Zero discontinuità. Cartabia respinge l’asse FI-Salvini-Iv

Quando è stata chiamata da Mario Draghi, Marta Cartabia non si aspettava certo di avere vita facile a Via Arenula. Basti solo pensare che sulla Giustizia sono caduti il Conte I e il Conte II e far andare d’accordo su prescrizione, carceri e processo penale Silvio Berlusconi e Luigi Di Maio, Matteo Renzi e Matteo Salvini è impresa complicatissima. Ma un fuoco di fila così, appena insediata, proprio non se l’aspettava. Si è iniziato con la prescrizione: subito dopo l’insediamento del nuovo governo, Italia Viva, Forza Italia e Lega avrebbero voluto spazzare via la norma di Alfonso Bonafede che dall’1 gennaio 2020 blocca la prescrizione dopo la sentenza di primo grado ripristinando la vecchia riforma di Andrea Orlando (stop di 36 mesi tra primo grado e Appello). Ma Cartabia è riuscita a sventare l’assalto facendo ritirare gli emendamenti di Francesco Paolo Sisto (FI) e Lucia Annibali (IV), al posto di un ordine del giorno per rinviare la riforma della prescrizione alle calende greche. Poi sono arrivati gli attacchi dell’Unione Camere Penali di Giandomenico Caiazza, avvocato di Renzi, e di Berlusconi per chiedere di abolire l’abuso d’ufficio (“un cappio al collo”). Per non parlare di coloro – ancora una volta Berlusconi, Renzi e Salvini – che in questi giorni hanno chiesto una riforma del processo penale in senso “garantista” spazzando via il progetto di Bonafede. Infine ieri sul Riformista si chiedeva al ministro di “riaprire il caso Palamara” con “indagini preliminari su tutti i magistrati coinvolti”. Un pressing che dai singoli temi si è spostato alle nomine: Berlusconi è riuscito a piazzare Sisto, suo avvocato nel processo escort a Bari, proprio come sottosegretario alla Giustizia per “controllare” l’operato del ministro. E in FI si racconta che Sisto mantenga quotidianamente un filo diretto con Niccolò Ghedini, altro storico avvocato dell’ex premier, per decidere le mosse sulla Giustizia: entrambi sono rimasti irritati dal rinvio del voto sulla prescrizione e potrebbero tornare all’attacco entro il 27 marzo, data di scadenza degli emendamenti su ddl penale, se non arriveranno segnali da Cartabia. Tant’è che ieri proprio Sisto ha concesso una sibillina intervista a La Stampa per dire che l’arrivo di Cartabia a via Arenula ha “immediatamente alzato il livello del dibattito sulla giustizia”. Traduzione: adesso il ministro si muova.

Ma Cartabia resiste al pressing e le sue prime mosse sono in continuità con quelle dell’ex Guadarsigilli Bonafede (M5S). Da via Arenula fanno sapere che il ministro Cartabia non va dietro all’ultima dichiarazione dei partiti: è concentrata solo sui dossier giustizia necessari a ottenere i fondi del Recovery Plan, a partire dalla riforma della giustizia civile. Come dire: fate pure, tanto decido io. Nel frattempo il ministro ha completato il suo staff confermando molti uomini della squadra di Bonafede: resta al suo posto il capo di gabinetto Raffaele Piccirillo, già direttore della giustizia penale con Orlando, il vicecapo dell’Ufficio legislativo Concetta Locurto ma anche i vertici del Dap Dino Petralia e Roberto Tartaglia. Tra le new entry ci sono il docente di Diritto penale Nicola Selvaggi (ufficio di gabinetto) e la presidente della sezione famiglie della Corte di Appello di Roma Franca Mangano all’Ufficio legislativo.

Lite a destra: il Copasir spetta a FdI, ma la Lega non lo molla

Pareri, contropareri ma soprattutto interessi geopolitici che si scontrano. Nel centrodestra parlano già di “battaglia per i servizi segreti” per descrivere lo scontro in atto tra Lega e Fratelli d’Italia per la presidenza del Copasir, il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica che esercita il controllo sull’operato dei Servizi segreti. Secondo una legge dello Stato, la 124 del 2007, il suo presidente spetta all’opposizione. Peccato che stavolta all’opposizione del governo Draghi ci sia un solo partito, FdI, e sulla poltrona più alta di Palazzo San Macuto sieda il leghista Raffaele Volpi, eletto nell’ottobre del 2019 dopo la nascita del governo Conte II. Così a richiedere quel posto è Giorgia Meloni che vorrebbe sostituire Volpi con il vicepresidente Adolfo Urso di Fratelli d’Italia, ma è l’alleato Matteo Salvini a fare resistenza.

Se Volpi una settimana fa ha chiesto ai presidenti di Camera e Senato Roberto Fico e Maria Elisabetta Casellati di prendere in mano il dossier alla luce della nuova maggioranza, nella Lega, per mantenere la presidenza della commissione di garanzia, si fa riferimento all’unico precedente dal 2007 (quando è nato il Copasir) in cui il governo è stato sostenuto da un’ampissima maggioranza: quello di Mario Monti nel 2011. All’epoca il presidente del Copasir era Massimo D’Alema, eletto nel 2010, che rimase sulla sua poltrona dopo un accordo tra tutti i partiti. Ed è sulla base di questo precedente che il Carroccio vorrebbe mantenere la presidenza con Volpi che solo una settimana fa ha lanciato una conferenza dei comitati parlamentari di controllo degli 007 europei per collaborare sul fronte dell’intelligence durante la pandemia. Temi da affrontare: dal 5G alla Cina passando per le sfide in Africa. Non certo una mossa da presidente dimissionario.

Peccato però che a scontrarsi con la tesi dei leghisti sul precedente di D’Alema ci sia la volontà di FdI di rivendicare quella poltrona per sé: i meloniani infatti ricordano che all’epoca l’ex premier decise di dimettersi per poi tornare alla presidenza del Copasir e soprattutto che in quel caso erano d’accordo tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione. Stavolta non è così. FdI vuole quel posto: “Non si può infrangere la legge sulla sicurezza – spiega il coordinatore di FdI Giovanni Donzelli – non vogliamo la presidenza del Copasir tanto per avere una poltrona, ma ci spetta per legge: i Servizi sono un tema troppo delicato per dividersi”. Dopo la formazione del governo Draghi, su 10 membri del Copasir ben 9 sono della maggioranza e uno dell’opposizione: “Nemmeno in Bulgaria” attaccano da FdI.

A sostenere la tesi del passaggio di consegne da Lega a FdI c’è anche Elio Vito, deputato berlusconiano e membro del Copasir, che in un articolo sul sito Formiche.net ha dato ragione a Meloni: “La presidenza va assegnata a un partito dell’opposizione – ha scritto Vito – In tempi di emergenza, sulla sicurezza nazionale, bisogna evitare inutili contrapposizioni ideologiche e avere un sostanziale rispetto del ruolodell’opposizione”.

Ma dietro la sfida interna al centrodestra si cela una questione geopolitica: “Seguite Giorgetti e capirete…” dicono a mezza bocca dal Carroccio. La Lega vorrebbe mantenere la presidenza perché presto il Copasir metterà sotto la luce dei riflettori tutta la squadra di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi: a fine gennaio proprio Volpi ha chiesto l’audizione dell’ex premier, del suo portavoce Rocco Casalino, del ministro degli Esteri Luigi di Maio, del direttore generale del Dis Gennaro Vecchione e del segretario generale della Presidenza del Consiglio Roberto Chieppa, su tre temi: i pescatori rapiti in Libia, il presunto hackeraggio a Palazzo Chigi (la foto sul profilo Facebook di Conte anti-Renzi) e il network – denunciato dal direttore de La Stampa Massimo Giannini ma mai provato – tra il premier, la Guardia di Finanza e il Vaticano per reclutare responsabili. Matteo Renzi invece sarà sentito sul caso Barr.

Quale migliore occasione per i leghisti per mettere in difficoltà il nuovo leader del M5S. Non solo: la Lega sa che i Servizi segreti sono un asset fondamentale per costruire solide alleanze internazionali. Giorgetti gode di un ottimo rapporto con il nuovo responsabile ai Servizi Franco Gabrielli e dal Mise potrà decidere sul 5G spostando l’asse del governo dalla Cina agli Stati Uniti e accreditarsi a Washington. Un giorno potrebbe fare comodo.

“Il governo? È giusto vigilare da dentro. Avremmo già perso reddito e giustizia”

In un giovedì in cui succede di tutto, il veterano del M5S Riccardo Fraccaro prova a riannodare qualche filo: “Giudicheremo Draghi in base a quello che farà per vincere la sfida della transizione ecologica, in Italia e in Europa, perché la nostra non è mai stata una fiducia in bianco. Ma se fossimo rimasti fuori avrebbero già annacquato il Reddito di cittadinanza e tolto la prescrizione”.

Partiamo dalle dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario del Pd. È la fine del patto giallorosa?

Da esterno, non mi permetto di giudicare la sua scelta. Posso dire che quando ero al governo e mi sono rapportato con Zingaretti lui è stato corretto, leale e affidabile. Dopodiché con il Pd non c’è un’alleanza strutturale, perché il M5S era e resta un partito post-ideologico, ed è la sua forza.

Ma Giuseppe Conte insiste sull’idea di coalizione…

L’esperienza del governo Conte va valorizzata, ed è per questo che possiamo dialogare con il Pd per le prossime Amministrative, valutando i singoli progetti. Ora però il M5S deve innanzitutto pensare a rafforzarsi, proprio con Conte.

Come? Rendendo l’ex premier capo politico da solo, o affiancandogli una segreteria, magari con nomi scelti da lui?

Di certo per gestire tutto serve una struttura, ma questa ma questa deve essere di supporto e non di ostacolo alla leadership. Chi guida deve poter incidere, senza veti incrociati.

E dovrà decidere se rimuovere il vincolo dei due mandati. È un tabù parlarne?

Non credo che esistano argomenti tabù e se ne può di certo parlare. Ma non posso essere io a farlo, visto che sono al secondo mandato, quindi in conflitto d’interessi. Valuteranno Conte, Beppe Grillo e gli iscritti.

Proprio Grillo in un post afferma che per entrare nel governo il M5S ha posto due condizioni tassative: l’istituzione di un super ministero della Transizione ecologica e soprattutto un comitato interministeriale per la Transizione”. Quanto sono tassative le condizioni?

Nel post Beppe ricorda che il M5S nasce attorno ai temi della transizione ecologica e dell’innovazione, che prima erano ignorati dalla politica, e ora sono al centro dell’agenda. Non a caso rivendica l’orizzonte temporale del 2050, l’anno in cui la Ue e l’Onu prevedono di arrivare alla neutralità climatica, con emissioni zero. Per questo sarà fondamentale il tavolo interministeriale per realizzare la transizione. Soprattutto, Draghi dovrà battersi in Europa, per ottenere un “patto verde”: gli investimenti nella transizione e nelle politiche ambientali devono essere scorporati. E su questo lo incalzeremo.

Basta per ingoiare un governo con Lega e FI?

Noi siamo gli unici che possono parlare con coerenza di transizione e ambiente, e dobbiamo vigilare da dentro. E poi siamo nel mezzo di una pandemia.

Potevate astenervi e votare i singoli provvedimenti…

L’avremmo fatto se non avessimo avuto garanzie sulla transizione.

La legge elettorale proporzionale pare a un punto morto. Lei che ne pensa?

Restiamo favorevoli a quel tipo di legge e siamo sempre stati corretti con il Pd, che la riteneva centrale. Anche Iv si era detta favorevole, poi si è sfilata. Forse dovevamo essere più decisi quando eravamo al governo, e portarla in aula. Ora in questa maggioranza non vedo le condizioni per andare avanti sul tema. Ma si possono fare altre riforme, costituzionali. Penso alla sfiducia costruttiva, che prevede di poter sfiduciare un presidente del Consiglio solo a Camere riunite e avendo già un premier alternativo. O al referendum propositivo e al voto ai 18enni.

Intanto Davide Casaleggio ha annunciato il manifesto di Rousseau. Pensa a un par tito alternativo?

Certe iniziative producono tensioni sicuramente evitabili. Ma penso che Rousseau sia uno strumento importante per prendere decisioni in modo collettivo nel M5S. L’importante è chiarire i rapporti con la piattaforma, dettagliando l’erogazione dei servizi.

Casaleggio adesso sfida Grillo e prepara la scissione degli ex

Grillo, il padre che deve tenere assieme la prole, prova a giustificare il sì a Draghi ponendogli paletti nel nome del futuro e dell’ambiente. Sempre insistendo su quel 2050 che è l’orizzonte per non sparire dentro la propria crisi, e infatti la sigla Movimento2050.it comparirà anche nel nuovo simbolo del Movimento.

Ma fuori ci sono Davide Casaleggio con l’elmetto e la sua Associazione Rousseau, che annunciano per il 10 marzo un manifesto, “perché è arrivato il momento di riattivare i motori e cominciare la nostra corsa controvento”. Molti espulsi di fresco, nomi come Barbara Lezzi, Nicola Morra e Elio Lannutti, gli battono le mani. E pare l’embrione di una sorta di scissione, di un nuovo movimento per recuperare i valori originari del M5S. Un dolore per il Garante, che pure ha fatto di tutto per evitare lo scontro finale tra il Movimento e Casaleggio. Invece è strappo, e tanti grillini corrono a chiedere di potersi cancellare da Rousseau, mentre il ministro Stefano Patuanelli è feroce: “Auguri a Rousseau, il M5S non va di bolina ma con il vento in poppa e con Conte”. Tutto questo, nel giorno in cui Nicola Zingaretti si dimette da segretario dem, mettendo a serissimo rischio l’alleanza giallorosa. E nello stesso giovedì in cui Grillo diffonde un torrenziale post in cui spiega l’entrata nel governo: “Il M5S ha deciso di non sottrarsi alle sue responsabilità, per contribuire a fare un uso più lungimirante possibile dei 210 miliardi” del Recovery Plan. Quindi sì a Draghi, “a cui abbiamo posto due condizioni tassative, l’istituzione di un super ministero della Transizione ecologica e soprattutto del Comitato interministeriale per la Transizione, sotto la responsabilità diretta del premier”. Ossia un tavolo permanente tra tutti i ministri, D’altronde, sostiene sempre Grillo, “nella trattativa con Draghi il M5S ha puntato sulla sostanza e sul peso dei ministeri, non sul loro numero. C’è un ministero maggiore, quello della Transizione”. Così sostiene il Garante, che cita Conte, ricordando che “gli è stato chiesto di scrivere insieme un progetto per il futuro del Movimento”. Ed è un modo per dire che anche lui ci metterà mano. Infine Grillo blinda, ancora, Virginia Raggi: “Il Comune di Roma è in buona posizione per dare nuovo slancio ecologico alla città”. Però poi c’è Casaleggio. “Non è più tempo di accontentarsi – scrive l’Associazione Rousseau – Per tornare a volare alto dobbiamo anteporre le idee alle persone e le riforme alle poltrone”.

È l’anatema, e la scissione, anche se un big sussurra: “Vuole solo alzare la posta”. Anche perché Casaleggio chiede ancora al M5S restituzioni per quasi 450 mila euro. Ma ormai le strade si divideranno. Con Alessandro Di Battista che si tiene a debita distanza dalle due parti. E Conte? “Lavora al progetto” ripetono. Cioè al nuovo Statuto dove sono previsti segretari regionali e una tesoreria centrale, per il M5S del 2050. Quello dove Casaleggio non ci sarà.

La tentazione di candidarsi a Roma

Game over”, dicevano ieri sera gli uomini del segretario, a chi ipotizzava che le dimissioni di Zingaretti siano in realtà un gesto tattico, un modo per farsi reinvestire dall’assemblea e riprendere il controllo del Pd da leader indiscusso. Perché c’è una legge non scritta del Nazareno: nessuna tregua, nessun patto dura per più di qualche settimana, ma va avanti fino a far fuori il “capo” di turno. Il Presidente della Regione Lazio la conosce bene. Per questo prende forma, un giorno dopo l’altro, l’idea di candidarsi a sindaco di Roma. La via d’uscita che cercava da tempo e che diventa possibile con le elezioni fissate a ottobre. Resta da vedere se perseguirà questo obiettivo di fronte alle pressioni che da qui all’Assemblea di metà marzo aumenteranno. Goffredo Bettini e Dario Franceschini, in primis, faranno di tutto per convincerlo a rimanere. Non c’è un altro punto di equilibrio, almeno per ora. Perché anche Stefano Bonaccini, il presidente dell’Emilia Romagna che accarezza l’idea di essere il suo successore, eletto da tutto il partito, deve vincere non poche resistenze. E comunque, i tempi non sono ancora maturi. Basterà l’ennesima crisi al buio della politica italiana degli ultimi mesi a convincere gli oppositori del segretario a rieleggerlo? Da Base Riformista di Luca Lotti e Lorenzo Guerini ai Turchi di Matteo Orfini, sono ormai tanti gli oppositori del segretario, con tanto di nemici travestiti da amici. Perché questo dovrebbe fare l’Assemblea, dove pure il quasi ex segretario ha la maggioranza. Certo, sarebbe una sfida sul filo, perché forse l’unica condizione accettabile per lui sarebbe un mandato pieno fino al 2023 e non un incarico a tempo, per traghettare il partito fino a dopo le Amministrative, come chiedono in tantissimi.

Di certo, Zingaretti ha battuto sul tempo chi voleva cuocerlo a fuoco lento. Se fosse una strategia, sarebbe forse l’unica vincente a questo punto della storia. Ma non lo è, almeno non fino in fondo, tanto che i big – furenti – sono pronti ad appellarsi al senso di responsabilità per convincerlo a restare. Mentre Franceschini sta cercando di convincere Guerini a far abbassare i toni ai suoi.

Ma il Campidoglio sembra il vero desiderio di “Nicola”. E così, i dem hanno già iniziato a cercare di capire quale può essere il percorso senza di lui. Di certo, serve un traghettatore, un reggente, alla Maurizio Martina o Guglielmo Epifani. Si cerca un padre nobile, ma non ce n’è nemmeno uno adatto alla situazione. Né Walter Veltroni, né Romano Prodi, né tantomeno Massimo D’Alema, che sta in un altro partito. E allora, la ricerca si concentra su una donna.

Faide Pd: Zinga si dimette Conte: “Un leader leale”

Lo “stillicidio”, come lo definisce lui, andava avanti da giorni e giorni. E con quello, un rimuginare sull’addio che non trovava pace. Alla fine, Nicola Zingaretti ha annunciato le sue dimissioni. Quasi a freddo nei tempi e inconsuete nei modi, scegliendo un post Facebook. “Mi vergogno che nel Pd da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid”. Ma poi è stato ancora più diretto: “Visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito, non mi resta che fare l’ennesimo atto per sbloccare la situazione”. Non una fredda comunicazione, ma un messaggio fortissimo, polemico, prima di tutto emotivo, da cui trapela la difficoltà dell’uomo di fronte a un tiro al piccione quotidiano. Ma anche uno scatto di orgoglio.

Non ha avvertito praticamente nessuno, se non il suo inner circle, che il dado era tratto, Zingaretti. Chi ci aveva parlato mercoledì sera e ieri mattina racconta che il quasi ex segretario (le dimissioni saranno formalizzate con una lettera alla presidenza del partito) pareva convinto ad andare avanti. Magari a presentarsi come traghettatore, fino al congresso in autunno, all’assemblea del 13 e 14 marzo. Oppure ad arrivare fino al 2023, sfidando le minoranze. Anche se negli ultimi due giorni, il passo indietro prendeva consistenza davanti al rinvio delle Amministrative a ottobre, con l’idea di candidarsi sindaco. L’annuncio ha lasciato tutti nella costernazione generale: non lo sapeva Goffredo Bettini, che spingeva per un rilancio; non lo sapeva Dario Franceschini, che la lavorato in queste settimane per convincerlo a rimanere.

D’altra parte, “Zinga” di sconfessioni implicite ed esplicite ne ha collezionate parecchie. Ha dato il via a malincuore al governo giallorosa per poi inchiodarsi al “Conte o voto” fino al momento in cui ha sentito dalle parole di Sergio Mattarella nella sala alla Vetrata che Mario Draghi era in campo. Ha accettato il governo con la Lega ed è dovuto restare fuori, per non far entrare Matteo Salvini. Ha visto praticamente fallire l’ipotesi dell’alleanza organica M5S, Pd, LeU con Giuseppe Conte federatore. E sull’“identità” del Pd era già pronta una battaglia sul sistema elettorale, che mezzo partito vuole più maggioritario di lui, per preservare l’idea di un partito plurale. Tutto questo, tra gli attacchi quotidiani di Base Riformista (la corrente di Lorenzo Guerini e Luca Lotti) e dei sindaci. Poi c’è stata la débâcle sui sottosegretari e la scivolata del tweet in sostegno di Barbara D’Urso. E la fatica di mandare giù l’indifferenza del premier e la freddezza di Mattarella nei suoi confronti.

“Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità”, scrive. Senza un percorso, il Pd rischia davvero l’implosione. E lui lo sa. Che questo basti a convincerlo a ripensarci è da vedere. Nonostante la richiesta che dopo un paio d’ore arriva praticamente da tutti a ripensarci. Da Franceschini a Guerini, da Andrea Orlando ad Andrea Marcucci. Amici e nemici. Oltre ai messaggi di solidarietà che il responsabile Organizzazione, Stefano Vaccari, raccoglie con cura. Non parla Stefano Bonaccini, il principale candidato alla successione. Giuseppe Conte gli telefona, per ribadire l’apprezzamento delle sue qualità umane e della sua lealtà. In fondo, i due condividono la stessa sorte: sono fuori, come voleva Matteo Renzi. Nel governo guardano con una certa preoccupazione a un Pd senza controllo, ma da quando è arrivato Draghi, a implodere sono stati i dem e i Cinque Stelle.

Zingarella

Come volevasi dimostrare, da quando è nato il governo Draghi il centrodestra non è mai stato così bene e i giallorosa così male. Non occorrevano le dimissioni di Zingaretti per capirlo. È un effetto collaterale dell’ammucchiata, in cui Draghi, per sua fortuna estraneo ai giochi politici, c’entra poco. C’entra molto di più chi l’ha concepita e imposta col ricatto del 2 febbraio al Parlamento “o mangiate questa minestra o saltate da quella finestra”: Mattarella & his friends. I quali, anziché usare quell’arma di pressione per rinviare alle Camere il Conte-2 (con lo spettro delle urne, i 5 o 6 voti mancanti al Senato sarebbero diventati 50 o 60), hanno preferito creare il Governo di Tutti. Come se, caduti il Conte-1 per mano di Salvini e il Conte-2 per mano dell’altro Matteo, la soluzione fosse un assembramento con tutti dentro. Come se le liti dei giallorosa si potessero spegnere cumulandole con quelle del centrodestra. Come se le discordie fra i partiti fossero pretestuose come quelle agitate dall’Innominabile contro Conte (Mes, task force del Recovery, Dpcm, settimane bianche, 007, reddito, Casalino, subito scomparse dai radar dopo il premiericidio), e non invece sostanziali e squisitamente politiche: a chi vanno i 209 miliardi Ue, se i vaccini sono un bene pubblico o un affare privato, se nella lotta al Covid prevale la salute o il profitto.

Per rinviare la politica a data da destinarsi, si è optato per due governi in uno: quello vero, che fa capo a Draghi, ai suoi tecnici e a Giorgetti, più il capo della Polizia e un generale dell’Esercito, che si occupano della ciccia senza render conto a nessuno; e quello finto dei ministri presi dai governi Conte e B., con funzioni puramente decorative. Il silenzio di Draghi regala praterie a Salvini, che come sempre blatera (così molti credono che faccia tutto lui, come nel Conte-1, senza neppure il fastidio della sinistra che gli dà del fascista o gli ricorda i flop della sua Lombardia). FI si ricompatta col sacro mastice del potere e pare addirittura un organismo vivente (c’è persino la Gelmini in vetrina). E la Meloni incassa consensi da esclusivista dell’opposizione, pronta a riunirsi con Matteo e Silvio in tempo per le urne. Chi sta meglio di loro? Il prezzo lo pagano tutto i 5Stelle, il Pd e LeU, che non toccano palla in un governo fatto apposta per il centrodestra. Con la differenza che il M5S ha almeno la carta Conte da giocare. Il Pd nemmeno quella. Zingaretti, con tutti i suoi limiti, era sopravvissuto a due scissioni (Renzi e Calenda) riscoprendo un barlume di progressismo, azzeccando l’asse col M5S e guadagnando consensi: peccato mortale, per un partito a vocazione suicidiaria per via della variante renziana. Quod non fecerunt Napolitani fecerunt Mattarelli.

“Una serata con me”: la comicità irriverente di Paola Minaccioni

“Non chiamatela comicità al femminile”. Ha le idee chiare sulle semplificazioni giornalistiche Paola Minaccioni, romana, 49 anni, una vita passata tra teatro, tv e grande schermo, senza disdegnare fortunate incursioni radiofoniche che hanno contribuito a consolidarne il profilo di artista a tutto tondo.

Da oggi è in streaming in esclusiva su tvloft.it con il suo Una serata con me (regia di Paola Rota, musiche di Lady Coco dj), e l’antifona è chiara: “Che differenza c’è tra la comicità al maschile e quella al femminile? La differenza è che nessun giornalista direbbe mai di un attore che fa comicità ‘al maschile’”. Come darle torto. Personalità da vendere, senza bisogno di qualifiche: “Sì, perché i personaggi che porto sul palcoscenico, in radio o al cinema, sono tutti un pezzetto di me. Sono tutte donne, io sono molte donne”. Implicita confessione di un’ossessione, neanche troppo celata. “Io faccio proprio tutto al femminile, io parlo al femminile, cammino al femminile, vesto al femminile, nasco proprio al femminile. Sono veramente ossessionata da questo genere. Interpreto solo ruoli femminili, appunto, da sempre!”.

Moltissimi ruoli. Che Minaccioni ci fa conoscere rimettendo insieme i frammenti del puzzle, in Una serata che è anche un po’ l’espressione della personalità poliedrica dell’attrice. I personaggi portati in scena, le tante donne che compongono l’io della protagonista. La donna che li incarna, un manifesto di instancabile versatilità. Gli esordi con i classici, la svolta comica, le prime esperienze televisive con Lillo&Greg e Serena Dandini. Poi il cinema e la fiction. I film con Ferzan Özpetek e i riconoscimenti: Globo d’oro per Magnifica presenza (2012), Nastro d’argento per Allacciate le cinture (2014). Nel frattempo, i successi tv di Un medico in famiglia e Una pallottola sul cuore. Mentre alla radio divertiva con 610, Radio2 Social Club o Il ruggito del coniglio. Ora sbarca su TvLoft, nell’ambito di Tutta Scena – Il teatro in camera, l’iniziativa di Loft Produzioni che dal 4 febbraio porta sugli schermi virtuali l’esperienza ancora negata dalle platee vuote. Un tema caro alla stessa Minaccioni, che, mai aliena all’impegno sociale (si legga alla voce “lotta ai femminicidi”, strage silenziosa di cui non manca di tenere il conto) giusto poche settimane fa parlava alle agenzie di “situazione fuori di testa”, chiedendo riaperture per un mondo in sofferenza di cui troppo poco si è ascoltato il grido. Anche questa è la protagonista di Una serata con me, comica, irriverente e mai banale. Per quanto riguarda TvLoft invece, il prossimo appuntamento è l’11 marzo: in scena Andrea Scanzi con il suo Com’era bello quando parlava Gaber.

Caro amico, ti filmo: Marcello dirige un doc “Per Lucio”

Oggi ne avrebbe compiuti 78. Ma gli anni per l’eternamente presente Lucio Dalla sono un accessorio. Meglio dunque cerchiare di rosso la congiuntura astrale che sovrappone le nozze d’oro della presentazione sanremese di 4 marzo 1943 alla première mondiale al Festival di Berlino di Per Lucio, il nuovo e bellissimo film di Pietro Marcello.

Un omaggio al grande musicista, e un dono per i bolognesi. “Vorrei fosse mostrato in Piazza Maggiore, tra la sua gente, magari presentato dal suo manager Tobia e dall’amico d’infanzia Stefano Bonaga” invoca il cineasta casertano auto-definitosi “terrone emozionato e rapito da Lucio Dalla, dall’infanzia e per sempre”. Unico, straordinario, inafferrabile. Il poeta jazz che non può stare dentro alle cose, semmai profetarle o provocarle, mutandone forma, colore, sapore. Il cinema inconfondibile di Pietro Marcello si addice al cantautore scomparso nel 2012 perché porta con sé l’idea di incompiutezza, un in progress per definizione. È lo stesso regista, che il film ha anche scritto insieme allo storico Marcello Anselmo, a dichiarare il desiderio di aggiungere, rimodellare, proseguire sul testo, “perché molto è rimasto fuori, c’è ancora tanto materiale negli archivi”.

Eppure il mosaico appare già perfetto in quest’opera, mescolanza sapiente di frammenti di Storia, quella di un amatissimo Paese che si risollevava dalle macerie belliche tentando di evolversi. Per Lucio, di fatto, è anche un viaggio nell’Italia testimoniata, cantata e musicata da Dalla: dalla tragedia della guerra al boom economico, un documento di montaggio che predilige accarezzare i volti segnati dalle fatiche operaie, dallo smarrimento degli immigrati, l’immaginario che muta pelle, la televisione che impazza, le illusioni che avanzano. Lucio Dalla, orfano precoce di padre e con una madre adorata, si è buttato giovanissimo nella Storia, nutrendosi del contatto umano, Ulisse curioso del mondo ma con i sentimenti fissi su Itaca/Bologna, un talento smisurato vissuto nel paradosso dello scontro/incontro col pubblico: nell’epoca dei belli era il brutto anatroccolo respinto e meno ascoltato, solo successivamente ha fatto breccia popolare, conquistando generazioni, attraversando dialetti, gruppi sociali e culturali e creando per ciascuno di loro, pubblicamente e privatamente, un inestimabile immaginario-sonoro collettivo.

“Il mio racconto scruta gli inizi di Lucio, attraversa il suo fondamentale incontro con il rigore poetico di Roberto Roversi, e si chiude quando Dalla inizia a scrivere i propri testi, diventando poeta a sua volta”. Ad accompagnare le immagini vintage – con grande cura riordinate – è un repertorio di brani, su cui spicca quella Mille Miglia “a mio avviso un autentico canto per l’Italia”, sottolinea il regista di Martin Eden, opera con cui Per Lucio presenta non poche assonanze di sguardo, materia e sentimento. Interlacciata al materiale d’archivio è la presenza degli unici due personaggi girati al presente: l’eterno manager Umberto Righi detto Tobia e l’amico di una vita, il filosofo Stefano Bonaga. Mentre il primo è filmato mentre omaggia Dalla e Roversi al cimitero, entrambi sono ripresi conversando amabilmente in trattoria, ricordando Lucio come fosse lì con loro, ironica onnipresenza/assenza.

Il film, selezionato in Berlinale Special, è prodotto dalla Ibc Movie del bolognese Beppe Caschetto legatissimo a Dalla, insieme a Rai Cinema e in collaborazione con Avventurosa e il sostegno della Regione Emilia-Romagna. “Spero lo potremo vedere presto nelle sale appena riapriranno, ferma restante la proiezione open air in Piazza Maggiore”, ha solennemente dichiarato l’ad di Rai Cinema, Paolo Del Brocco.

Sanremo, debutto in salita. Ascolti bassi e zona arancio

Laura c’è e, col permesso dell’Unione atei, l’avranno benedetta urbi et orbi dalle parti della Rai perché nella serata più delicata la presenza della Pausini nazionale qualche punticino di share vale (gli altri ospiti sono Gigi D’Alessio, Il volo, Marcella Bella, Fausto Leali e Gigliola Cinquetti). E poi c’è la garanzia Fiorello (che al mattino si è commosso – e ci ha commossi – parlando delle difficoltà della figlia adolescente e dei suoi coetanei, richiusi in casa): a lui Amadeus deve fare una statua equestre accanto al cavallo di viale Mazzini. Non è un caso che in questo impervio Sanremo sia sempre Fiore ad aprire le danze, come ieri, letteralmente, di nuovo in versione Achille Lauro. Il monologo (divertente) finisce con un appello al governo perché la campagna vaccinale proceda il più spedita possibile. A proposito di Covid: Irama, contatto stretto di un positivo, avrebbe dovuto ritirarsi. Ma rientra dalla finestra e in gara, grazie a un sogno omerico di Amadeus che nottetempo si è immaginato di mandare la registrata delle prove al posto dell’esibizione live: “Dopotutto anche lì non c’era il pubblico”. In verità non è proprio così semplice, ma è chiaro che i tempi impongono elasticità e gli altri big in gara (oggi a te, domani a me) hanno dato il loro assenso.

Chi invece dissente (in piazza) sono i commercianti e i ristoratori di Sanremo, mandati ai pazzi dal flipper impazzito dei colori, costretti a chiudere oggi e a regalare il cibo. In due settimane sono passati da rosso tenue a giallo scuro (domenica) per finire (da oggi) in arancione rinforzato. C’è un picco di casi in Regione e in città, che è anche sede di un ospedale Covid come si capisce dalle sirene delle lettighe, tristissima colonna sonora di queste giornate. Oggi bar e ristoranti dovrebbero chiudere: qualcuno ha dato in beneficenza il cibo acquistato, qualcuno ha chiesto in lacrime un ripensamento. Tutto, perfino mangiare, è complicatissimo in questo Festival igienizzato, tra tamponi, mascherine, divieti. La partenza è in salita. Il segno della croce sulla scala dell’Ariston (oggetto del solito ridicolo dibattito: “blasfemo!”, “inopportuno!”, “no, inoffensivo”) di Amadeus non è bastato. Gli ascolti della prima serata sono scesi rispetto allo scorso anno e non è una lieve flessione, come l’ha definita il direttore di Rai1 Stefano Coletta: un milione e mezzo di teste in meno, 46 per cento di share contro il 52 dell’anno scorso. E questo nonostante il coprifuoco che tiene la gente chiusa in casa. Ci si consola con i ggiovani: il target degli ascoltatori ringiovanito di un anno (53 anni di media contro i 54 del 2020); 63 per cento nella fascia 15-24 anni, con un più 71 per cento tra il pubblico delle ragazze. La rottamazione musicale però – tantissimi big portatori di sound nuovi – ha sia pro sia contro: il Festival ha perso pubblico maschile e pubblico anziano.

La seconda serata non ha promesso meglio visto che c’è stato il campionato di calcio (motivo per cui Zlatan non era presente ieri). Il giorno dopo il debutto poi è storicamente il più difficile: guardando indietro, al Fazio bis (che fece lo stesso risultato in prima serata, 46 per cento, scontava gli stessi problemi di questa edizione, cioè l’effetto fotocopia dell’anno precedente) costò un bagno di sangue (dieci punti di share). Al mattino in conferenza stampa, accanto alla stupendissima co-conduttrice Elodie, Amadeus aveva detto: “Sapendo che ci saremmo trovati in questa situazione forse avrei fatto una scaletta leggermente più corta, e mi sarei adeguato alla situazione”. Questo giornale va in tipografia ore prima della chiusura, ma azzardiamo un pronostico: la seconda serata finirà ancora più tardi. Per un pugno di share.