Ex Ilva, Mittal chiede altri tre mesi di Cig per più di 8 mila lavoratori dal 29 marzo

ArcelorMittal ha comunicato ai sindacati il ricorso alla Cig ordinaria per un periodo “presumibile” di 12 settimane, a partire dal 29 marzo, per un massimo di 8.128 dipendenti distinti fra quadri, impiegati e operai per il sito produttivo di Taranto. Ovvero l’intera forza lavoro del sito. L’azienda ha spiegato che la pandemia “ha avuto riflessi in termini di calo di commesse e ritiro degli ordini prodotti”, aggiungendo che “nell’individuazione del personale da porre in sospensione, si atterrà a criteri oggettivi derivanti dalle professionalità dei lavoratori coniugate alla quantità e alla qualità delle lavorazioni di volta in volta da eseguire”. Mittal spera che di poter sospendere la procedura ordinaria Cig per sostituirla con la Cig Covid 19, come accaduto le scorse settimane, pagata dallo Stato. Intanto bisognerà attendere l’11 marzo per sapere se il Consiglio di Stato concederà o meno la sospensiva a Mittal costretta, dopo la sentenza del Tar di Lecce, a spegnere gli impianti inquinanti dell’area a caldo dell’ex Ilva di Taranto entro 60 giorni. Mentre il 13 maggio i magistrati amministrativi dovranno stabilire se confermare o meno la sentenza del Tar.

NoDad in piazza. Riparte la rivolta di genitori, prof e studenti d’Italia

Gli studenti non ci stanno e si preparano alla protesta. Comprendono la preoccupazione per i contagi, ma non accettano che siano le scuole a pagare con la chiusura mentre molte altre attività resteranno aperte.

E così ieri il Comitato “Priorità alla scuola”, a cui aderiscono alunni e genitori da tutta Italia, ha annunciato una mobilitazione nazionale per il 26 marzo, in concomitanza con uno sciopero indetto dai Cobas, contro “la chiusura degli istituti scolastici e per chiedere di convogliare un numero congruo di risorse del Recovery Plan sulla scuola pubblica”.

Il nuovo decreto del governo, secondo la promotrice del Comitato, Costanza Margiotta, “mette a repentaglio la salute psicofisica dei nostri figli”. Il punto, secondo l’associazione, è che non sia giusto sacrificare sempre gli studenti: “Non si possono chiudere sempre e solo le scuole. Prima si chiuda tutto il resto e se ancora non funziona per ultime si serrino le scuole. Non si utilizzano le aule a compensazione di contagi che avvengono altrove e ovunque”.

E tra chi si mobiliterà contro il dpcm c’è anche Anita, la studentessa dodicenne di Torino diventata un simbolo, già nei mesi scorsi, della lotta in favore della didattica in presenza. La ragazza, che frequenta la scuola media Italo Calvino, lo scorso autunno protestò sedendosi di fronte a un banco davanti al portone del suo istituto, chiuso a causa delle norme anti-contagio, e fermandosi lì a studiare per alcune ore, diversi giorni di fila. Oggi, come dichiarato al Corriere di Torino, Anita è pronta a far sentire ancora la sua voce: “Se decidono di chiudere di nuovo le scuole, torneremo in piazza a protestare. Ho già parlato con le mie amiche, se accade di nuovo siamo pronte”.

Al suo fianco ci sarà senz’altro Cristina, sua mamma, allineata nella protesta anti-Dad: “Chiudere le scuole ci fa tornare indietro di un anno. Nel caso, anche noi genitori scenderemo in piazza”.

Il covid e i ragazzi: Generazione hikikomori

Il malessere ha molte facce, spesso subdole. Può presentarsi sotto forma di disturbi funzionali, come continui mal di testa o dolori muscolari. Può sfociare in disturbi del sonno o in disturbi alimentari. Può tracimare in crisi di rabbia, in aggressività, in ansia acuta o angoscia. Oppure può esplodere, raggiungere la forma più estrema, e portare ad atti di autolesionismo o tentativi di suicidio: solo che questi sono solo la punta dell’iceberg. Nell’era del Covid sono i bambini e i ragazzi a pagare il prezzo più alto alla paura del contagio e alle restrizioni. Niente scuola (se va bene a singhiozzo). Poche interazioni sociali, gli impianti sportivi chiusi, gli incontri con gli amici rarefatti.

 

Il virus benzina su carboni ardenti del disagio

“All’inizio, durante il lockdown della primavera scorsa, le richieste di assistenza si erano quasi azzerate”, spiega Antonella Costantino, presidente della Società di neuropsichiatria infantile. “Poi però – prosegue Costantino – a partire dallo scorso mese di agosto sono ricominciate mostrando una tendenza in forte aumento. Sino ad arrivare agli ultimi due mesi, quando sono schizzate alle stelle”. Sì, perché se il primo lockdown è stato fronteggiato con capacità di resistenza allo stress, poi tutto è crollato con il protrarsi della paura, dell’incertezza, delle restrizioni. E le prime vittime sono loro: i bimbi e gli adolescenti. Costantino dirige il servizio di neuropsichiatria infantile del Policlinico di Milano. Qui gli accessi al pronto soccorso di ragazzi con disturbi riconducibili a un forte disagio psichico sono raddoppiati. E non è affatto un caso isolato.

Sono raddoppiati anche nei pronto soccorso degli ospedali di Modena. E sono aumentati all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze. “Stimiamo una crescita del 17% a fronte di un crollo del 40% degli accessi generali”, conferma Alberto Zanobini, direttore dell’ospedale Meyer. “Vediamo sempre più forme di autolesionismo, di disturbi psicotici, del sonno, fino ad arrivare ai tentati suicidi. È un fenomeno che si inserisce su un’onda lunga degli ultimi anni, su uno strato di fragilità sociale già esistente che la pandemia ha acuito: ha gettato benzina su carboni ardenti”.

Poco più in là, a Pistoia, stessa storia, con una impennata del 30% degli accessi all’ospedale cittadino. Diminuiscono le richieste di assistenza per patologie organiche, aumentano quelle per disturbi funzionali che celano una sofferenza psichica. “È il modo con cui viene manifestato il disagio”, spiega Rino Agostiniani, presidente della Società di pediatria italiana. “Sono colpiti soprattutto i bambini e i ragazzi dai 10 in su. Anche se poi molto dipende dalla solidità delle famiglie. Gli adolescenti che provengono da contesti più fragili, socialmente ed economicamente, sono più esposti”.

 

La reazione: fobia sociale, la sottrazione di tutto

Se gli anziani pagano con la solitudine, i giovani reagiscono così alla sottrazione di tutto ciò che serve per crescere: la scuola, le relazioni con gli amici, le attività sportive, l’idea stessa del futuro. “C’è chi scivola, con un effetto paradosso, nella fobia sociale, si ritira in se stesso come reazione all’isolamento”, dice Fabrizio Starace, direttore del dipartimento di Salute mentale Asl di Modena. “Ma c’è anche chi invece reagisce con comportamenti rischiosi, come gli assembramenti”.

 

I numeri del fenomeno solo a giugno, con lo studio iss

Numeri aggregati a livello nazionale ancora non ci sono. L’Iss, Istituto superiore di sanità, sta svolgendo una ricerca che coinvolge un terzo dei dipartimenti di salute mentale. I dati definitivi ci saranno solo verso giugno. Ma già emerge, come conferma lo stesso istituto, che la situazione adesso è molto peggiore rispetto a un anno fa. “È stato il prolungarsi dell’incertezza a portare a un sensibile aumento del fenomeno”, spiega Gemma Calamandrei, direttrice del Centro di scienze comportamentali e salute mentale dell’Iss.

Una recente ricerca condotta da Ipsos, e che ha coinvolto studenti dai 14 ai 18 anni, ha mostrato che almeno 34mila ragazzi che frequentano le scuole superiori rischiano di abbandonare il percorso di studio a causa delle assenze prolungate. Già ora uno su quattro deve recuperare diverse materie. Anche perché la Dad, per almeno il 38%, è una esperienza negativa: per esempio, per difficoltà di connessione, ma a volte anche perché si è costretti a condividere il computer con fratelli o sorelle, o perché non si dispone di una stanza propria. E la scuola è e resta un potente motore di contrasto all’isolamento e alle disuguaglianze. Con l’aggravante che oggi i servizi di neuropsichiatria infantile, a cui compete l’assistenza dei ragazzi fino ai 18 anni (dopo intervengono i dipartimenti di salute mentale), riescono a dare una risposta solo in un caso su due per quanto riguarda le diagnosi, e in un caso su tre per quanto attiene il percorso terapeutico.

C’è poi il caso dei bambini che sono stati contagiati. Se ne è occupato, con il progetto Timmi, l’ospedale pediatrico Buzzi di Milano. Ha monitorato 86 tra bimbi e adolescenti. Dimostrando come l’esperienza del Covid abbia lasciato strascichi pesantissimi a livello psicologico. “Difficoltà psico-emotive, angoscia, paura, isolamento: e ci confrontiamo sempre di più con ragazzi che esprimono idee suicidarie”, conferma la pediatra Lucia Romeo, responsabile dell’equipe che ha realizzato il progetto.

Già, il suicidio: e qui scatta il grande allarme. Anche perché, come spiega Maurizio Pompili, ordinario di Psichiatria all’Università La Sapienza di Roma, “è la terza causa di morte in Italia tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni: e quando si è isolati è più facile alimentare pensieri negativi”. Oggi la partita, secondo Pompili, si gioca soprattutto nel cyberspace, dove ci sono fenomeni di emulazione e di cyberbullismo. Gli elementi che possono portare al suicidio sono multifattoriali – si va dalla storia personale al tipo di relazioni interpersonali – e la crisi epidemica può aggravare la situazione. “Ma quando, per esempio, assistiamo a modifiche negli interessi, alla voglia di cimentarsi in attività rischiose, a cambiamenti di umore repentini, o a disturbi del sonno, allora è lì – dice Pompili – che deve scattare il sospetto, la preoccupazione”.

Così da lunedì 6 mln di giovani restano a casa

Coi numeri di oggi, oltre 6 milioni di studenti potrebbero finire in didattica a distanza dalla prossima settimana. Si tratta di tre alunni su quattro, circa il doppio degli attuali e mai così tanti dal lockdown della primavera 2020.

La stima è del portale specializzato Tuttoscuola, che ieri ha quantificato gli effetti del nuovo Dpcm firmato due giorni fa da Mario Draghi, quello che ha previsto la chiusura di tutti gli istituti – comprese scuole materne e elementari – nelle zone rosse e ha concesso ai governatori la possibilità di decidere in autonomia ulteriori serrate là dove i contagi superano i 250 casi ogni 100.000 abitanti o dove si registrano gravi impennate, visto il dilagare delle numerose varianti. E su queste basi molti presidenti di Regione si stanno già muovendo, rendendo verosimile il dato di Tuttoscuola. Anche perché da una parte ormai ogni giorno vengono isolate nuove zone rosse locali all’interno delle Regioni – dove dunque le scuole saranno chiuse in automatico secondo il Dpcm– e dall’altra si registra un costante peggioramento della curva dei contagi in tutta Italia, motivo per cui a fine settimana potrebbero essere parecchi i territori a scivolare per intero verso le restrizioni più pesanti.

Al momento, lo stop alle scuole riguarderebbe Basilicata, Molise, Campania (dove Vincenzo De Luca, pur non essendo zona rossa, da tempo ha mandato a casa tutti gli studenti) e tutte le singole province già chiuse dai presidenti di Regione: le ultime, ieri, sono state Bologna e Modena, che finiscono in lockdown insieme a tre comuni abruzzesi (Silvi, Pineto e Roseto), a Giovo (Trento) e alle parecchie aree isolate nei giorni scorsi (da Siena a Pistoia, passando per Pescara e Chieti e diversi Comuni in provincia di Vibo Valentia).

Secondo Youtrend, ben 44 province da qui alla prossima settimana potrebbero superare quel parametro di 250 contagi ogni 100.000 abitanti fissati dal decreto. Sempre che, come detto, non siano le intere Regioni a chiudere.

Ieri il presidente del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga ha firmato la serrata per medie, superiori e Università nonostante la sua Regione sia ancora zona gialla. Misure analoghe a quelle del Piemonte, dove il governatore Alberto Cirio ha stabilito che da lunedì tutte le superiori e le seconde e le terze medie finiranno in Dad al 100 per cento per almeno 15 giorni. E non è tutto, perché domani la Regione deciderà altre chiusure in base al monitoraggio dei contagi Comune per Comune, con “osservate speciali” – per usare le parole di Cirio – le province di Torino, Cuneo, Vercelli e Verbanio-Cusio-Ossola, a rischio chiusura totale.

Una tendenza, quella dello stop anche per le materne e le elementari, che peraltro contraddice la linea del precedente governo e della ex ministra Lucia Azzolina, che invece avevano sempre insistito per mandare a scuola almeno gli alunni più piccoli. Lo stesso Mario Draghi, nel suo discorso di insediamento al Senato, aveva sostenuto la necessità di favorire il più possibile la didattica in presenza, come a preannunciare un cambio di passo aperturista: “La didattica a distanza, pur garantendo la continuità del servizio, non può non creare disagi ed evidenziare diseguaglianze. Non solo dobbiamo tornare rapidamente a un orario scolastico normale, anche distribuendolo su diverse fasce orario, ma dobbiamo fare il possibile per recuperare le ore di didattica in presenza perse”. Poi, complice una curva dei contagi che si è fatta sempre più allarmante tra i più giovani, è arrivato il cambio di rotta. Che difficilmente, di qui alle prossime settimane, risparmierà qualcosa in più di una piccolissima minoranza di classi.

“Le provvigioni? Arcuri non ne sapeva nulla”

“Arcuri non sapeva delle provvigioni. E non sono stato io a spendere il suo nome con i cinesi per ottenerle”. Mario Benotti, sottoposto ieri a Roma a interrogatorio di garanzia, ha risposto per due ore alle domande del gip. Il giornalista Rai in aspettativa, raggiunto nei giorni scorsi da interdizione alle cariche societarie, è indagato con altre cinque persone per traffico di influenze illecite. Sua la mediazione per l’acquisto a marzo 2020, da parte dello Stato italiano, di 801 milioni di mascherine dalla Cina al prezzo di 1,2 miliardi di euro. Benotti davanti al gip ha ribadito di aver ricevuto espressa richiesta dall’ex commissario straordinario, Domenico Arcuri, di reperire mascherine sul mercato, e solo dopo averle trovate di aver messo in contatto gli altri mediatori con la struttura commissariale. Benotti ha dato conto anche dell’improvvisa interruzione dei rapporti con Arcuri, dal 7 maggio. Il giornalista ha ribadito di aver ricevuto “espressa richiesta dal commissario di non sentirci più”, in virtù di “approfondimenti in corso da Palazzo Chigi”. Altro tema centrale, le provvigioni da 12 milioni di euro pagate dai cinesi alle sue società: “Quelle si sono palesate dopo, attraverso Tommasi, io pensavo di ottenere molto meno”, ha detto. Andrea Tommasi è l’altro mediatore, co-indagato, incaricato dai cinesi di trovare clienti in Europa. Oltre a Benotti, hanno sfilato davanti al gip la moglie Daniela Guarnieri (che si è avvalsa della facoltà di non rispondere), l’avvocato Georges Khouzam e lo stesso Tommasi. Lunedì era stato il turno di Jorge Solis, il trader ecuadoriano in contatto con i cinesi, oggi agli arresti domiciliari. Difeso dall’avvocato Roberta Boccadamo, ha riferito di aver convinto i fornitori a non pretendere l’acconto per le mascherine dopo le rassicurazioni di Antonio Fabbrocini, collaboratore di Arcuri.

L’amico di Bisignani, l’affaire “mascherine” e le finte certificazioni

Non c’è solo l’inchiesta sulla fornitura di 801 milioni di mascherine acquistate dal governo a marzo 2020. Nel mirino dei pm di Roma sono finite anche altre due commesse di mascherine e guanti acquistati stavolta dalla Protezione civile Lazio. Nell’ambito di questa nuova inchiesta, ieri sono state emesse tre misure cautelari ai domiciliari. Ed è nei rivoli di questo filone che ieri sono stati perquisiti (senza alcuna misura cautelare) due nomi noti. Si tratta di Roberto De Santis, dalemiano della prima ora, e dell’ex ministro Francesco Saverio Romano. Entrambi indagati per traffico di influenze, ma per vicende diverse. De Santis, secondo l’accusa, “sfruttando le sue relazioni personali con Domenico Arcuri”, ex commissario straordinario, “si faceva promettere da Vittorio Farina e successivamente dare dalla società European Network Tlc srl” 30 mila euro, “come da fattura emessa il 1º luglio 2020”. Fattura che per i magistrati “non trova altra giustificazione se non nella illecita mediazione consistita nel presentare ed accreditare al pubblico ufficiale la società in questione per nuove forniture”. Arcuri (estraneo all’indagine) è dunque ritenuto il “trafficato”, proprio come nell’inchiesta già nota sulle 801 milioni di mascherine acquistate dal governo.

Nella nuova indagine romana ieri è finito ai domiciliari Vittorio Farina, accusato di frode nelle pubbliche forniture e truffa. È un imprenditore, amico di Luigi Bisignani, e che in passato è stato anche tra i finanziatori della Fondazione Open: ha donato 200 mila euro di contributi volontari tra il 2016 e il 2017 (nulla di illecito). Chi a marzo stipula i contratti con la protezione civile Lazio è la società European Network Tlc Srl (Ent) della quale Andelko Aleksic è “il rappresentante legale pro-tempore” (da ieri ai domiciliari) e Farina il “delegato della stessa società”. Le forniture sono due: la prima riguarda 5 milioni di Ffp2 per 21,3 milioni di euro (iva inclusa), la seconda 430 mila camici per 5,2 milioni di euro (Iva inclusa) di cui sono stati pagati 2,1 milioni di euro. Secondo la procura però alcuni di questi dispositivi di protezione mancavano della certificazione Ce. Nel caso delle mascherine, è stata l’Agenzia delle dogane a rilevare “criticità in ordine all’autenticità del marchio Ce e della certificazione fornita”. Come pure nel caso della fornitura di camici per gli inquirenti la documentazione fornita non era idonea. Nell’ambito di questa indagine si delinea anche il quadro di relazioni di Farina, che viene definito dal Gip “il faccendiere” “colui che ha tenuto i contatti con soggetti vicini alla struttura commissariale, al fine di ottenere agevolmente la conclusione di forniture vantaggiose per la società”. “…Tu lasciami lavorare, c’ho ampia delega da te, te faccio diventare… molto benestante, forse potresti anche essere considerato ricco”, diceva ad Aleksic il 9 settembre. In un’altra conversazione del 5 ottobre, Farina parla di Arcuri mostrando “la sua soddisfazione nell’aver ottenuto la promessa – verosimilmente dal commissario – di inserire la Ent Tlc srl quale fornitore sussidiario rispetto a Luxottica spa e Fca Spa per l’approvvigionamento” di mascherine “da destinare alle scuole”. Secondo gli investigatori, il 3 settembre Farina “è riuscito ad incontrare Arcuri” a Roma. Circostanza smentita da fonti vicine all’ex commissario. Ieri poi una nota di Invitalia ha precisato: “Né la società European Network Tlc né le persone coinvolte nelle indagini, hanno ricevuto alcuna promessa, affidamento o incarico dall’ex Commissario o dalla Struttura”. “La società – aggiungono – come tante altre, aveva inviato diverse proposte a nessuna della quali è stato mai dato alcun seguito”.

Secondo gli investigatori, il primo settembre 2020 Farina incontra a Roma De Santis, lo stesso al quale, secondo le accuse, la Ent ha pagato una fattura di 30 mila euro. Nel decreto di perquisizione di De Santis i pm parlando di “numerosi contatti telefonici tra Farina e De Santis”. “De Santis – aggiungono – a sua volta, ha numerosi contatti con Arcuri (…) Vi sono anche contatti diretti tra l’utenza in uso ad Arcuri e quella in uso a Farina”. E poi ci sono i rapporti con Francesco Saverio Romano. Secondo i pm l’ex ministro “sfruttando le sue relazioni personali” con un funzionario della protezione civile Sicilia, si faceva promettere da Farina” “quale corrispettivo della sua mediazione illecita” circa 58 mila euro “come da fatture emessa il primo luglio 2020”.

La Lega contro la Lega: vota solo i Dpcm “suoi”

Il cortocircuito risale a dieci giorni fa, la sera del 22 febbraio: Matteo Salvini, dopo aver contribuito a formare il governo Draghi, riceve nel suo ufficio in Senato i ristoratori del movimento #Ioapro che, a metà gennaio, proprio alla vigilia dell’ultimo Dpcm del governo Conte, avevano manifestato con atti di “disobbedienza civile” aprendo i locali anche la sera. “Bisogna riaprire i ristoranti anche a cena” annuncia Salvini manifestando con i ristoratori in piazza Montecitorio. Dieci giorni dopo, martedì 2 marzo, il governo sostenuto anche dalla Lega e composto da tre ministri del Carroccio, approva il primo Dpcm in vigore da sabato con misure restrittive fino a Pasqua: viene mantenuto l’impianto delle Regioni a colori, sono vietati gli spostamenti tra Regioni, i bar e i ristoranti restano chiusi dopo le 18. Ma Salvini è al governo e, rispetto a un mese fa, non può più scendere in piazza per gridare alla “dittatura” e al “terrorismo” sanitario: “Se ci sono degli interventi da fare in alcune province più colpite è giusto intervenire ma accompagnandole con comunicazioni in tempi decenti” spiega imbarazzato il leader della Lega. Peccato che il famigerato decreto del presidente del Consiglio approvato martedì sia praticamente identico a quelli dell’èra Conte contro cui Salvini lanciava strali. L’unica differenza riguarda la stesura: l’ultimo Dpcm del governo giallorosa del 14 gennaio era di 29 pagine e 14 articoli, quello di Draghi di 38 pagine e 57 articoli più snelli. Così Salvini si è dovuto giustificare così con i suoi elettori: “Questo dovrebbe essere l’ultimo Dpcm, poi secondo me si deve tornare ai decreti legge per affrontare l’emergenza”.

Nel frattempo il “golpe giuridico” dei Dpcm teorizzato dal capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari e la “dittatura sanitaria” del deputato Claudio Borghi sono stati messi in soffitta. Ma anche l’uscita del vicepresidente del Senato leghista Roberto Calderoli che il 7 dicembre su La Verità sosteneva: “Le libertà costituzionali possono essere compresse solo con una norma di rango costituzionale. Conte invece le ha limitate con un atto amministrativo” diceva Calderoli. Ergo: “Il Dpcm è qualcosa di totalmente incostituzionale e cercheremo di portare la questione alla Consulta”. Per non parlare di Matteo Salvini che nell’ultimo anno di pandemia ha indossato la felpa aperturista e, dopo essere sceso in piazza con la mascherina abbassata o addirittura essersi presentato in Senato senza la protezione (“Non ce l’ho e non me la metto”), ha preso in mano la Costituzione contro i famigerati Decreti del Presidente del Consiglio: “La libertà non si arresta per decreto” scriveva su Twitter il leader della Lega il 7 luglio scorso, condividendo un’intervista del giurista Sabino Cassese contrario alla proroga dello Stato di emergenza.

Poi, in autunno, è arrivata la seconda ondata, ma il leader della Lega proprio non voleva accettarlo: “Spero che al governo non ci sia nessuno che pensi di tornare a richiudere ancora locali, negozi, bar, uffici, fabbriche e scuole perché si rischia di morire” diceva l’11 ottobre mentre i contagi iniziavano a risalire pericolosamente. Il 4 novembre Salvini protestava contro il nuovo decreto: “Chiudono in casa milioni di Italiani, in diretta tivù, senza preavviso, sulla base di dati vecchi di 10 giorni, senza garantire rimborsi adeguati” diceva annunciando un ricorso al Tar dei governatori e sindaci della Lega (poi scomparso). Un mese dopo, nuovo Dpcm del governo Conte per le chiusure natalizia. Nuova ira del leghista: “Negare il Natale alle famiglie e ai bambini è una follia” (3 dicembre), “Mi autodenuncio, violerò il dpcm il giorno di Natale” (18 dicembre) attaccava prima di manifestare con i ristoratori a inizio anno. In pochi giorni tutto è cambiato.

E l’imbarazzo dei leghisti si è manifestato ancora ieri pomeriggio in Senato dove si è votato per convertire il decreto Covid approvato dal Conte-2 che prevede la proroga di alcune norme antivirus in scadenza (i limiti su riunioni, spostamenti e attività economiche), il rinvio delle elezioni suppletive ma anche l’istituzione di una piattaforma nazionale per monitorare la campagna vaccinale. Il decreto è stato approvato con 122 voti favorevoli ma Lega e Forza Italia si sono astenuti perché il provvedimento era “risalente al governo giallorosso”. Nella dichiarazione di voto, il senatore del Carroccio, Luigi Augussori, però ha attaccato alcune misure previste dall’ultimo Dpcm come il divieto di spostamento tra regioni “con lo stesso tasso di rischio” o la “chiusura delle scuole”. Poi il senatore ha concluso: “Si valuti a procedere alla riapertura progressiva delle attività chiuse come ristoranti, teatri e palestre”. Ma il Dpcm approvato martedì dal governo prevede tutt’altro. Ma forse “l’altra Lega” non se n’è accorta.

Il disastro Molise: Cristo s’è fermato a Termoli

Un tempo Cristo, com’è noto, si fermava a Eboli, Salerno, cioè prima di arrivare in Basilicata. Oggi non più: si ferma a Termoli, costa del Molise. Il motivo pure stavolta non è religioso, ma politico: la sanità lucana non è stata commissariata, quella molisana lo è da 12 anni e sette governi.

Cristo s’è fermato a Termoli qualche giorno fa: un tizio attraversava in autostrada il breve lembo di terra detto Molise che vicino alla costa separa Abruzzo e Puglia e ha avuto la doppia sfortuna di avere un brutto incidente automobilistico proprio a Termoli. Sfortunato per l’incidente, certo, e ancor di più perché in Molise non c’è più un ospedale per “politraumatizzati”: sono tutti stati declassati anni fa dal commissario alla sanità, quello nominato a Roma per tagliare le spese in Molise. L’automobilista è morto mentre lo portavano a Chieti.

Essendosi fermato al porto di Termoli, Cristo non ha visto Bojano, nel Molise interno, dove un 61enne, punto da un calabrone, è morto per choc anafilattico mentre aspettava l’ambulanza. È arrivata troppo tardi perché il 118 in Molise, quel poco che c’è, ormai serve solo per spostare i malati Covid. E di spostarli c’è bisogno: i letti sono pieni, specie quelli di terapia intensiva, e i molisani emigrano pure da intubati. Cristo stavolta s’è fermato a Termoli, non a Eboli, perché Molise e Basilicata hanno più o meno gli stessi morti per Covid, ma la seconda ha il doppio degli abitanti: e a quel conto, a voler essere onesti, bisogna aggiungere il 61enne di Bojano e gli altri come lui, morti di malagestione. A Campobasso, a Isernia e negli altri comuni della piccola regione è in atto da mesi una sorta di esperimento che consiste nel negare ai cittadini il diritto costituzionale alla salute.

Da sei mesi ogni attività sanitaria ordinaria in Molise è ferma. Risparmiata di fatto dalla prima ondata, la piccola regione ha le peggiori performance durante la seconda. Quel che si doveva fare, non si è fatto, ma la situazione di partenza era già disastrosa. Colpa (anche) del commissariamento e del rigido sistema di tagli decisi al chiuso di un paio di ministeri: ospedali declassati (meno reparti, meno personale), posti letto dimezzati nel pubblico (ma saliti del 38% nel privato, che significa Neuromed o Gemelli), rete territoriale rasa al suolo. Può sembrare una piccola cosa, ma il budget sanitario del Molise è di 700 milioni l’anno: metterci le mani sopra fa felici i bilanci.

E veniamo alla pandemia. Non è stato creato un ospedale Covid, rendendo di fatto inagibili per gli altri malati i tre esistenti, c’è un solo laboratorio per i tamponi (e infatti se ne fanno pochi) e nessuno per sequenziare le varianti, le Usca non reggono e il personale è un buco nero un tempo detto pianta organica. In questi mesi, però, prendere decisioni è parso quasi impossibile: per mesi in cabina di regia il presidente di Regione Donato Toma (FI), autorità di Protezione civile, e il commissario ad acta per la sanità hanno litigato o finto di litigare senza concludere molto. La scorsa settimana sono finalmente riusciti a firmare una convenzione con Neuromed – il gruppo di Aldo Patriciello, “il Berlusconi del Sud” il cui cognato è vicepresidente regionale – per attivare 12 posti di terapia intensiva: sostanzialmente già esauriti.

Posti necessari e benedetti, per carità, però in primavera, quando un decreto invitò le Regioni a ristrutturare la propria rete sanitaria in vista della seconda ondata, la “cabina di regia” disse no alla riapertura del moderno ospedale di Vietri di Larino – dotato pure di camera iperbarica, uno dei pochi al Sud – chiuso per tagliare i costi, come quelli di Venafro e Agnone: un no che arrivò a fronte di due mozioni del consiglio regionale e di una petizione sottoscritta da 118 sindaci su 136. Si è deciso invece di creare una nuova ala “Covid” al Cardarelli di Campobasso: peccato che sia ben lontana dall’essere pronta e il costo sia già salito del 50%. Riassumendo: al 1° ottobre le vittime in Molise erano 24, ieri 357.

Flop vaccini over 80: la Regione molla Aria per il sito da 22 mln

Regione Lombardia scarica la sua agenzia Aria. Neanche Letizia Moratti, che ieri ha illustrato l’ennesimo piano vaccinale lombardo, ha potuto ignorare i fallimenti della controllata: l’ultimo, la disastrosa gestione della piattaforma per gli appuntamenti degli over 80, molti dei quali costretti a fare anche 40 km per raggiungere il centro vaccinale assegnato. Ora interverrà Poste Italiane, che darà gratis la propria piattaforma (voluta dal governo e da Arcuri). Una sostituzione che forse bloccherà i 22 milioni che il Pirellone deve pagare ad Aria per quel servizio. Ma è solo l’ultimo dei tracolli dalla società gestita dall’assessore Davide Caparini, che già si era occupata degli acquisti dei vaccini antinfluenzali che non sono arrivati in tempo e, che quando sono arrivati, sono costati 5 volte più dell’anno precedente; che ha comprato i camici dalla moglie di Fontana; che ha fornito alle Ats un software che permetteva di associare più di sei nomi a ogni fiala di vaccino Anti-Covid, moltiplicando la possibilità di errore nella registrazione delle dosi. “Ecco che cosa succede quando i leghisti dicono che facendo da soli fanno meglio”, dice il Pd Pietro Bussolati.

Ieri è stata anche la giornata del nuovo show di Guido Bertolaso: “Avrei molti motivi per essere avvilito: due province sono in zona rossa e tutte le rianimazioni pienei, oltre al problema delle convocazioni per gli over 80 con il sistema che continua a funzionare male”, ha attaccato in conferenza stampa. Ma lui non si avvilisce. Nonostante ieri i dati parlassero di 4.590 nuovi positivi, 1.325 solo in provincia di Brescia, 1.026 casi a Milano, dei quali 431 a Milano città; 506 ricoverati in Ti (+30), 4.545 (+137) in non intensiva e 60 morti. Pur conscio che “stiamo andando a passi lunghi verso la zona rossa” e che la nuova battaglia di Milano è alle porte, il commissario ha contrattaccato. I primi a finire nella lista di chi rema contro, gli specializzandi, rei di aver detto che farli vaccinare gratis è “sfruttamento di manodopera a costo zero”. Per Bertolaso invece sono medici da “precettare”. Poi se l’è presa con il ministero dell’Istruzione che non ha dato gli elenchi completi degli insegnanti, causando ritardi nella prenotazione dei vaccini. Infine, ha inveito contro Arcuri perché avrebbe pagato troppo i dottori e ha finito invocando un’azione di forza a Bruxelles.

Tra un’invettiva e l’altra, Bertolaso ha illustrato il piano che annuncia di aprire la vaccinazione di massa entro fine marzo per 6 milioni di lombardi. Prevede 140 mila dosi al giorno nei 55 hub pubblici, cui si aggiungono le 30 mila giornaliere dei privati. Un piano che però non dice dove si troverà il personale (servono 4 mila tra medici e infermieri e 2.500 amministrativi), né il un cronoprogramma. Non si sa quando sarà il turno dei fragili (1 milione): “Quando ci daranno certezza del vaccino, faremo anche questo”, ha risposto Bertolaso.

Ma molti dubitano che per esempio Ats Milano possa organizzarsi per 50 mila persone al giorno, visto che il 1° marzo ha fatto solo 2.713 vaccini. E ancora non sono partite le gare per le strutture degli hub. Del resto i numeri fino a oggi non lasciano presagire nulla di buono: dal 18 febbraio al 1° marzo gli over 80 vaccinati sono stati 72.282, a fronte di una platea di 720.000. Mentre la fase 1, che avrebbe dovuto coprire tutti i 319.952 sanitari e ospiti delle Rsa, è ancora in corso (hanno ricevuto due dosi 243.027 persone, il 76%). I 200.000 insegnanti (esclusi quelli di nidi e materne) inizieranno le iniezioni l’8 marzo. Ma dovranno attendere l’sms dalla piattaforma che sta raccogliendo le adesioni, che però nel primo giorno di funzionamento ha mostrato più di un bug. Per esempio non accettava le prenotazioni di docenti non residenti in regione, ma che in Lombardia lavorano.

“Come un virus nuovo”. Mezza Italia rischia il rosso per le varianti

A Bologna gli altoparlanti montati sulle macchine della Protezione civile hanno avvertito che oggi si torna in zona rossa: chiudono i negozi, stavolta compresi barbieri e parrucchieri, tranne quelli essenziali. Servirà l’autocertificazione per muoversi in città. Il centro è già spettrale. Zona rossa anche a Modena. Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna, che due settimane fa voleva tutta l’Italia in arancione e qualche giorno dopo i ristoranti aperti anche la sera, potrebbe fare altre zone rosse. “Con la variante sembra un virus nuovo, rischiamo di essere travolti, i limiti dell’arancione non bastano”, dice. Prevede la Regione tutta rossa da lunedì in base ai dati del monitoraggio nazionale, non esclude di fare altre ordinanze anche prima. Guido Bertolaso, il superconsulente della Regione Lombardia che ha quasi sempre contestato le chiusure ordinate da Roma, dice che “tutta l’Italia, meno la Sardegna, si avvicina a grandi passi verso la zona rossa”. Ma naturalmente, a parte le restrizioni a Brescia, Como e Cremona, la Lombardia attenderà il ministro Roberto Speranza. Vede i numeri e prevede il passaggio da giallo ad arancione anche il veneto Luca Zaia, che solo 20 giorni fa si lamentava per la proroga dello stop allo sci.

Tutti sanno almeno da fine gennaio che la variante inglese avrebbe aumentato notevolmente i contagi come era successo in altri Paesi europei: il relativo modello matematico, che ipotizzava fino alla moltiplicazione per sei dei casi, è stato presentato al Comitato tecnico scientifico lo scorso 26 gennaio. Infatti la variante inglese ha triplicato la sua prevalenza: dal 17,8% al 54% dei contagi in meno di due settimane tra il 5 e il 18 febbraio, a cavallo cioè delle due indagini dell’Istituto superiore di sanità. Lo stesso Cts ha scritto il 23 febbraio, su richiesta del nuovo governo, che le zone “gialle” hanno “dimostrato una capacità di contenere l’aumento dell’incidenza ma non la capacità di ridurla”, cioè non bastano. Con il nuovo Dpcm il governo ha chiuso le scuole nelle zone rosse (al momento solo Basilicata e Molise) e lasciato alle Regioni il potere di chiuderle fin dalle materne anche altrove: si calcola che 3 alunni su 4 siano a casa. Ma l’Italia è ancora gialla per metà. Ora si prospetta l’arancione per Calabria, Friuli-Venezia Giulia e Veneto, mentre Lazio e Puglia sono al limite. Il rosso per l’Emilia-Romagna, la Campania, che da 10 giorni fa segnare più di duemila casi al giorno, e l’Abruzzo, che ha comunque già due province – Pescara e Chieti – in lockdown, ma rischiano anche Piemonte e Lombardia.

Ieri sono stati notificati dalle Regioni 20.884 mila nuovi casi, per la seconda volta in pochi giorni superiamo i 20 mila come non accadeva dall’inizio di gennaio. Del resto il mercoledì di solito si registrano più tamponi (ieri 358.884 di cui 166.380 antigenici, per un indice di positività del 5,8% che sale al 18% sulle persone testate per la prima volta). L’incidenza media nazionale, calcolata sul flusso quotidiano, è ormai a 212 casi su 100 mila abitanti negli ultimi 7 giorni: in una settimana i nuovi casi sono aumentati del 31,8%, di oltre il 40% in Friuli-Venezia Giulia (59,5), Piemonte (44,4%), Campania (43,3), Emilia-Romagna (43,1%) e Lombardia (41,6%), mentre comincia ad allentarsi la pressione su Bolzano (-28.3%) e Umbria (-10.2%) colpite in particolare dalla variante sudafricana che dilaga in Tirolo e da quella brasiliana che si diffonde nell’Italia centrale. Aumentano i malati negli ospedali e nelle terapie intensive. Anche i decessi torneranno a crescere dopo tre settimane di lenta discesa: ieri 347.

Il nuovo capo della Protezione civile Fabrizio Curcio e il generale neocommissario Francesco Paolo Figliuolo sono al lavoro per affrontare con le Regioni, domani, il primo incontro sui piani vaccinali. Figliuolo sta ultimando il passaggio di consegne da Domenico Arcuri. Stanziati 2 miliardi per la campagna vaccinale. Il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti ha incontrato Federfarma insieme al generale e al sottosegretario Franco Gabrielli: per i vaccini si lavora a una filiera produttiva nazionale che partirà entro l’anno.