La variante saudita

I sogni, vedi quello di Padellaro e quello mio su Conte, portano sfiga. Ma nessuno li può controllare, né costringere a un minimo di attendibilità. Infatti l’ultimo è quanto di più fantasioso si possa immaginare. C’erano tutti i capitribù del Pd (che è peggio della Libia) in conclave nei loro caratteristici costumi e copricapi. Era giovedì sera e s’interrogavano sul da farsi dopo le dimissioni di Zingaretti. Ciascuno sfornava il nome del suo segretario preferito, un po’ come Guzzanti-Veltroni che cercava il candidato premier del 2001 (Heidi, Topo Gigio, Napo Orso Capo, Amedeo Nazzari…). E col medesimo effetto-risata. Guerini? “E chi è?”. Bonaccini? “Sta in zona rossa e poi è già mezzo imparolato con Salvini”. Franceschini? “Aridaje!”. Lotti? “È inquisito e a quel punto tanto vale richiamare Matteo”. Pinotti? “Dài, è uno scherzo!”. Di nuovo Zinga? “Ma se dice che si vergogna di noi!”. Zanda? “Tanto vale chiamare De Benedetti”. Fassino? “Seee, serve giusto un portafortuna”. Gentiloni? “Meglio la melatonina”. Orfini? “Piuttosto un cappio”. Marcucci e Delrio? “Allora meglio Fassino!”.

Il barista che portava le tisane aveva La7 sullo smartphone e guardava uno strano tipo dall’accento emiliano che spiegava a un misirizzi due o tre cose sulla sinistra. Che non può innamorarsi di Draghi. Che non può farsi fare di tutto senza reagire, tipo la cacciata di Arcuri (“Con lui eravamo primi in Europa per i vaccini e dopo il taglio siamo ancora ai livelli di Germania, Francia e Spagna: fra sei mesi vedremo dove siamo”). Che non può rinunciare a Conte, massacrato e poi silurato non certo perché poco di sinistra, semmai troppo. Che deve lavorare a un campo largo progressista col M5S e col 40-45% di incerti, delusi e astenuti, anziché ammucchiarsi con Lega e Forza Italia Viva. Che deve battersi per i brevetti liberi dei vaccini e dei farmaci salvavita e contro l’ennesimo condono fiscale. A quelle parole, i capitribù ebbero una strana sensazione, come di déjà vu. “Queste cose mi pare di averle già sentite da qualche parte”. “Anch’io, ma tanti anni fa”. “Pure a me sono familiari, forse mio nonno, la maestra, chissà…”. “Una volta, in un incubo terribile, ho sognato che le dicevo anch’io”. “A me quel tipo pare tanto di averlo già visto, ma non mi ricordo dove!”. Il barista li interruppe: “Coglioni, quello è Bersani, il vostro ex segretario, che avete lasciato andare via perché non piaceva a quello di Rignano! Fatevi curare”. Lo presero in parola e chiamarono un virologo. Il quale li visitò, diagnosticò a tutti una nuova mutazione del Covid e dettò una terapia d’urto: mettersi in quarantena per 10 anni e richiamare Bersani come segretario. Quelli, terrorizzati, obbedirono. Poi lessero il referto: “Variante saudita”.

Cover, duetti e nostalgia canaglia: a caccia del pubblico in fuga dal Festival

La parola evento è come l’aggettivo mitico di De Gregori. Gli ascolti sono in netto calo (41,2, undici punti secchi meno dell’anno scorso) e dopo i giochetti social-digital (un festival mai visto così tanto su Raiplay, mai commentato così tanto su Twitter), si arriva al punto. Anzi, all’evento. “Il Festival è il più grande evento italiano che ci sia: lo fanno la sala stampa, le tv, le polemiche, le persone che arrivano a Sanremo, i cantanti, il pubblico, le signore in prima fila, i politici”, dice Amadeus. “Tutto questo diventa evento. Se non fosse un evento sarebbe un meraviglioso programma tv, ma non sarebbe il Festival. Noi cerchiamo di fare il miglior programma tv nelle nostre possibilità, ma è svuotato di tutte le sue parti fondamentali ed è un’altra cosa”. La domanda dunque è d’obbligo: perché non hanno pensato a costruire uno spettacolo diverso, che non si limitasse a essere una fotocopia in editio minor di quello dell’anno scorso in questo anno infernale?

Ieri sera è andata in onda la serata cover, che certamente farà guadagnare qualche punticino in più in termini di ascolti. La partenza con i Negramaro, omaggio alla meravigliosa 4/3/43 di Lucio Dalla con i Negramaro, e poi i grandi successi di Tenco, Rino Gaetano, Celentano, Battiato daranno un po’ respiro al festival in affanno. Nostalgia canaglia, ma sempre utile.

Dicono: non si può fare un paragone negli ascolti perché l’anno scorso non c’era il campionato. Vero: ma il campionato si sovrappone al Festival per un’ora e mezza su cinque di programmazione. La platea televisiva di ieri e quella del 2020 sono sostanzialmente sovrapponibili (18 milioni e 175 mila persone un anno fa, 18 milioni e 17 mila mercoledì). Vale, e lo scriviamo senza compiacimento, il vecchio proverbio “chi è causa del suo mal” perché da dicembre (Natale in lockdown) si era capito che non saremmo usciti dall’emergenza in tempi brevi. E recriminare (le “accuse non hanno fatto bene al Festival”, sempre Amadeus) non serve. Gli organizzatori imputano (ma va?) l’umor nero del pubblico a casa alla situazione sanitaria, all’incertezza economica, alla povertà crescente. Dice ancora il direttore artistico, con un’ingenuità che non vogliamo creder fasulla: “Il Paese è come se vivesse una guerra. Non è vero che tutti guardano la tv, quando sei arrabbiato non hai voglia. Io vado a una festa e mi diverto se sono felice, non se ho un problema di lavoro. In questo contesto 10 milioni di persone che si sintonizzano sono commoventi”.

Nessuno ha la bacchetta magica, ed è perfino ovvio dire che è difficile intercettare il pubblico perché è difficile immaginare di cosa ha voglia e bisogno in questo momento. Forse sarebbe stato più onesto ammetterlo. E ascrivere la mancanza di “connessione sentimentale” con il Paese al contesto è inutile e tardivo: sembra di sentire i politici che non perdono mai le elezioni. Amadeus continua a pensare che un pubblico di 500 medici sarebbe stato una soluzione ideale, e non si rende conto dell’effetto boomerang che avrebbe avuto: perché a Sanremo è tutto come prima, luccicante e divertente, mentre nelle case dei comuni mortali è tutto grigio?

Diamo i numeri Sanremo

Cosa resterà, del Festival 2021? Un pugno di canzoni buone per il coprifuoco, la rottamazione dell’Ancien Régime, la fuga del pubblico agée. La sensazione che il palco dell’Ariston sia il solito triangolo delle Bermude per i concorrenti, persi fra problemi acustici e la distanza dall’orchestra. E la concreta possibilità che a vincere possa essere qualcuno che non rischia la stecca in diretta, confinato com’è in isolamento. Lo smart-Sanremo, dopo che la Rai ha messo su a forza ’sto carrozzone.

AIELLO – 3 Urla come la bisnonna sorda alle prese con le interurbane. La vanteria sulle 13 ore di sesso (e ibuprofene) suona allarmante: “Mi ricordavi di lui, ero fuori da poco”. Non meritava l’amnistia.

ANNALISA – 6,5 Se la cava con maliziosa nonchalance. Frase cult: “Dieci bocche sul mio cocktail”. Poi uno non capisce perché le zone rosse.

ARISA – 6 D’Alessio l’ha scritta pensando alla Tatangelo, Arisa la esegue (bene) rimuginando sulle proprie sfighe: eppure ora è felice in amore. Cortocircuito. Certo che se l’ex ti dice “potevi fare di più”…

BUGO – 4,5 Si nascondeva da un anno dietro la tenda, minacciando di fare Cavallo Pazzo. Sparge semi beatlesiani, cita Ronaldo e Celentano. Canta con la testa dentro un secchio.

COLAPESCE-DI MARTINO – 8 Prendi il Battisti di Con un nastro rosa, legalo con Alan Sorrenti, aggiungi una pattinatrice dance e ne ricaverai Musica leggerissima. Una scatola del tempo, retroilluminata.

COMA_COSE – 6,5 Dopo percorsi più avventurosi, Fausto e Francesca hanno tirato il freno a mano in vista di Sanremo. Però all’Ariston sono riusciti a fare bolla e intimità, da bravi congiunti.

ERMAL META – 9 Per distacco, la cosa migliore del Festival. Ballata sospesa nell’aria. Un verso come “Tu mi allunghi la vita inconsapevolmente” vale l’inserimento nelle antologie degli amorosi sensi.

EXTRALISCIO-TOFFOLO – 7,5 La longa manus di Elisabetta Sgarbi per un’intuizione sovversiva: la balera contaminata dall’indie dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Danza (tarantinamente ridanciana) in tempo di pandemia.

FASMA – 7 L’anno scorso appariva terrorizzato come un rapito dai narcos. Ora s’è tranquillizzato, tra schegge rock e slanci TikTok. Ha scritto pure un Manifesto per la tutela dell’arte. È pronto per un Dpcm.

MICHIELIN-FEDEZ – 6 Chiamami per nome non vale i precedenti duetti tra Fra e Fe. Ma se la Ferragni partorisce entro domani, può essere la spinta per la vittoria.

FRANCESCO RENGA – 4,5 Non può campare di rendita. Si presenta come uno al quale abbiano fregato shampoo e rasoi. La canzone è un campioncino da profumeria.

FULMINACCI – 7,5 La vita oltre Fregene: nella cool “Santa Marinella” tubavano Rossellini e la Bergman. Fulminacci incolla la foto di De Gregori sulla patente. Ora sorpassi i miti, e viaggi spedito.

GAIA – 6 Ascoltarla è come guardare in controluce il negativo di una vecchia foto: speri di scoprirci dentro un’ombra di malinconia. Non si faccia levigare troppo, Gaia: denudi l’anima. In un attimo il techno-fado diventa cliché.

GHEMON – 5,5 Ciondola a Broadway sognando musical e orchestrazioni swing. Se i poliziotti gli fanno il palloncino gli sequestrano la voce.

GIO EVAN – 4 Sul biglietto da visita ha scritto: “poeta, scrittore” etc. È anche l’ex aedo di Salvini-Isoardi. La sbilenca sortita sull’Arnica (la pianta, non la pomata) non mette radici.

IRAMA – 7,5 Vertigine futur-pop ben confezionata. Per il combinato disposto “buona canzone-televoto empatico” può diventare il primo trionfatore di Sanremo da remoto. Il Dad-Festival è lui.

LA RAPPRESENTANTE DI LISTA – 7 Si candidano tra gli indipendenti, troveranno consensi tra i votanti delle radio. Tra istanze neocantautorali e elettroniche, il compromesso del pezzo regge.

LO STATO SOCIALE – 6 Hanno lasciato Lodo dentro uno scatolone, in attesa del corriere. Ma anche se il leader non canta se la cavano da paraculi. Rimpiangono i Clash e il punk, divertono, giocano a fare i ribelli senza più una causa. E forse non l’hanno mai avuta.

MADAME – 7,5 Dardust e i Pinguini l’hanno aiutata a cucire la veste per il gala: Madame resta artisticamente “fluida”, ma rischia di essere meno autentica di quando, goffa e con i segni del disagio adolescenziale, mostrava genio in Sciccherie e Anna. Solo due anni fa.

MALIKA AYANE – 5,5 Voce da quartieri alti, e un delizioso birignao: Malika è una di quelle che agli apericena ti fulmina con un “tu di cosa ti occupi” e poi si gira annoiata. Figa e sfuggente.

MANESKIN – 8,5 Hanno provato a inguaiarli con una risibile accusa di plagio. Che per chi fa rock è una medaglia, come sanno i Led Zeppelin. Botta incendiaria. Honni soit.

MAX GAZZÈ – 6 Dopo aver studiato il bugiardino del testo e auscultato il musicale borbottio la diagnosi è chiara: Max soffre di gazzeismo autoreferenziale coattivo. Esistono cure.

NOEMI – 8 S’è guadagnata le copertine con la sua metamorfosi. Ora sa pure scavare meglio dentro la voce: meno tecnica e nuove consapevolezze. Glicine sembra fragile, ma cresce. Un inno di rinascita.

ORIETTA BERTI – 7 Prendete una squinzia dei social e catapultatela a Sanremo tra 60 anni. La farebbero a pezzi. Invece Orietta canta ancora meglio di tante pronipoti. Lezione di vita.

RANDOM – 2,5 Amadeus: “Ho selezionato 26 brani, non potevo toglierne alcuno”. Eccoci costretti a far le due di notte per il buon vicinato defilippiano. Ciarpame da buttare nell’umido.

WILLIE PEYOTE – 8 I maligni sospettano che l’O tempora, o mores del rapper sia un’operetta morale acchiappalike costruita a tavolino. L’importante è che sia solida. E lo è.

Floyd, la giustizia può attendere

La Camera a Washington ha approvato il George Floyd Justice in Policing Act, il disegno di legge che prende il nome dal giovane afroamericano soffocato dagli agenti di polizia a Minneapolis nove mesi fa e che diede il via alle mobilitazioni del movimento Black Lives Matter. Eppure la giustizia per George non sarà così veloce, per due ragioni: la prima è che sarà il Senato a dover dare l’approvazione definitiva, e, benché la riforma sia in mano ai Democratici, resta lo scoglio dei Repubblicani che non ha intenzione di votarla. Mercoledì alla Camera solo un deputato repubblicano del Texas ha dato il suo ‘sì’, aggiungendosi ai 219 voti a favore contro i 212 contrari. Lance Gooden è un fedele sostenitore di Trump ed ha confessato di aver sbagliato tasto nella votazione .

“Ho premuto il pulsante errato e me ne sono reso conto troppo tardi”. Il suo tweet poi è stato rimosso, forse per vergogna, cosa che non è possibile fare con il voto. Ma tant’è. Il Gop, con o senza Donald Trump non ha intenzione di approvare questa riforma. Per farlo, cioè perché al Senato il progetto Dem possa avere l’appoggio di almeno altri 10 deputati dell’opposizione, i repubblicani vogliono essere certi che i finanziamenti alla polizia non vengano tagliati. Peccato che il tema del defund the police, cioè del taglio delle risorse alle forze dell’ordine, non divida solo maggioranza e opposizione, ma anche gli stessi democratici. A iniziare dal presidente Joe Biden che si è sempre detto contrario. I radicali preferirebbero che alcune somme venissero destinate al sociale e che funzioni di ordine pubblico venissero gestite da specialisti non violenti, addestrati, ma Biden non concorda e su questo ha dato rassicurazioni alla Fraternal Oerde of Police, un sindacato con cui ha sempre avuto ottimi rapporti. Gli Stati Uniti spendono ogni anno circa 100 miliardi di dollari per la polizia, più 80 miliardi per le carceri. Solo la spesa per gli agenti rappresenta da uno a due terzi del bilancio di una grande città americana. Un esempio è New York, che ha a disposizione per la polizia un budget di 6 miliardi di dollari, di cui l’89% va ai costi del personale, aumentato negli anni 2014-2019 del 6%. Con Biden anche il resto dei moderati dem è contrario al defund the police, non rientrato per questa ragione nel disegno di legge presentato dalla deputata della California Karen Bass. “Nessuno vuole smantellare la polizia”, ha detto il deputato Henry Cuellar, un democratico moderato del Texas che addirittura spinge per ulteriori finanziamenti agli agenti in luoghi come la sua città, Laredo, dove la presenza delle forze dell’ordine è più che mai necessaria, data la vicinanza al confine messicano. La seconda ragione per cui George, che ha ispirato uno dei punti della riforma, e cioè che alle forze dell’ordine venga negata la prassi della stretta al collo (chokehold) (“Non respiro”, sono state le ultime parole del giovane di Minneapolis a terra mentre un agente gli teneva il ginocchio sul collo), non vedrà presto una vera giustizia è che qualora anche il disegno di legge dovesse essere approvato, secondo gli analisti, questo non cambierebbe di fatto ciò che accade per le strada americane da decenni. “Il testo non cancellerà secoli di razzismo sistemico” negli Stati Uniti, ha dichiarato prima del voto la stessa speaker democratica della Camera, Nancy Pelosi, che ha sottolineato però l’“enorme passo” in direzione “della costruzione di una relazione migliore, più sana” tra la polizia e le comunità che essa serve, che la riforma permetterebbe di intraprendere. Visione quanto mai utopistica, invece, secondo lo studio dei professori John Rappaport, (University of Chicago Law School) e Ben Grunwald (Duke University School of Law) citato dal Washington Post. Il report, infatti, racconta tristemente come su 100 mila agenti di polizia impiegati in Florida per un periodo di 30 anni, circa 1.100 pur essendo stati sanzionati, fossero poi stati ricollocati in altri dipartimenti dello stesso Stato. Si tratta dei cosiddetti “ufficiali vagabondi”, che interagiscono con migliaia di cittadini ogni anno, reiterando spesso gli stessi reati per i quali sono stati allontanati, di solito reinserendosi in dipartimenti più piccoli, con meno risorse, ma in aree con comunità di colore più grandi.

E, dato più importante, hanno maggiore probabilità di ricevere una denuncia per una “grave violazione dell’etica del lavoro”. Questi aspetti, che hanno portato alla morte di Floyd – nella quale erano coinvolti agenti già segnalati per abusi – non vengono di fatto aggrediti dalla riforma votata alla Camera. Ma un piccolo passo avanti secondo Rappaport e Grunwald ci sarebbe nella proposta Dem e si tratta del database degli agenti licenziati per abusi, insieme al quale, però, sottolineano, bisognerebbe abbattere il concetto di “poliziotto cowboy”, in grado di operare a ritmi sostenuti, il che più delle volte rende più facile far ricadere la scelta tra gli agenti esperti anche a costo di “tralasciare” la loro condotta. Il disegno di legge in nome di Floyd prevede anche la fine nei casi di reati per droga dei mandati di perquisizione con irruzioni improvvise, pratica questa costata la morte dell’infermiera Breonna Taylor, oltre a porre fine alla cosiddetta “immunità qualificata” di cui godono gli agenti in caso di azioni disciplinari a loro carico che prevedono richieste di danni per cause civili.

“Ero Freddie Mercury, ma solo sotto la doccia. Poi il canto sul web…”

Ieri era un ragazzino timido, preda facile dei bulli a scuola. Oggi è il cantante che ha aperto la seconda serata di Sanremo senza neanche una sbavatura, con una canzone destinata a sopravvivere all’Ariston e alle sue poltrone vuote. Wrongonyou, che poi si chiama Marco Zitelli, ha 30 anni, viene da Grottaferrata ed è una delle nuove proposte di un Festival di Sanremo in cui il futuro della musica è tutto da improvvisare.

Sbaglio o per poco non facevi il calciatore?

C’è stata una specie di sliding doors, nella mia vita parallela forse ho già finito la carriera e ho una villa a Malibù. A 9 anni giocavo a calcio, ero molto alto e mi mettevano in difesa, però segnavo anche molti gol. I giornali locali cominciarono a scrivere qualche articolo su di me, un giorno viene Bruno Conti a farmi un provino. Io quella mattina mi rompo la caviglia.

A quel punto?

Mi compro una chitarra.

Che ragazzino eri?

Avevo i capelli ricci e lunghi, mi davano della “femmina”. Ero molto alto, troppo per alcuni. Mio padre aveva aperto una pizzeria, mi davano del figlio del pizzaiolo con toni di dileggio. Sono stato bocciato due volte, i miei sono separati, a 14 anni ho chiesto aiuto.

A chi?

A mia madre, che mi ha portato da uno psicologo. Mi aveva montato un mini-canestro nel suo studio, così io che ero molto chiuso parlavo mentre giocavo.

La chitarra ti ha aiutato a vincere la timidezza?

Sì, ma anche quando ho iniziato a stare sul palco non cantavo mai, facevo solo il chitarrista.

Non ti piaceva cantare?

Ero Freddie Mercury, ma sotto la doccia. Poi una volta ci fu un Festival vicino a Cinecittà a Roma, c’era un buco tra un’esibizione e l’altra. Mi offrii di fare delle cover, cantando. Fu un successo che mi diede coraggio.

E inizi cantare in inglese.

Sì, l’inglese mi fa da scudo, l’idea che non si capisca nell’immediatezza quello che dico mi rassicura.

Studiavi anche storia dell’arte.

Volevo dirigere un museo. Avevo il patentino come guida, a volte facevo anche quello che dava i biglietti, a volte quello che diceva “Ti prego non toccare il quadro sennò mi licenziano”, è stato bello.

Poi però non ti laurei.

Volevo fare musica. Comincio a mettere le mie canzoni sul web, in particolare “Killer” nel 2016 su Spotify che ha un successo pazzesco. Vinco Arezzo Wave.

E ti chiama “Carosello Records”.

Mi hanno fatto un grande regalo subito mandandomi un mese in California per registrare il primo disco, ho aperto il concerto di Levante all’Alcatraz. Poi molte delle mie canzoni diventano colonne sonore di film e serie, tipo “Baby”.

Ti chiama anche Alessandro Gassmann.

Un giorno mi telefona e mi chiede di fargli la colonna sonora per un suo film, Il premio. Io entusiasta. Poi mi richiama e mi dice “Ho visto dei tuoi video su YouTube, ti va di recitare?”. Mi dà il ruolo del nipote di Gigi Proietti. Per me un sogno, perché con mio nonno Bruno non ci perdevamo un suo show.

Come è stato il set con Gigi?

Bellissimo. Aveva 77 anni e una gentilezza incredibile. L’unica volta che l’ho sentito domandare una cosa è stato quando ha chiesto ad Alessandro “Mi inquadri a mezzobusto? Allora posso rimanè in ciavatte’?”. Nella scena del film in cui lui va a ritirare il nobel in smoking, sotto aveva le ciavatte!

Ti ha sentito cantare?

Una volta nella saletta fumatori dell’hotel mi chiede se gli canto qualcosa. Accende la sigaretta e mentre canto non fa neanche un tiro, poi applaude. Che emozione. Dopo Sanremo la sua compagna Sagitta mi ha mandato un messaggio, mi ha reso felice.

Poi arriva il lockdown.

Che cambia tutto. Torno a Grottaferrata e con la pandemia faccio i conti con quello che sono. Ho capito che non ero libero. Che le mie canzoni non erano sincere del tutto.

Cioè?

Per esempio pensavo al music business. Che so, “Ora tolgo questa frase così il ritornello entra nei secondi che servono per rendere il pezzo radiofonico”. Poi mi sono guardato allo specchio e ho capito che mi mancava l’amor proprio.

Per via del peso?

Pesavo 120 chili, sono dimagrito 20 chili in quarantena.

Come Noemi!

Eravamo anche vicini di casa ma giuro che non abbiamo fatto la dieta insieme.

E la musica?

Ho scritto 20 canzoni, tutte in italiano. Dieci sono nel nuovo album, Lezioni di volo. È stato un momento in cui mi sono fermato e ho potuto guardarmi nel profondo. Ero troppo proiettato sui like, sui sold-out. In quarantena mi sono dimenticato dei numeri, mi sono ricordato di me.

Cosa ti ha colpito in quei mesi?

Una persona che conoscevo, un batterista, si è ucciso durante la quarantena. L’altro giorno parlavo con un direttore d’orchestra, mi dice che ha chiamato il miglior batterista in circolazione per registrare una cosa e quello gli ha risposto che doveva chiedere al datore di lavoro, si è messo a fare il piastrellista.

Per te invece è arrivato Sanremo.

Un Sanremo strano, vai a cantare, ti misurano la febbre, entri nella red room solo, ti esibisci, ti ridanno il cappotto e torni in hotel. Non vivo il bagno di folla, le cene, il Sanremo goliardico.

Neanche una gioia?

Ho incrociato Orietta Berti in camerino perché cantava dopo di me. Aveva il disegno di due capesante sulle sise, era pazzesca.

Altre gioie?

Il messaggio di Jovanotti. Mia mamma poliziotta che è fiera di me. E poi cantare con un’orchestra. Io a Elvis invidiavo non le donne o il ciuffo, ma il fatto che avesse un’orchestra a disposizione tutte le sere. E poi i bulletti dell’epoca che scrivono sui social “Marco è un vecchio amico”. In fondo la malinconia che ispira tanta mia musica è un regalo loro.

Istat: “1 milione di poveri assoluti in più”. Ancora in dubbio il Rdc

Un milione di poveri assoluti in più. In pochi mesi, l’emergenza Covid ha frantumato i progressi ottenuti dal Reddito di cittadinanza nella lotta all’indigenza. Con la pandemia, 335 mila famiglie italiane sono sprofondate nel disagio economico. Le persone in povertà, quindi, hanno raggiunto la cifra record di 5,6 milioni, dopo che nel 2019 – con l’arrivo del sostegno dal governo Conte 1 – erano scese a 4,6 milioni, con un calo di oltre 400 mila rispetto al 2018. Questa la fotografia fornita ieri dall’Istat. Colpito soprattutto il Nord Italia, che ha fatto per primo i conti con il virus: qui l’aumento è di 720 mila individui; l’incidenza è passata dal 6,8% al 9,4%. Nel Mezzogiorno incremento di 186 mila, ma l’incidenza resta la più alta del Paese, all’11,1%. La percentuale tra i nuclei numerosi è arrivata al 20,7% (lo scorso anno al 16,2%). Mentre la crisi presenta il conto in termini di nuovi poveri, la maggioranza discute sul decreto Sostegno (ex Ristori 5). L’ex ministra Nunzia Catalfo aveva inserito, in vista delle nuove richieste, un miliardo aggiuntivo ai fondi destinati al Reddito di cittadinanza, misura che finora ha contenuto i danni economici del Covid. Ancora non c’è certezza matematica di portarlo a casa, perché mentre il precedente governo era solido su questi interventi – con l’eccezione di Italia Viva – oggi la presenza di Lega e Forza Italia rende meno scontato il passaggio di queste misure. Il Movimento Cinque Stelle insiste affinché la dote non venga stralciata: “Durante la pandemia – dice al Fatto il deputato del M5s, Sebastiano Cubeddu – il Reddito di cittadinanza ha aiutato concretamente quasi 1,5 milioni di famiglie. Senza la misura, la situazione sarebbe stata di gran lunga peggiore. Proprio a causa della crisi economica dovuta al Covid, il numero dei percettori è cresciuto, circostanza che rende necessario, nel decreto Sostegno, un incremento delle risorse per rifinanziarlo stimato in un miliardo di euro. Per il M5s è imprescindibile”.

Ora il super burocrate Fortunato dovrà scegliere tra posto fisso e incarichi extra

Mala tempora (currunt) anche per chi ha da sempre la sorte dalla sua. Come Vincenzo Fortunato, avvocato di grido con clienti di rango ed eterno liquidatore della Stretto di Messina spa, incarico quest’ultimo che da solo gli frutta da tempo 120 mila euro all’anno, mica bruscolini. Epperò da qualche giorno il vento è cambiato. Dopo cinque anni di dura battaglia legale contro la Scuola nazionale dell’Amministrazione (Sna) che gli paga uno stipendio da urlo come docente a tempo pieno e, in teoria, con obbligo di esclusiva, ora è a un bivio: il Consiglio di Stato ha deciso che lui e i suoi altri colleghi che avevano contestato la loro equiparazione ai professori universitari a tempo indeterminato devono scegliere tra il posto fisso alla Sna e gli altri incarichi extra. Fortunato si era rivolto al Tar nel 2016 dopo che l’anno precedente Palazzo Chigi aveva varato un regolamento sul trattamento economico da riconoscere ai docenti che era andato di traverso a lui e ad altri suoi colleghi. Che in origine godevano di ben più lauti compensi alla Scuola superiore dell’economia e finanze (Ssef) potendo continuare anche ad arrotondare alla grande con l’attività libero professionale. In primo grado Fortunato, già potente capo di gabinetto del ministro dell’Economia Giulio Tremonti aveva vinto su tutta la linea: i giudici avevano deciso che gli andava conservato lo status precedente e che era stato illegittimo chiedergli indietro ben 25 mila euro, ossia la maggiorazione di stipendio di cui aveva continuato a godere nel passaggio alla Sna, e che già aveva speso (come egli stesso aveva lamentato) per far fronte alle non modeste necessità familiari. Così come, sempre secondo il Tar, era stato ingiusto applicargli il regime di incompatibilità che rischiava di penalizzarlo ulteriormente ché lui, a quei redditi extra, ci aveva fatto affidamento. Poi però la questione era passata in appello al Consiglio di Stato e di lì alla Consulta che nel 2019 aveva praticamente emesso un verdetto senza scampo: ossia che Palazzo Chigi non aveva violato alcuna prerogativa di Fortunato & C. né calpestato alcun valore costituzionale. E così quando il ricorso è stato riassunto di fronte ai giudici amministrativi di secondo grado, la sentenza era ormai scritta: i docenti ex Ssef dovranno accontentarsi di quel che passa il convento e scordarsi i 2,3 milioni di euro di differenze retributive che puntavano a incassare se avessero vinto in giudizio. E dovranno pure smettere di esercitare l’attività libero professionale che per Fortunato sarebbe una rinuncia dolorosissima. Ma l’alternativa a questo punto appaiono solo le dimissioni.

Digos e terrorismo, Giannini nuovo capo della Polizia

Si è fatto le ossa gestendo con equilibrio le turbolente piazze romane degli anni 90, poi ha coordinato le indagini che nel 2003 hanno chiuso la breve sanguinosa stagione delle nuove Brigate rosse, responsabili degli omicidi dei giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi e del poliziotto Emanuele Petri. Da allora il prefetto Lamberto Giannini, nominato ieri capo della Polizia di Stato, ha diretto la Digos della capitale, l’antiterrorismo e la polizia di prevenzione, mettendo a segno significative operazioni come l’arresto di un uomo che aveva tentato di farsi esplodere nella metropolitana di Londra nel 2005 e degli estremisti che volevano attentare al G8 della Maddalena.

Romano, 57 anni, laureato in legge, in polizia dal 1989, Giannini prende il posto di Franco Gabrielli che vent’anni fa era il suo capo alla Digos di Roma e nei giorni scorsi ha assunto l’incarico di sottosegretario delegato ai Servizi segreti e consigliere per la sicurezza del presidente del Consiglio. Le due carriere sembrano quasi inseguirsi. Solo il 2 gennaio scorso Gabrielli aveva chiamato Giannini a capo della sua segreteria al Viminale. Entrambi hanno la sensibilità e la professionalità per affrontare le eventuali tensioni sociali legate alla crisi indotta dalla pandemia.

Lazio, mascherine farlocche: 2 milioni pure negli ospedali

Ben due dei 5 milioni di mascherine farlocche, acquistate a marzo 2020 dalla Regione Lazio, sono state distribuite a medici e infermieri negli ospedali romani. Gli altri 3 milioni di dispositivi sono invece rimasti fermi nei depositi della Regione Lazio. Il dato emerge dall’inchiesta della Procura di Roma per truffa in pubbliche forniture, che vede indagati gli editori Andelko Aleksic e Vittorio Farina, rispettivamente il rappresentante legale pro-tempore e delegato del fornitore European Network Tlc srl.

Come è potuto accadere? È la Guardia di finanza a mettere in fila le date. Le mascherine sono state distribuite a partire dal 31 marzo 2020, data della prima consegna. Il primo alert delle Dogane sulla validità delle certificazioni è del 7 aprile e riguarda solo una tranche di Dpi, con la Protezione civile del Lazio che due giorni dopo, il 9 aprile, blocca la distribuzione in attesa di chiarimenti. La lettera alla Regione con cui le Dogane dichiarano “prive di idonea certificazione” le mascherine della Ent srl è però del 6 maggio 2020, un mese dopo. Qui entra in gioco la presunta falsificazione dei certificati, su cui si indaga. Nel mese di giugno, a quanto ricostruito, gli indagati si adoperano per ottenere una certificazione Sgs che dichiari la validità dei Dpi. Il documento viene prodotto l’8 luglio e spinge il Comitato Tecnico Scientifico nazionale a dare il nulla osta alle mascherine. Ma, come poi verificato dai finanzieri, la validazione riguarda un prodotto del tutto diverso da quello fornito alla Regione.

Non solo Lazio. L’inchiesta romana si allarga anche alla Regione Sicilia, cui la società di Aleksic ha venduto 1 milione di guanti per 5,3 milioni di euro. A questa partita, nelle carte gli inquirenti collegano gli 58.784 euro, pagati dalla Ent srl all’ex ministro Francesco Saverio Romano, indagato per traffico di influenze. In sede di perquisizione, Romano ha prodotto giustificativi che gli inquirenti però ritengono “fittizi”.

Comitati e ambientalisti scrivono a Draghi e Cingolani: “Autorizzazioni più trasparenti”

In 200 tra associazioni e comitati, tra cui Friday for future, Forum dell’Acqua e Italia Nostra hanno indirizzato una lettera al presidente del Consiglio Mario Draghi, al ministro della Transizione ecologica, al ministro dei Beni culturali, alla Commissione europea e ai parlamentari. Il ministero dell’Ambiente – si legge – è “gravemente inadempiente sulle norme europee” legate alle procedure di Valutazione ambientale” e aggiungono che “serve un immediato stop ai progetti fatti male dopo le ammissioni del presidente della commissione Via”. L’appello arriva dopo alcuni articoli, nelle scorse settimane, sul Sole 24 Ore relativi un presunto “ingorgo” di progetti in attesa di Valutazione di Impatto Ambientale, mai confermato e incagliato al ministero. Accanto, l’appello del presidente della commissione Via che tra le cause individuava la scarsa accuratezza dei progetti. La richiesta è di “una rigorosa applicazione delle normative comunitarie sulle procedure. Dovrebbero essere realmente connotate da trasparenza e partecipazione del pubblico richieste dall’Ue”.