In 13 anni sette segretari: il partito senza futuro

Da quando il Pd è nato, nel 2007, ha avuto sette segretari, tutti uomini: Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani, Guglielmo Epifani, Matteo Renzi, Maurizio Martina e Nicola Zingaretti. Come Crono mangiava i suoi figli, il Pd si mangia i segretari come fossero olivette: sette in 13 anni, 22 mesi ciascuno.

Zingaretti si dimette perché non ne può più delle correnti interne, della lotta per le poltrone, delle pugnalate alle spalle. Si dimise per gli stessi motivi anche Veltroni, nel febbraio del 2009, a meno di due anni dalla sua trionfale elezione a segretario, costretto a lasciare dopo la sconfitta di Renatu Soru alle Regionali sarde. Franceschini durò poco e, candidato alle primarie successive, fu sconfitto da Bersani. Il quale in seguito alla “non vittoria” del 2013, ma soprattutto dopo le pugnalate subite sull’elezione di Franco Marini e Romano Prodi alla presidenza della Repubblica, lasciò lo scettro a Matteo Renzi dopo l’interregno di Epifani.

Curioso che l’unico che non si sia dovuto dimettere per manovre interne sia proprio l’ex segretario fiorentino, battuto dalle urne del referendum nel 2016 e poi nella più grande sconfitta elettorale subita da quel partito nel 2018 (i bersaniani preferirono andarsene).

Se in un partito prevalgono slealtà e pugnalate e se le persone perbene e serie sono costrette a dimettersi, forse è quel partito che non funziona. Conta, certamente, l’attaccamento al potere, lo scollamento sociale, l’essere diventato da tempo parte integrante dell’establishment. Ma pesa anche l’inconsistenza di una linea sociale e di sinistra. I “renziani in sonno” nel Pd sanno cosa fare, ricomporre le frattaglie centriste e liberali per poi dialogare con la destra. La sinistra, invece, non sa e non dice nulla: su salario minimo, reddito, politiche pubbliche, diritti. Poche idee e poche proposte. Non si può nemmeno scommettere che esista. Si nota solo quando si dimette. Non è granché.

Concorsi truccati a Medicina: 30 gli indagati

Un sistema organizzato per pilotare i concorsi e l’assegnazione di cattedre e incarichi alla facoltà di Medicina di Firenze. È questa l’ipotesi della Procura di Firenze che a inizio 2020 ha aperto un’inchiesta per due concorsi universitari: 30 sono gli indagati tra cui il rettore dell’Università, Luigi Dei, ma anche il direttore generale dell’ospedale di Careggi, Rocco Damone, e l’ex dg, Monica Calamai. Al rettore Dei, che ieri si è detto “sereno e fiducioso”, i pm fiorentini contestano i reati di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e abuso d’ufficio. Ieri mattina, gli ufficiali della Guardia di finanza coordinati dai pm Luca Tescaroli e Antonino Nastasi, hanno svolto 43 perquisizioni tra Firenze, Milano e Ancona effettuando sequestri di documenti utili all’indagine. Secondo i pm fiorentini, in una serie di concorsi indetti tra il 2018 e il 2021 il vincitore era già stabilito tramite logiche spartitorie nell’assegnazione delle cattedre universitarie e nella programmazione dei concorsi. Oltre a Dei, altre sei persone sono accusate di associazione a delinquere tra cui Damone, Calamai, che dopo essere stata dg a Careggi nel 2018 era stata nominata direttore generale Diritti di cittadinanza e coesione sociale della Regione Toscana e oggi è dg della Asl di Ferrara.

Del reato di abuso d’ufficio invece dovrà rispondere, oltre al rettore, Alberto Zanobini, dg del Meyer, che per i pm avrebbe contribuito a predeterminare l’esito di tre concorsi indetti nel 2018, e l’ex prorettore Paolo Bechi, ora in pensione.

Secondo fonti investigative, l’inchiesta di ieri è slegata rispetto a quella per il concorso di cardiochirurgia che vede coinvolto lo stesso Dei: a dicembre la Procura di Firenze aveva chiesto il rinvio a giudizio. I pm fiorentini, inoltre, a fine anno hanno chiuso anche un’inchiesta sugli altri presunti concorsi truccati alla facoltà di Medicina di Firenze, che vede indagate 13 persone.

“A Italia Viva adesso serve un congresso”

“Ci vuole un congresso per decidere, dopo Draghi, cosa vogliamo essere e con chi vogliamo stare”. Camillo D’Alessandro è il primo esponente di Italia Viva a sollecitare un’assise congressuale per decidere la linea politica.

Deputato, è stufo che decida tutto Renzi?

Renzi non decide, semmai convince. Ho chiesto un congresso perché penso che il governo Draghi offra la possibilità di un tempo-ponte in cui tutte le forze politiche debbano riflettere su contenuti e programmi. Le dimissioni di Zingaretti toccano anche questo punto.

E Iv cosa dovrebbe fare?

Stare nel centrosinistra: questo è il nostro campo da gioco, il nostro perimetro. E lavorare per costruire un’aggregazione riformista e liberale che aiuti il Pd a liberarsi dall’abbraccio mortale del M5S. Pure coinvolgendo un pezzo di Fi.

Niente più alleanze giallorosse?

Accordi coi 5Stelle si possono fare, nelle città al voto, secondo le circostanze. Ma devono essere l’eccezione, non la regola.

Cosa pensa del caso Bin Salman?

Renzi ha chiarito la sua posizione. L’incontro era perfettamente lecito e io penso che il dialogo sia sempre fruttuoso, con tutti. Non c’è una legge che vieta ai parlamentari di fare consulenze o di andare in giro per il mondo a tenere conferenze o incontrare i leader. Poi c’è la questione di opportunità, ma anche su questo non ho obiezioni.

Armi in Arabia: “Bombe sui civili. E l’Italia sapeva”

Nel triennio di governo targato Matteo Renzi, le autorizzazioni per l’export di armamenti verso l’Arabia Saudita sono più che triplicate, passando dai 126,5 milioni del 2013 ai 427,5 milioni del 2016, quando l’Italia diede il benestare alla maxi commessa da 20mila bombe della Rwm (411 milioni di euro), la più grande per il munizionamento pesante dal dopoguerra. Ma in quegli anni, all’inizio del 2015, esplose il conflitto in Yemen, dove Riyad è intervenuta alla guida di una coalizione internazionale che ha dato il via a bombardamenti a tappeto contro obiettivi dei ribelli Houthi, causando però la morte anche di numerosi civili. È proprio dall’uccisione di un’intera famiglia di sei persone nel villaggio di Deir al-Hajari, nella notte tra il 7 e l’8 ottobre 2016, che ha preso il via l’inchiesta, nata dalla denuncia presentata nell’aprile 2018 dal Centro europeo per i diritti costituzionali e umani (Ecchr) di Berlino, dalla ong yemenita Mwatana for Human Rights e dalla Rete Italiana Pace e Disarmo, che ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di due direttori generali pro-tempore di Uama, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento.

La decisione dei pm romani che conducono l’inchiesta è legata a quella del giudice per le indagini preliminari, Roberta Conforti, che il 22 febbraio non ha accolto la richiesta d’archiviazione perché, si legge nelle carte, “già nel 2015 erano noti la situazione del conflitto nello Yemen e il potenziale rischio che gli armamenti esportati potessero essere utilizzati in violazione del diritto internazionale umanitario”. A ricollegare l’uccisione della famiglia al-Ahdal alle bombe esportate dall’Italia verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi è stato il ritrovamento, tra le macerie della loro casa rasa al suolo dai caccia della coalizione, dell’anello di sospensione della bomba prodotto dalla Rwm e che, secondo quanto riportato dagli stessi pm, “era stato spedito in Arabia saudita ed Emirati Arabi Uniti tra il 9 aprile e il 15 novembre 2015”, quando cioè le operazioni militari e i raid aerei condotti sul territorio yemenita da parte della coalizione a guida saudita erano già noti. Insomma per il gip quando vengono vendute le bombe, la situazione di conflitto in Yemen era chiara. Il Parlamento europeo aveva già espresso preoccupazione “per il peggioramento della situazione politica, umanitaria e di sicurezza”. “Nel periodo in cui venivano rilasciate autorizzazioni all’esportazione di armi – scrive il giudice – (in alcuni casi anche con incremento della fornitura) vi fosse a livello internazionale la piena consapevolezza della situazione di conflitto in Yemen e della condanna anche di alcune azioni compiute dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita”. Se questo aspetto venisse accertato, si tratterebbe di una violazione della legge italiana 185 del 1990 che regola l’export di armamenti e nella quale si vieta l’esportazione verso Paesi in conflitto o per i quali vengono accertate violazioni dei diritti umani. Tutto questo tenendo conto del fatto che, anche negli anni successivi, le autorizzazioni non si sono fermate: secondo le organizzazioni che hanno presentato la denuncia, “alla società risultano rilasciate da marzo 2015 a dicembre 2018 quattordici licenze, nonostante le violazioni del diritto internazionale umanitario riconosciute anche dagli organismi delle Nazioni Unite e del Parlamento europeo”.

Autorizzazioni sulle quali, spiega il Gip, è necessario svolgere ulteriori indagini che coinvolgano i vertici di Uama e Rwm Italia. Respingendo la richiesta d’archiviazione, motivata anche dall’insussistenza della “finalità di garantire l’interesse pubblico del mantenimento dei posti di lavoro e, anzi, di aumentare l’occupazione”, il gip Conforti ha deciso di prolungare le indagini di altri sei mesi. L’obiettivo, scrive nelle motivazioni, è quello di “accertare quante e quali autorizzazioni siano state rilasciate alla Rwm fino alla data odierna” e “accertare se e quante richieste di autorizzazione inoltrate dalla Rwm Italia siano state rigettate dal 2015 a oggi”. Il tutto dopo aver iscritto nel registro degli indagati “i direttori pro-tempore dell’Uama e gli amministratori delegati della Rwm Italia dal 2015 fino alla data in cui è stata rilasciata l’ultima autorizzazione all’esportazione”. I primi due nomi sono già stati individuati.

“Roma produrrà” Ma si resta in balia dei soliti colossi

Da fanalino di coda, l’Italia diventa Paese chiave nella strategia vaccinale Ue che ora si avvarrebbe anche della condivisione dei brevetti da parte di Big Pharma. Tutto vero. Ma, per ora, solo a parole. Gli annunci sono stati fatti ieri da Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, e Thierry Breton, euro-commissario al Mercato interno e responsabile della task force sui vaccini: “L’Italia è uno dei primi paesi che ho voluto incontrare perché ha un ruolo importante a livello industriale”, ha affermato Breton. L’ottimismo dell’euro-commissario è d’obbligo. La produzione anti-Covid in Italia non inizierà prima dell’autunno, quando probabilmente sarà già conclusa la prima campagna di immunizzazione. È la tempistica concordata da Giorgetti e Farmindustria alla riunione di due giorni fa: “Siamo già molto integrati in Europa, in Italia ci sono molte imprese che fanno gli ingredienti attivi e il fill & finish (infialamento e confezionamento, ndr) – ha continuato Breton – per Astrazeneca, ad esempio, tutti i vaccini nelle mani del personale medico sono messi in flacone nello stabilimento di Anagni”.

Pare che l’euro-commissario non abbia guardato l’euro-mappa dei siti di produzione, twittata dallo stesso ufficio stampa della Commissione il 25 febbraio. Non c’è nessuno stabilimento italiano che fabbrichi ingredienti attivi (gli antigeni immunizzanti, ossia i vaccini veri e propri), che vengono tutti prodotti oltre confine dai colossi farmaceutici e da aziende minori (soprattutto tedesche, francesi, spagnole e americane) a cui i Big hanno subappaltato parte della loro filiera. C’è da aggiungere che i due stabilimenti di Anagni che infialano sono gli unici attivi nella produzione di vaccini Covid in Italia (solo in Germania e Francia se ne contano quasi 30). E non sono neanche italiani, bensì di gruppi stranieri (la francese Sanofi e la statunitense Catalent). Gli unici veri vaccini italiani, di Reithera e Takis, sono ancora lontani dall’approvazione. Illusionismi politici a parte, ieri il ministro e l’euro-commissario hanno ufficializzato la partecipazione italiana alla rete di produzione contro future crisi sanitarie che farà capo alla nascente Agenzia di ricerca europea per le emergenze sanitarie (HERA). “L’industria italiana è in grado di dare il suo contribuito” ha confermato Giorgetti che ha promesso uno stanziamento di 400-500 milioni di euro per un nuovo polo anti-pandemico pubblico-privato”.

“Gli investimenti nelle infrastrutture giungono ormai tardi per l’attuale emergenza, dove servono tante dosi e subito, ma saranno comunque cruciali per contrastare il protrarsi endemico del coronavirus negli anni a venire”, ha spiegato Massimo Andreoni, Direttore dell’Unità Malattie Infettive del Policlinico Tor Vergata. L’impegno italiano arriva sulla scia dei ritardi nelle consegne dei vaccini da parte delle aziende che hanno firmato contratti di fornitura con la Commissione e gli Stati membri.

Le istituzioni europee si affidano all’ampliamento degli accordi di collaborazione inter-aziendale, sperando in un aumento della produzione. “Abbiamo creato un meccanismo che consente l’accesso al brevetto a chi intende collaborare, il mio ruolo è facilitare questo processo”, ha puntualizzato Breton. Peccato che siano i Big a decidere se e con chi collaborare. Di fatto, Breton ha diplomaticamente benedetto il loro monopolio. “L’annuncio di Breton va letto come un impegno dalla Commissione a incoraggiare gli accordi che le imprese detentrici dei brevetti possono fare liberamente con altre aziende – commenta Patrizia Toia, eurodeputata socialista – ma se le partnership volontarie non bastassero a garantire quantità sufficienti, allora sarà necessario ricorrere al rilascio delle licenze obbligatorie o alla sospensione temporanea della proprietà intellettuale”.

 

Da Enimont in poi: come l’Italia perse i suoi vaccini

Nonostante una storia plurisecolare sulle terapie di immunizzazione, nella corsa ai vaccini contro il Covid19 l’Italia parte dalle retrovie. Il Paese sconta decenni di assenza di una politica industriale di settore e il disastro Enimont che negli Anni 90 portò allo spezzatino e poi alla cessione a Big Pharma del leader nazionale, la senese Sclavo.

Secondo l’ultimo rapporto MI4A dell’Oms, nel 2019 il mercato globale dei vaccini è stato di 5,5 miliardi di dosi per 33 miliardi di dollari, il 2% del fatturato mondiale della farmaceutica. I principali produttori sono le multinazionali Sanofi, Gsk, Merck e Pfizer e l’Istituto sierologico dell’India. Oggi in Italia la farmaceutica occupa circa 80mila dipendenti che arrivano a 150mila circa con l’indotto, ma la produzione di vaccini non svetta anche se nell’ultimo decennio secondo Farmindustria ha realizzato un surplus commerciale di 2,9 miliardi.

Eppure come ricorda il ricercatore Enrico Ioseffi già nel 1755 l’Accademia delle scienze senese dei Fisiocritici iniziò a discutere e a praticare l’inoculazione contro il vaiolo. Proprio a Siena Achille Sclavo, professore di Igiene e poi rettore dell’Università locale, nel 1904 fondò l’Istituto Sieroterapico Vaccinogeno Toscano. L’azienda nel 1959 attrasse Albert Sabin, inventore del vaccino contro la poliomelite che rinunciò al brevetto. Il centro ricerche fu fondato dal 1970. Nel 1976 la Sclavo fu assorbita dal gruppo Eni. Dopo una joint venture con Dupont, nel 1988 dalla fusione tra Enichem e Montedison del gruppo Ferruzzi-Gardini nasceva Enimont alla quale Eni portava in dote il 50% della Sclavo. Ma il 30 luglio 1990, dopo il fallimento dell’operazione Enimont, la Sclavo fu acquisita dal gruppo Marcucci per 100 miliardi. A gennaio 1992 la Sclavo venne smembrata in tre tronconi: gli emoderivati restano ai Marcucci, i vaccini vengono ceduti per 77 miliardi a Biocine, joint venture tra la svizzera Ciba-Geigy e la statunitense Chiron, e la diagnostica nel 1996 viene venduta alla Bayer per 56 miliardi. Nel ’96 Ciba-Geigy si fuse con Sandoz dando vita al nuovo colosso svizzero Novartis.

Nel ’97 Sclavo lanciava il vaccino antinfluenzale Fluad e nel ’98 si specializzava in quelli contro la meningite B. Dal 2006 al 2015 Novartis investì 400 milioni nell’impianto senese di Rosìa, con 2.800 dipendenti, ma nel 2014 cedette i vaccini al colosso britannico GlaxoSmithKline (Gsk). Nel 2015 Gsk vendette i vaccini antinfluenzali italiani alla Seqirus di Monteriggioni, controllata dell’australiana Csl. Gsk nel 2015-2019 comunque ha investito in ricerca e sviluppo a Siena 457 milioni sotto la guida del professor Rino Rappuoli. La multinazionale ha scelto di non sviluppare un proprio vaccino anti Covid ma di collaborare con la francese Sanofi Pasteur e la tedesca Curevac.

È del 2 marzo l’accordo tra ministero dello Sviluppo economico, Regione Toscana, Toscana Life Sciences Sviluppo e Invitalia per investire 38 milioni per lo sviluppo a Siena di anticorpi monoclonali contro il Covid. Ieri il ministro Giorgetti ha dichiarato che “l’industria italiana è in grado di dare il suo contribuito alla risposta europea per produrre vaccini”. Ma gli esperti mettono in guardia dalle scorciatoie. Secondo il sindacato aziendale della Sclavo, “la straordinaria capacità produttiva del sito di Rosia non è sfruttata: le linee di infialamento potrebbero confezionare circa 30 milioni di dosi di vaccino anti Covid al mese”. Aldo Zago, responsabile della chimica farmaceutica per la Filctem Cgil nazionale, ricorda però che per produrre vaccini anti Covid “la questione non è tanto la disponibilità di strutture di infialamento ma la possibilità di produrre il principio attivo. Non basta pensare alla costruzione di un bioreattore, serve una filiera con tecnologie e sistemi integrati di produzione controllati”.

Da anni Emanuele Montomoli, ordinario di Salute pubblica all’Università di Siena, fondatore e Chief Scientific Officer della società di ricerca Vismederi, sottolinea “la necessità di mantenere in Italia non solo la produzione di vaccini antibatterici ma anche antivirali come questione di sicurezza nazionale. Poiché avviare un processo produttivo richiede investimenti e tempo, è meglio pensare ad accordi strategici con i produttori internazionali che consenta di far arrivare in Italia il vaccino e poi infialarlo sul territorio nazionale. Catalent, Corden Pharma, Irbm e Menarini offrono già questo servizio”. Montomoli ritiene che “il Covid19 diventerà una malattia endemica come l’influenza. Per eradicarlo serviranno probabilmente decenni. Dunque i vaccini occorreranno a lungo”.

Stefano Malvolti, fondatore e dirigente della MM Global Health Consulting di Zurigo, afferma che “a livello industriale oggi in Italia la capacità di produzione sui vaccini per varie malattie virali si concentra su molte imprese biotech che producono su proprie piattaforme tecnologiche. Uno dei primi vaccini contro l’ebola era stato sviluppato a Napoli dalla Okairos, poi comprata da Gsk. Per incrementare la capacità produttiva adeguatamente verificata per produrre in Italia il vaccino anti Covid-19 serviranno dai sei mesi a un anno almeno, servono accordi internazionali per accedere a brevetti e tecnologie di terzi, senza alcuna garanzia di successo. Tra 12 mesi servirà ancora una produzione locale nazionale di vaccino anti Covid o la capacità produttiva globale sarà più che sufficiente?”.

Tania Cernuschi, responsabile per l’accesso globale ai vaccini che dirige il dipartimento di Immunizzazione all’Oms, ricorda che “solo ora a causa della pandemia l’Italia scopre la questione della possibile produzione di vaccini a livello locale ma per altri Paesi e interi continenti come l’Africa è un tema di discussione purtroppo normale. Già il 24 maggio 2019 l’Oms e altre agenzie Onu hanno preso una posizione comune sulla promozione di produzioni locali di medicine e altre tecnologie sanitarie. Forse è meglio avere un approccio europeo o globale alla questione del trasferimento delle tecnologie e dell’aumento della produzione. Altra cosa è invece il tema della preparedness, la predisposizione di una struttura operativa di pronto intervento da attivare in caso di necessità se ci saranno nuove pandemie virali. Un tema di sicurezza nazionale che non riguarda solo l’Italia e non solo il Covid, ma che solleva questioni di sostenibilità ed efficienza”.

L’opportunità del console: “In 7 giorni, 20 milioni di dosi”

L’inchiesta della Procura di Milano sui mercati paralleli per la vendita dei vaccini anti-Covid si arricchisce di una serie di documenti portati ieri da Regione Lombardia. Sul tavolo diverse email ricevute dalla giunta presieduta da Attilio Fontana e da Aria, la centrale acquisti regionale. Tra le tante ci sono anche quelle inviate dal Console Onorario della Namibia, Petter Johannessen e quelle di un’azienda svizzera che opera nell’healthcare. Al momento i mediatori non risultano indagati nel fascicolo aperto contro ignoti e con il titolo di reato di frode in commercio. Il console onorario, risulta dagli atti, ha contattato gli uffici regionali lo scorso 3 febbraio assicurando che sarebbe stato in grado di procurare milioni di dosi di AstraZeneca. Si legge: “20 milioni la settimana prossima e 100 milioni entro 6 settimane”. Sentito dall’Ansa, il console ha spiegato: “Ho agito in piena trasparenza”. Dopodiché il diplomatico di origini norvegesi, pronipote del celebre esploratore Roald Amundsen, ha raccontato di aver saputo “di terza mano” di questo “operatore economico” , S.D. detto Scotty, con ufficio a Fayance, nel Sud della Francia. “Ho solo segnalato questa opportunità (…). Io non ne ho saputo più niente. Anche a maggio scorso ho ricevuto una persona che aveva conoscenze in Cina e quindi ho contattato Giulio Gallera (ex assessore al Welfare, ndr.) segnalando la possibilità di una fornitura di un milione di mascherine”. Oltre al console onorario della Namibia, nei documenti consegnati in Procura, figura pure la Exor sa, domiciliata in Canton Ticino ma guidata dal milanese Paolo Balossi – società già citata in una indagine elvetica sulla fornitura di mascherine -, e l’avvocato Giuseppe Cavallaro che ha scritto per conto di Luciano Rattà, altro presunto mediatore e già protagonista di una legale offerta di vendita di vaccini alla regione Veneto del governatore Luca Zaia.

I senatori scrivono a Speranza: “Noi categoria a rischio, fateci il vaccino”

Da giorni sono in pressing su Federico Marini, potente direttore del polo sanitario Palazzo Madama che più che un medico, ora che il timor panico da Covid morde, è diventato come il profeta per tanti senatori. Che lo fermano, lo assediano, lo implorano. La richiesta è sempre la stessa: quand’è che noi senatori potremo vaccinarci?

Perché il fortino è caduto: anche a Palazzo Madama si registrano contagiati. Insomma: “il VIRUS circola anche tra noi” come ha scritto allarmata la pia senatrice dell’Udc Paola Binetti a tutti i colleghi senatori per chiedere che mettano la firma a una sua proposta da sottoporre al ministro della Salute Roberto Speranza affinché li includa nelle categorie a rischio con diritto a una corsia preferenziale rispetto alla punturina che salva la vita: “Cari Colleghi, questa è una semplice interrogazione urgente al ministro perché voglia facilitare la vaccinazione di tutti noi senatori. Certamente sapete che sono ormai almeno una quindicina i colleghi che hanno contratto l’infezione. Non saprei dirvi in quale versione, se per esempio si tratta della variante inglese che tende a diffondersi più velocemente. Ma gli epidemiologi esperti dicono che con questo ritmo alla fine di marzo potrebbero esserci almeno una cinquantina di persone colpite”.

Insomma a questi ritmi si rischia la paralisi dell’alta funzione di un ramo del Parlamento. Che non ci sta a mettersi in fila e ad aspettare il suo turno specie perché si sente scavalcato. Perché il Piano vaccinale del ministero privilegia chi è più avanti con l’età o chi è a maggior rischio per le condizioni di salute pregresse. Ma pure particolari categorie comunque esposte: docenti e personale delle scuole, forze armate, secondini e detenuti, rispetto ai quali i senatori non si sentono da meno. E Binetti lo ricorda mentre prega gli altri inquilini di Palazzo ad aderire numerosi alla sua iniziativa per costringere Speranza a intervenire per la loro causa. “Se volete firmare la interrogazione basta un ok di risposta a questa mia email. Credo che ne valga la pena anche come segno di attenzione al lavoro che svolgiamo”.

Ed ecco dunque che fioccano gli ok, anche se qualcuno arrossisce. Perché dopo le leggi ad personam ora si tratta di metterci la faccia su una norma ad Senatum destinata a diventare un precedente nella storia repubblicana. E vallo a spiegare agli italiani che lavorare a Palazzo è un mestiere ad altissimo rischio come stare in corsia o tra i banchi o più di andare in fabbrica o in ufficio dopo essersi avventurati sui mezzi pubblici in cui si viaggia ancora stipati. Ma tant’è, l’interrogazione è bell’e pronta.

In virtù della “età media dei senatori, alcuni dei quali con patologie pregresse, e le condizioni di stress e di rischio che i viaggi settimanali comportano per loro oltre alla molteplicità delle relazioni, che sia pure con la massima prudenza, sono tenuti a mantenere in virtù del loro ruolo, si chiede di sapere se il ministro non ritenga ormai utile, necessario e improcrastinabile procedere alla vaccinazione urgente dei senatori, considerando sia la loro età media sia il ruolo che svolgono, non meno a rischio di quello dei docenti e delle forze armate, categorie ormai considerate prioritarie nel nuovo Piano urgente per le vaccinazioni”.

Qui lo dico e mi contraddico. “Sgovernatori” allo sbaraglio

Chi sgoverna meglio? Ecco una piccola antologia dei migliori in attività nelle Regioni.

1) Francesco Acquaroli (Marche). “Non c’è porto sicuro per il marinaio che non sa dove andare”. A dicembre parafrasava Seneca per “strigliare” il governo Conte. Da gennaio, quando tutto si è chiarito, Acquaroli ha provveduto a costruirsi il caos per fatti suoi. Vorrebbe i ristoranti aperti e le città chiuse, ritenendo inammissibile che si vada più in ospedale (le terapie intensive sono sull’orlo del collasso) che in trattoria e sta sperimentando la procedura del trans-colore. Ora giallo, ora arancione, ora rosso in modo che il rigore si alterni con un pizzico di felicità e la preoccupazione non faccia scudo alla serenità.

2) Stefano Bonaccini (Emilia-Romagna). Pensando che fosse venuto il momento di fare le scarpe a Zingaretti, ha inaugurato la stagione fantasy della sua politica. Un dosaggio quasi quotidiano di brevi e simpaticissime fanfaronate. Due settimane fa ha proposto tutta l’Italia arancione. Sempre due settimane fa, dimenticando dell’ipotesi arancione, di aprire i ristoranti di sera. Ieri si è messo con Salvini alla ricerca dello Sputnik, il vaccino russo. Nessuno ha il coraggio di dirgli che il nuovo commissario all’emergenza ha in animo di mandare proprio a Bologna una squadra di supporto, bravi soldati che facciano quel che si deve fare.

3) Vincenzo De Luca (Campania). Noto anche come odiatore del web, per la profilassi gergale dei suoi show su facebook ha appena finito di spiegare che il governo precedente era fatto da mezze calzette (“e fermiamoci qui”). Previdente per natura, si è fatto vaccinare senza averne titolo pur di dare un segno di civiltà al popolo cafone. Prima aveva disposto che un figliolo fosse deputato Pd (“partito di sfessati”, comunque) e l’altro assessore, ora purtroppo ex, a Salerno, la sua città dove ha fatto allestire un ufficio bunker anti-Covid essendo Napoli città villana e pericolosa. Ha la più folta segreteria politica dell’universo. Distaccati, si dice in gergo. Attaccati, diciamo noi.

4) Massimiliano Fedriga (Friuli-Venezia Giulia). La sorveglianza dei contagi lo tiene al riparo dalle idee strambe come tracciare col filo spinato i confini con la Slovenia più esposti all’invasione degli immigrati sulla rotta balcanica.

5) Arno Kompatscher (P.A. Bolzano). Lucente dimostrazione di come l’autonomia diventa confusione. Bolzano si è guadagnata la palma d’oro delle terapie intensive intasate, del numero dei giorni in lockdown, del numero dei contagi fuori controllo. Tutto prodotto in casa e firmato Arno Kompatscher. “Dobbiamo dire la verità, siamo stati ridicoli”, ha ammesso Reinhold Messner.

6) Attilio Fontana (Lombardia). Il re degli sgovernatori, massima carica del caos itinerante, oramai vessillo di cosa non si deve fare. Dapprima con Gallera, poi col duo Moratti-Bertolaso, Fontana sta dando prova che al peggio non c’è fine. La Lombardia si trova, per suo merito, sempre a fare i conti con le proprie inefficienze. Da ultima è saltata la piattaforma web delle prenotazioni vaccinali, ed è solo il simbolo di una tragedia che non trova riparo. L’emissione di provvedimenti di chiusura ad horas sono la ciliegina sulla torta da parte di chi, l’anno scorso, deprecava i decreti last minute. Il terrore è che Salvini si presenti con un vassoio di dosi Sputnik in Val Brembana e decida, surrogando Fontana, di avviare autonomamente la profilassi leghista. Casa per casa, Putin per tutti.

7) Donatella Tesei (Umbria). “Fateci fare da soli” chiesero a marzo dell’anno scorso la presidente dell’Umbria Tesei e l’assessore alla Sanità Coletto. La prima confidando che il secondo, pescato nella squadra veneta di Zaia e mandato direttamente da Salvini a Perugia, fosse il miglior acquisto. Malgrado i finanziamenti ottenuti ha la più bassa percentuale di posti-letto in terapia intensiva (7,9 ogni centomila abitanti contro la media del 14), il più basso numero di assunzioni nei servizi sanitari (24 contro le 2.700 della vicina Toscana), l’impennata più poderosa del Covid. Ma hanno fatto tutto da soli, come chiedevano.

8) Marco Marsilio (Abruzzo). Uomo di destra, l’unico atto di notorietà per aver firmato un’ordinanza che andava contro quella governativa. Ordinanza rimasta in vita un paio di giorni, prima di essere seppellita da una sentenza del Tar. Il tempo necessario per guadagnarsi due apparizioni in tv.

9) Giovanni Toti (Liguria). Fantuttone, parolaio elegante e moderato. Passa molto tempo in tv. Intanto la Liguria se la prende comoda con i vaccini: 202 mila dosi consegnate, 130 mila somministrate. Più del 30% nei cassetti. Ottimo, no?

10) Tommaso Toma (Molise). Fino al 1º ottobre scorso solo 24 vittime da Covid. Da allora a oggi altri 333. Molise ai molisani!

11) Nino Spirlì (Calabria) Non ve lo ricordate più? Quello che diceva che la Calabria non avesse bisogno di Emergency ma di fare da sé. Fenomeno leghista meridionale, Spirlì – presidente facente funzione – è in attesa di provare come la regione sia proprio irredimibile. Le cose vanno infatti secondo le previsioni: ultima nel vaccinare.

Oggi cambio di colori. E il governo blocca l’export AstraZeneca

Il governo italiano, attraverso la procedura europea, ha bloccato 250 mila dosi del vaccino AstraZeneca, infialate nel nostro Paese e destinate all’Australia. Le motivazioni, scrive la Farnesina, sono “il fatto che il Paese destinatario sia considerato ‘non vulnerabile’ ai sensi del Regolamento (Ue, ndr), il permanere della penuria di vaccini nella Ue e in Italia e i ritardi nelle forniture da parte di AstraZeneca nei confronti dell’Ue e dell’Italia, l’elevato numero di dosi di vaccino oggetto della richiesta di autorizzazione all’esportazione rispetto alla quantità di dosi finora fornite all’Italia e, più in generale, ai Paesi dell’Ue”. Non era mai successo in Europa, dicono dal ministero degli Esteri.

È un altro segnale della gravità della situazione in un Paese che vede crescere i contagi e le restrizioni a livello locale. La Lombardia, che incredibilmente era rimasta in giallo per un altro errore nei dati trasmessi due settimane fa, passa dall’arancione all’arancione scuro per decisione del presidente Attilio Fontana, lo stesso che ha quasi sempre protestato contro le misure del passato governo: chiuse le scuole tranne gli asili nido, le attività di laboratorio e quelle per gli alunni disabili; stop alle seconde case e alle visite ad amici e parenti; chiuse le aree attrezzate al gioco e allo sport in parchi e giardini pubblici, con eccezione per i disabili; solo un componente della famiglia, eventualmente accompagnato da minori o disabili, può accedere ai negozi al dettaglio. Dal Piemonte all’Emilia, alle Marche e ad altre Regioni mezza Italia si mette in rosso da sé in attesa del monitoraggio di oggi che collocherà diverse Regioni in arancione e altre in rosso da lunedì.

Ieri, con meno tamponi, siamo andati oltre i 23 mila casi notificati dopo i 20 mila di mercoledì (l’indice di positività passa dal 5,8 al 6,73%): aumentano del 30% a settimana secondo la fondazione Gimbe. Altri 232 ingressi nelle terapie intensive, superate le soglie d’allerta in diverse Regioni. I morti sono stati 339. Il fisico Giorgio Parisi, presidente dell’Accademia dei lincei, lancia l’allarme: “Siamo in una situazione di crescita esponenziale lenta. La prima ondata raddoppiava ogni tre giorni perché non erano state adottate misure, nella seconda il tempo di raddoppio era una settimana e adesso è di circa 15 giorni. Stiamo arrivando a una media di circa 20.000 casi al giorno, fra 15 giorni potrebbero diventare 40.000: una situazione difficilmente sopportabile dagli ospedali”. Le autorità sanno almeno dal 26 gennaio che l’impatto della variante inglese poteva essere molto pesante: fino a una moltiplicazione per sei dei contagi entro marzo secondo il modello matematico presentato quel giorno. E lo stesso Cts ha avvertito che il regime giallo non basta quando i contagi aumentano troppo. Come in passato, stavolta anche a causa della crisi di governo, si è perso tempo.

Sul fronte vaccini il ministro della Salute Roberto Speranza ha chiesto all’agenzia del farmaco Aifa di valutare se estendere AstraZeneca agli over 65. Inizialmente il lmite era a 55, poi è stato esteso da Aifa che era riluttante. Il tentennamento non ha giovato all’immagine del vaccino. La Germania ha tolto il limite d’ età. Lo chiede dai primi di febbraio anche il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri. Che ieri, come il collega Andrea Costa, non era alla riunione convocata da Speranza sui vaccini con il nuovo capo della Protezione civile Fabrizio Curcio, il nuovo commissario straordinario, generale Francesco Paolo Figliuolo e i responsabili del ministero, dell’Istituto superiore di sanità, Aifa e Agenas. Non l’hanno presa bene, ma fonti del ministero minimizzano: “Sono sempre invitati alle riunioni del mattino”. L’obiettivo è arrivare a 600 mila vaccinazioni al giorno ad aprile, quando dovrebbero aumentare le dosi a disposizione: oggi l’incontro con le Regioni. Si è parlato anche di revisione del ruolo del Cts, deciderà la Presidenza del Consiglio.