AfD sorvegliato speciale dagli 007

Si sa, ma non si dice, almeno non ufficialmente. L’intero partito nazionalista di destra AfD è un “caso sospetto” a livello federale di estremismo di destra per i servizi segreti tedeschi (il BfV), non più solo a livello locale o regionale come prima. E questa è una notizia, perché in linea di principio dovrebbe comportare una svolta radicale per il partito e i suoi deputati: tutti dovrebbero finire sotto osservazione con i mezzi disponibili dell’intelligence. Ma non sarà così per il momento e per due ragioni. La prima è che manca la conferma ufficiale, tiene a specificare l’autorità federale di intelligence. È tuttora in atto, infatti, un ricorso a firma AfD davanti al Tribunale amministrativo di Colonia proprio contro la classificazione dell’autorità federale e finché la Corte non si esprimerà la pratica è sospesa.

L’attesa tuttavia è forte e ieri mattina prima su Spiegel e poi sull’agenzia di stampa tedesca è trapelato che durante una video-conferenza tra i responsabili locali dei Laender dei servizi, il presidente del BfV Thomas Haldenwang avrebbe dichiarato che il partito Alternative fuer Deutschland è stato classificato come “caso sospetto” al livello federale. Ma, come dicevamo, non si passerà dalle parole ai fatti. In considerazione del procedimento giuridico in corso e per ragioni di opportunità politica per il momento i servizi non useranno la lente di ingrandimento su deputati del Bundestag, deputati dei parlamentini regionali e dell’europarlamento, e neppure sui candidati alle prossime elezioni del 2021. In prossimità delle elezioni del 14 marzo in Renania Palatinato e Baden-Wuerttemberg e in un “anno elettorale” come questo, la questione è delicata. C’è il fondato timore che il partito di destra possa usare questa come una leva elettorale. Non a caso il ministro degli Interni Horst Seehofer, il 15 gennaio scorso, ha messo in guardia dal non politicizzare troppo la questione ed evitare un effetto boomerang. “Naturalmente ha un significato politico” la classificazione ha detto Sehhofer “ma è importante che non sia una decisione dei politici ma dei funzionari attraverso l’ufficio federale BvF”. In effetti adesso l’AfD grida allo scandalo. “Il BfV interviene con risorse dello Stato nella libera competizione democratica. Benché non ci possa essere nessun “caso sospetto” ha lanciato queste informazioni ai media per danneggiare l’AfD” ha twittato il portavoce AfD Tino Chrupalla. Alla base della decisione di definire il partito di destra come associazione estremista di destra c’è una perizia di oltre 1.000 pagine che raccoglie dichiarazioni dei deputati, oltre a documenti valutati da esperti di estremismo di destra. Il sospetto è che il partito punti a minare le basi della democrazia liberale tedesca.

L’indagine iniziata dal BfV nel 2019 è stato il primo impulso di un nuovo corso voluto dall’allora neo-presidente Haldenwang, succeduto ad Hans-Georg Maassen, l’ex presidente dei servizi vicino ad AfD, diventato indifendibile dopo il sostegno indiretto alle marce razziste di Chemnitz del settembre 2018.

Altro che Draghi, è Orbán il vero alleato per Salvini

Ha definito il Ppe “antidemocratico, ingiusto e inaccettabile” e la delegazione di Fidesz ha lasciato il gruppo al Parlamento europeo. Con una lettera al capogruppo, Manfred Weber, Viktor Orbán ha alfine consumato una rottura nell’aria da anni, più volte scongiurata all’ultimo momento. Pietra dello scandalo è stato il nuovo regolamento del gruppo, approvato ieri, che fra le altre cose prevede la possibilità di escludere intere delegazioni e non solo singoli europarlamentari. Secondo l’articolo 7 bis si può sospendere una delegazione nazionale con un voto a maggioranza nel caso in cui sia sospesa anche dal partito. Fidesz sarebbe stato fuori immediatamente, dato che è sospeso dal partito del Ppe dal 2019, per timori legati all’erosione dello stato di diritto in Ungheria. Orbán ha definito il regolamento “fatto su misura” per estromettere Fidesz. E così ha giocato d’anticipo. Fidesz, che quasi ininterrottamente dal 2010 ha una maggioranza dei due terzi nel Parlamento ungherese, ha portato avanti un braccio di ferro su quasi tutto, dal concetto di Europa al sovranismo, al veto sul Recovery fund, ritirato in extremis.

La sorpresa è che entrambe le parti stavolta siano andate fino in fondo. Perché se anche il Ppe passa da 187 a 175 deputati e gli equilibri interni al Parlamento europeo per ora non cambiano (i socialisti stanno a 145), l’uscita della delegazione ungherese non è indolore per gli equilibri politici europei. Orbán, presumibilmente, cercherà un approdo nell’Ecr, il gruppo di Giorgia Meloni, che ieri gli ha dato la solidarietà via Twitter. La prima conseguenza, dunque, è il consolidamento di un blocco sovranista, composto da delegazioni importanti. La scelta dell’Ungheria potrebbe essere seguita da quella della Slovenia. E anche se i polacchi di Donald Tusk sono i più acerrimi nemici del premier ungherese all’interno del Ppe, si guarda con attenzione anche alle mosse della loro delegazione, la più nutrita del partito. Insomma, mentre si va consolidando un blocco più moderato che ha portato avanti la gestione europea dall’inizio della pandemia (dal Recovery Plan ai vaccini), si allarga il fronte di opposizione. Intanto, il caso italiano continua a destare confusione. Ieri il leader leghista, Matteo Salvini, non solo ha ribadito la sua amicizia a Orbán, ma poi ci ha tenuto a fare una videoconferenza con lui su piano vaccinale, rilancio economico, controllo dell’immigrazione, tutela della famiglia. Scelta singolare, visto che dalle parti governiste del Carroccio (vedi Giancarlo Giorgetti) stavano lavorando all’ipotesi di traghettare il partito nel Ppe. Magari a tappe rallentate: far passare qualche singolo parlamentare in questa legislatura, entrare in blocco nella prossima. Un lavoro non facile, visto che ora i leghisti siedono tra i “reprobi”, gli estremisti di Identità e Democrazia. Ma che sembrava la conseguenza della decisione di partecipare al governo Draghi. Invece Salvini non ci sta e decide di marcare ancora una volta una differenza, che rischia di apparire incomprensibile. E che potrebbe precludere al suo partito l’ingresso nel Ppe, peraltro reso più difficile anche dal regolamento approvato ieri. L’Ecr più volte ha dichiarato che le sue porte sono aperte al partito di Salvini, ma lui non vuole stare nello stesso gruppo della Meloni.

Strategia complessa, che invece di farlo essere di lotta e di governo, rischia di farlo sembrare né di lotta, né di governo. Viceversa, a livello generale, l’uscita di Orbán conferma le mosse centrifughe rispetto alla Ue che si va disegnando in questi mesi, anche con l’arrivo di Mario Draghi. Se è per il piano sui vaccini, sono mesi che l’Ungheria punta sia il russo Sputnik che il cinese Sinopharm, senza attendere l’autorizzazione dell’Ema. D’altra parte i Paesi Visegrad sono sulla sua stessa linea. Ed è proprio di questi giorni la decisione di Danimarca e Austria (cosiddetti Frugali) di stringere patti con Israele. Per quel che riguarda invece gli equilibri interni alle forze che sono governo dell’Europa, un Ppe depurato da Orbán si pone più al centro. E questo potrebbe facilitare l’elezione di Weber (che pure ha espresso rammarico per la scelta di Budapest) a presidente del Parlamento europeo a metà legislatura, come successore di David Sassoli.

La fidanzata di Khashoggi: “Renzi incomprensibile”

“Proprio non capisco perché Matteo Renzi lo abbia fatto: forse deve cercare di capire meglio la realtà della situazione in Arabia Saudita e cosa Bin Salman ha fatto a Jamal”. Hatice Cengiz era la fidanzata del giornalista Jamal Khashoggi e sua promessa sposa prima che quest’ultimo venisse fatto a pezzi nel consolato arabo a Istanbul. Secondo la Cia, a volere quell’omicidio è stato proprio il principe Mohammed bin Salman. Oggi, dopo la conferenza di Renzi a Riyad con MbS, Cengiz si sfoga con l’Ansa attaccando a testa bassa l’ex premier italiano pagato fino a 80.000 euro per sedere nel board saudita Fii e sostenere che l’Arabia Saudita sia “il nuovo Rinascimento”: “Non è possibile essere ben informati sull’Arabia Saudita e allo stesso tempo sostenere che il principe sia un riformatore. Proprio non capisco”, ha concluso Cengiz. Anche tra i renziani, intanto, l’imbarazzo è palpabile. Se qualcuno aveva già mostrato fastidio quando era venuta fuori la notizia del viaggio a Riyad in mezzo alla crisi di governo, a far esplodere le chat dei parlamentari di Italia Viva è stato il rapporto dell’intelligence americana. E nelle chat ormai si sfogano: “Che vergogna…”. Pubblicamente i parlamentari si trincerano dietro “no comment” imbarazzati: “Sono tornato ieri a Roma dopo il Covid, non mi sono fatto un’idea”, dice il senatore Eugenio Comincini. Se a difendere pubblicamente Renzi ci hanno pensato gli esponenti di governo di Iv e il pretoriano Davide Faraone, pesa il silenzio di Maria Elena Boschi, che stavolta non difende il capo. E a chi le chiede cosa pensa lei risponde gelida: “Io non vado a fare conferenze internazionali”. Ieri una busta con due proiettili indirizzata a Renzi è stata recapitata al Senato. L’ex premier ha ricevuto la solidarietà di tutti i partiti. Compreso il suo, ovviamente, che ha realizzato un’apposita grafica per esprimergli vicinanza.

“Adesso al governo c’è una tecnocrazia per la restaurazione”

Il Governo dei Migliori è una grande opera di restaurazione messa in atto anche al fine di far maneggiare i soldi ai soggetti “giusti”. Proviamo a decifrarne l’origine e la natura con Gennaro Carillo, professore ordinario di Storia del pensiero politico e di Filosofie della polis, studioso degli antichi e di Vico, di potere e democrazia.

Professore, cosa è tecnicamente questo Governo dei Migliori? Una forma della democrazia? Un suo commissariamento? Un’oligarchia?

È un referto anatomo-patologico, piuttosto. La certificazione che quella che continuiamo a chiamare democrazia rappresentativa non esiste più o gode di pessima salute. Quello che è salutato come governo dei migliori è l’ennesima conferma di un processo di trasformazione della democrazia in tecnocrazia e, più in generale, del governo in governance. La sede della decisione politica si sposta verso poteri senza delega, legittimati solo dal possesso esclusivo di un sapere tecnico.

Quali sono i rischi della tecnocrazia?

L’opacità della decisione politica, presa in nome di una tecnica non discutibile e sciolta dall’obbligo di rendiconto. Già Erodoto, invece, sosteneva che non c’è democrazia dove non c’è bisogno di rendere ragione delle decisioni. E quanto più il potere è invisibile, scrive Spinoza, tanto più si alimentano la superstizione, l’infelicità e la tristezza del popolo.

A leggere i giornali, sembrerebbe una nuova aristocrazia dei competenti. Una Repubblica platonica. È così, anche se 15 ministri su 23 sono in politica da anni?

In un Paese come il nostro, incline alla genuflessione, l’apertura di credito verso il governo ha toccato vertici grotteschi di quello che Arbasino definiva “leccaculismo”, malattia nazionale. Se è indubbio che una parte della compagine governativa, a cominciare da Draghi, è fatta di esperti, la parte restante contraddice la retorica dei migliori. Anzi, rivela le ragioni meno confessabili della caduta del secondo governo Conte. Al quale nessuno ha perdonato il vizio d’origine: essere un outsider, non riconducibile a nessuna delle “famiglie” politiche che bloccano il sistema. La continuità è quanto di più antiplatonico possa immaginarsi: la polis perfetta presuppone l’azzeramento del personale della polis storica, una rifondazione radicale dell’assetto politico.

È una reazione delle élite contro gli incompetenti?

Non vedo élite all’orizzonte. Non le vedevo prima, non le vedo oggi. La retorica dell’uno vale uno ha fornito un assist formidabile alla retorica del merito. Ma il paradosso è che populismo e tecnocrazia sono il recto e il verso di una stessa medaglia: la crisi della democrazia rappresentativa. Che la competenza si formi in ambiti distinti dalla politica, dovrebbe poi far piangere lacrime amare a chi oggi, invece, esulta.

Se questa è una restaurazione, quale evento è stato la rivoluzione delle masse? Il Sussidistan, come lo chiama il capo di Confindustria?

Il reddito di cittadinanza è stato un tentativo di risposta, per molti versi sbagliata, a un problema reale. Che la sinistra abbia rinunciato a politiche redistributive del reddito e non abbia fatto argine alle derive censitarie della società italiana, accettate come se obbedissero a una legge di natura, è la causa principe del suo declino. Anche l’ostinazione a non vedere che il costo della crisi pandemica non è ripartito equamente produrrà conseguenze drammatiche. Ma è difficile che, con Salvini al governo, si possa anche soltanto pensare di onerare i garantiti con un tributo di solidarietà nazionale.

Il rischio è perdere anche quei minimi diritti sociali che i cittadini e i lavoratori del ’900 hanno conquistato?

Molti governi di centro-sinistra hanno fatto a gara con quelli di centrodestra nello smantellamento dei diritti sociali. La crisi pandemica sta completando quest’opera.

I giornali influenti sono posseduti da editori che hanno interessi nella finanza e nell’imprenditoria. È per questo, e per l’arrivo di 209 miliardi, se la figura di Draghi narrata dai media è quella di un demiurgo?

Il sistema dei media è un sistema bloccato. L’effetto loop prodotto da certi talk show politici, il cui format ripete i canovacci della commedia dell’arte, con maschere fisse, è nauseante. Nel discorso pubblico, anche Draghi diventa un costrutto semiotico, il re taumaturgo.

Il Governo dei Migliori è il governo di quelli che hanno sempre maneggiato i soldi?

Si è rivelato finora quello della restaurazione, del ripristino dell’ordine infranto. È qualcosa di più profondo dell’enorme massa di denari in arrivo.

Rousseau, Casaleggio per lo stop. A rischio il sì al Lazio giallorosa

Il rifondatore non è ancora capo, segretario o la carica che preferirà darsi. Ma Giuseppe Conte già decide, nel Movimento. E visto che c’è, deve già occuparsi delle grane: una caterva, nel M5S. Per questo nelle scorse ore Conte ha dato la sua benedizione al matrimonio prossimo venturo tra Pd e Cinque Stelle nel Lazio, dove Roberta Lombardi e Valentina Corrado entreranno nella giunta del segretario dem Nicola Zingaretti.

Una coalizione giallorosa, insomma, e figuriamoci se il sempre aspirante federatore Conte poteva dire di no. Però ora a dire di sì all’accordo dovrebbero essere gli iscritti sulla piattaforma Rousseau: e non si sa quando riusciranno a farlo. Perché Davide Casaleggio, il patron della piattaforma, potrebbe sbarrare le porte della sua creatura finché non gli verranno dati i soldi che invoca. O almeno così dicono (o malignano) da Roma. E da qui si precipita subito alle rogne, per Conte. Mediatore più che necessario, visto che la guerra tra il M5S e Casaleggio sta deragliando. Come raccontato dal Fatto ieri, il patron della piattaforma Rousseau pretende dal Movimento circa 450 mila euro di versamenti arretrati dei parlamenti. E oltre 40mila, filtra, ne ha chiesti nei giorni scorsi agli europarlamentari, che però non hanno intenzione di darglieli: anche in virtù della normativa vigente a Bruxelles che leggerebbe quei pagamenti come una via per aggirare il vincolo di mandato.

Cifre di uno scontro che è anche politico, sulla rotta e le scelte del M5S. Totale, al punto che il reggente Vito Crimi si è lamentato anche nell’assemblea congiunta, martedì sera: “Da Rousseau ci sono state ingerenze, vedremo cosa fare”. E nell’attesa il timore ai piani alti nel Movimento è che l’erede di Gianroberto possa adoperare l’arma da fine del mondo, ossia non concedere più la piattaforma per le votazioni. Partendo con quella per l’entrata dei grillini nella giunta del Lazio, attesa da qui a breve. “O magari potrebbe semplicemente rallentare di molto i tempi, come ha fatto durante gli Stati generali con mille pretesti” accusano i 5Stelle E allora serve in fretta almeno una tregua. Quella che insegue da settimane Beppe Grilllo, che Casaleggio jr l’avrebbe voluto al vertice di domenica con Conte e tutti i big, ma a cui l’uomo di Rousseau ha detto un netto no. Grillo così è tornato a rivolgersi a Conte: “Giuseppe, Casaleggio va tenuto dentro”. Ed è il difficile punto di equilibrio a cui sta lavorando l’avvocato, per cui Rousseau può rimanere la piattaforma operativa del M5S, certo, ma con un rapporto regolato da un contratto di servizio, ossia da fornitore esterno. Per il resto, Conte ritiene che i legami giuridici con Rousseau vadano estirpati. Ed è anche per questo che pensa a un nuovo Statuto, molto diverso da quello attuale figlio del patto tra Di Maio e l’erede di Gianroberto, stretto nel 2017. Un’altra era.

Ora l’ex premier vuole mettere ordine, riscrivendo o togliendo norme che in molti casi lo hanno lasciato perplesso. Compresa quella sulle restituzioni che – dicono – verrà semplificata, stabilendo una cifra fissa a mo’ di forfait per ogni eletto. Ma Conte non vuole rompere i rapporti con Casaleggio, e sta cercando un punto di caduta morbido con Milano. Una soluzione a cui lavora da giorni anche Di Maio, l’unico big oltre a Grillo a poter parlare ancora con Casaleggio. Però non c’è solo la faida con Milano a far riflettere Conte. Perché dal corpaccione parlamentare gli stanno recapitando segnali. Per esempio sull’organo collegiale, che gli eletti vorrebbero non composto dai “soliti big”. E le polemiche contro “il caminetto” di domenica, emerse nell’assemblea congiunta, raccontano l’insofferenza dei gruppi. Anche perché sullo sfondo, sempre pronta a esplodere, c’è la questione del terzo mandato. Nel vertice di domenica non se n’è parlato, giurano tutti. E neanche nei conversari ai massimi livelli. Ma tutti danno per scontato che la regola dei due mandati verrà abolita, e magari soppiantata con un meccanismo di recall per selezionare i meritevoli di una terza ricandidatura. E la paura è che alla fine si salverà solo qualche big assieme ai suoi fedelissimi. In questo clima gli espulsi vanno alla guerra, legale.

Ieri sei ex senatori del M5S, tra cui Elio Lannutti e Barbara Lezzi, e due deputati hanno dato mandato a un avvocato per chiedere anche in sede civile il reintegro nel gruppo assieme ai danni. Sta finendo a carte bollate, insomma. E se il tribunale dovesse dare ragione agli espulsi, sarebbe un’altra grana per il rifondatore. Cioè per Conte.

Uomini Eni alla Farnesina: l’accordo segreto del 2008

C’è un accordo riservato che mette nero su bianco il segreto di pulcinella della politica estera italiana. È un protocollo d’intesa stipulato tra il ministero degli Esteri ed Eni nel 2008, finora mai pubblicato. Spiega in concreto perché il colosso petrolifero di San Donato, controllato dal Tesoro, non è una società privata come tutte le altre. L’accordo concede infatti a Eni un privilegio particolare: stanziare un proprio “funzionario” presso il ministero degli Esteri per un periodo di due anni rinnovabile all’infinito e, reciprocamente, avere nei propri uffici un “funzionario diplomatico” della Farnesina. Insomma Eni e governo italiano si scambiano pedine, così da “rafforzare il raccordo tra l’azienda e il ministero degli Affari Esteri”, dice l’accordo. In più, il gruppo privato e la Farnesina si sono impegnati a scambiarsi informazioni “sulla realtà economica, istituzionale e sociale dei Paesi oggetto di interesse”.

Lo rivela un rapporto intitolato “Tutti gli uomini del ministero” firmato da Re:Common, associazione italiana che da anni monitora l’attività di Eni nel mondo e ha, tra le altre cose, dato il via con le proprie denunce alle inchieste condotte dalla Procura di Milano per casi di sospetta corruzione in Nigeria e Repubblica del Congo. “In veste di principale compagnia energetica italiana, Eni gode di un peso rilevante sulla politica estera del nostro Paese. La protezione degli asset petroliferi del Cane a sei zampe ha motivato persino alcune delle missioni militari in cui è tuttora impegnato l’esercito italiano”, scrive Re:Common nell’introduzione del suo rapporto. Che il confine tra Eni e lo Stato italiano sia sempre stato sottile non è un segreto. “L’Eni è oggi un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi, i servizi segreti”, disse in tv nel 2014 Matteo Renzi, appena eletto presidente del Consiglio, scatenando le proteste dell’opposizione. La frase di Renzi “potrebbe essere usata da qualunque concorrente, all’estero, per bloccare contratti o gare”, commentò ad esempio Guido Crosetto, coordinatore di Fratelli d’Italia. Ma non è solo una questione commerciale. Prendiamo il caso di Giulio Regeni. Che peso ha avuto finora Eni, che in Egitto ha enormi interessi economici, nella decisione del governo italiano di non rompere i rapporti con il regime di al-Sisi? È uno dei tanti temi toccati dal rapporto di Re:Common, così come quello delle negoziazioni sul clima. “Quello in corso sarà un anno fondamentale per la politica energetica italiana”, scrive l’associazione, “e il nostro Paese avrà la co-presidenza della prossima COP 26 e quella del G20. Un tema centrale sarà proprio quello dei finanziamenti pubblici in nuovi progetti fossili. Viene da chiedersi però quali siano le possibilità concrete che l’esecutivo smetta di finanziare i devastanti progetti di Eni, fintanto che la compagnia godrà di una posizione privilegiata all’interno della stessa cabina di regia incaricata di coordinare la posizione dell’Italia nell’ambito di questi negoziati”. L’associazione ha scoperto quali sono i dipendenti Eni distaccati alla Farnesina. E due di questi avrebbero partecipato alle riunioni del ministero svoltesi in vista delle negoziazioni internazionali sul clima. Si tratta di Alfredo Tombolini, distaccato alla Farnesina dal 2016 al 2019, e di Sandro Furlan, oggi ancora in carica. Secondo Re:Common, i due manager hanno partecipato ad almeno tre riunioni delle cabine di regia su “Energia” e “Ambiente e Clima” tenutesi tra il dicembre del 2019 e la scorsa estate. Il problema, secondo l’associazione, è che così facendo la politica italiana rischia di essere troppo influenzata da Eni.

Il protocollo d’intesa tra l’azienda e il ministero dura ormai da 13 anni. È stato firmato nel settembre del 2008, quando a capo del governo c’era Silvio Berlusconi e sulla poltrona di amministratore delegato di Eni sedeva Paolo Scaroni. Due anni prima l’azienda aveva firmato con la russa Gazprom un contratto di fornitura di gas con scadenza 2035. “Visto il lungo radicamento della società in Russia e gli ottimi rapporti di cui gode con il Cremlino, Berlusconi vide in Eni un asset formidabile per la sua politica estera, tanto da permettere alla compagnia petrolifera di insediare i propri funzionari all’interno della Farnesina”, scrive Re:Common. Di sicuro il primo manager Eni distaccato al ministero degli Esteri è stato Giuseppe Ceccarini, fino ad allora responsabile delle relazioni istituzionali con la Russia per il Cane a sei zampe.

Prima udienza, scontro in aula su quasi 500 intercettazioni

Per la Procura di Genova ci sono 480 intercettazioni fondamentali, poco meno di mezzo migliaio di conversazioni in cui sono racchiuse tutte le accuse nei confronti dei presunti responsabili del crollo del Ponte Morandi. Su questa scelta, però, e soprattutto sulla modalità con cui viene effettuata, gli avvocati di Autostrade per l’Italia si oppongono e sollevano una questione di legittimità costituzionale: distruggere intercettazioni considerate irrilevanti durante le indagini preliminari – prima cioè che i pm svelino i capi di imputazione – sarebbe un danno irrimediabile al diritto di difesa. Per questo gli avvocati Giovanni Paolo Accinni e Massimo Pellicciotta hanno domandato l’intervento della Consulta.

Il colpo di scena è arrivato ieri, durante la cosiddetta “udienza stralcio”. Secondo la nuova normativa sulle intercettazioni è il momento in cui si decide, in contraddittorio e di fronte a un giudice, quali telefonate depositare, quali conservare e quali invece distruggere, perché ininfluenti per il processo o inutilmente lesive della privacy. Per gli avvocati, tuttavia, questa selezione va rinviata all’inizio del dibattimento. Per valutare l’istanza il giudice per le indagini preliminari Angela Maria Nutini ha sospeso l’udienza e ha rinviato tutto al 10 marzo.

Al netto degli aspetti più tecnici della controversia, quanto accaduto ieri solleva un problema tutt’altro che irrilevante. Non è un mistero che uno degli obiettivi indiretti dei vari disegni di legge sulle intercettazioni, negli anni scorsi, è sempre stato quello di limitarne la pubblicazione sui giornali. La versione finale della riforma, pone però secondo gli avvocati seri problemi di compressione del diritto di difesa. Soprattutto in processi imponenti come quello sul crollo del Ponte Morandi. I difensori hanno infatti avuto 20 giorni per ascoltare e leggere tutte le intercettazioni depositate dalla Procura di Genova, senza però poterne avere copia. E ora chiedono, prima di decidere cosa vada distrutto, il deposito di tutto il materiale. In altre parole, un ritorno a prima della riforma.

“Aspi, trust e divorzi finti: così gli indagati nascondono i soldi”

C’è chi ha creato un trust, dove ha messo al riparo il patrimonio personale. Chi ha venduto case e le ha intestate a familiari. Chi si è separato, avviando così anche divisioni patrimoniali. C’è fermento all’ombra dei processi nati dal crollo del Ponte Morandi. Procedimenti che prospettano cause penali e civili milionarie. Le stime sui possibili risarcimenti ammontano a 1 miliardo e mezzo di euro, secondo lo Cassa depositi e prestiti, impegnata in un’aspra trattativa per l’acquisizione di Autostrade per l’Italia. Una valutazione non troppo lontana da quella fatta dalla Corte dei Conti, che stima in più di 1 miliardo i costi dei soccorsi prestati durante l’emergenza e i danni all’economia. Insomma, cifre da capogiro. Ed è in questo contesto che gli inquirenti hanno notato un fenomeno ricorrente: alcuni degli indagati nelle inchieste della Procura di Genova hanno cominciato a disfarsi di proprietà e conti in banca.

A segnalarlo è un’informativa della Guardia di Finanza, depositata nelle settimane scorse ai pm Walter Cotugno e Massimo Terrile, i magistrati che si occupano delle indagini nate dal disastro, coordinati dal procuratore capo Francesco Cozzi e dall’aggiunto Paolo D’Ovidio. L’annotazione contiene il tracciamento di alcuni movimenti finanziari sospetti.

Al centro dell’attenzione ci sono una decina di persone, manager di medio e alto livello, nomi ricorrenti in tutti i filoni di indagine. Da una prima scrematura circa la metà di queste posizioni sono ritenute di massimo interesse. Gli investigatori stanno cercando di valutare se si tratta di manovre lecite, oppure se sono la spia di un tentativo di occultamento di capitali o di intestazioni di beni a persone fittizie, insomma movimenti strategici per evitare future aggressioni in caso di guai giudiziari.

La Procura di Genova non indaga solo sulla tragedia del viadotto Polcevera, che il 14 agosto 2018 ha provocato 43 vittime. Da quel fascicolo ne sono nati altri tre paralleli: uno sulla falsificazione dei report sulla sicurezza dei viadotti; un secondo molto simile che riguarda ispezioni ammorbidite sulle gallerie; un terzo sull’installazione di barriere antirumore difettose. Tre filoni che lasciano intravedere una medesima filosofia gestionale, orientata secondo il tribunale alla massimizzazione dei profitti, e che per questo potrebbero a un certo punto essere accorpati in un unico processo.

L’affaire barriere a novembre ha portato all’arresto dell’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci. Il manager aveva già lasciato il gruppo nel settembre del 2019, dopo la diffusione delle prime intercettazioni che coinvolgevano alcuni fedelissimi. Tra loro l’ex capo delle manutenzioni Michele Donferri Mitelli (licenziato due mesi più tardi), registrato mentre chiedeva a personale di Spea (società del gruppo incaricata del monitoraggio delle opere) di ammorbidire i rapporti sulla sicurezza dei viadotti. In un altro messaggio, poche settimane prima del crollo del Morandi, Donferri scrive al suo diretto superiore Paolo Berti che i cavi del ponte “sono corrosi”. Affermazione a cui il suo interlocutore risponde: “Sticazzi, io me ne vado”. E sono sempre i due dirigenti le figure che ritornano in un altro passaggio fondamentale delle indagini. A gennaio del 2020 Berti è appena stato condannato a cinque anni per i morti di Avellino. Minaccia di cambiare versione in appello e di poter mettere nei guai i vertici della società. Donferri lo va a prendere in aeroporto per portarlo a un incontro con Castellucci e in una circostanza lo convince “a stringere un accordo con il capo”.

L’allontanamento di Castellucci, in ogni caso, non è stata un’operazione a costo zero per Aspi. L’accordo di “risoluzione consensuale” prevedeva per il manager una buonuscita da 13 milioni di euro. Castellucci finora si è sempre difeso dicendo di essere stato tenuto fuori dai dettagli tecnici sulla sicurezza. Ma dopo l’aggravamento del quadro indiziario nei suoi confronti, Atlantia ha provato a congelare la liquidazione d’oro e a richiedere indietro anche il primo acconto da 3 milioni. La decisione è stata impugnata di fronte al giudice del lavoro di Roma, che in una prima fase ha dato il via libera al pagamento della seconda tranche. È quasi certo che la controversia sarà destinata ad avere altri sviluppi. Soprattutto quando il tribunale di Genova presenterà il conto da pagare.

Milano sta perdendo la gestione dell’acqua pubblica: conflitto d’interessi su consulenza

Milano sta per perdere la gestione dell’acqua distribuita ai cittadini. Ora il servizio idrico della città è gestito da Mm spa, la società del Comune di Milano che ha progettato le prime linee metropolitane milanesi e ha poi continuato a svolgere funzioni di stazione appaltante per i lavori pubblici e di progettazione di infrastrutture e servizi d’ingegneria. Nel tempo, a Mm sono state affidate anche la gestione delle case popolari di proprietà del Comune di Milano e dei servizi idrici. Questi ultimi potrebbero essere ceduti a Cap Holding, la società pubblica che gestisce l’acqua per i Comuni della Città metropolitana (cioè la ex Provincia di Milano).

La procedura di scorporo del ramo acque di Mm è stata avviata da tempo, con una delibera del consiglio d’amministrazione di Ato (l’azienda speciale territoriale della Città metropolitana) che già a fine 2019 affidava un incarico per lo “studio di valutazione delle sinergie gestionali ed economico-finanziarie derivanti dall’unificazione delle gestioni del servizio idrico integrato”. L’incarico è stato affidato, tramite gara, alla società Paragon Business Advisor srl, che se l’è aggiudicata chiedendo un compenso di 29.950 euro, su una base d’asta di 80 mila euro. Ha battuto alla grande il secondo classificato, l’Università Cattolica del Sacro Cuore, che aveva offerto 80 mila euro.

Nella consulenza, Paragon, scartando tutte le soluzioni alternative, indica la strada della scorporo del servizio idrico e di tutta l’ingegneria di Mm, in favore di Cap Holding. Curioso è però il fatto che Paragon, mentre vinceva questa gara, era già titolare di un incarico di assistenza professionale conferito proprio da Cap Holding in data 17 giugno 2019, con durata fino al 20 aprile 2020, valore 34.900 euro, per fornire un “servizio di assistenza professionale nelle seguenti aree: pre-acquisition due diligence giuslavoristica, legale, contabile e fiscale di una società target”. Insomma: mentre doveva dare un parere disinteressato sulla gestione del servizio idrico nell’area milanese, era a servizio della società che punta ad acquisire Mm. Allarmati i sindacati milanesi Cgil-Cisl-Uil, che denunciano un progetto per far “perdere al Comune di Milano, e dunque ai cittadini milanesi, il controllo al 100 per cento dell’acqua e dell’ingegneria” e chiedono un incontro con il sindaco Giuseppe Sala “esprimendo preoccupazione per il futuro dei lavoratori di Mm spa”. Segnalano che la conseguenza dell’acquisizione potrebbe essere anche l’aumento delle tariffe per i cittadini, poiché già ora – denunciano – le tariffe Cap Holding sono più alte di quelle Mm e più alti sono anche i disservizi e le perdite d’acqua nel sistema idrico.

Il dirigente di Iv vuole fare la “stira” a Scanzi

Si perde il pelo ma non il vizio. Parliamo di Massimo Gnagnarini, coordinatore di Italia Viva nella zona di Orvieto. Che due giorni fa si è reso protagonista di un attacco con minacce ad Andrea Scanzi, giornalista del Fatto Quotidiano. Il post in questione, pubblicato su Facebook in risposta a un post di Scanzi di critica a Matteo Renzi, recita quanto segue: “Io sono nato e cresciuto nel quartiere di Orvieto Scalo, che veniva chiamato La Corea. Lì uno come Andrea Scanzi lo avremmo definito un piccolo testa di cazzo e segaiolo. E gli avremmo usato violenza praticandogli ‘la stira’. Ecco!”. Sorvoliamo su cosa sia la stira (ma potete trovare il significato sul web), il fatto è che Gnagnarini non è nuovo a manifestazioni di questo tipo. Nel 2017, infatti, si è dovuto dimettere da assessore al bilancio del Comune di Orvieto a seguito di parole razziste scritte sempre sui social in risposta a un cittadino che si lamentava della presenza di donne rom in zona stazione. “C’aveva provato anche lo zio Adolf a prendere qualche rimedio, politicamente scorrettissimo, ma non gli è riuscito neanche a lui”, le parole dell’assessore che, dopo un mare di polemiche, fu costretto alle dimissioni.

Ma Gnagnarini, che nella vita lavora in banca, non si dà per vinto e alle Politiche 2018 si candida alla Camera per Civica Popolare, la lista “petalosa” di Beatrice Lorenzin, senza essere eletto. E a chi gli ricorda quell’attacco razzista spiega che “dopo quella frase orrenda e sfortunata, di cui era chiaro il senso paradossale, credo di aver pareggiato i conti presentando le dimissioni”. E ancora: “Mio malgrado il circo mediatico mi aveva accreditato come un beniamino della destra, ma la mia storia personale dimostra che in 40 anni di attività ho vissuto la politica con tutt’altro spirito”. Sarà. Ma lo spirito per le minacce e gli insulti deve essergli rimasto. E ora è finito in Italia Viva.