Luca Attanasio e il mal d’africa

Ho avuto il piacere di conoscere l’ambasciatore Luca Attanasio, quando ancora non era stato assegnato in Congo. Sono stata subito colpita dal suo entusiasmo. Era un incontro informale. Ha cercato di smorzare il mio disappunto nel constatare che, a fronte di sforzi enormi, poco o nulla sia cambiato per la gente d’Africa. Ricordo le parole rassicuranti e l’invito ad attendere i tempi. Non avrei mai potuto immaginare che sarebbe stato lui stesso a pagare con la vita questa lotta impari. Qualche lettore si chiederà quale sia la relazione tra la morte di Luca Attanasio e l’argomento salute, di cui mi occupo in questa rubrica. Ho più di vent’anni d’esperienza in missioni in Africa, sia per progetti della Cooperazione Europea che per volontariato. Oltre a imparare che il concetto di salute, di vita e di morte, in quel Continente, siano assolutamente diversi dai nostri, ho purtroppo dovuto constatare che la salute è diventata un’arma di ricatto di molti governanti corrotti nei confronti dei Paesi donatori. In tutti questi anni che comprendono anche l’esperienza Ebola, in Africa sono arrivati fiumi di denaro per ospedali, campagne vaccinali, farmaci. Il risultato oggi sono ospedali spesso edificati e rimasti vuoti, altri bruciati dopo le epidemie, farmaci venduti a prezzi impossibili… Ero in Ghana, a qualche chilometro da Tamalè, in un piccolo presidio sanitario. Improvvisamente tutti intorno a noi avevano interrotto le attività. A bassa voce mi fu comunicato che stava passando il “re”. Non quello che conosciamo ed è ufficialmente riconosciuto, il re di quella zona. Era un uomo di colore, alto e grasso, ricoperto interamente d’oro, testa e mani comprese, e così i figli che lo seguivano.

Oggi, alla luce dell’esperienza pandemica, in un’Africa che pullula di outbreak infettivi, non possiamo più elargire fondi che spariscono in mille rivoli. Dobbiamo consolidare la presenza dei benefattori in loco e pretendere trasparenza. Quasi tutto quello che viene affidato alla gestione locale, non si trasforma in benessere della popolazione e spesso serve solo per ingrassare i patrimoni dei potenti locali che transitano attraverso le banche “lavanderia” disseminate in Africa. Luca Attanasio portava benessere con generosità e trasparenza e, forse, questo potrà spiegare la sua tragedia.

 

MailBox

 

Conte alla guida del M5S può andare lontano

Ben venga Conte alla guida dei 5 Stelle. Finalmente uno con il cervello sulle spalle. C’è tanto da lavorare per rimettere a posto il movimento, poi le alleanze. Si può arrivare al 35% facilmente.

Massimo Giorgi

Il Movimento 5 Stelle guidato da Conte è al 22% nei sondaggi. Se non vuole sparire dalla faccia della terra, il Pd si sbrighi a sradicare le erbacce renziane per far parte della coalizione.

Maurizio Burattini

Consiglio a Conte di non lasciare fuori dal suo possibile programma Di Battista. E a voi di fare un pezzo su cosa significa essere liberali suggerendo la lettura di Gobetti.

Raffaele Fabbrocino

 

Bonaccini senza Sardine sarebbe stato sconfitto

Il governatore dell’Emilia-Romagna Bonaccini destabilizza il proprio partito e si candida a leader con il supporto dei renziani, ma qualcuno dovrebbe ricordargli che è stato rieletto solo grazie alle Sardine. Altro che grande amministratore! Senza di loro, oggi non sarebbe così spavaldo.

Angelo Ferrara

 

L’Arabia Saudita vale più di 80 mila dollari

Il Ridolini d’Arabia non si è mosso per quella miseria di 80 mila dollari, lordi peraltro. “Saudi Vision 2030” è “l’investimento”: si costruiranno intere città dal nulla, un circuito di F1, cittadelle dello sport, località turistiche da mille e una notte, con l’obiettivo di raddoppiare la popolazione in 10 anni. Quindi capisco l’atteggiamento adulatorio di Renzi nell’incontro con MbS: è una torta molto appetitosa di cui anche le briciole sarebbero ben accette. Il mio pensiero va alla povera fidanzata di Jamal Khashoggi, che si sta facendo carico della diffusione di quanto successo mantenendo alta l’attenzione e correndo grossi rischi.

Onlyair

 

Perché Radio Radicale ce l’ha con Travaglio?

Noto in tantissimi suoi “colleghi” un livore, un’invidia eccessiva verso di lei. Ha fatto qualcosa di male a tal Romeo e Taradash di Radio Radicale?

Salvatore Mario Pirrone

 

Mi batto da sempre perché Radio Radicale non venga finanziata con i soldi pubblici, cioè anche dalle mie tasche. Può bastare?

M. Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

Vi scrivo in merito all’articolo del Fatto di ieri dal titolo “Nigeriagate, tutte le fake news sui giornali per assolvere Eni”. Non intendiamo in alcun modo entrare nel merito di quanto riportato sul procedimento Opl245 dalle diverse testate giornalistiche, ma teniamo a precisare quanto segue a rettifica delle informazioni non corrette riportate. 1-Eni non ha depositato alcunché “fuori tempo massimo”. Le difese hanno depositato le proprie note di udienza il 24 febbraio scorso, e non il 26 come riportato nel vostro articolo. Nessun documento è stato depositato in tale occasione (sono stati richiamati in memoria documenti solo già agli atti o disponibili da tempo su fonti aperte). 2-I vostri lettori possono quindi riscontrare che la notifica inviata in corso di giudizio a Nae (quindi a Eni) dal ministro del Petrolio nigeriano Kachikwu fa esplicito riferimento all’esercizio dei back in right “on a carry basis”, esattamente come previsto all’art. 11 del Resolution Agreement. Basta leggerla. Quindi (come spiegato nelle difese, anch’esse disponibili su fonte pubblica) la contropartita offerta dal governo era “in natura, a valere sulla produzione” (“on a carry basis”) per il prezzo di esercizio. Inoltre l’esercizio avveniva “senza oneri” (“at no cost”) in relazione agli interessi (che ai sensi del Resolution Agreement erano da negoziare). Nessuna eccezione da parte del ministro sulla misura quantitativa dei back-in. Come noto, peraltro, la produzione del giacimento non è mai partita, con ingente danno economico per il Paese, per Eni e per Shell. Da fonti aperte i vostri lettori potranno altresì trovare la lettera con cui Eni, il 6 luglio 2011, riscontrò positivamente la lettera di esercizio dei diritti governativi di back-in. 3-La sospensione imposta dal governo nel 2019 (da voi richiamata) non revoca o rinnega l’esercizio dei back in rights, ma attiene invece all’abusiva sospensione del procedimento di conversione della licenza da esplorativa (Opl) a estrattiva (Oml). Tale sospensione è illegittima e non si dibatte a Milano ma in arbitrato internazionale Icsid a Washington, dove Eni sta tutelando il proprio patrimonio in vista della scadenza della licenza Opl245 a maggio 2021. 4- È un fatto che i pagamenti del governo nigeriano alla Malabu furono tre (e non uno) e vennero rispettivamente effettuati in data 24 e 28 agosto 2011, e 30 agosto 2013, anch’essi disponibili su fonte aperta. Le fonti aperte alle quali si fa riferimento sono il sito di Eni e articoli di stampa.

Erika Mandraffino, Comunicazione esterna Eni

 

Prendiamo atto della cortese replica, ma ribadiamo: A) Della “onerosità” dei “back-in rights”, Eni dà un’interpretazione ben diversa da altre, quella per esempio del consulente tecnico di parte civile Mr. Rogers. Il tentativo di avviare l’estrazione da Opl 245 comunque non smentisce né azzera la richiesta di risarcimento per un contratto ritenuto frutto della corruzione; B) La firma della ministra Ngozi Okonjo-Iweala non compare mai sugli ordini di bonifico a Jp Morgan. A firmarli sono Yerima Lawan Ngama (sottosegretario di Stato) e Otunia Ogunniyi (Accountant General).

Gianni Barbacetto

Telemarketing. Non serve la polizia postale, ma la legge ferma da tre anni

 

Fino a poco tempo fa, i possessori di un telefono fisso ricevevano numerose telefonate da parte di soggetti non identificati che offrivano la vendita di beni a prezzi molto vantaggiosi. Le risposte erano nella stragrande maggioranza ovviamente negative. Oggi la situazione è profondamente mutata: non riceviamo più copiose telefonate al telefono fisso, ma sul cellulare. Il che crea maggiori disagi soprattutto in relazione al nostro sacrosanto diritto alla sfera privata. Una domanda è quindi d’obbligo: è possibile eliminare queste telefonate, anche ricorrendo ai servizi della polizia postale e chiedere poi, una volta identificati i colpevoli, una giusta e legittima sanzione punitiva?

Nicodemo Settembrini

 

Gentile Settembrini, è proprio il caso di dirlo: benvenuto nel girone infernale dei dannati che ricevono ogni giorno, fino al limite dello stalking, decine e decine di telefonate moleste, perché la legge che dovrebbe mettere la parola fine al telemarketing selvaggio ha compiuto tre anni, ma non è mai entrata in vigore. Dopo i continui rimpalli tra Parlamento, Consiglio di Stato, Agcom, Garante della privacy e ministero dello Sviluppo economico, il testo finale deve ancora arrivare sul tavolo del governo ed essere portato, chissà quando, in Consiglio dei ministri. Intanto continuiamo a subire impotenti l’assedio delle telefonate. E nulla può fare la polizia postale che si occupa di frodi, ma non della gestione della privacy da parte dei call center clandestini o meno che siano. Tant’è che a punire le compagnie telefoniche o della luce con multe più o meno ridicole rispetto al fatturato sono il Garante della privacy e l’Antitrust. Quindi d’obbligo non è tanto la sua domanda, ma solo l’applicazione della nuova e più forte tutela contro queste telefonate (sul mercato i dati personali dei clienti si comprano a 5 centesimi a nominativo) che servirà – speriamo – ad arginare la più grande politica di violazione dei diritti del consumatore. La rivoluzione consiste nell’estensione del registro delle opposizioni ai cellulari, la creazione di un numero univoco per le chiamate dei call center e un sistema di sanzioni puntuali e modulate sulla condizione patrimoniale delle aziende. Chissà quando, chissà dove. E intanto il telefono squilla.

Patrizia De Rubertis

Ibra versus LeBron: una partita politica, “io” contro “noi”

Da Sanremo Zlatlan Ibrahimovic ha rilanciato la polemica con LeBron James sull’opportunità (fa quasi ridere a scriverlo) per gli atleti di occuparsi di politica. Chiarendo meglio il concetto a una nostra domanda Ibrahimovic ha risposto: “Razzismo e politica sono due cose diverse: lo sport unisce, la politica divide. Io faccio sport non politica: gli atleti devono fare gli atleti, i politici i politici, questo volevo dire a LeBron James”. Ne abbiamo dedotto che il problema non è l’impegno di LeBron per i diritti degli afroamericani, ma la sua opposizione all’ex presidente Trump. La distinzione è naturalmente di lana caprina e c’è anche da dire che, quando il razzismo da striscione si fa omicidio (I cant’ breath), la questione difficilmente si risolve con una parolina di biasimo. LeBron James aveva già risposto all’obiezione con il documentario Shut up and dribble, di cui è produttore. “Stai zitto e gioca” era stato il cortese invito della giornalista di Fox, Laura Ingraham: diciamo che Ibrahimovic l’ha detto con maggior garbo, ma il senso è lo stesso. Dunque il punto è se uno sportivo possa andare oltre il gesto atletico, la vittoria o la sconfitta, il sudore e l’impegno. Nei giorni scorsi, la star dei Lakers ha chiarito perfettamente il suo pensiero: “Non starò mai zitto davanti alle ingiustizie. Mi interesso della mia gente, di ingiustizie sociali, razzismo e temi elettorali. Io sono parte della comunità. Sono consapevole che la mia voce sia molto potente e che rappresenti tante persone nel mondo, perciò continuerò a occuparmi di razzismo e uguaglianza”.

Molti commentatori hanno notato che negli Usa è molto più normale che gli atleti prendano posizione. Vero, e chissà se Ibrahimovic si ricorda il meeting di Cleveland del 1967, quando alcuni sportivi afroamericani si schierarono a favore di Muhammad Ali. Quel Cassius Clay che aveva preso un nome islamico e si era rifiutato di arruolarsi nell’esercito, invocando l’obiezione di coscienza contro la guerra in Vietnam: “La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a un fratello o a qualcun altro con la pelle più scura, a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato negro”. Accanto a lui c’erano Kareem Abdul-Jabbar, Bill Russell, Jim Brown e molti altri sportivi di colore. La foto è rimasta nella storia perché fu la prima volta in cui grandi campioni si schierarono a fianco di un loro collega (ed erano tempi in cui potevi perdere il lavoro per un gesto così). Pochi giorni dopo, una giuria interamente bianca condannò il pugile a 5 anni di reclusione per renitenza alla leva. il pubblico ministero disse così: “Non possiamo lasciare andar libero quest’uomo. Se lui se la cava, tutti i neri diventeranno musulmani per passarla liscia allo stesso modo”. Lui perse tutto, compreso il titolo di campione del mondo, però non rinnegò mai il suo gesto (“Andrò in prigione: e allora? Siamo stati in catene per 400 anni”) e quel momento segnò per sempre la coscienza politica degli americani. Senza dire che quel gesto portò, dopo tre anni, all’annullamento della condanna da parte della Corte Suprema, che riconobbe per la prima volta il diritto all’obiezione di coscienza per motivi religiosi. Forse Ibra direbbe che questa è religione non politica, che è razzismo non politica. E invece si sbaglia: la politica è una visione del mondo, è il modo in cui si sta insieme come cittadini e in cui si interpretano i valori che fondano la convivenza. Però, in una giornata a Sanremo ha unicamente parlato di sé, in prima o in terza persona. Che sia una posa o meno, difficile che capisca il senso delle parole di LeBron, “faccio parte di una comunità” o quelle di Alì: “So dove vado e so la verità e non devo essere ciò che voi volete io sia. Sono libero di essere quello che voglio”. Non tutti vogliono essere solo Zlatan.

 

Silenzioso e invisibile: l’arte di Draghi ha un lato oscuro

Per attitudine e non per sortilegio Mario Draghi si è fatto invisibile. Nelle fiabe l’invisibilità si ottiene per magia. Un cappello. Una pozione. Un abracadabra. In politica è più semplice. La si ottiene col potere. E serve ad accrescerlo. Nei tempi remoti era invisibile il sovrano, salvo alla corte addetta ai suoi ordini e ai suoi dispetti, bastando i bastioni del suo castello a sigillarlo. In Cina era invisibile anche il luogo dove abitava, la Città Proibita, dove solo gli eletti erano ammessi e gli addetti alla manutenzione della sua vita quotidiana che era fatta di sostanza divina, non narrabile, come per qualche millennio è accaduto nel Giappone degli imperatori, salvo l’ultimissimo, Naruhito che considerandosi umano e non più divino, va a sciare e suona la viola.

Qui siamo nella democrazia d’Occidente, con qualche sovrappiù di esibizionismo mediterraneo e di tradizionale commedia all’italiana. E la questione della invisibilità è di molto complicata dal carattere esuberante dei capi, dai ricorrenti intrighi che deflagrano in pubblico, oltre che dalla seccante faccenda della libertà di stampa che avanza qualche pretesa. Limitandoci alla Seconda Repubblica, nessun premier si è fatto invisibile, neppure il timido Enrico Letta e il sobrio Mario Monti, trascinato in pubblico da un cagnolino. In quanto a Giuseppe Conte, dall’invisibilità veniva e voleva scrollarsela di dosso. Per questo si è concesso, persino troppo, a interminabili conferenze stampa, con l’attenuante della perpetua emergenza che imponeva informazioni, rassicurazioni, bilanci.

Berlusconi è stato il più visibile di tutti, ben oltre l’esibizionismo. Così persuaso del suo irresistibile carisma da chiedere e ottenere l’omaggio quotidiano di tutte le televisioni del regno, specialmente le sue. Quel che non si vedeva, non doveva vedersi. Previti, Dell’Utri, Ruby, per ovvie ragioni. Non dovevano vedersi la dacia di Putin, i giacimenti della Yukos e il signor Bruno Mentasti. Si vedeva solo qualche volta il ciambellano consigliere Gianni Letta, essendo depositata nell’ombra dei palazzi la sua natura e nel potere della moral suasion la sua funzione. Mai un’intervista. Rare le sue apparizioni in pubblico, salvo al Circolo Aniene, dal suo amico Malagò. E in qualche premio d’alto prestigio, dove era sempre lui il premiato, anche quando premiava. Si è visto persino troppo Matteo Renzi, l’erede di quell’esibizionismo arcoriano che lo ha svezzato. Salvo l’invisibilità di cui si avvale in questi giorni per provare a cancellare l’incancellabile omaggio al principe killer che lui crede un Borgia in sottoveste. Ma nel caso di Renzi l’esibizionismo è inversamente proporzionale al suo potere, essendo agito, più di quanto agisca.

Draghi è proprio l’opposto dei nostri ultimi cantastorie. Non canta. Non suona. Non si fa vedere. Ha letto per 52 minuti in Senato e per 13 alla Camera gli intendimenti del governo. Da allora ha detto un paio di volte “Buongiorno” e una volta “Buonasera”. Per lui hanno parlato le nomine. E almeno nel caso dei 39 sottosegretari, pescati nel doppiofondo dei partiti, si è vista la sua poderosa astuzia di imbarcarli senza neanche un fiato che potesse comprometterlo, sebbene compromesso. Essere invisibili è un comportamento anche simbolico. Nelle faccende di potere una dote. Dice agli interlocutori che si è molto di più di quello che (non) appare. Ma ha anche un fascino pericoloso, specialmente quando si progetta la distribuzione dei pani e dei pesci per i prossimi cinque anni. Circostanza che ha fatto sgomberare il suo predecessore in una notte da quel “governo che agisce nella più assoluta oscurità” come annotava Norberto Bobbio, ai tempi suoi, parlando del “nostro sistema di potere”. Sarà speriamo sua cortesia, non rispondere solo a quello, ma qualche volta anche a noi.

 

Congresso, Zingaretti rottami i renziani del Pd

Anziché subirlo, dovrebbe essere Zingaretti a prendere l’iniziativa di un congresso, reagendo al quotidiano assedio dei suoi avversari interni nostalgici del renzismo. Quel congresso che non fu fatto all’atto del suo insediamento, preceduto solo dalle cosiddette primarie, il “plebiscito di un giorno”, sull’onda di una generica domanda di cambiamento dopo la disfatta del 2018. Una omissione che ne ha minato in radice la leadership e che egli ha scontato ancora di recente dentro la crisi del governo Conte. Con la mezza sponda fornita sulle prime all’attivismo demolitore di Renzi da parte in particolare dei gruppi parlamentari Pd, a suo tempo nominativamente scelti dall’ex segretario. Sino alla recentissima clamorosa convergenza di Bonaccini – sfidante annunciato – sugli smarcamenti di Salvini in tema di misure di sicurezza confermate dall’esecutivo Draghi. In un mix di demagogia e strumentalità, cioè di un gioco di posizionamento. Terreno per definizione comune – senza bisogno di pensar male – a Renzi e Salvini.

Zingaretti avrebbe tutto l’interesse a procedere a un decisivo chiarimento congressuale. Anche per la banale ragione che i suoi avversari interni sono privi di una offerta politica alternativa. Mi spiego. Il loro mantra è prima l’identità del Pd e solo poi le alleanze. Un assunto… alla Catalano. Pensiero debole. Chi può sostenere il contrario? Essi si attribuiscono in esclusiva l’attributo di riformisti. Parola magica, talvolta intesa come moderatismo. Zingaretti sarebbe un massimalista? Sono più o meno quelli che un tempo si autodefinivano “montiani del Pd”, che sposavano alla lettera l’agenda Monti e che si spingevano sino a proporre che, nelle elezioni del 2013, il Pd proponesse Monti candidato premier.

Dichiararsi riformisti è puro nominalismo se non si precisa in che senso. Altra formula magica è “vocazione maggioritaria”. A suo tempo concepita come velleitaria autosufficienza del Pd che ha condotto al suo isolamento e alla sua disfatta. Si vuole ritornare lì? Per un partito sotto il 20 per cento la vocazione maggioritaria intesa come ambizione ad accedere al governo, una tantum dopo avere vinto le elezioni, presuppone una politica delle alleanze. Pena consegnare il Paese alla destra, già largamente favorita, senza neppure provare a competere. Salvo illudersi che il centrodestra non si ricomponga puntualmente alle Politiche anche in forza di una legge elettorale, il Rosatellum, che quasi certamente non cambierà. Tramontata l’illusione (veltroniana prima, renziana poi) di un forzoso bipartitismo, come si pensa di dare vita a un campo largo di forze democratiche e progressiste in grado di competere? Con chi, in concreto, se non a partire dalla maggioranza che ha sostenuto il governo Conte-2? Del quale rivendicare i buoni risultati. O si pensa di andare a elezioni sconfessando il governo a cui si è partecipato? Associandosi, nella narrazione denigratoria, a chi vi si è opposto o a chi lo ha affossato. Alludo evidentemente a Italia Viva. Tanto varrebbe iscriversi a essa.

Qui sì si innesta, in positivo, una questione identitaria per il Pd. Intendo il profilo di una sinistra di governo raccordata con una nuova fase, intrecciata con la sfida pandemica. Cioè con un tempo nel quale all’ingenua enfasi sulle sole opportunità dischiuse dalla globalizzazione è subentrata una più realistica consapevolezza dei suoi costi umani e sociali, che domandano ai pubblici poteri (nazionali ed europei) e, tanto più alle sinistre, di farsi carico delle istanze di uguaglianza e di protezione sociale a lungo trascurate. Con una Ue che, fortunatamente, non è più quella dell’austerità e del pareggio di bilancio da scrivere in Costituzione. Avendo inteso – si spera – che, tra le ragioni che hanno gonfiato le vele dei populismi di vario conio, figurano anche il deragliamento di sinistre appiattite sull’establishment, il loro divorzio dai ceti popolari, il riflusso del loro bacino elettorale nelle aree Ztl.

Quale l’alternativa? Un’alleanza limitata ai cespugli centristi nel segno di una subalternità culturale e politica? Una resa della sinistra, un paradossale approdo per i cultori del bipartitismo che si consegnerebbero all’egemonia di un centrino né di qua né di là ovvero un po’ di qua un po’ di là. I nostalgici del renzismo dovrebbero riflettere sulla circostanza che, a fronte del fragoroso protagonismo del rottamatore, sostenuto dalla grancassa dei media compiacenti, la sua creatura politica non si schioda dal 2-3 per cento.

Rassegna ragionata della premiata comicità americana del 2020

The New Yorker, il noto periodico, ha fatto stilare a Ian Crouch un elenco della comicità Usa più significativa del 2020. Poiché in questi casi è sempre de gustibus, riordino gli esempi in base a quanto fanno ridere me, dal meno al più divertente:

Nell’ultimo Borat, la scena con Rudolph Giuliani e la battuta su Mike Pence (chiamato “Michael Pence” e definito “il rubacuori più famoso d’America”), “noto per essere un tale segugio da figa che non poteva essere lasciato solo in una stanza con una donne” (“a womans”).

Eliza Petersen che rifà la vecchia gag dove Dio chiede a un angelo se ha dato ai dinosauri più muscoli, come aveva chiesto. L’angelo non capisce. DIO: Ti avevo detto di farli più in carne (meatier). ANGELO (interdetto): Di renderli una meteora (meteor). DIO: Meatier. ANGELO: Meteor. DIO: Meatier. ANGELO (inorridisce, pensando a cosa ha combinato): Meteor. Su Twitter sono subito comparse decine di variazioni (ass steroids/asteroids, purifier/pure fire, &c. Le trovate qui: https://bit.ly/3gvFrYY)

Nella serie I May Destroy You, Arabella è in vacanza a Ostia (Italia) con Terry, che si annoia. In discoteca, per convincerlo a restare, gli dice che ha convinto il dj: “Suonerà Hamilton, il musical!”

Il romanzo Leave the World Behind di Rumaan Alam. Un esempio delle sue battute riguarda la marca di filtri ecologici da caffè If You Care (“Se ci tieni”, un logotipo il cui ricatto morale è amplificato dallo slogan del brand, “Qualità con Integrità”). Della matriarca di famiglia scrive: “Ha comprato mezzo chilo di caffè macinato, così potente che poteva annusarlo attraverso il sigillo del sottovuoto, e filtri per caffè misura 4 fatti di carta riciclata. ‘Se ci tieni’? Lei ci teneva!”

Un tweet di Keaton Patty: “Assolutamente disgustoso. Ho appena visto un centopiedi umano che strisciava qua fuori e il tizio davanti non portava la mascherina. Quanto puoi essere egoista???”

La puntata sulla “leggenda di Jackie Daytona” della sitcom What We Do In the Shadows, con protagonisti dei burberi vampiri centenari che condividono una casa a Staten Island.

Le gag sui meteorologi tv: Leslie Jones che prende in giro Steve Kornacki (MSNBC), Michael Kosta che fa il verso a John King (CNN).

La battuta infelice di Andrew Cuomo. Durante una conferenza stampa, il governatore Cuomo accennò al boyfriend di sua figlia Mariah: “Il ragazzo è simpatico e a noi piace. Avviso ai padri: la risposta alla domanda se ti piace il ragazzo di tua figlia è sempre “mi piace”. Sempre. Perché ci sono solo due possibilità: o ti piace, nel qual caso dici “mi piace”; oppure non ti piace. Ma non puoi mai dire che non ti piace”. A ottobre, il New York Post ci è tornato su con la notizia che un agente della scorta di Cuomo s’era innamorato di Cara Kennedy-Cuomo, una delle figlie, ed era stato trasferito presso il confine col Canada.

Le canzoni della commedia parodistica Eurovision Song Contest: The Story of Fire Saga con Will Ferrell e Rachel McAdams, per esempio My Home Town (https://bit.ly/33USAWL). Nessun cenno al fatto che perculano gli islandesi come Baron Cohen percula i kazaki: imperialismo culturale stronzo.

La docu-comedy di John Wilson (il loro Pif) in giro per New York (https://bit.ly/3gpH0YE).

James Austin Johnson che imita Trump facendolo parlare di Scooby Doo (https://bit.ly/37LzYto).

Sarah Cooper che sincronizza il proprio labiale sull’audio in cui Trump suggerisce di iniettarsi del disinfettante (https://bit.ly/37LVRbT).

Phil Murphy, governatore del New Jersey, a chi gli faceva notare che la gente è stufa di portare le mascherine: “Sapete cos’è davvero fastidioso e scocciante? Morire”.

Draghi (in silenzio) sembra gatsby

Rassegna di titoli, tutti in un giorno solo: “Italy is back”; “Tridente anti-Covid – Draghi tratterà con l’Europa, Figliuolo troverà i vaccini e Curcio li distribuirà”; “Draghi sa scomparire – Il prof offre la scena ai ministri sui Dpcm. Delega e si fida”; Recovery Mit – Giovannini va di fretta: il rebus sugli appalti e l’asse con Brunetta per le assunzioni ad hoc”.
Il Foglio

“A Lady Draghi pesa l’incarico del marito”, dice Marcello Venanzi, il meccanico del presidente del Consiglio a “Un Giorno da Pecora”.
Il giornale

…Un po’ come ne ‘Il Grande Gatsby’ – che non partecipava quasi mai alle sue feste limitandosi a vigilare sul fatto che tutto fosse impeccabile – Draghi sceglie di non presenziare…
Il Giornale

I silenzi eloquenti che migliorano la nostra politica.
Il Messaggero

Fate dimettere Matteo: il vero danno è creare un precedente

Ora che Matteo Renzi ha fatto il suo lavoro, promuovendo la sostituzione del governo Conte con quello di Draghi, le sue imprese saudite, non più confinate nell’alveo dei suoi primi critici (cfr. Ferrajoli e Migone, Il manifesto, 3 febbraio), sono finite in pasto ai grandi media, suoi ci-devant alleati politici. Il “vincitore” d’ieri ora viene collocato alla gogna. Anche in virtù del ormai stranoto rapporto della CIA che ha certificato la responsabilità del suo secondo datore di lavoro, Mohammad bin Salman, per la fine atroce del giornalista Adnan Khashoggi.

È naturale e anche giusto che l’indignazione diffusa si focalizzi sulle efferatezze del Sovrano che chiama a suo servizio un senatore della Repubblica Italiana, l’ospitalità e i trenta denari che gli sono propinati. È sacrosanto denunciare tutto ciò, ma a condizione che non oscuri il danno profondo e potenzialmente più duraturo alle nostre indebolite istituzioni democratiche. Quello di stabilire un precedente che consente ad un parlamentare di ignorare e violare la Costituzione che statuisce il dovere dei cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche di “adempierle con disciplina e onore” e precisa che ogni parlamentare “rappresenta la Nazione”. Da cui la chiara ed evidente incompatibilità tra la dignità parlamentare e l’appartenenza al comitato direttivo di una struttura al servizio di un altro stato (in questo caso il “Future Investment Initiative”, istituita allo scopo di promuovere gli interessi del Regno Saudita). Quale che sia la sua nazionalità, democratica o autoritaria, il parlamentare che si colloca in un simile conflitto d’interessi attraversa un Rubicone che altri diffusi comportamenti di ex politici, italiani o stranieri, non configurano. Se i colleghi di Matteo Renzi, a cominciare da Colei che presiede il Senato, non lo obbligassero a scegliere tra due appartenenze tra loro costituzionalmente incompatibili, commetterebbero un atto, pur omissivo, ancora più grave di quelli di cui egli continua a menare vanto.

Osanna della discontinuità (di Armando)

Non se se capita pure a voi, ma da un po’ di tempo mi frulla nella testa una parolina: discontinuità. La sento dappertutto, nei tg, nei talk e perfino nelle terza Camera, quella di Barbara D’Urso e Nicola Zingaretti. Pronunciata con un certo compunto sussiego, come l’Osanna dell’officiante all’Antifona, ma anche con la stessa pimpante solennità del telecronista che preannuncia la sentenza del Var. Sempre sillabata con la boccuccia stretta in quanto coniata appositamente per il Nuovo Dizionario Draghi (ma non da Mario Draghi), e dunque da assimilare prontamente nella semantica della Salvezza Nazionale. Per miei evidenti limiti, ho cercato di saperne di più e ho trovato definizioni di “discontinuità” nei campi della fisica, della matematica, perfino della meteorologia, più la banalissima “mancanza di continuità” che tuttavia mi sembrò non giustificare l’infervoramento di cui sopra. Poi, l’altra sera, mentre gettavo un occhio sul Festival di Sanremo, qualcosa nella mia mente ha cominciato a chiarirsi. È stato quando Rosario Fiorello correndo in platea tra le poltroncine vuote ha osservato “l’assenza di culi”, ovvero “la parte peggiore dell’essere umano”. Ecco finalmente un esempio di discontinuità, ho pensato: al posto del consueto assalto di culi eccellenti appartenenti a papaveri Rai, a politici rivieraschi, a ospiti di controverso pregio, nonché alle loro signore, amiche, amici e amanti le telecamere inquadravano una platea in rigorosa fascia rossa, eroicamente sobria, severa, asciutta, silenziosa, competente, migliore e dunque in perfetta sintonia con lo spirito della discontinuità. Poi, l’indomani, mentre gettavo l’altro occhio sull’editoriale di Stefano Folli su Repubblica, il quadro si è illuminato ulteriormente, finché il controverso concetto mi è apparso sotto la giusta luce. A proposito del siluramento di Domenico Arcuri, l’articolista si doleva infatti del quanto mai fazioso fraintendimento per cui “averlo defenestrato, al di là dei risultati più o meno negativi ottenuti dalla sua controversa gestione, non sarebbe un gesto di discontinuità che dà l’impronta alla nuova stagione di Draghi bensì una sorta di scalpo offerto alla destra”. Mentre condividevo la giusta riprovazione, un lampo mi ha ricordato quella scena di Un americano a Roma, nella quale Alberto Sordi fa il gradasso e un tizio della produzione perde le staffe: “Armando, questo me lo cacci via subito”. Massì, la famosa discontinuità di Armando, tutto torna.