Ci vuole Bertolaso anche per il Festival

Com’è possibile che “il Festival della rinascita” voluto a tutti i costi (e in effetti il Covid-19 sta rinascendo alla grande), tenuto a forza nell’irrealtà mentre “il Paese reale” è rassegnato alla distanza, senza alcuna controprogrammazione non solo in tv ma anche in famiglia; com’è possibile che abbia mietuto ascolti così deludenti? Non sarà il caso di chiamare Guido Bertolaso a dare una mano? Ma no: un’ipotesi che in Rai farebbero bene a non sottovalutare è che i dati di ascolto siano falsi. Sarebbe una questione di congruenza: in questo Sanremo, da cui chi può se ne sta comprensibilmente alla larga, si fa finta di nulla, quindi di tutto. È finto il pubblico, sono finti gli applausi, finta l’atmosfera, finta la scaletta dettata dall’emergenza, finte le pause di Ibrahimovic, finti i ristori (Ibrahimovic per Celentano, Malika Ayane per Lady Gaga), poco credibili le iniezioni di politicamente corretto. Nel clima da sala da ballo del Titanic – ma sul Titanic avevano cominciato a ballare prima di incontrare l’iceberg, non alla terza ondata – di vero c’è solo il vuoto della platea, l’unica faccia non di circostanza è quella di Fiorello, che per sua e nostra fortuna è abituato a cucinare con gli avanzi. Fa tutto lui. Monologa, canta, balla, risponde al telefono, dialoga con il velluto rosso delle poltrone (comunque più al loro posto di Ibrahimovic), soprattutto duetta con Amadeus secondo il vecchio schema della coppia comica – Fiore le dà, Ama le prende (lui però dovrebbe cercare di non ridere ininterrottamente, altrimenti non si capisce dov’è la battuta).

E dunque, saranno finti anche gli ascolti? Più probabile il contrario: gli ascolti sono la voce della verità, perché quando la platea di un teatro è vuota niente la può riempire. E se non c’è nulla da festeggiare, la voglia di festeggiare non te la puoi e non te la vuoi dare. Bertolaso rimanga pure in Lombardia a lunghi passi: stavolta Sanremo non è Sanremo.

Chi vuole uccidere l’abuso d’ufficio

C’era una volta l’interesse privato in atti d’ufficio. L’art. 324 del codice penale puniva con la reclusione da sei mesi a cinque anni e con la multa da lire 200mila a 4 milioni il “pubblico ufficiale, che, direttamente o per interposta persona, o con atti simulati, prende un interesse privato in qualsiasi atto della Pubblica amministrazione presso la quale esercita il proprio ufficio”. Non avrebbe senso, infatti, punire la corruzione (cioè il comportamento del pubblico ufficiale che in cambio di denaro o altra utilità, o della promessa di questi facesse un favore ad altri) e non punire chi lo facesse a se stesso.

Per esempio, se il dirigente dell’Ufficio tecnico comunale rilascia una licenza edilizia a chi lo paga commette il delitto di corruzione. Se la rilasciava a se stesso commetteva il delitto di interesse privato in atto d’ufficio. Questo delitto fu abrogato dall’art. 20 della legge 26 aprile 1990, n. 86, intitolata “modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione”. L’art. 13 della stessa legge modificava l’art. 323 del codice penale “Abuso d’ufficio” in questo modo: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, abusa del suo ufficio, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione fino a due anni. Se il fatto è commesso per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, la pena è della reclusione da due a cinque anni”. Quindi il comportamento che rientrava nel delitto di interesse privato in atti d’ufficio veniva fatto confluire nell’abuso d’ufficio e la pena minima veniva anche innalzata.

Con la legge 16 luglio 1997, n. 234 il testo dell’art. 323 del codice penale fu così modificato: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”.

La previsione del dolo intenzionale riduceva molto la portata dell’applicazione di questo reato. Con questa modifica non era più consentito adottare misure cautelari personali (cioè disporre la custodia) di chi fosse raggiunto da gravi indizi di colpevolezza per questo reato. Con la legge 6 novembre 2012, n. 190 la pena fu fissata da uno a quattro anni, così consentendo gli arresti domiciliari, ma non la custodia in carcere.

Infine, con l’art. 23 dl 16 luglio 2020, n. 76, all’articolo 323, primo comma, del codice penale, le parole “di norme di legge o di regolamento”, sono sostituite dalle seguenti “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Non è quindi più punibile qualsiasi violazione riconducibile all’eccesso di potere, vizio dell’atto amministrativo, nell’ambito della discrezionalità.

Il presidente della Sesta Sezione penale della Corte di cassazione Giorgio Fidelbo, in una recente intervista ha affermato che, alla luce di tale restrizione, tanto vale abolire il reato di abuso d’ufficio.

Chiedo scusa per questa noiosa elencazione ma era indispensabile per comprendere lo stato della normativa sull’abuso d’ufficio, di cui ora, taluni chiedono l’abrogazione per ragioni opposte a quelle che hanno indotto il presidente Fidelbo a quella affermazione.

Si racconta la favola della sindrome della firma: i funzionari pubblici avrebbero il terrore di firmare per non rischiare una incriminazione per abuso d’ufficio e ciò paralizzerebbe l’attività politica e quella della pubblica amministrazione.

Faccio fatica a comprendere come si può avere paura di un simile reato se si sono tenuti comportamenti corretti.

Per essere chiari io sono stato denunciato innumerevoli volte per abuso d’ufficio e non mi sono mai impressionato: male non fare paura non avere. I miei provvedimenti erano motivati le ragioni della loro adozione erano spiegate. La sindrome della firma era comprensibile nel tardo impero romano, quando i decurioni (amministratori locali) furono tenuti a garantire il pareggio di bilancio delle città, rispondendone personalmente. Una carica ambitissima non trovò più aspiranti, tanto che venne resa coattiva.

In Italia, a ogni tornata di elezioni amministrative, abbiamo circa 80.000 candidati e ciò mi induce a credere che non sia così temuto ricoprire cariche pubbliche.

Sul Sole 24 Ore del 16 giugno 2020 Antonello Cherchi, Ivan Cimmarusti e Valentina Maglione riferiscono che: “Ogni anno ci sono migliaia di procedimenti in materia di abuso d’ufficio; nel 2018 quelli definiti da Gip e Gup sono stati più di 7mila. La gran parte finisce nel nulla: oltre 6mila sono stati archiviati. Le condanne sono poche – nel 2017 a fronte di oltre 6.500 cause, l’Istat ne ha contate 57 – e arrivano a distanza di anni, quando il danno per la reputazione del dipendente pubblico è fatto. Questo non impedisce, però, che i funzionari pubblici abbiano paura e nel dubbio preferiscano non fare. È il fenomeno della burocrazia difensiva, sul quale il governo ha intenzione di intervenire. Di riformare l’abuso d’ufficio si parla da tempo, per esempio delimitando il perimetro di azione del reato”. A parte la difficoltà di capire perché vi sarebbe un danno per la reputazione del dipendente pubblico per il ritardo delle condanne (si tratta probabilmente di un lapsus), ciò che ci si dovrebbe chiedere è come mai così tante persone sporgono denunce per abuso d’ufficio, anziché proporre di abolire i reati, provare a migliorare efficienza e immagine della Pubblica amministrazione.

Ma tornando alla proposta abolizione del reato di abuso d’ufficio, davvero si può ritenere che, per esempio, un funzionario pubblico (elettivo o dipendente) possa vendere a se stesso un bene di proprietà dell’ente in cui svolge le funzioni, magari a prezzo di favore, senza risponderne penalmente?

 

Quell’ottimo rum da 2 mila euro

Fiacca, settimana molto fiacca qui a Criminopoli. Dal 25 febbraio a oggi si contano appena 9 nuovi indagati per corruzione e 8 per associazione mafiosa. Appena un nuovo indagato (o poco più) al giorno! Ma siccome è la somma che fa il totale manteniamo alto il morale: i nuovi indagati per corruzione nel 2021 sono ben 164 (2,5 al dì) mentre gli accusati di mafia salgono a 503 (7,9 ogni 24 ore. E poi, diciamolo, siamo molto soddisfatti dei nostri amministratori locali: Libera, l’associazione contro le mafie, ha appena scoperto che, su 1.076 comuni, ben 670 (il 62 per cento) non hanno pubblicato l’elenco dei beni confiscati. Elenco che consente ai cittadini di fare domanda per il loro utilizzo. Benissimo, andiamo avanti così! Confische e sequestri di beni alle mafie: questa settimana si contano 102,4 milioni per un totale di 973 (15,4 al giorno). E se queste sono le cifre sequestrate… immaginate che ricchezza gira qui a Criminopoli. E ora il premio mazzetta della settimana: il vincitore è Maurizio Piscitelli, ispettore del Miur e provveditore agli studi, indagato dalla Procura di Vibo Valentia. Resta inteso che, sebbene simbolico, il premio gli sarà revocato in caso di assoluzione o archiviazione. L’inchiesta riguarda la presunta compravendita di diplomi, attestati e master e scambio di favori tra dirigenti della pubblica istruzione. Secondo i pm, Piscitelli attestava la legittimità dell’istituto Fidia e in cambio otteneva soldi. Già, ma come li incassava? “…dentro la bottiglia del Rum gli mette… quella rimanenza… La bottiglia… chi c’è l’ha?” chiede uno degli intercettati. “Io” risponde tale Igor “gliela porto a Davide che gliela porta a lui… che è un liquore che costa 70 euro”.

Ah, dimenticavamo: lo Stato non cattura Matteo Messina Denaro da 10.137 giorni.

Se l’amministrazione è inefficiente, conta poco la democrazia

“Lasciate che gli sciocchi litighino sulle forme di governo, la meglio amministrata è la migliore.” declamava Alexander Pope nel Saggio sull’uomo del 1734. Nello stesso secolo quell’affermazione fu respinta come assolutamente fallace (J. Adams) o eresia politica (Madison). Kant la derise con la similitudine di chi morde una noce e ci trova un verme, cioè la pessima sorpresa di un regime dispotico. Ancora oggi vi è chi non ha compreso il senso delle esaurienti critiche di quei Maestri e pratica nell’amministrazione metodiche confliggenti proprio con la forma democratica del governo. È quanto avviene in Italia, dopo un trentennio d’infauste riforme che hanno imposto una pesante soggezione alla dirigenza pubblica, sottraendole la capacità di perseguire interessi pubblici non graditi al potente di turno. Per desertificare le competenze si è reso necessario:

a) Eliminare la responsabilità del preposto politico da processi penali e contabili per gravarla sulla dirigenza. La manovra risale significativamente ai tempi di Mani Pulite e si fonda sul falso aforisma che l’imputabilità politica e quella gestionale sono concettualmente e funzionalmente diverse. In realtà, il preposto politico detta la decisione al dirigente, obbligato a eseguirla assumendone la responsabilità.

Non meraviglia perciò la fuga dalla firma dei dirigenti, esposti sia alle intimazioni della politica sia a una pletora d’autorità e organi che reclamano la perfetta applicazione di una massa mostruosa di regole e codicilli, con la minaccia di pesanti sanzioni. La fuga dalla firma continuerà anche se l’Amministrazione si assume l’onere di pagare un’assicurazione per la copertura delle spese legali, come ora prospettato dalla Funzione Pubblica: irragionevoli e salate sanzioni per violazioni di mera forma da un’autistica produzione normativa costituiscono una remora difficilmente superabile;

b) Conferire al preposto la potestà d’ordinare il settore secondo i suoi desiderata (la norma capostipite è il c. 4 bis dell’art. 17 l. 400/1988), in palmare contrasto con l’art. 97 Cost., senza contare che i continui cambi organizzativi condannano l’amministrazione a un’affannata inefficienza;

c) Eludere con arroganza l’art. 97 Cost. che impone il pubblico concorso per l’accesso all’impiego nelle pubbliche amministrazioni per favorire amici e raccomandati. Le conseguenze in termini di cattiva amministrazione sono sotto gli occhi di tutti;

d) Esportare la tecnica dello spezzatino dal campo delle liberalizzazioni a quello costituzionale. In sede di liberalizzazioni, con lo spezzatino, si creava una bad company da rifilare alla struttura pubblica mentre la parte sana e fruttuosa dell’impresa veniva svenduta agli “amici” privati. Lo spezzatino delle attribuzioni ha prodotto solo confusione e conflitti irrisolvibili nonostante gli sforzi della Corte costituzionale;

e) Comprimere con la minaccia di sanzioni disciplinari la libertà di espressione e perfino i contributi scientifici dei pubblici dipendenti, poiché la comunicazione resta prerogativa esclusiva del preposto politico, quasi eguagliando i metodi coercitivi di un triste passato.

Queste gravi distorsioni derivano da una concezione amorale della politica, nemica delle regole utili alla collettività e dalla smaccata propensione per gestioni di diritto privato, nelle quali dare sfogo all’arbitrio incontrollabile. Una rara concentrazione di errori e abusi che sembra dar ragione a Pope: non importa se una forma di governo è democratica se poi l’amministrazione è tutt’altro che ottimale. Quelle distorsioni hanno fortemente contribuito alla decrescita infelice dell’Italia dagli anni 90 in poi. Tutte le proposte di contrasto (più Europa, più mercato, più merito, più decisionismo politico, meno burocrazia) enunciate da Soloni di complemento, novelli Adam Smith o nostrani rappresentanti delle Giovani Marmotte si risolvono in formule vuote e pretenziose se non si pone mano a una riforma seria e democratica dell’ordinamento amministrativo.

 

Debito, DPCM, New management: dizionario dei silenzi di Draghi

Caro Direttore, urge fornire ai lettori un vocabolario minimo per tradurre i silenzi di Draghi e il linguaggio astruso dei tecnici in provvedimenti tecnicamente di destra.

Dpcm: Decreto del Precedente Consiglio dei Ministri. Identico ai precedenti ma più attento alle richieste di Renzi, Salvini e Bonaccini (che ambisce al ruolo di prossimo segretario del partito, ma dovrà vedersela con Zaia).

#PrimaLaScuola: “Chiudiamo prima la scuola dei centri commerciali”. Draghi traduce gli slogan di Renzi-Salvini-Bonaccini in fatti concreti e abbandona il fallimentare modello dell’alternanza scuola-lavoro in favore del più realistico alternanza scuola-disoccupazione.

Zona Arancione Rafforzata: Zona Rossa con scappellamento a centrodestra. Scuole chiuse come in Zona Rossa ma negozi e centri commerciali aperti perché da qualche parte bisogna pur assembrare i ragazzi mentre i genitori sono al lavoro a produrre beni non essenziali. Parte l’appalto per i camerini a rotelle da Zara e H&M. La perifrasi cromatica dell’arancione rafforzato – preferita alla precedente ipotesi di “Zona Magenta”, che avrebbe mandato in confusione il governatore Fontana convinto di dover chiudere le scuole solo a Magenta in provincia di Milano – rende più gradevole alle famiglie la prospettiva della chiusura delle scuole. La stessa Lega non è più da considerarsi un partito di destra ma un partito di centrodestra rafforzato.

Democrazia diretta: Democrazia diretta da Beppe Grillo.

“La Lega è al governo con Draghi ma resta alleata di Fratelli d’Italia sui territori”: Politica dei due forni per i migranti.

Governo tecnico-politico: Governo con pochi tecnici ai posti di comando e molti politici nel ruolo-guida di capro espiatorio.

Governo dei migliori: definizione coniata nelle redazioni dai giornalisti terrorizzati dalla prospettiva di un Nuovo Rinascimento.

Entriamo più nel tecnico e spieghiamo i concetti alla base della teoria economica di Draghi e del suo ghost writer Giavazzi:

Debito Buono = soldi dati alle imprese per fare profitto.

Debito Cattivo = soldi dati ai disoccupati per sopravvivere.

New Public Management = Old Capitalism. Scuola di pensiero secondo la quale per amministrare la cosa pubblica non servono politici, ma manager in quanto, secondo uno studio che Giorgetti, Salvini e Durigon attribuiscono a Milton Friedman dal titolo “Andiam, andiam, andiamo a lavorar!”, i manager sembrerebbero più propensi a dare soldi a fondo perduto ai manager. I quali manager, a loro volta reinvestono il denaro nella creazione di posti di lavoro (plurale perché sono due: uno da broker a Wall Street, uno da skipper nel mar dei Caraibi).

Austerità espansiva = Tagli alla spesa pubblica votati da una maggioranza che si è espansa da LeU alla Lega.

“Far incontrare la domanda e l’offerta di lavoro”. Fatto: il manager Cingolani lascia l’industria bellica Leonardo e approda al governo, l’ex ministro ed esponente di punta del Pd Minniti va a lavorare per Leonardo dove continua a occuparsi di cacciabombardieri.

Teoria dello sgocciolamento o del trickle-down: teoria secondo la quale i benefici fiscali concessi ai più ricchi producono come conseguenza un miglioramento delle condizioni di vita dei ceti meno abbienti in base allo stesso principio per cui il problema della disoccupazione giovanile si risolve aumentando l’età pensionabile e quello per cui per ovviare alla disparità di tutele tra precari e garantiti abbiamo tolto le garanzie ai garantiti e quello per cui abbiamo tagliato la spesa pubblica per rilanciare gli investimenti e quello per cui se prendi una donna e la tratti male e lasci che ti aspetti per ore e non ti fai vivo quando la chiami non ti risponde perché sta con un altro.

 

Il coraggio di Zingaretti, ma adesso tocca al Pd

E bravo Zingaretti. Comunque vada a finire. Speriamo voglia ricredersi chi lo definiva un ologramma, uno che “lascia dietro di sé l’eco malinconica di un vuoto”.

Le sue dimissioni rappresentano uno scatto d’orgoglio inusuale nella politica italiana, ma non per questo vanno considerate una mossa improvvisata. Complimenti a Wanda Marra che fu la sola ad anticiparne le intenzioni, il 25 febbraio scorso, su questo giornale. Dichiarando di provare vergogna per la dinamica autodistruttiva innescata nel partito dai suoi avversari interni, Zingaretti li chiama a una salutare resa dei conti; che è l’esatto contrario della falsa unanimità dietro a cui si tessevano le manovre spartitorie di corrente. L’esito del confronto che viene imposto loro dal passo indietro del segretario, non è scontato. Quanto meno si può sperare che le scelte future, anziché limitarsi alla disputa sugli organigrammi, rispondano alle domande imposte dalla situazione in cui versa il paese.

Come si contrasta l’avanzata della povertà? Che ruolo deve assumere lo Stato nella riconversione delle imprese in crisi? Il Pd vuole ancora rappresentare un’alternativa al disegno tecnocratico impersonato dal governo Draghi? Nei mesi scorsi Zingaretti s’era dovuto accorgere che diverse espressioni del padronato (posso ancora adoperare questa parola?) di lui non si fidavano. Lo trovavano inadeguato e troppo poco sensibile ai loro desiderata. I giornali “amici” si sono prestati da cassa di risonanza alle azioni di disturbo di Renzi intanto che magnificavano il leghismo moderato dei vari Giorgetti e Zaia. Il ribaltone governativo è stato celebrato come svolta provvidenziale. Tra le sue auspicate conseguenze non era prevista solo la dissoluzione del M5S, ma anche l’addomesticamento di un Pd predestinato a una collocazione centrista. Credo Zingaretti volesse reagire a quelle sistematiche punture di spillo quando sbottò contro “l’eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical chic che vuole solo sempre dare lezioni a tutti, ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo”. Sulle ragioni per cui il segretario del Pd s’è ritrovato fra le “macerie”, dovremo ritornare. Ma intanto, quando Zingaretti, subìta la caduta del governo Conte, ciò non di meno ha ribadito la validità dell’alleanza con il M5S e LeU, addosso gli è piovuta l’infamante accusa di populismo. È poi bastato un sondaggio del tutto ipotetico secondo cui il Pd precipiterebbe dietro al M5S guidato da Conte, per raffigurarlo in veste di dissipatore del patrimonio di partito. Poco importa che nel 2018 il suo predecessore Renzi avesse preso poco più della metà dei voti grillini. E che nonostante due successive scissioni Zingaretti sia riuscito a risalire di tre punti da quel baratro, respingendo il tentativo di spallata di Salvini nelle regioni un tempo “rosse”, Emilia e Toscana.

A tutti gli iscritti di quel grande partito che resta il Pd, non limitandosi ai membri della sua pletorica Assemblea Nazionale, viene ora offerta l’occasione di intraprendere un percorso doloroso ma necessario di confronto con la realtà: il bilancio mai compiuto della prolungata infatuazione renziana; ma non solo. Quando Zingaretti ricorda le “macerie” a partire da cui il Pd è chiamato a ricostruirsi – o a dissolversi, oggi è anche questa una concreta eventualità – giocoforza entra in discussione la natura stessa di quel partito; ultimo erede delle tradizioni di una sinistra italiana che al suo interno difficilmente si percepiscono. Lo ha scritto con salutare brutalità Gianni Cuperlo, uno di quei dirigenti che ancora credono che il Pd possa avere un’anima “sociale”: “Siamo un partito forte nel Palazzo e debole nel Paese”. Ricordando un dato di fatto inconfutabile: l’ultima volta che il centrosinistra vinse di misura le elezioni fu con Prodi nel 2006, quindici anni fa. Ma ugualmente per ben undici di questi quindici anni il Pd è rimasto al governo del paese. Vero è che nel frattempo il Pd si è democraticamente guadagnato il diritto di amministrare numerose città e regioni d’Italia. Ma se restare nel governo nazionale è diventata, come pare, la sua principale ragion d’essere, allora ne consegue inevitabilmente la recisione di ogni legame di rappresentanza delle classi subalterne; e la mutazione del Pd in litigiosa agenzia governativa senza neppure più la base sociale con cui la Democrazia cristiana doveva rapportarsi. La spregiudicatezza con cui gli oppositori interni di Zingaretti hanno intrapreso contro di lui un gioco di sponda, dapprima con Renzi e da ultimo – vedi l’emiliano Bonaccini – perfino con Salvini, sono la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non deve stupire che lo stesso Bonaccini, così come il sindaco fiorentino Nardella, o Matteo Orfini, provengano dalle file degli eredi del Pci, che fu anche una scuola di cinismo politico. Nicola Zingaretti ha dimostrato di essere di un’altra pasta.

 

Un’associazione di sicari, due papi viventi e un piede che a volte si addormenta

E per la serie “I kleenex accanto al computer” la posta della settimana.

Caro Daniele, mercoledì sera una mia amica di Bari ha concesso il suo corpo a un trio di ragazzi che dicevano di essere il Volo. Le ho detto che secondo me non potevano essere loro perché in quel momento il Volo era in diretta a Sanremo. Potresti dirmi se ho ragione? La mia amica vorrebbe il suo corpo indietro. Le serve per il suo lavoro (Anselma Filannino, Trani). Non saprei dirti, non ho visto quella puntata di Sanremo. Ero a Cesena in camera con una ragazza che diceva di essere Elodie.

I sicari sanno uccidere con discrezione, mentre i suicidi sono sempre in cerca di un modo sicuro per morire. Bene. Ho fondato una onlus, finanziata col 5 per mille, per unire i due gruppi: la ASS, Associazione Sicari-Suicidi. Grazie alla mia associazione, i sicari non uccideranno più vittime innocenti, mentre i suicidi non manderanno a monte le loro polizze-vita, a tutto vantaggio dei familiari. È una onlus perché svolgiamo la nostra attività per finalità esclusive di solidarietà sociale. Come ti sembra come iniziativa? (Gianni Fumagalli, Milano). Formidabile. Fate anche un corso per sicari?

Ho dodici anni e leggo il Fatto da quando ne avevo 2. Sto tutto il giorno in casa per il lockdown e mi sono accorto che c’è qualcosa che non va nel mio piede. Quando sto seduto per ore a giocare con la Playstation, dopo un po’ il mio piede è come se non lo sentissi più. Allora lo muovo, quello formicola un po’ e passa tutto. Mia madre non me la racconta giusta, secondo me. Dice che il piede mi si addormenta! Mi sembra improbabile (legge il Riformista). Oppure è possibile? Può una parte del mio corpo addormentarsi mentre il resto di me resta sveglio? E magari mentre dormo ci sono parti di me che si svegliano e fanno cose di cui non so nulla? Questa faccenda mi terrorizza abbastanza (Nicola Tumino, Enna). L’unico modo per saperlo con certezza è posizionare il tuo cellulare sul tavolo, puntarlo verso il tuo letto e lasciarlo acceso in modalità video per tutta la notte. Vedere che dormi tranquillo tutto il tempo ti tranquillizzerà, vedere che mentre dormi le ante dell’armadio si aprono e si chiudono da sole ti manderà nel panico più assoluto. A te decidere se sapere o non sapere. Alla tua età decisi di sapere, e con una telecamera VHS scoprii cosa faceva la mia mano sotto le lenzuola, mentre io dormivo (questo almeno è quello che dissi al mio confessore). Chiedi a tua mamma cos’era il VHS. Poi chiedile cos’è la masturbazione. A te decidere se sapere o non sapere.

Sono cattolica, ma trovo inquietante il fatto che i Papi siano due. Non capisco perché (Alessia Nardin, Roma). I due Menecmi, i due Zanni, Shem e Shaun, Tweedledum e Tweedledee: il raddoppiamento è l’essenza della farsa. “Numero Deus impare gaudet”: agli Dei piacciono i numeri dispari (Virgilio, Bucoliche, VIII, 75). I due Papi sono una trovata satirica in cui vedo lo zampino di Lucifero. La tua inquietudine è più che giustificata.

Adoro le battute di Flaiano (Piero Brunod, Aosta). Quando era vivo, nessuno lo citava. Hanno cominciato dopo che era morto. Sono soddisfazioni.

Qual è il segreto per piacere alle donne? (Tommaso Cini, Pisa). Lo stai chiedendo alla persona giusta. Io piaccio alle donne perché le ascolto. Mi piace ascoltare quello che hanno da dire. E faccio domande. “Com’era tuo padre? Come ti va la vita? Come stai?”. Certo fanno fatica a rispondermi col mio cazzo in bocca, ma le ascolto. È questo il segreto. Cercate anche voi una guida spirituale? Scrivetemi (lettere@ilfattoquotidiano.it)

 

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Speranza, le dimissioni sono sempre possibili

Caro Marco, ho grande stima per Speranza, ma non credi che debba dimettersi per le scelte non condivise del presidente Draghi?

Mario A. Querques

 

Caro Mario, non escludo che, se Draghi &C. continueranno a scavalcarlo, Speranza dovrà per forza andarsene, prenderne atto, rendendo ancor più chiara la vera natura di centro-destra di questo governo.

M. Trav.

 

Napolitano, Mattarella e “Mario” al Quirinale

Caro Marco, secondo te, a questo punto, ci sono grandi differenze tra Napolitano e Mattarella? E poi, per quale motivo Draghi dovrebbe essere il prossimo presidente della Repubblica?

Mario Tommasi

 

Caro Mario, la prima risposta è no. La seconda è boh.

M. trav.

 

La solidarietà dei lettori per le querele al “Fatto”

L’iniziativa di Renzi dev’essere considerata come una medaglia al valore: quella di dire la verità! Se c’è bisogno di sostegno economico, noi lettori ci siamo.

Raffaele Fabbrocino

 

Sarò lieto di darvi una mano economicamente se il Renzi vi porterà in tribunale per la questione Arabia, che considero un affronto all’intero popolo italiano.

Massimo Giorgi

 

Caro direttore, un’altra querela farlocca del novello Magnifico! Ne faccia un album: potrà mostrarlo con orgoglio ai nipoti.

Susanna Di Ronzo

 

Leggo dell’ennesima querela dell’innominabile. E io per l’ennesima volta mi propongo di partecipare alle spese.

Francesco Collecchia Zanello

 

Sono disponibile a contribuire con la mia pensione alle spese legali per la querela.

Claudio Poletti

 

Grazie a Fini per le sue riflessioni sulla vita

Leggo il Fatto principalmente per la firma di Massimo Fini. Eccellente il pezzo “Il Covid rimette in gioco la nostra idea di morte” e complimenti al direttore per averlo pubblicato, nonostante la distonia di idee.

Nicola Pellegrin

 

Questa volta devo dare ragione a Fini. Non si tratta di essere negazionisti, ma la nostra società, cercando di rimuovere il concetto di morte, evita di vivere una vita “piena”, dove lo scorrere del tempo non sia scandito dal denaro o dallo sballo. Fini è “polpa di genio”.

Simone Demaria

 

Ho ritrovato il piacere di leggere un quotidiano

Sono una vostra lettrice dall’agosto 2012, dopo una convivenza lunga 28 anni con Repubblica. Ho ritrovato il piacere di leggere un quotidiano; ho scoperto che l’ironia e il sarcasmo, ingredienti necessari, mi hanno resa felice. Leggendo Scanzi, Travaglio, Lillo, Padellaro, Fini… mi rifletto in uno specchio. È un piacere avere interlocutori che parlano di fatti per far crescere una cittadinanza attiva.

Gabriella Pitarra

 

Grazie, cara Gabriella, è bello sapere di avere lettrici come te.

M. Trav.

 

Diritto di replica

Scrivo per fornire alcune precisazioni rispetto all’articolo dal titolo, tanto accattivante quanto fuorviante, “Uomini Eni alla Farnesina: l’accordo segreto del 2008”. In realtà, non c’è alcun “accordo segreto”, come dimostrato dal fatto che la presenza di dipendenti Eni (così come di quelli di tutti gli altri “esterni” che a vario titolo collaborano con il Maeci) è doverosamente pubblicata sul sito della Farnesina. Segnaliamo anche che le “rivelazioni” contenute nel citato rapporto di Re:Common altro non sono se non le informazioni fornite alla stessa Re:Common proprio dalla Farnesina nell’ambito di una richiesta di accesso agli atti Foia (Freedom of Information Act).

Come noto, il Maeci ha tra i propri compiti fondamentali quello di sostenere l’internazionalizzazione delle nostre imprese e di perseguire gli obiettivi di diplomazia economica con azioni di promozione degli interessi delle aziende italiane nel mondo. Tutto ciò, evidentemente, a sostegno della nostra economia e, in ultima analisi, del Paese. Quello che l’articolo definisce “infiltrazione” per noi è dare forma al concetto di “sistema Paese”. Per svolgere questa azione strategica la Farnesina collabora stabilmente, come consentito dalla legge, non solo con Eni, ma anche con molte altre aziende (quali Enel, Snam, Leonardo…) distaccando presso di esse un consigliere diplomatico. Si tratta di uno schema che funziona molto bene, come dimostrano i significativi risultati ottenuti. Ciò premesso, spiace davvero constatare che la collaborazione virtuosa tra pubblico e privato, quel “fare sistema” tanto spesso invocato, venga strumentalizzata per alimentare polemiche tanto sterili quanto prive di fondamento.

Tiziana D’Angelo, Ufficio stampa, Ministero degli Esteri

 

Ringraziando per la precisazione, facciamo notare che l’accordo tra Eni e Farnesina era riservato, tant’è che nessuna delle due parti in causa lo ha mai pubblicato e, come spiegato dal Maeci stesso, è stato necessario un Foia per averne prova. Sull’opportunità di avere funzionari di un’azienda privata distaccati presso un ministero della Repubblica, lasciamo il giudizio ai lettori.

Ste. Verg.

Lombardia. L’ennesima figuraccia della Regione sui vaccini per over 80

 

 

Gentile redazione, scrivo per segnalare le mie rimostranze alla Ats di Milano in merito alla vaccinazione di mia mamma Elvira, 84 anni, paraplegica, diabetica e con piaga da decubito cronica. Riterrei che abbia diritto alla vaccinazione, e così dice il suo medico di famiglia, il dottor Giordano. A oggi, dopo avere effettuato la registrazione online, non andata a buon fine per errore della piattaforma nell’invio dell’sms, non abbiamo alcuna notizia per la prenotazione o sui tempi della vaccinazione. Ed Elvira non ha ancora nemmeno ricevuto l’sms di scuse da Regione Lombardia.

Paolo Ferri

 

 

Gentile signor Ferri, mi perdoni, ma tocca dirle che sua mamma Elvira tutto sommato è stata fortunata a non aver ricevuto ancora l’appuntamento per il vaccino. È un paradosso, ma poteva andarle peggio. Per esempio Regione Lombardia avrebbe potuto mandarle l’sms di convocazione alle 23.45 di sera per un vaccino fissato alle 10 del mattino dopo. Oppure avrebbe potuto convocare sua mamma in un centro vaccinale a 40 km di distanza da casa sua. Sta succedendo anche questo, tanto che da giorni si vedono “sciami” di vecchietti imboccare la tangenziale (magari passando davanti a due hub vaccinali) per poter raggiungere il centro loro assegnato. Magari a Bollate, comune da due settimane blindato in zona rossa…

Sui circa 720.000 over 80 presenti in Lombardia, sono almeno 400.000 quelli che ancora attendono l’agognato sms o ne hanno ricevuto uno di scuse da parte della Regione. L’unica speranza è che questa ennesima inefficienza possa essere sanata dalla nuova piattaforma online per le prenotazioni fornita gratuitamente da Poste Italiane al Pirellone. Dovrà sostituire quella concepita (male) e gestita (peggio) da Aria. La piattaforma di Poste – già usata senza problemi da molte Regioni – la Lombardia non l’aveva voluta: “Facciamo da noi con la nostra società partecipata”, avevano detto i vertici leghisti, ansiosi di dimostrare che quando il lumbard ci si mette, nulla può andare storto. Ora che tutto ciò che poteva andare male è andato male corrono ai ripari. Peccato che per quella piattaforma tanto inefficiente anche i 720.000 vecchietti lombardi abbiano pagato ad Aria 22 milioni di euro.

Andrea Sparaciari

Assaporiamo insieme i silenzi di Draghi

 

 

• “Draghi e Brusaferro sono accomunati dalla virtù opposta a quella dell’italiano medio: la brevitas. Tanto più preziosa in quanto da anni siamo logorati dalla logorrea politica, nel trionfo di chiacchieroni patentati come Conte e Renzi, Salvini e Berlusconi. Draghi assomiglia invece al miglior primo ministro della storia italiana: Giovanni Giolitti (…). Ecco, assaporando l’assenza di Draghi dalla conferenza stampa per il suo dcpm, ho pensato che siamo in buone mani”.

 

• Titolo: “Next generation Draghi”. Catenaccio: “Istituzioni e burocrazia. Le nomine dell’èra Draghi hanno un filo conduttore: trasformare il deep state non in un nemico da abbattere, ma in un alleato da usare per trasformare l’Italia. Occhio alle date”

 

• Occhiello: “Niente regali all’Africa”. Titolo: “Draghi: pronti 2 miliardi per i vaccini. Finalmente”. Catenaccio: “Il premier apre il portafogli per accaparrarsi più dosi possibili, visto l’eurodisastro. Schiaffo a Macron: i Paesi poveri possono aspettare i farmaci. A settembre produrremo antidoti da soli”