Le “sanzioni a raffica” (Boris Johnson) contro la Russia di Putin, “che la pagherà cara” (Joe Biden), sono così a raffica e così salate che, per esempio, mentre i blindati di Mosca entrano nel Donbass, la Uefa ancora non sposta la sede della finale Champions prevista il prossimo 28 maggio nella Gazprom Arena di San Pietroburgo. Perché, intanto, Nyon cosa fa? “Monitora in maniera costante, ma al momento non ci sono piani per cambiare sede”. Insomma, a questo punto, per capire quale sia la reale consistenza delle ritorsioni economiche minacciate dall’Occidente contro l’“invasore” rosso forse è sufficiente osservare la traiettoria del pallone. Perché i padroni del calcio “devono tenere insieme norme e sensibilità di 55 Paesi differenti, e per il rapporto strettissimo tra la stessa Uefa, Gazprom e Putin” (Panorama). Oltre a essere il più grande fornitore di gas d’Europa, Gazprom (fiore all’occhiello dell’impero dello zar Vladimir) versa ogni anno alla Uefa un mucchio di bei soldini in cambio degli spottoni televisivi prima, durante e dopo ogni match. Una cifra stimata nell’ultimo decennio in circa 300 milioni di euro. Infatti, la Russia non è l’Iran, un pianeta a se stante e poco interconnesso con l’Europa, che si può punire nel disinteresse generale. Mentre sanzionare, ma sul serio, gli oligarchi del rublo magico sarebbe come tagliare i cavi di una centralina elettrica per fare un dispetto al vicino, ma con il risultato di rimanere al buio. Così come è impossibile colpire gli interessi dei ricconi targati Cremlino senza depauperare il capitale di aziende, imprese, società, banche inglesi, francesi, tedesche, italiane che non valutano certo gli investitori dal colore del passaporto. A cominciare dal mitico Abramovic, padrone del Chelsea, visto che a Londra questo groviglio di interessi che nella City stipendia “un esercito di avvocati, contabili e consulenti di pubbliche relazioni è arrivato a finanziare lo stesso partito conservatore” (Corriere della Sera). Londongrad.
Tra Roma e Stabia, esistono due migliore
A novembre l’onorevole Iv, Gennaro Migliore, twittò che la democrazia era a rischio perché il Fatto aveva pubblicato un atto d’indagine “passato illegalmente”. Era parte dell’estratto conto del senatore Renzi, riportato in una informativa su Open. Non è l’omonimo del Gennaro Migliore denunciato da un consigliere di Castellammare di Stabia, Vincenzo Ungaro, e dal fratello Giovanni, perché nel 2019 diffuse un atto di indagine. È proprio lui. Migliore, segugio, seppe di quattro righe a pagina 612 di una informativa in cui si parlava di Giovanni Ungaro. E sostenne che “il fratello del presidente del consiglio era il prestanome di sim del clan”.
La denuncia forse finirà nel nulla: c’è richiesta di archiviazione. Lieti per Migliore, ma saremmo curiosi di sapere chi gli ha “passato” quell’atto, cosa c’è di diverso tra il suo operato e il nostro, e perché una democrazia è a rischio quando si diffondono atti su Renzi e non lo è quando riguardano il fratello di un politico di provincia.
Torzi, finti crediti venduti a Azimut, Bg e Intermonte
Azimut, Banca Generale e Intermonte Sim sono i tre istituti di credito che hanno acquistato obbligazioni e strumenti finanziari garantiti da crediti in realtà inesigibili che diverse Asl del sud Italia vantavano nei confronti di società sanitarie private. Obbligazioni messe sul mercato dal broker Gianluca Torzi, finanziere già noto alle cronache per essere tra gli imputati del processo in Vaticano sull’affare del palazzo di Londra, principale indagato nel procedimento. Le tre finanziarie sono parte offesa nell’inchiesta che ha portato la Procura di Milano a scoprire una presunta maxi-truffa valutata in un miliardo di euro. Torzi è coinvolto anche nell’inchiesta di Milano sui cosiddetti “mafia bond”, da cui nasce l’indagine. La Guardia di finanza ha visitato le sedi dei tre istituti e ottenuto l’iscrizione sul registro degli indagati anche di un manager di Azimut.
Il sistema architettato da Torzi, secondo gli inquirenti, e i suoi complici si sarebbe basato su imprese operative nel settore sanitario che vantavano dei crediti nei confronti di Asl calabresi, campane e laziali. Crediti, però, “inesigibili” perché relativi a prestazioni effettuate fuori dal budget e, dunque, non rimborsabili dalle azienda sanitarie locali.
Le imprese, che presentavano anche criticità fiscali ed economico-finanziarie tanto da rientrare per l’appunto nello schema dei cosiddetti “mafia bond”, avrebbero venduto quei crediti al gruppo di Torzi, il quale attraverso una “piattaforma” societaria li avrebbe rimessi in circolo tramite la creazione di prodotti obbligazionari con “in pancia” i crediti ritenuti “fantasma”.
Tim, lavoratori in sciopero: “No a spezzatino ed esuberi”
Evitare lo spezzatino, tutelare gli asset, garantire la tenuta occupazionale: sono queste le richieste di Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil scesi in piazza ieri con centinaia di lavoratori di Tim nella giornata dello sciopero generale andato in scena in molte città italiane. Per i sindacati l’adesione è stata del 70%. La mobilitazione – alla vigilia della presentazione del piano industriale del 2 marzo che potrebbe prevedere la separazione della società della rete e dei servizi – è per i timori sulle ricadute occupazionali di 42 mila dipendenti Tim e altrettanti dell’indotto.
Stellantis, primo bilancio da record: gli Agnelli brindano con 475 milioni
Per la famiglia Agnelli-Elkann, prima azionista di Stellantis con il 14,4%, è il momento di stappare lo champagne: il quarto gruppo mondiale dell’automotive, nato dopo una lunga gestazione il 16 gennaio dell’anno scorso dalla fusione tra Fca e la francese Psa, ha segnato conti superiori alle attese già dopo appena 12 mesi di esistenza. Il consiglio di amministrazione proporrà un dividendo complessivo di 3,3 miliardi all’assemblea degli azionisti del prossimo 13 aprile. Exor, la holding di famiglia, incasserà così 475,2 milioni. Ieri il titolo Stellantis ha chiuso in Borsa con un rialzo di 4,41% a 17,07 euro, portando la capitalizzazione a 50,69 miliardi.
Il primo bilancio si è chiuso con un utile netto di 13,4 miliardi, quasi triplicato rispetto al risultato pro-forma dell’annus horribilis 2020, quando l’utile netto era stato di 4,79 miliardi di euro. I ricavi netti sono saliti del 14% a 152 miliardi. Il risultato operativo rettificato è quasi raddoppiato (+95%) a 18,01 miliardi, pari a un margine dell’11,8% sui ricavi. Il flusso di cassa industriale disponibile ammonta a 6,1 miliardi, con i benefici di cassa netti da sinergie pari a circa 3,2 miliardi.
I risultati di Stellantis non erano scontati e sono stati ottenuti soprattutto grazie alla buona performance del secondo semestre, che è riuscita a sormontare le criticità legate alla carenza di chip e ai rincari delle materie prime. Margini e utili sono stati sostenuti dalle sinergie della fusione e dalle vendite: nonostante le difficoltà del settore l’anno scorso l’azienda ha lanciato una decina di nuovi modelli, tra cui Citroën C4 e DS 4, Fiat Pulse, Jeep Grand Cherokee, Wagoneer, Maserati MC20, Opel Mokka, Opel Rocks-e e Peugeot 308. Il gruppo ha inoltre annunciato ambiziosi piani per l’elettrificazione e la connessione, con un programma di investimenti di oltre 30 miliardi entro il 2025 e l’annuncio di forti partnership nelle tecnologie delle batterie, nei materiali per batterie e nello sviluppo software.
Martedì prossimo, primo marzo, l’ad Carlos Tavares presenterà il nuovo piano industriale del gruppo. Le sfide che Stellantis dovrà dimostrare di essere in grado di gestire sono il recupero del terreno perso nei confronti dei rivali sul fronte dell’elettrificazione, della presenza in Cina e della situazione post-pandemia. A gennaio le vendite di auto nella Ue sono calate del 6% su base annua e del 33% rispetto allo stesso mese del 2019 ad appena 682.596 unità, nuovo minimo storico. Stellantis ha segnato un calo del 12,4% delle immatricolazioni su base annua: sul suo piano sono appuntati gli occhi (e le preoccupazioni) dei dipendenti e della politica, specialmente in Italia.
La festa per gli Agnelli – Elkann era però iniziata già la scorsa settimana, quando il governo Draghi ha annunciato un miliardo di aiuti per ognuno dei prossimi otto anni “per accompagnare nel processo di transizione un settore importante come quello dell’automotive, sia per la produzione diretta che per l’indotto”. Sostegni che si trasformeranno anche in aiuti all’acquisto non solo di veicoli a motore elettrico, ma anche a benzina e diesel, e che si aggiungono ai 370 milioni che saranno garantiti dallo Stato per la realizzazione a Termoli della terza gigafactory per le batterie del gruppo in Europa, a fronte di un investimento di circa due miliardi e mezzo del gruppo.
Nello stesso giorno sia Exor che la sua controllante, l’accomandita olandese Giovanni Agnelli Bv, hanno versato poco meno di un miliardo all’Agenzia delle Entrate per chiudere le vertenze fiscali sul trasferimento delle sedi di Fca e delle sue società controllanti dall’Italia all’Olanda e al Regno Unito.
Spiccioli, rispetto ai 3 miliardi di dividendi incassati dalla sacra famiglia dell’auto in 13 mesi. Spiccioli anche a fronte dello sconto fiscale ottenuto dal governo sull’exit tax, che potrebbe aver superato i 3 miliardi e sul quale nessuna autorità pubblica sta facendo chiarezza. Come sempre, quando c’è di mezzo l’ex Fiat le perdite si pubblicizzano, mentre fioccano aiuti pubblici a pioggia che sostengono i già ricchissimi dividendi privati.
Mite senza gas e senza direttore. In pensione il dg della sicurezza
Crisi del gas, scontro tra Russia e Ucraina, tensioni su approvvigionamenti e gasdotti, caro bollette. L’Italia cerca di conquistare un minimo di indipendenza energetica, favorendo i petrolieri per aiutare le imprese energivore, mentre il ministro Roberto Cingolani risponde alle domande dei parlamentari alla Camera, ribadendo che non si consumerà più gas ma semplicemente si proverà a importarne di meno e si aumenterà la produzione tra Sicilia e Marche. Questo è ciò che accade in superficie, un mare agitato che fa pensare a un intenso brulichìo affaccendato della macchina ministeriale, con piani per il futuro, posizioni salde e ferme, visioni a lungo termine in mezzo alle convocazioni del Comitato tecnico di emergenza e monitoraggio, citate sempre ieri da Cingolani.
Invece, al ministero della Transizione ecologica si è nel pieno di un delicato passaggio di consegne, con all’orizzonte un posto vacante fondamentale: quello del direttore generale per la Sicurezza e le Infrastrutture energetiche, che rimarrà scoperto dopo il pensionamento di Mariano Grillo, che aveva assunto la carica meno di un anno fa e che andrà via a partire dal primo marzo.
Con un tempismo davvero sfortunato, il ministero ha avviato martedì “con la massima urgenza” una procedura di interpello per trovare il successore di Grillo “al fine – si legge nel bando – di assicurare la celere e completa operatività della struttura, la continuità dell’azione amministrativa e garantire il raggiungimento degli obiettivi assegnati alla suddetta Direzione generale, stante la rilevanza istituzionale delle nuove funzioni strategiche attribuite alla stessa”. Bisogna però fare in fretta anche “considerata l’emergenza gas e gli sviluppi sullo scenario internazionale”, si legge ancora.
Basta dare un’occhiata alle competenze della dg per capire come mai: “Sicurezza di approvvigionamento”, “sviluppo di nuove tecnologie energetiche sostenibili”, “autorizzazione, regolamentazione e interventi di sviluppo delle reti”, “rilascio delle concessioni”, “infrastrutture di approvvigionamento dall’estero” e ancora “protezione delle infrastrutture critiche”, “scorte energetiche strategiche”, “predisposizione coordinamento piani sicurezza energetici con altri Stati membri” “piani di emergenza”.
La direzione in questione si occuperà anche degli “stoccaggi di gas metano, idrogeno e CO2 nel sottosuolo e sviluppo delle tecnologie e dei sistemi di accumulo dell’energia”, quindi dei sistemi che dovrebbero permettere di abbattere le emissioni di anidride carbonica iniettandola nei pozzi ormai vuoti e di quelli che dovrebbero aiutare a garantire la continuità delle forniture elettriche. Si potrebbe continuare, ma il novero della lista durerebbe più del tempo concesso per l’interpello: la scadenza è fissata al 28 febbraio, domenica. Direttore cercasi: in meno di una settimana.
La Russia assolve Putin: “Scelte necessarie”
“L’Unione Sovietica si è dissolta trent’anni fa, ma il crollo non è ancora terminato. La crisi ucraina, come molti altri conflitti dello spazio post-sovietico, è una conseguenza di quello che è successo nel 1991”. Per Aleksandr Gushchin, professore del Dipartimento dei Paesi post-sovietici dell’Università Statale russa e membro del Riac (Consiglio Affari internazionali, think tank vicino al Cremlino), non è stata ancora smaltita, né a est né a ovest, la letale sbornia storica che sigillò la fine della Guerra Fredda. Alla luce – o alla penombra – di quel passato, adesso, “nella lotta tra Kiev e Mosca rimangono solo due strade: quella di un nuovo “congelamento” del conflitto o quella dell’escalation. Ma temo che prevalga la seconda e i rischi sono piuttosto alti”. Per lo storico, il presidente Putin ha compiuto una scelta così “radicale” in tv il 21 febbraio scorso – quando ha destabilizzato a colpi di ukaz la mappa geografica gialloblu, riconoscendo l’indipendenza delle due repubbliche ribelli di Donetsk e Luhansk – perché “si è reso conto che non c’era progresso negli sforzi diplomatici: nessuna rassicurazione sul divieto d’ingresso di Kiev nella Nato, nessun passo verso la neutralità o la “finlandizzazione” dell’Ucraina, nemmeno con Zelenski al potere, che si è presentato come presidente della pace”.
Ci sono almeno tre conflitti in una guerra sola: quello civile interno ucraino, la morsa tra Mosca e Kiev e una nuova rinvigorita opposizione tra Russia e spazio euro-atlantico. “Come ogni unione militare, anche la Nato per sopravvivere ha bisogno dell’immagine di un nemico comune: se manca, si dissolve. La crisi ucraina in questo senso ha consolidato l’Alleanza, ma tutto ciò che accade ci sta allontanando da un sistema di sicurezza stabile in Europa”. Adesso che “gli accordi di Minsk sono stati uccisi, è necessario trovare un nuovo formato” per permettere alle scintille di spegnersi, dice Gushchin. Tutte le guerre sono destinate allo stesso esito: finiscono, ed “è inevitabile che Russia e Ovest ricominceranno a parlarsi, anche se saranno negoziati duri”. Il pericolo attuale aumenta in misura esponenziale quando si raggiunge la linea di fronte, che al momento non esiste o almeno non è uguale per tutti: il Cremlino ha riconosciuto l’indipendenza delle repubbliche con le frontiere amministrative del 2014, ma oggi molti di quei territori non sono più sotto controllo delle milizie della Dnr e Lnr. “Non si può non ammettere che la Russia ha sostenuto le repubbliche militarmente e politicamente, ma era un supporto richiesto. C’è un altro aspetto da non tralasciare, mentale, storico, esistenziale, di cui ha parlato anche il presidente Putin nella prima parte del suo discorso: l’Ucraina, per la Russia, non sarà mai un territorio qualunque”.
A Mosca l’euforia collettiva scatenata dall’annessione della Crimea non ha fatto svettare il consenso di Putin come otto anni fa. Secondo i calcoli dell’Istituto sondaggi statale Vtsiom, tre quarti dei russi, ovvero almeno il 73%, ha approvato la sua decisione. Invece secondo il direttore del centro indipendente Levada, il sociologo Denis Volkov, in realtà questa polarizzazione nell’opinione pubblica russa non esiste: sia i fedelissimi del Cremlino quanto gli oppositori accusano Washington dell’escalation in Ucraina, ma, in generale, l’argomento Donbass ha piuttosto stordito i cittadini comuni. Se una guerra breve come quella in Georgia nel 2008 aiuterebbe il leader, un lungo conflitto finirebbe per minarne il potere. Secondo un altro sondaggio, condotto dalla Cnn, solo il 50% dei russi ha giustificato l’intervento del presidente. Ma dove finiscono i confini russi e dove iniziano quelli ucraini – se sono davvero tracciabili di comune accordo – si può leggere in filigrana in altre cifre diffuse dall’emittente americana: per il 66% dei cittadini della Federazione, russi e ucraini sono un solo popolo, ma in Ucraina a pensarla così non è nemmeno il 30% della popolazione.
“Non credo proprio che la maggior parte dei russi prevedesse il riconoscimento delle due repubbliche in questo momento: forse questa aspettativa c’era nel 2014 e nel 2015. Poi esperti e opinione pubblica hanno dato per scontato che non avvenisse, che le autorità russe avessero preferito proseguire su canali diplomatici”. Negli uffici del Mgimo, il prestigioso Istituto statale per le relazioni internazionali di Mosca, la professoressa Yulia Nikitina non parla dei febbrai ucraini – quello della rivoluzione di Maidan e quello del riconoscimento delle due enclavi – ma del 1999, quando cominciarono i bombardamenti Nato in Jugoslavia: “Da allora i politici di Mosca sono diventati critici verso l’Occidente, da allora, credo, Mosca non si fida più dell’Alleanza”. Quello che Putin ha scelto di fare è “stato fissare lo status quo: riconoscendo le repubbliche ha impedito quello che ha sempre richiesto, che l’Ucraina non entrasse a far parte della Nato, che non accetta tra i suoi membri Stati che hanno conflitti territoriali. Questa decisione politica è stata la soluzione che ha trovato il Cremlino”, che non intende proseguire oltre sul piano militare, crede la studiosa. In passato Mosca ha provato a eliminare l’eredità della Guerra Fredda o, quantomeno, a superarla: nel 2008 l’allora presidente Dmitry Medvedev propose l’adozione di un Trattato sulla Sicurezza pan-europeo, che obbligava tutti i membri alla non belligeranza, un accordo di sicurezza regionale nell’area euro-atlantica. “La proposta di Medvedev però non fu accolta con favore da Europa e Usa”, ricorda la Nikitina, e l’eredità del mondo diviso in blocchi è rimasta. “Sappiamo bene che l’Ovest non considera la Russia una democrazia. Le élite politiche russe rimangono sotto sanzioni dal 2014, ma le misure restrittive non sembrano costituire un passaggio chiave per la scelta delle decisioni di politica estera”. Ma, dice la Nikitina, “c’è anche una sensazione molto più antica del conflitto attuale: non importa quanto ci provino o cosa facciano i russi, tanto non verranno mai accolti nella comunità internazionale occidentale o nell’architettura politica europea”.
Gli Usa a Kiev: “Mosca invade tra 48 ore”
La sicurezza e gli interessi della Russia “non sono negoziabili”, avverte Vladimir Putin, che si dice tuttavia “aperto al dialogo” e non esclude “soluzioni diplomatiche” alla crisi ucraina. Un ramoscello d’ulivo? No, ma un momento di de-escalation verbale rispetto al discorso di lunedì, che non trova, però, eco nei fatti, dopo la decisione di Mosca di riconoscere le due repubbliche separatiste nell’Est del Paese russofono – quelle di Donetsk e di Luhansk – e l’annuncio di sanzioni contro Mosca da parte di Washington e di praticamente tutto l’Occidente. Intanto ieri l’Amministrazione Biden ha informato il presidente ucraino Zelenski che secondo informazioni di intelligence la Russia sta preparando una invasione su larga scala del suo Paese nel giro delle prossime 48 ore. Lo riferiscono Newsweek e la Cnn citando dirigenti dell’intelligence americana.
Così Kiev annuncia la mobilitazione dei riservisti e chiede ai suoi connazionali di lasciare “immediatamente” la Russia. Il Pentagono conferma l’invio nei Paesi baltici di 800 uomini dall’Italia, nonché di otto F-35 e di 20 elicotteri da attacco Apache dalla Germania. Altri 12 elicotteri dello stesso tipo vengono spostati spostati dalla Grecia in Polonia. Controcorrente, Donetsk sostiene che “la presenza di truppe russe nel Donbass sarà possibile solo in caso d’offensiva da parte di Kiev” – ma colonne armate sarebbero già entrate nelle due Repubbliche –. Secondo la Bild, unità speciali russe sono in azione in Ucraina senza insegne. E per il Pentagono l’80% delle forze russe lungo i confini ucraini sono pronte a entrare in azione. Gesti militarmente poco significativi, quasi simbolici, ma benzina sul fuoco delle tensioni. Un conflitto potrebbe innescare cinque milioni di profughi. I messaggi incrociati dei presidenti russo Putin e Usa Joe Biden testimoniano l’intensità drammatica del confronto Est-Ovest in atto. A Kiev, il Parlamento conferma lo stato di emergenza per 30 giorni e autorizza il coprifuoco e limitazioni agli assembramenti in certe regioni. Rispondendo a Putin, che dice che la Russia non accetterà mai l’Ucraina nella Nato e gli chiede di rinunciare a tale prospettiva, il presidente ucraino Zelenski rilancia le ambizioni di aderire all’Ue e alla Nato. Per Zelenski, “è arrivato l’ora di reagire con forza”, perché “il destino dell’Europa si decide sul campo in Ucraina”. Kiev smentisce, però, di disporre di armi atomiche – una voce alimentata da Mosca –. L’Unione europea convoca una riunione straordinaria, stasera, a Bruxelles, dei leader dei 27: tema, la crisi ucraina. Sul tavolo c’è un pacchetto di sanzioni che colpiscono l’economia e le finanze russe e figure di potere vicine a Putin, fra cui il capo di gabinetto del presidente Anton Vaino e il ministro della Difesa Sergei Shoigu. La messa a punto e l’attuazione delle sanzioni, già discusse martedì dai ministri degli Esteri dei 27, deve però passare attraverso i complessi e farraginosi meccanismi decisionali dell’Ue. David Leonhardt sul Nyt si chiede se tutto l’apparato di misure punitive in fase di elaborazione e applicazione “funzionerà”: “L’ultima volta non ha funzionato”, osserva, riferendosi all’inefficacia delle misure prese dopo l’annessione della Crimea nel 2014.Dopo Stati Uniti, Regno Unito e Unione europea, anche Canada e Giappone applicano restrizioni nei confronti di Mosca. Il Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ammonisce il Cremlino che “i principi della Carta delle Nazioni Unite non sono un menu à la carte. Non possono essere applicati selettivamente. Gli Stati membri devono applicarli tutti”. Sulle sanzioni, il ministero degli Esteri cinese fa sapere di essere contrario a imporre misure contro la Russia e si augura che tutte le parti coinvolte nella crisi ucraina cerchino di risolvere la questione attraverso il dialogo. La portavoce del ministero, Hua Chunying, accusa gli Usa di “versare benzina sul fuoco” della crisi”.
Papa Francesco: “La pace viene minacciata da interessi di parte”
All’udienza generale che si è svolta ieri, Papa Francesco non ha nascosto la preoccupazione per come si evolve la crisi in Ucraina e ha lanciato l’iniziativa di un digiuno per il 2 marzo, mercoledì delle ceneri. “Nonostante gli sforzi diplomatici delle ultime settimane – ha detto Bergoglio – si stanno aprendo scenari sempre più allarmanti. Come me, tanta gente in tutto il mondo sta provando angoscia e preoccupazione. Ancora una volta la pace di tutti è minacciata da interessi di parte”. Rivolgendosi ai capi di Stato, Papa Francesco ha rinnovato l’invito a trovare soluzioni diplomatiche: “Vorrei appellarmi a quanti hanno responsabilità politiche perché facciano un serio esame di coscienza davanti a Dio, che è il Dio della pace e non della guerra. Il Padre di tutti, non solo di qualcuno, ci vuole fratelli e non nemici. Prego tutte le parti coinvolte perché si astengano da ogni azione che provochi ancora più sofferenza alle popolazioni destabilizzando la convivenza tra le nazioni e screditando il diritto internazionale”.
Draghi non va più a Mosca e Lavrov sbeffeggia Di Maio
Quella che inizialmente sembra una gaffe rivela invece l’inasprimento dei rapporti tra l’Italia e Russia. Effetto di un riallineamento brusco alla Nato e agli Stati Uniti che porta all’annullamento del viaggio di Draghi a Mosca.
Quando il ministro degli Esteri Luigi Di Maio relaziona al Parlamento, annuncia che “non possano esserci nuovi incontri bilaterali con i vertici russi, finché non ci saranno segnali di allentamento della tensione, linea adottata, nelle ultime ore, anche dai nostri alleati e partner europei”.
L’annuncio di Di Maio. La frase fa rumore e da Mosca arriva la replica stizzita del ministero guidato da Serghej Lavrov che definisce la sortita di Di Maio “una strana idea di diplomazia” per poi aggiungere velenosamente: “I partner occidentali dovrebbero imparare a usare la diplomazia in modo professionale” anche perché è stata inventata per risolvere situazioni di conflitto e alleviare la tensione, e non per viaggi in giro per Paesi e degustazioni di piatti esotici a ricevimenti solenni”.
Trattandosi di Di Maio, giovane ministro degli Esteri, per di più 5Stelle, la frase sembra costruita apposta per corroborare l’idea del politico incompetente, un “bibitaro” alle prese con le crisi internazionali. Ma dalla Farnesina (cui nel frattempo arriva la solidarietà del Pd, anche questo un fatto nuovo) replicano con fermezza confermando la frase e soprattutto sostenendo che è stata coordinata con il presidente del Consiglio, Mario Draghi. Dopo un’ora circa, arriva al Fatto la conferma di Palazzo Chigi: “Le visite bilaterali sono sospese in attesa di segnali distensivi da quella parte. Così tutti i partner europei”. Draghi, quindi, diversamente da quanto annunciato ancora nei giorni scorsi, non andrà per il momento a Mosca.
La stessa decisione viene comunicata a stretto giro da Francia e Stati Uniti, che annullano l’atteso incontro tra il Segretario di Stato, Antony Blinken e lo stesso Lavrov. Blinken avrebbe dovuto vederlo oggi a Ginevra, mentre l’incontro con il francese Jean Yves Le Drian era previsto per venerdì.
Azione concertata. A riprova dell’irrigidimento delle posizioni occidentali, Germania e Finlandia decidono di convocare l’ambasciatore russo, mentre il Dipartimento di Stato americano ci tiene nel pomeriggio a rendere noto che la vicesegretaria di Stato, Wendy Sherman, ha parlato con il segretario generale del ministero degli Esteri francese, François Delattre, il segretario di Stato del ministero degli Esteri tedesco, Andreas Michaelis, il segretario generale del ministero degli Esteri italiano, Ettore Sequi , e il ministro di Stato britannico per l’Europa e il Nord America, James Cleverly.
L’evoluzione dei rapporti tra la Russia e i Paesi europei segue il progressivo allarme che gli Stati Uniti lanciano a livello internazionale con l’imminente (di nuovo) invasione russa dell’Ucraina, stavolta nel giro di 48 ore. Gli Usa continuano nella loro strategia di compattamento occidentale con Francia, Italia e Germania che, non si sa quanto volenti o nolenti, sono costrette ad allinearsi. Tanto più se è vera la disponibilità russa di continuare il dialogo come traspare dalla risposta a Di Maio e come ripete lo stesso Vladimir Putin rispondendo agli Usa.
La difficoltà europea a tagliare i ponti con Mosca e, soprattutto, ad adattarsi alle sanzioni internazionali (finora abbastanza morbide, ma nei prossimi giorni destinate probabilmente a inasprirsi) la si può leggere non solo nell’annuncio che il 90% delle Pmi italiane continueranno a fare affari con la Russia, ma soprattutto nelle vicende della larga maggioranza che sorregge proprio Draghi. Il quale, sulle sanzioni, non può vantare una maggioranza coesa.
Vasta maggioranza. Il leader della Lega, Matteo Salvini, infatti, sceglie di distinguersi con un attacco frontale all’Alto rappresentante europeo per la politica estera, Josep Borrell: “Per il capo della politica estera dell’Unione europea, le sanzioni contro la Russia servono a bloccare lo shopping dei russi a Milano e i loro party a Saint Tropez… Siamo al ridicolo. O forse al tragico”. Nel pomeriggio, dopo aver incontrato il presidente Mattarella al Quirinale, Salvini stempera un po’ la dichiarazione, ma l’approccio filorusso della Lega è noto. Ma il capo leghista, almeno nella giornata di ieri, trova sponda anche in Forza Italia che si distingue per un intervento al Senato di Maurizio Gasparri che parla di sanzioni dannose per l’Italia e fa un piccolo show a base di Guerra di Crimea (del 1853) e dottrina Monroe. E poi, in serata, per una nota ispirata da Silvio Berlusconi, in cui si sottolinea che bisogna procedere secondo una via “più pragmatica” a favore di sanzioni “graduali e commisurate” mantenendo aperto il dialogo. Non fa parte della maggioranza, ma anche Giorgia Meloni invita a tener conto dell’interesse nazionale mentre parte per gli Stati Uniti invitata al meeting dei Conservatori.
La maggioranza draghiana va in ordine sparso e mentre Giuseppe Conte invita ancora a trattare – e alla Camera si nota un distinguo del capogruppo 5S Davide Crippa su un’Italia troppo schiacciata sulla Nato – ci pensa il Partito democratico a ribadire i fondamentali. Con Enrico Letta prima e poi con il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, parte la batteria di fuoco che invita a non avere esitazioni sulle sanzioni, che occorre fare male alla Russia e, in soldoni, allinearsi a Joe Biden, che non a caso si congratula con Olaf Sholz per il coraggio mostrato con il North Stream 2. Mosca può aspettare.