenzione di tornare sui suoi passi. “Sono irrevocabili”, ha dichiarato ieri. “L’ho fatto per il bene del partito: potevamo arrivare sempre più sfibrati alle Amministrative? Sarebbe stato un logorio continuo dal quale il Pd non si sarebbe ripreso”, ragionava con chi ci ha parlato. Ora il problema è di chi resta. L’assemblea del 13 e 14 marzo dovrà eleggere un reggente. Che però a tutti gli effetti sarà un segretario. Il modello sono Maurizio Martina e Guglielmo Epifani. Fino al congresso che dovrebbe essere anticipato a dopo le Amministrative di ottobre. Individuarne uno che vada bene a tutti non è così facile.

I primi due della lista, che sarebbero i naturali candidati alla successione, per motivi diversi sono fuori gioco. Il vicesegretario Andrea Orlando, che ieri, scuro in volto, ha presieduto una segreteria mentre il governatore del Lazio era a inaugurare un campetto di calcio a Torre Gaia ci spererebbe. Ma è considerato troppo divisivo. Ed è sotto accusa perché avrebbe voluto fare il ministro a tutti i costi. La presidente, Valentina Cuppi, è stata scelta dal segretario uscente come simbolo. Fa il sindaco di Marzabotto e fino a quando ieri non ha parlato a nome del Nazareno (annunciando l’arrivo della lettera ufficiale di dimissioni di Zinga) non la conosceva praticamente nessuno.

Quindi bisogna individuare un profilo. Due opzioni sul tavolo: una donna o un padre nobile. Per quel che riguarda la prima categoria, le uniche davvero spendibili sono Roberta Pinotti e Debora Serracchiani. Entrambe di Area dem. Potrebbero andare bene visto che Dario Franceschini resta il vero ago della bilancia del Nazareno. Ma Base Riformista di Lorenzo Guerini e Luca Lotti vogliono contare. Di padri nobili nel Pd non ce ne sono più molti. Da più parti viene fuori il nome di Luigi Zanda. Formalmente anche lui di Area dem, è stato il tesoriere di Zingaretti (ruolo lasciato per andare a presiedere il Cda del Domani, da cui poi si è dimesso), è vicino a Paolo Gentiloni (e a Sergio Mattarella). Ed è stato uno di quelli che ha più lavorato all’operazione Draghi: sarebbe il segno del cambiamento dei tempi.

Finisce invece all’angolo Stefano Bonaccini, che ci mette 26 ore per scrivere un post Facebook definendo “sbagliato” il gesto di Zinga. Si stava preparando al Nazareno già dalla battaglia per l’Emilia-Romagna, ma ora il quadro si complica: non ha i numeri per farsi eleggere in assemblea, a meno di colpi di scena (sono determinanti i voti di Zinga, che lo considera tra i traditori e non convince neanche tutti gli altri). E le variabili a questo punto aumentano.

Raccontano che al comitato politico di giovedì sera abbia avuto una reazione sopra le righe: “Questa cosa delle dimissioni ci spiazza, proprio ora che bisogna gestire la pandemia”. Gli avrebbe risposto Goffredo Bettini: “Scusa Bonaccini, se non facevate così, lui continuava a gestirla, come sta facendo benissimo nel Lazio”. Proprio Bettini viene considerato dal resto del partito l’artefice del “disastro”, sia per aver insistito sulla linea “Conte o voto”, sia per aver condizionato e sovrastato l’amico Nicola, muovendosi come una sorta di segretario ombra.

Un ruolo che ora non potrà più ricoprire. Anche per questo continua a disegnare scenari. Mercoledì sera, prima dello showdown, ne condivideva quattro. Eccoli: dire no al congresso e trovare in assemblea un accordo con Br su una vicesegreteria; presentarsi in assemblea con un’altra segreteria, dire no al congresso con primarie, ma sì a quello a tesi; dire sì al congresso e ripresentarsi candidato; dimettersi in assemblea, far eleggere un reggente e valutare se ripresentarsi al congresso.

L’unico scenario su cui il “Demiurgo” può lavorare è l’ultimo. Vaghissime speranze di successo. Così si mobilita quel che si può: le redivive Sardine manifestano sotto al Nazareno. Mentre Zinga a Torre Gaia si concede un tiro in porta. A modo suo.