La mafia di Foggia, nata dal cattivo “seme” di Cutolo

Le mafie non crescono in un istante. Il seme germoglia, le radici affondano, la pianta cresce e se nessuno la recide infesta ovunque può. Nel Tavoliere, nel “granaio d’Italia”, uno dei semi della “Quarta Mafia” lo portò con le sue mani Raffaele Cutolo, sul finire degli anni 70, presenziando da latitante – era da poco evaso dall’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa – all’incontro che si tenne nell’hotel Florio di Foggia: il suo obiettivo non era quello di organizzare in modo stabile la delinquenza, ma di aggregare alla sua Nuova Camorra Organizzata i più talentuosi delinquenti pugliesi e, in quell’occasione, il visionario boss di Ottaviano diede i gradi ad affiliati liberi e affiliati in carcere. Era il 1979.

C’è voluta una strage con due vittime innocenti, ben 34 anni dopo, per mostrare a tutti la ferocia – e persino la stessa esistenza – della mafia germogliata da quell’incontro. Ora che Cutolo non c’è più – è morto due settimane fa – la sua pianta foggiana gli sopravvive. Sono molti i motivi che dovrebbero spingerci a leggere Quarta mafia – La criminalità organizzata foggiana nel racconto di un magistrato sul fronte, scritto dal procuratore aggiunto di Foggia, Antonio Laronga, edito da Paper First . Tra questi, il primo motivo è proprio conoscerla. Conoscerla per smettere di pensare che non esista. Conoscerla e fare in modo che la conoscano anche gli altri. Il più possibile. Quarta mafia non è soltanto un libro. È anche l’incipit di un impegno civile: quello di illuminare un fenomeno che si è rafforzato – e Laronga ci racconta fino a che livello – proprio grazie al “buio” che l’ha favorito. Quarta mafia per la prima volta sistematizza, rendendola comprensibile a chiunque, la complessa geometria delle mafie foggiane. Il seme portato da Cutolo – è da qui che inizia una storia che a tratti sembra incredibile – cresce con linfa e peculiarità proprie. La ferocia, innanzitutto. Terminata la lettura, si ha l’impressione di aver attraversato un cimitero, e che gli unici a restare vivi siano in due: Laronga e il lettore. Una processione di lapidi, di morti ammazzati che diventano l’ostensione di un messaggio: volti annientati dall’esplosione dei proiettili, per negare ai parenti della vittima anche la più remota possibilità di guardarli un’ultima volta. Ferocia e vendette. Ma anche amore e pentimenti. L’amore di una donna che lascia il boss di un clan perché sedotta dal suo principale avversario. Ma si ritrova a vivere sotto il sospetto costante dell’intera “nuova” famiglia e, per proteggere i suoi figli, decide di mollare tutto e collaborare con la giustizia. “Lo Stato per fortuna oggi si muove”, scrive don Luigi Ciotti nella prefazione, “la quarta mafia” è stata recentemente definita dal procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho una vera e propria emergenza nazionale. E dopo la ‘strage di San Marco in Lamis’, che nel 2017 è costata la vita ai fratelli innocenti Aurelio e Luigi Luciani, ci sono state scelte forti che hanno evidenziato una presenza più attenta e fattiva delle istituzioni sul territorio”. Il 10 gennaio 2020, a Foggia, 20mila cittadini hanno risposto all’appello di Libera partecipando a un corteo contro mafia, corruzione e violenza. “Tutto questo – commenta Ciotti – esprime il bisogno di riscatto di una comunità stanca”.

“Le forze di polizia del territorio – scrive l’autore nella sua introduzione – hanno ricevuto importanti rinforzi: sono stati istituiti lo squadrone eliportato carabinieri cacciatori di Puglia, il reparto prevenzione crimine Puglia settentrionale della polizia di Stato, una sezione operativa della direzione investigativa antimafia”. E poi aggiunge: “Ma la risposta a livello repressivo non basta. È necessaria un’operazione di contrasto con un impegno corale e su più livelli. Occorre, a livello educativo, sensibilizzare la società civile verso questa criminalità così poco indagata dai media e dalla letteratura sul fenomeno mafioso, divulgarne le caratteristiche e le potenzialità strategiche, le connessioni con settori della Pubblica amministrazione, far conoscere la sua ferocia e i disastri che ha provocato su benessere e sviluppo delle comunità assoggettate. Le mafie foggiane devono uscire dall’anonimato in cui sono state relegate per decenni e del quale si sono avvantaggiate, approfittando del clima di generale sottovalutazione”. Ecco, con Quarta mafia, leggendolo e consigliandone la lettura, ciascuno di noi può schierarsi e dare un contributo a questa lotta: le mafie foggiane – al pari delle altre – devono essere considerate un problema di tutti i cittadini italiani. Soltanto allora potranno essere sconfitte. Le mafie non crescono in un istante e non basta un istante per annientarle. Ma conoscerle e comprenderle è il primo dei passi necessari.

La pazza idea di Erdogan: estromettere il partito curdo

Questa volta il Sultano di Ankara, Recep Tayyip Erdogan, sembra stia davvero per raggiungere l’obiettivo che si è posto fin dal 2015: mettere fuorilegge ed estromettere dal parlamento il Partito Democratico dei Popoli filo curdo ( HDP) che nelle elezioni di sei anni fa aveva superato la soglia del 10 per cento entrando così nell’aula di Ankara. Appoggiato dai membri del partito alleato, gli ultra nazionalisti del MHP, noti anche come Lupi Grigi, “il governo ha in programma di chiudere il Partito filo curdo”, ha confermato Cahit Ozkani, vice presidente del parlamento nonchè esponente di punta del partito della Giustizia e Sviluppo (AKP, fondato dall’attuale presidente della Repubblica Erdogan) ininterrottamente alla guida dell’esecutivo dal 2003. Il governo del presidente Erdogan e i suoi alleati nazionalisti hanno sempre denunciato l’HDP di legami con il fuorilegge Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK, fondato da Ocalan). Accuse che si sono intensificate dopo che Ankara ha affermato che i 13 cittadini turchi catturati e uccisi in Iraq il mese scorso sono stati vittime di un’imboscata dei guerriglieri del PKK, dal 2013 parzialmente stabilitisi sulle montagne del Kurdistan iracheno e nella città yazida di Sinjar (sempre in Iraq) e a Kobane, in Siria, per combattere contro l’Isis. I Lupi Grigi dalla scorsa legislatura sono complici di Erdogan anche per quanto riguarda la richiesta di reprimere e incarcerare non solo i parlamentari ma anche i tanti sindaci e funzionari regionali del partito filo curdo. Il primo tra le centinaia e centinaia di membri e sostenitori dell’HDP a finire in carcere, dopo essere stato sollevato dall’immunità parlamentare, è il fondatore e leader del partito, l’avvocato curdo Selahattin Demirtas. Il parlamentare si trova dietro le sbarre dal 2016 sulla base di accuse prefabbricate tanto che la Corte Europea l’anno scorso aveva intimato alla Turchia di rilasciarlo assieme ad altri oppositori. Il presidente ieri ha sottolineato che la Turchia amplierà le operazioni transfrontaliere contro i militanti curdi dopo l’uccisione dei turchi nel nord dell’Iraq.

Tanden, la democratica antipatica ai progressisti

Un tweet aggressivo, anzi mille tweet precipitosamente cancellati, e un profilo furbescamente modificato da ‘progressista’ a ‘liberal’ hanno fatto saltare la conferma di Neera Tanden, 50 anni, origini indiane, a direttrice dell’Office of Management and Budget della Casa Bianca, un incarico che richiede l’avallo del Senato. Ma, forse, quel posto non l’avrebbe mai avuto: troppi i nemici che s’è fatta, pure a sinistra. Tanden, un’attivista democratica la cui designazione, il 30 novembre, aveva fatto sollevare più d’un sopracciglio a Washington, anche fra i democratici più ‘liberal’, ha scritto al presidente Biden riconoscendo che “purtroppo appare ora chiaro che non c’è modo di ottenere la conferma”.

“Non voglio che la mia nomina diventi una distrazione dalle altre priorità” della nuova Amministrazione. Biden ha dunque accettato la richiesta della Tanden di ritirare la designazione, ma resta “impaziente di vederla servire in un altro ruolo nella sua Amministrazione”, che non richieda l’avallo del Senato. Un po’ quello che era preventivamente accaduto con Susan Rice, candidata a ruoli di primo piano, ma poi confinata a un incarico interno per sottrarla all’ostilità manifesta di molti senatori.

Per Biden è la prima sconfitta in un Congresso dove i democratici controllano Camera e Senato. Ma non è la sola: giunge insieme a uno scacco sul salario minimo, da portare a 15 dollari l’ora, una priorità, per la sinistra dei democratici. La Camera l’ha approvato insieme al nuovo stimolo per l’economia da 1.900 miliardi di dollari, ma il Senato ha già giudicato improponibile l’accorpamento di stimolo e salario minimo in un unico provvedimento. Presidente del Center for American Progress, un think tank troppo spregiudicato per la maggioranza dei senatori statunitensi, Tanden ha pagato i giudizi taglienti dati su Twitter su molti protagonisti della politica Usa.

Decisiva, in particolare, l’ostilità del senatore della West Virginia Joe Manchin, il più conservatore dei democratici, che le aveva annunciato il voto contrario già due settimane fa, a causa delle sue prese di posizione “apertamente partigiane”.

Tanden, umili origini, ma capace di laurearsi a Yale a colpi di borse di studio, ha avuto un ruolo in molte campagne presidenziali democratiche dal 1988 al 2020: è stata al fianco di Hillary Clinton da senatore e da candidata alla presidenza – le primarie del 2016 le crearono frizioni non superate con il senatore Bernie Sanders. Durante la presidenza Obama, contribuì a scrivere la riforma della sanità, l’Obamacare. La decisione di cancellare oltre mille tweet dal suo account e di cambiare il proprio profilo attirò ulteriore attenzione sulle audizioni per la sua conferma, suscitando dubbi “sulla sua trasparenza”, disse la senatrice Susan Collins, la meno ‘trumpiana’ dei repubblicani. Nelle audizioni, Tanden s’è scusata, fra l’altro, per avere comparato il leader dei senatori repubblicani Mitch McConnell, soprannominato ‘Moscow Mitch’, a Lord Voldemort, il cattivo della saga di Harry Potter.

Il senatore John Cornyn definì la sua designazione “radioattiva”, in contrasto con altre di Biden più accettabili. La Npr, la radio pubblica, la bollò come “la scelta di Biden più controversa”. Il magazine Politico scrisse che designarla era “come versare del sale su una ferita”. Anche i ‘sanderisti’ sono caustici: “Ci sono i progressisti – è il loro distinguo – e c’è Neera Tanden”.

Il sexgate Salmond diventa faida politica: Sturgeon in difesa

È una bruttissima storia di potere, presunte rivalità politiche, scandali che forse scandali non erano. Protagonisti: un politico ex potente e la sua brillante pupilla, che ne ha preso il posto.

Lui è Alex Salmond, l’uomo che ha riportato l’indipendenza scozzese al centro dell’agenda politica di Edimburgo: capo dello Scottish National Party per 20 anni, premier scozzese dal 2007 al 2014, leader carismatico la cui carriera, e la cui intera battaglia politica si infrange contro un muro di No al referendum indipendentista del 2014. Lei è Nicola Sturgeon, sua vice, che gli succede dopo le dolorose dimissioni e, malgrado la batosta referendaria, riesce a portare avanti la bandiera dell’indipendentismo e fa crescere i consensi del partito.

Nel 2018 Salmond, ormai quasi del tutto fuori dai giochi e bocciato anche alle elezioni del 2017 per un seggio a Westminster, viene travolto da 14 circostanziate accuse di tentato stupro e assalto a sfondo sessuale di cui sarebbe stato responsabile nel 2013, da primo ministro. Le combatte respingendo ogni addebito, come si fa in questi casi. Il 24 gennaio 2019 è il giorno dell’infamia: Salmond viene arrestato, le ripercussioni nel paese sono profonde. Il processo inizia poco dopo ed è una penosa via crucis legale, con corredo di panni sporchissimi e accuse infamanti: la Sturgeon, un tempo fedelissima al leader, è First Minister, è a capo del governo che indaga sull’accaduto. Ed è una donna. Non può che prendere le distanze e far arrivare la propria solidarietà alle vittime. Solo che, il 23 marzo scorso, il suo ex leader viene riconosciuto innocente di 12 imputazioni: delle altre due, una era già stata ritirata dagli investigatori e l’ultima mai provata. Lui carica in un feroce contrattacco, sostenendo di essere stato vittima di una trappola, una congiura orchestrata da persone vicine alla Sturgeon, incluso il marito e alto dirigente del SNP, per danneggiarne definitivamente la reputazione. Dice di averne le prove, e che durante le indagini la sua ex protetta avrebbe in più occasioni infranto il codice ministeriale, le rigorose procedure previste in casi simili.

Lei nega, naturalmente, ma ieri è stata torchiata per 4 ore da una commissione parlamentare creata per fare chiarezza sull’accaduto. Si è difesa con passione, ammettendo una dimenticanza che potrebbe rivelarsi cruciale ma ribadendo la sua devozione alle procedure; ha confermato la sua solidarietà alle vittime, ha sfidato Salmond a produrre le prove della presunta congiura e, soprattutto, ha ricordato che lei è al servizio delle istituzioni, più importanti di qualunque singolo che occupi temporaneamente la poltrona più alta. Problema politico: se le accuse dovessero essere provate, o anche solo se l’inchiesta dimostrasse una violazione del codice ministeriale, l’esito più probabile è che la Sturgeon debba dimettersi. Salmond non è l’unico a chiedere un passo indietro. E qui il quadro si complica moltissimo, non solo perché anche la Scozia è alle prese con la violenza della pandemia di Covid, che la First Minister ha tutto sommato gestito con lucidità ed efficacia, ma anche perché il 6 maggio la Scozia va a votare per il rinnovo di governo e parlamento. I sondaggi prevedono un trionfo per lo Scottish National Party, dato al 54%. Un consenso altissimo favorito anche dalla buona gestione della pandemia: la salute pubblica è materia devoluta e quindi i meriti vanno a Nicola Sturgeon. All’entità di questo trionfo è direttamente vincolata la futura road-map per un nuovo referendum indipendentista, l’IndiRef2, presentata dal partito solo lo scorso 24 gennaio.

È un piano in 11 punti che si basa su una premessa chiarissima: un referendum ‘legale” si terrà al più presto dopo la pandemia se le elezioni di maggio produrranno una chiara maggioranza indipendentista nel parlamento scozzese. Può la Scozia indire una consultazione indipendentista senza il beneplacito del primo ministro Boris Johnson? La prassi vorrebbe di no, e Boris non ha nessuna intenzione di concederlo. Ma con una forte maggioranza nel paese (il si all’indipendenza è ora al 48%, in vantaggio di 4-6 punti sul No) la Sturgeon potrebbe far approvare il referendum dall’Assemblea Scozzese, che ha già passato la legislazione necessaria, e poi sfidare Londra chiedendo alla Corte Suprema di pronunciarsi sul diritto degli scozzesi all’autodeterminazione. Nel frattempo può fare da spina nel fianco del governo Johnson. Non è più un sogno: adesso è un piano. Ma può ancora infrangersi contro una brutta storia di panni sporchi nella famiglia politica del SNP.

Dl Sostegno, nuovo rinvio cartelle e stop dei licenziamenti

Proroga dello stop dei licenziamenti fino al 30 giugno, rifinanziamento della Cig Covid non più a tranche di settimane, ma per tutto l’anno, sospensione dell’invio di nuove cartelle esattoriali fino al 30 aprile e ristori immediati a 2,7 milioni di imprese e professionisti con fatturato fino a 5 milioni danneggiati dall’emergenza Covid. Sarebbero queste le misure più importanti del dl Sostegno, l’ex decreto Ristori 5, bloccato da due mesi, prima a causa della crisi di governo e poi per l’immobilità del nuovo esecutivo Draghi che, a tre settimane dal suo insediamento, non è ancora riuscito ad approvare il decreto da 32 miliardi di euro. Ieri il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, ha spiegato che sono in corso le “interlocuzioni necessarie” per definire gli interventi. Forse il provvedimento vedrà la luce a metà mese. Manca ancora un articolato ben definito, ma da una sorta di schema circolato ieri pomeriggio risulta che per l’assegnazione dei ristori non si tenga più conto dei codici Ateco: farà fede la perdita registrata a causa dell’emergenza. Mentre l’indennizzo sarà proporzionale a quanto si è perso. A erogarlo non saranno più le Entrate, ma una nuova piattaforma Sogei. Poi, alla filiera della neve andrebbero 600 milioni ripartiti dalla conferenza Stato-Regioni, in aggiunta al fondo perduto che spetta alle categorie colpite dalle chiusure. Confermato lo stop dei licenziamenti richiesto dai sindacati fino al 30 giugno, ma potrebbe non essere generalizzato. La nuova Cig Covid dovrebbe coprire l’intero anno. Confermata la sospensione fino al 30 aprile dell’invio di nuove cartelle esattoriali e pagamento della rottamazione ter e saldo e stralcio. In magazzino ci sono 130 milioni di cartelle. Si ragiona anche sullo stralcio per le cartelle fino a 5.000 euro comprensivo di sanzione e interessi dagli anni 2000 al 2015. La misura riguarderebbe circa 60 milioni di cartelle, per un costo di 1 miliardo nel 2021 e 1 miliardo nel 2022. Due miliardi andrebbero al finanziamento dei vaccini e 200 milioni ai congedi parentali, anche retroattivi, scaduti il 31 dicembre.

Parte la battaglia per le Generali

La mossa di fatto segna l’inizio della battaglia per il cambio della guarda nelle Assicurazioni Generali, l’ultima grande cassaforte finanziaria multinazionale rimasta al sistema italiano e una delle maggiori compagnie europee. S’intende quella con cui Francesco Gaetano Caltagirone ha acquistato l’1% di Mediobanca. L’operazione, effettuata il 23 febbraio, è emersa ieri dalle comunicazioni obbligatorie della Consob.

Il costruttore romano entra così per la prima volta nella banca d’affari che ai tempi di Enrico Cuccia era il vero crocevia del capitalismo italiano con le sue partecipazioni incrociate in qualsiasi grande gruppo, e oggi è rilevante soprattutto perché, con il suo 12,9%, è primo azionista delle Generali dove Caltagirone siede nel cda ed è secondo azionista con il 5,65%, seguito da Leonardo Del Vecchio (4,84%) e la famiglia Benetton (3,98%).

La mossa segue una sua logica, per così dire, di potere, un grande classico nella storia delle Generali. La cassaforte lussemburghese di Del Vecchio, Delfin, ha iniziato da tempo una presa su Mediobanca: oggi è il primo azionista col 13,2% ed è stata autorizzata dalla Bce a salire fino al 20% di Piazzetta Cuccia. Nessuno ha ben chiaro cosa voglia fare l’85enne imprenditore di Agordo, patron di EssilorLuxottica (un colosso da 50 miliardi di valore in Borsa) visto che ha avuto l’ok di Francoforte spiegando di non voler fare fuori l’ad di Mediobanca, Alberto Nagel, appoggiato dai fondi esteri per i buoni risultati. La partita è quindi sulle Generali.

Da tempo a scegliere i vertici è il cda di Mediobanca, cioè Nagel e compagnia. Solo che ora il nucleo italiano vale quasi il 15% e vuole contare, cioè vuole scegliere il nuovo amministratore delegato. L’attuale ad, Philippe Donnet, scadrà nella primavera 2022 e gli italiani sono contrari a un rinnovo. Rumors finanziari riportano che addirittura l’obiettivo sia quello di spingerlo a un passo indietro già dopo l’assemblea per l’approvazione dei conti 2020 che segnerebbe l’inizio del terzo anno di mandato (riducendo, pare, la buonuscita). Donnet è accusato di una gestione personalistica. A giugno 2020 con un blitz ha avviato la presa di Cattolica rilevandone il 24% del capitale con una mossa di cui nessuno ha mai capito la ratio industriale (perché rafforzarsi in un mercato, quello italiano, già in pieno controllo?). I malumori dei soci italiani sono cresciuti. Un mese fa, nel tentativo di salvarsi, Donnet ha annunciato un ricambio delle prime linee manageriali, silurando gli uomini a suo diretto riporto, dal direttore generale Frederic de Courtois al Cio Timothy Ryan.

L’ingresso di Caltagirone in Mediobanca serve per alzare la pressione su Nagel. E fargli capire che il futuro delle Generali non è una partita che può rimanere nelle sole mani del cda di Piazzetta Cuccia.

Bilanci, Bruxelles rimanda la stretta fiscale al 2023

Questa volta, almeno, le buone intenzioni ci sono. L’Italia e l’Eurozona hanno un altro anno di tempo per negoziare un cambio delle regole fiscali. Ieri la Commissione europea ha pubblicato le linee guida sulla politica fiscale nella fase pandemica: la raccomandazione più importante è che le regole di bilancio dovrebbero rimanere sospese fino a quando il Pil non tornerà al livello del 2019.

Secondo le stime di Bruxelles, non accadrà prima della fine del 2022 (a differenza di Cina e Stati Uniti, che chiuderanno il gap già quest’anno), il che significa che il temuto Patto di stabilità e crescita sarà riattivato solo nel 2023. È stato sospeso a marzo 2020 con la “clausola di salvaguardia generale”, che ha permesso di congelare tutto l’armamentario di regole fiscali (in primis il Fiscal compact).

“Non dobbiamo ripetere gli errori commessi un decennio fa”, ha spiegato il commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni. Nel 2011 – post recessione del 2008 e durante la crisi dell’euro – la Commissione promosse la stretta delle regole che hanno imposto pesanti sacrifici agli Stati più indebitati, aggravandone la recessione (in Italia auto-indotta dalla “cura” del governo Monti).

Oggi tutti i Paesi hanno reagito al Covid alzando i debiti pubblici per evitare il collasso dell’economia: farlo sarebbe un suicidio. Bruxelles si dice contraria “a un ritiro prematuro del sostegno di bilancio, che dovrebbe essere mantenuto quest’anno e il prossimo”, concetto ripetuto sei volte nel documento ufficiale. La decisione sarà presa dopo le previsioni economiche di primavera che la Commissione pubblicherà prima di metà di maggio, e poi ratificate dai governi all’Ecofin, la riunione dei ministri delle finanze Ue.

Legare il ripristino del Patto a un automatismo (il livello del Pil) e non a una revisione delle regole potrebbe creare non pochi problemi se la ripresa dovesse rafforzarsi già quest’anno. Non è un caso che Gentiloni e compagnia ripetano che il sostegno all’economia dovrà tenere conto della “sostenibilità del bilancio”. Già oggi i Paesi si muovono come se il Patto di stabilità dovesse essere ripristinato così com’è, prevedendo una forte discesa dei disavanzi pubblici. Ad aprile, nel Documento di economia e finanza, il governo Draghi dovrà decidere se confermare il calo di 7 punti del rapporto deficit/Pil (al 10,8% nel 2020) nel triennio per rientrare sotto il tetto del 3% e avvicinarsi al pareggio di bilancio. Già ora si ipotizza di ridurre la quota di prestiti per investimenti aggiuntivi che sarà utilizzo nel Recovery Plan (oggi pari a 40 miliardi).

A indirizzare le scelte della Commissione è stata, come sempre, la Germania. Fra poche settimane il governo tedesco dovrebbe ufficializzare che il blocco all’indebitamento (previsto in Costituzione) non sarà applicato neanche nel 2022. A maggio la battaglia si annuncia difficile, ma sarà la revisione delle regole il vero terreno di scontro, visto che diversi Paesi, specie il blocco nordico, premono per un ripristino del Patto così com’è (e peraltro già nel 2022). Lo European fiscal board, organo di consulenza tecnica di Bruxelles, ha chiesto di rivedere le regole e la stessa Commissione ha avviato a febbraio una consultazione.

L’economista Zsolt Darvas del think tank europeista Bruegel ha spiegato che ripristinarle causerebbe un disastro perfino peggiore di quel che è accaduto nel 2011. L’obiettivo dell’Italia è evitare di essere costretta a una forte stretta fiscale dal 2023. Nei giorni scorsi, Gentiloni ha lasciato intendere che questa è la vera sfida che attende Draghi, a patto di “fare le riforme strutturali ed essere meno disattenti alla dinamica del debito”. Cioè a fare prima quel che Bruxelles ci chiederà poi. Non un bel programma.

Il cielo è grigio (sopra l’Ariston), l’umore nero e l’amico scemo

Il cielo è bigio, il lago è piatto, un airone cinerino si è piazzato sul vertice di un platano appena cimato assumendo l’indolente postura che fa più pensare a un avvoltoio. Cos’altro? Ecco, sì, un filo di fumo completa la novembrina suggestione del panorama odierno. Devo fare qualcosa per dare una scossa a questa giornata che si preannuncia assai poco avventurosa. A parte uno shampoo, fatto ieri sera, non mi resta altro che uscire a fare due passi con una ben precisa intenzione: incontrarlo. Mi preparo ed esco mascherato, guantato, ben precise in testa le regole di zona, arancione, cui aggiungo quella di non accettare caramelle dagli sconosciuti. Se sono fortunato lo becco in piazza ma vado praticamente sul sicuro perché lui è un fanatico del festival di Sanremo e questa è la sua settimana di gloria. Così è, infatti. Lo vedo, mi metto sulla sua traiettoria, mi fermo e saluto. Non so a quanti ha già fatto quella domanda ma non aspetto altro che la faccia anche a me. “ Hai visto Sanremo?”. Rispondo: “Certo, come no!”. L’interrogatorio è appena cominciato ma ho già pronta la risposta alla seconda domanda, quale tra le canzoni mi è piaciuta di più. “‘Bisogna saper perdere’, dei Rokes”, rispondo con sicurezza. Il suo viso si accartoccia, gli occhi si piegano a uno sguardo di sospetto. Lo anticipo, non lo sto prendendo in giro ma la sua domanda era generica e io ho risposto di conseguenza. Perché l’unico Sanremo che ho visto interamente, seduto in poltrona, davanti a un televisore in bianco e nero è stato quello del 1967 a cui quel complesso, che tanto mi affascinava in quegli anni, aveva preso parte in coppia con Lucio Dalla. Ricordo ancora il battere dei tacchi che accompagnava l’esibizione del gruppo. Lui non se ne può ricordare perché ancora non era nato. La spiegazione lo acquieta, sorride e mi manda a quel paese. Gli garantisco che lo farò, nel pieno rispetto delle regole: vale a dire che quel tal paese non coincida con il capoluogo di provincia e non disti più di trenta chilometri dal nostro luogo di residenza. Nonostante ciò il cielo continua a essere bigio, il lago piatto eccetera eccetera.

Totò, l’ultima recita di lacrime e caffè

Il 15 aprile 1967, verso le tre del pomeriggio, scendevo a via Roma dal Corso Vittorio Emanuele attraversando i vicoli dei “Quartieri”. Avevo sedici anni. Dai “bassi” uscivano donne in lacrime. Singhiozzavano. “È mmuorto Totò!”.

E s’abbracciavano per condoglianza, come quando un congiunto entra nel regno donde non si torna. Di quel pianto l’aria vibrava, come d’una nota musicale. In pochi minuti Napoli ne fu pervasa. Si estendeva dal Vesuvio a Posillipo ai Campi Flegrei. Appresi così che il mio idolo non c’era più. Come l’avevano saputo, quelle donne? Nei “bassi”, sul comò, accanto al San Giuseppe o alla Madonna sotto la campana di vetro, c’era la radiolina a transistors dalla quale gli uomini, la domenica, seguivano la partita di calcio. Avvenne forse così. Di bocca in bocca si trasmisero il lutto. Era scomparso più che un congiunto. Era morto un Santo. Federico Fellini, restato col rimpianto di non aver mai girato un film con lui (ma la prima colpa era sua), l’aveva ribattezzato “San Totò” per la felicità da lui donata a tutti con la risata che imperiosamente suscitava. E anche quelli che si recano a venerarlo alla tomba di Santa Maria del Pianto a Napoli lo chiamano Santo Totò, gli rivolgono preghiere, gli chiedono grazie. Un’altra particolare testimonianza di devozione viene da un sommo artista, il direttore d’orchestra Giuseppe (Pippo) Patanè: il quale, una volta, in anni non sospetti, mi disse: “I più grandi italiani del Novecento sono stati Guglielmo Marconi, Luigi Pirandello e Totò.”

Due giorni dopo, il carro contenente la bara giunse da Roma prima delle cinque. I funerali si svolsero al Carmine. Dall’uscita dell’autostrada, per diversi chilometri, due ali di folla lo salutavano, gl’inviavano baci e fiori. Un tempo la basilica confinava colla spiaggia, l’acqua la lambiva. Posseggo un olio di Silvestr Scedrin, morto a Sorrento nel 1830, che la ritrae così. La facciata dà sulla piazza del Mercato. Lì, il 29 ottobre 1268, Corradino di Svevia e Federico d’Austria vennero decapitati per ordine di Carlo d’Angiò. Attendevano l’esecuzione giuocando a scacchi. Quindi, oltre ch’esser intrepidi, avranno avuto la capacità di ridere. Colla sapienza dei morti, oggi sanno la natura anche tragica, oltre che sommamente comica, dell’arte di Totò; e hanno provato piacere che venisse loro unito per esequie. Dico natura tragica: ma non quando i registi gl’impongono parti apparentemente tragiche. La natura tragica è della maschera.

L’orazione funebre pronunciata da Nino Taranto all’interno della basilica del Carmine può ascoltarsi “in rete”. Lapidaria, commovente. Il grande Nino, del quale riuscii anche a esser amico, era in compagnia di Dolores Palumbo: una straordinaria attrice di prosa che Totò faceva lavorare soprattutto nella Rivista ed è poi immortalata in un ingrato, difficillimo ruolo di Miseria e nobiltà, oltre a esser stata fra le migliori scarpettiste del Novecento: vedere ‘O scarfalietto per averne un’idea.

Con un compagno di scuola, Fabrizio Perrone Capano, mi ci recai. In chiesa c’erano tremila persone, in piazza centoventimila. Fu il primo spontaneo convegno di massa del dopoguerra. Prima, c’erano le “adunate oceaniche”. Esequie siffatte avevano ottenuto solo, avanti la Guerra, Enrico Caruso e Eduardo Scarpetta: quanto a partecipazione in percentuale, non forse quanto a numero di presenti. Dopo il 1945, i comizi del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana. Ma quel giorno il popolo convenne da sé. La folla, che ondeggiava, si serrava e ci serrava, ci spaventò. Ci sentivamo soffocare e travolgere. Ebbi l’idea di entrare in uno dei moderni palazzi prospicienti il sagrato. Il portone era aperto. Bussai a un secondo piano e chiesi ospitalità. La padrona ci accolse con un sorriso della cortesia napoletana di un tempo. Il balcone era gremito: ci offrirono anche la sedia e il caffè. Dall’alto la folla pareva il mare quando soffia il libeccio. A un certo momento la cassa esce, portata a spalla, sormontata dalla sua bombetta, che Franca aveva già posta sul feretro per la camera ardente, ai Parioli. La infilano nel carro. Riescono a chiudere lo sportello: con molta fatica, ché tutti volevano baciare o toccare ‘o tabuto, il feretro. Il carro è assalito. Prende la fuga. La folla lo insegue. Il finale di Totò a colori si ripetette da sé.

Colla sua ultima recita Totò volle anche ribadire una verità estetica affermata, tra l’altro, da due eccelsi poeti, pur essi napoletani, Tasso e Marino: che la Natura imita l’Arte. Non possiamo che chiudere queste parole con una sentenza delle Metamorfosi (III, 158-9) di Ovidio, origine di quelle barocche: la natura col suo ingegno aveva simulato l’arte. Ch’è una delle insegne del Barocco, stile al quale Totò, come Bernini, appartiene, e stile che incarna. Un Barocco funebre e inquietante, surrealista e marionettistico, come sovente è, col suo ossessivo culto della Morte e della Vita fra le quali non sempre distingui i confini.

 

La nuova riforma di Mariastella

Il merito.Soprattutto il merito. Sempre il merito. No, per carità, non è Carlo Cottarelli che ha preso possesso della tastiera, pensavamo a Mariastella Gelmini, che del merito e della relativa meritocrazia è fervente sostenitrice in opere e parole. Vero, fu cacciata dalla sua stessa maggioranza dal suo primo incarico politico – presidente del consiglio comunale di Desenzano del Garda – di fatto perché non faceva il suo lavoro, ma saranno state di sicuro invidie di partito: tanto centrale è il merito in quello che alcuni chiamano il pensiero di Gelmini che nel 2008 presentò un ddl “per la promozione e l’attuazione del merito nella società, nell’economia e nella P.A”. Una priorità che ha informato anche la sua vita personale: fu per sfuggire all’esamificio di Milano che scelse di fare l’esame da avvocato a Reggio Calabria (l’ha detto davvero), esperienza che forse ispirò un suo noto commento secondo cui “nel Sud alcuni istituti abbassano la qualità dell’istruzione”. Il merito, solo il merito per Mariastella: e siccome la scuola italiana è preda di “forti disincentivi alla capacità individuale”, da ministra dell’Istruzione s’inventò il ritorno al maestro unico… Se ci si pensa il suo ritorno al governo dopo l’esperienza nell’ultimo esecutivo Berlusconi, il più meritocratico com’è noto, ha un che di ironico. Forse non tutti ricordano la “riforma Gelmini”. Nacque così: nella Finanziaria 2008 Giulio Tremonti scrisse che l’istruzione avrebbe dovuto tagliare 7,8 miliardi di euro tra 2009 e 2012; fu a partire da questa lungimirante visione che Mariastella si diede da fare, tagliando qui e lì. Parliamo, nel triennio, di oltre 87mila docenti e 44mila unità di personale ATA. Al 2011, vista da un’altra prospettiva, risultavano 10.617 classi e 90mila cattedre “piene” in meno con all’ingrosso lo stesso numero di alunni. Mariastella, dimostrandosi attaccata all’eufemismo oltre che al merito, lo chiamò “taglio degli sprechi”. Ed è ironico, dicevamo, che martedì sera in conferenza stampa abbia di fatto annunciato la chiusura anche delle scuole primarie in mezza Italia dicendo “non è che stiamo proprio chiudendo le scuole, anzi il governo è impegnato a riaprirle”. È la nuova “riforma Gelmini”: se non ci sei riuscita coi tagli, prova con un Dpcm…