Signorsì signore!

A Sanremo, Fiorello parla alle sedie vuote e incassa applausi finti. A Roma, la sedia vuota di Draghi parla agli italiani e incassa applausi veri. Anzi, standing ovation.

Dpcm. C’è una bella differenza fra quelli di Conte e quello identico di Draghi. Lo spiega la Gelmini, appena fuori dal tunnel dei neutrini, che ai tempi della tirannide contiana lo definiva “strumento discutibile” e ora lo illustra alla stampa “rivendicando la discontinuità nei tempi e nei metodi”. Nei tempi perché i Dpcm di Conte erano datati 2020 e quello di Draghi 2021. Nei metodi perché “abbiamo tentato di correre il più possibile” (come prima) e “cercato la condivisione più ampia possibile” (come prima, solo che allora la destra e le sue Regioni erano all’opposizione). Ma soprattutto: prima i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri li illustrava il Presidente del Consiglio dei Ministri, ora invece c’è la Gelmini, perché a lui gli vien da ridere.

Premier fantasma. In democrazia, il premier coinvolge nelle decisioni il Consiglio dei ministri e poi le spiega al Parlamento e ai cittadini. Draghi ha silurato il capo della Protezione civile (Borrelli) sostituendolo col predecessore (Curcio) e il commissario all’emergenza (Arcuri) rimpiazzandolo con un generale (Figliuolo). I risultati diranno se ha fatto bene o ha fatto male. Ma perché l’abbia fatto sfugge a tutti. Non vuole spiegarlo a voce? Scriva un comunicato stampa. Ma la stampa non vuole. Il silenzio del premier, per il Giornale, è “un po’ come il grande Gatsby, che non partecipava quasi mai alle sue feste, limitandosi a vigilare sul fatto che tutto fosse impeccabile” (infatti già allora ci mandava la Gelmini). Per il Foglio, “Draghi sa scomparire” e “offre la scena ai ministri”, ma non per scaricare barile: “delega e si fida”, è l’“uomo solo al comando che sa delegare”. Per il Messaggero, pare che taccia, ma parla con quei “silenzi eloquenti che migliorano la politica”. Seguiranno le parole silenti, i movimenti immobili, i vegani carnivori, la tirannia democratica.

Prima la scuola. Ricordate la “svolta” di Draghi al Senato? “La didattica a distanza crea disagi ed evidenzia diseguaglianze… Dobbiamo tornare rapidamente a un orario scolastico normale e recuperare le ore di didattica in presenza perse”. Risultato: le scuole richiudono nelle zone rosse e, se i presidenti di Regione vogliono, pure in quelle gialle e arancioni.

Prima i ristori. Il 21 gennaio il Parlamento approvò 32 miliardi di deficit per il dl Ristori-5, ultimo atto del Conte-2, mentre FI, FdI, Lega e Iv strillavano ai ritardi nei rimborsi alle categorie colpite e le tv erano piene di ristoratori e gestori di impianti sciistici furibondi, affamati, alcuni suicidi.

Dopo un mese e mezzo le proteste sono scomparse, così come il dl Ristori: forse i soldi arrivano dopo Pasqua perché il ministro Franco sta escogitando una nuova piattaforma presso Sogei. La Stampa però già li vede: “Draghi: 12 miliardi di sostegni” (si rivende quelli dei famigerati predecessori). E la discontinuità è garantita: il dl Ristori-5 si chiamerà Sostegno-1.

Prima i commissari. Ricordate gli alti lai di renziani&giornaloni sulla cabina di regia di Conte per il Recovery che esautorava ministri, Parlamento, Regioni e Comuni? Il neoministro Giovannini informa sul Sole 24 Ore: “Commissari anche per le opere del Recovery”. E tutti zitti, anzi plaudenti. Com’è umano, lui.

Fianco destr! Tutti vedono che questo è un governo di centrodestra coi voti gratuiti della maggioranza di centrosinistra. Il premier è un grande banchiere, il ministro dell’Economia è l’ex dg di Bankitalia, il loro consigliere economico è il turboliberista Giavazzi, il sottosegretario ai Servizi è l’ex capo dei Servizi, i ministeri chiave sono tutti in mano a tecnici e politici di centrodestra. E ora è arrivato pure il generale al posto di Arcuri che M5S, Pd, LeU avevano chiesto di confermare e Lega, FI, FdI, Iv di cacciare. Lo scrive persino Repubblica a pag. 6: “Di fatto Draghi ha escluso la politica dalla linea di comando: le scelte economiche le fa lui insieme a Franco”. Ma Stefano Folli spiega a pag. 27 che “il governo Draghi non va a destra” perché “la sostituzione di Arcuri permette a Salvini di sentirsi soddisfatto”, e “ questo rafforza l’esecutivo”, mentre Speranza non l’hanno ancora cacciato. Quindi, per “rafforzare” il suo governo, Draghi deve badare ogni giorno che Salvini si senta “soddisfatto”. Ergoè ufficiale: il governo è di centrodestra. Chissà se il centrosinistra lo capirà. E quando.

Vogliono i colonnelli. Nel 1980, dopo il terremoto in Irpinia, il Corriere di Franco Di Bella iniziò a reclamare la militarizzazione dell’emergenza (“E adesso la mano passa ai militari”), fortunatamente inascoltato dal governo Forlani, che nominò commissario Zamberletti. Quattro mesi dopo si scoprì che Di Bella e il Corriere erano della P2. Altri tempi, ma questo festoso tintinnar di sciabole e penne fa comunque riflettere. Sentite il caporale Merlo dalla nuova fureria su Rep: “Oggi i militari, come i pompieri di New York, sono gli ‘arrivano i nostri’ della democrazia, risorse dello Stato che intervengono nei terremoti e nelle emergenze, anche meno gravi della pandemia”. Conte e Arcuri “non erano generali, ma hanno esercitato un potere autoritario, come i ‘colonnelli’ di Tognazzi”. Quindi i veri generali non sono i generali (che semmai sono pompieri), ma quelli che non lo sono. E chi non si allinea stia punito. Signorsì signore!

Addio a Coccoluto, il “deejay filosofo”: coi suoi vinili ha dato lustro al clubbing

Claudio Coccoluto ci ha lasciati a 59 anni, dopo una lunga malattia. Nessuno come lui ha saputo portare in alto la bandiera di ambasciatore della Club culture italiana. Un dj colto e saggio, capace di suonare dalle due alle cinque di notte e poi accompagnare i figli a scuola alle otto. Fa parte del ristretto gotha dei Dj con una carriera internazionale, ed è giusto che siano proprio loro a ricordare la sua personalità.

Il primo è Spiller, l’autore di Groovejet: “Lui è stato per noi deejay italiani un punto di riferimento, un rappresentante. Oltre a essere stato un grande esperto voglio ricordarlo come una persona di gran cuore, con un carisma enorme. Sapeva parlare, sapeva scrivere, conosceva arte e letteratura; sapeva anche dire cose scomode e fare battaglie per cambiare le cose. È stato il più grande costruttore della club culture italiana: il nostro settore con lui ha avuto una dignità, ha tolto frivolezza”.

Benny Benassi è senza dubbio il dj italiano più conosciuto nel globo: “Purtroppo ci siamo solo sfiorati. Ricordo una estate a Ibiza, l’emozione di svegliarmi la mattina, fare colazione e raggiungere la terrazza dello Space per ascoltare il suo “after” e incontrarlo, ma senza aver suonato tutta la notte come lui! Per me era un gran gentiluomo, trattava la musica con grande sapienza, era un uomo di cultura”. Dino Lenny, amicissimo e conterraneo di Cassino, l’aveva voluto con lui all’esibizione di Top of the Pops: “Era avanti, un purista. Ogni volta che veniva fermato per strada dai fan si metteva a parlare con tutti senza mai tirarsela. Aveva dentro tonnellate di nozioni di musica, esperienza e autorevolezza. E non dimentichiamo che è stato un grande imprenditore di se stesso oltre che co-proprietario del club romano Goa, nel quale sono passati tutti i grandi nomi internazionali. Ha portato l’underground italiano a un livello di accessibilità altissimo. Il suo Belo Horizonti è stato un disco importante ed è ancora suonato. Ha vissuto la malattia con grande dignità. Per me resterà sempre il migliore”. Uno degli ultimi dj set alla Terrazza Molinari di Roma aveva tra gli spettatori Damir Ivic, esperto della scena elettronica: “Mai come negli ultimi tempi la ricerca di Claudio era di un livello iperbolico: riusciva a selezionare gemme degli ultimi quattro decenni con nuovi ritmi sperimentali senza ignorare la cassa in quattro. Il tutto rigorosamente in vinile. E non era una scelta di retroguardia, ma una visione artistica iper-contemporanea. Sapeva armonizzare come nessun altro. Una persona con mille interessi e una dote rara: sapeva ascoltare”.

Big in Japan: la letteratura è donna. Altro che geisha

Nello stereotipato regno delle opinioni resistono convinzioni per cui le donne giapponesi “camminano un passo dietro agli uomini e non raggiungono posizioni dirigenziali in politica e aziende”. Si saltella rapidi da una mezza bugia a una mezza verità senza illuminare nulla, meglio guardare a qualcosa di più contemporaneo e significante.

Nel mondo della letteratura – ancora dominato ovunque da editori, case editrici e scrittori per lo più di genere maschile – sono le “mani femminili della scrittura” (Onnade) a creare in Giappone opere che brillano di luce stellare, a ottenere strepitoso successo e a emergere per l’universalità dei temi trattati.

Nei lavori di moltissime e talentuose autrici (fra cui Kirino Natsuo, Kawakami Hiromi, Ogawa Ito…) si leggono descrizioni della condizione umana senza filtri, ci si addentra agilmente in analisi e sentimenti che travalicano spazio e tempo. Sono spesso storie colme di dettagli coraggiosi e sinceri, che conducono chi le legge in universi scomodi quanto affascinanti.

Di tale straordinaria fecondità si evince osservando le classifiche dei due riconoscimenti letterari più prestigiosi del Paese, il Premio Akutagawa per esordienti e il Premio Naoki per la Letteratura popolare (dal 1935 in memoria degli scrittori Akutagawa Ryunosuke e Naoki Sanjugo). Salterà subito agli occhi l’alta percentuale di nomi femminili presenti, senza avere dovuto ricorrere a quote colorate. Lo scorso mese inoltre, a ottenerli entrambi sono state per l’appunto le autrici Usami Rin e Saijo Naka.

La prima è studentessa di Letteratura Giapponese all’Università, ha appena 21anni e dopo Kaka (2019) con il quale vinse il Premio Mishima Yukio, ottiene quest’anno i 9.000 euro dell’Akutagawa per Oshi, Moyu traducibile come Il mio caro e insuperabile idolo, vicenda in cui identificarsi è un attimo.

“Lei è un fenomeno vero è proprio, non solo parla ai coetanei abbracciando il mondo dei social media, ma lo fa usando un linguaggio forte, affrontando contrasti molto attuali”, commenta Daniela Guarino impegnata nella traduzione di Kaka in probabile uscita autunnale (Atmosphere Libri). Protagonista del premiato Oshi, Moyu è invece la sedicenne Araki che frequenta le superiori barcamenandosi con difficoltà sia a scuola sia in famiglia. Il suo rifugio è l’ammirazione-ossessione per Masayuki Ueno “Idol” dell’intrattenimento giapponese, il solo capace di darle la “spinta”, linfa che smette di esistere provocandole un fortissimo choc quando il suo idolo “brucia” travolto da uno scandalo. Uscito a settembre, il romanzo ha avuto immediato successo vendendo 70.000 copie, arrivate a 200.000 dopo appena nove giorni dall’annuncio del Premio.

Naka Saijo nata nel 1964 in Hokkaido, è invece una scrittrice affermata da tempo grazie a numerosi lavori precedenti, e si aggiudica il Naoki con Urasabishigawa (Fiume solitario) una raccolta di sei racconti brevi ambientati nel periodo Edo (1603-1868) i cui protagonisti trovano motivazione alla vita, nonostante le grandi difficoltà dell’epoca. Si conferma dunque l’onda di autrici che accrescono di popolarità in casa come all’estero, dove si moltiplicano lettori avidi delle loro narrazioni. E succede da anni: nel 2003 il Naoki era andato a Ekuni Kaori per Stella Stellina (Atmosphere Libri); l’anno successivo a Kakuta Mitsuyo per La cicala dell’ottavo giorno (Neri Pozza); nel 2007 l’Akutagawa va a Kawakami Mieko per Seni e Uova (e/o), mentre nel 2016 vince Murata Sayaka per La ragazza del convenience store (e/o). Un’abbondanza di scritture intelligenti, ironiche o distopiche, prospettive inusuali sull’evoluzione della società, della famiglia e dei rapporti di coppia, gay quanto eterosessuali.

La parità di genere rimane un problema, ma dal pennello di Murasaki Shikibu (Genji Monogatari, Einaudi) fino alla discendente ibrida in terra britannica Naomi Ishiguro – figlia del Premio Nobel Kazuo Ishiguro che esce con il suo primo lavoro Vie di Fuga per Enaudi – è innegabile che l’altra metà del cielo sopra Tokyo vanti nell’arte del narrare un locus fondamentale e riconoscimenti significativi. E scusate se è poco.

Se bastasse una canzone. Sanremo primo incidente Covid-19

Si comincia dalla fine, che poi è stato l’inizio di tutto. L’anno scorso Sanremo è stato l’ultimo grande evento prima che la leggerezza diventasse un ricordo lontano. Così è ancora più strano ascoltare la canzone di Diodato, il vincitore dell’edizione numero 70, che fa ancora più “rumore” nel teatro vuoto, e non è un caso che sia diventata l’inno del lockdown. Il giorno del battesimo il Festival fa i conti con il primo incidente Covid: un membro dello staff di Irama è risultato positivo al Coronavirus e il cantante previsto ieri ha ceduto il posto alla sorteggiata Noemi, con cui aveva duettato nel 2019 nella serata duetti (se non è questo destino). Dovrebbe cantare stasera, ma si aspetta l’esito del test molecolare (di un suo collaboratore, ndr). E se non vi dovete aspettare frizzi e lazzi sul tema pandemia (per timore di critiche), ieri sera è salita sul palco Alessia Bonari, l’infermiera simbolo della lotta al virus, la cui foto del viso segnato dalla mascherina fece il giro del mondo durante la prima ondata.

Amadeus racconta quanto è stato difficile arrivare fin qui: “L’ho fatto pensando a chi vive di musica e al Paese reale che lotta. Abbiamo scoperto che la normalità è straordinaria”. Gli applausi finti – idea infelice, ma si fa di necessità virtù – accompagneranno queste serate, come l’ologramma di Vincenzo Mollica. Poi, siccome vale sempre il “canta che ti passa”, Fiorello interpreta (benissimo) Grazie dei fiori en travesti, nei panni di Achille Lauro. Il monologo iniziale però, rivolto alle poltrone vuote che sono il pubblico, si riassume in un “più culi per tutti”, che insomma anche no.

Al mattino la sala stampa imbavagliata in Ffp2 ha incontrato Zlatan Ibrahimovic, il campione guascone del Milan di mister Pioli che ieri sera però ha guardato Juve-Spezia e poi se n’è andato a dormire: “Sanremo finisce troppo tardi, io non ci arrivo”. Parole santissime. In proposito Amadeus ha spiegato che la lunghezza monstre della scaletta (facilmente si arriverà alle due di notte come regola) non dipende dagli ascolti, ma dal fatto che così si è immaginato le cinque serate di spettacolo. Non possiamo misurargli il naso, ma tendiamo a non fidarci. In fondo è una banale questione di rispetto per i telespettatori, che hanno una vita e la mattina si alzano. Dicevamo di Ibra, che non ha per niente deluso le aspettative: il palco che spaventa tutti a lui non fa alcuna impressione. “Se sbaglio nessuno mi può giudicare. Non ho paura di niente e attenzione: non è solo immagine”. E com’è che venuto a Sanremo? Mica per i soldi, ma perché Sanremo è il top: “Voglio dare indietro all’Italia quello che mi ha dato. È arrivata l’opportunità di fare il Festival, ho chiesto e mi hanno detto che è la più grande cosa che c’è in Italia: e allora lo facciamo. Amadeus mi ha chiamato perché vuole spaccare tutti i record e io mi presento”. Fra una battuta (“so ballare, ma meglio in campo”) e una provocazione (“secondo me Berlusconi mi dava l’ok per venire, mi vuole troppo bene, anche se mi ha mandato a Parigi senza il mio permesso”), ha risposto anche a LeBron James, a proposito della querelle politica sì, politica no: “Noi atleti uniamo il mondo, la politica lo divide. Quello era il mio messaggio: gli atleti devono fare gli atleti e i politici la politica”.

La grande rivelazione è stata Matilda De Angelis, star internazionale dell’acclamata serie Undoing, a fianco di Nicole Kidman e Hugh Grant. Spigliata, sveglissima, ironica e piena di talenti. Sul ruolo delle donne (in un festival dove non sono proprio al centro) se l’è cavata benissimo: “Cerco sempre di battermi per un certo tipo di emancipazione. Ma Sanremo è un palco di musica e di arte, verranno lanciati tantissimi messaggi importanti e ho pensato semplicemente di godermela, e mi va bene così. Ci chiedono sempre di essere sempre eleganti, patinate, belle, una narrazione che ha un po’ rotto le scatole a noi donne… Però devo essere sincera, il palco di Sanremo è un palco di rivincita, è una letterona d’amore al mondo dell’arte e quindi io in realtà stasera vado per fare l’artista e per essere come mi piace essere ogni tanto. C’è un luogo giusto per ogni cosa”. Un vero peccato che non sia rimasta per tutte e cinque le sere (privilegio dei soli ospiti uomini, Achille Lauro e Ibra: sarà un caso?).

Politica in tilt: il Pd tifa D’Urso e Lega, Iv decisiva negli Usa

La Lega rilancia il Pd, il Pd rilancia la Lega, Italia Viva rivendica i successi umanitari in Virginia, Forza Italia denuncia la compravendita di parlamentari e anche il Movimento 5 Stelle, direbbe Eugene Ionesco, non si sente troppo bene.

Così è e, anche se può disorientare gli elettori, ci dovremo fare l’abitudine per un po’: il governissimo ha mandato all’aria la comunicazione dei partiti, che improvvisamente hanno perso i consueti riferimenti su chi è buono e chi cattivo, chi da bastonare e chi da elogiare. Il risultato è che oggi una carrellata dei social delle forze di maggioranza è materiale d’oro per quel vecchio monologo: “Io ne ho viste cose che voi umani…”.

Basti pensare all’ormai celebre tweet di Nicola Zingaretti in difesa di Barbara D’Urso e della sua trasmissione in odore di chiusura: “Hai portato la voce della politica vicino alle persone. Ce n’è bisogno!”. Ma è solo l’inizio di una deriva non-sense, come dimostra lo scambio di effusioni tra il Pd e la Lega. Prima ci si è messo il governatore dem dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, che ha elogiato “la riapertura dei ristoranti alla sera richiesta da Salvini”, poi ecco Graziano Delrio: “Mi fido politicamente di Salvini, molte volte la Lega è concreta”. In entrambi i casi, i social leghisti incassano e ripropongono, lasciandoci col dubbio se sia la Bestia a essersi addomesticata o se invece siano gli altri ad aver fatto il suo gioco. Si vedrà.

Certo è che l’immaginazione poteva forse spingerci a prevedere alleanze ardite, ma non certo a figurarci Forza Italia in trincea nel denunciare l’altrui mercanteggio di parlamentari. Eppure succede anche questo, col partito di Silvio Berlusconi che rilancia una dichiarazione di Emilio Carelli, già 5 Stelle: “In queste settimane si è assistito a un triste spettacolo, col tentativo di compravendita di singoli parlamentari al fine di garantire la maggioranza a un governo che non aveva più i voti”. E la memoria va a Sergio De Gregorio, l’ex senatore che ammise di aver accettato 2 milioni nel 2008 per tradire Romano Prodi e passare con B., facendo cadere il governo del professore. In primo grado Silvio fu condannato a 3 anni, poi è arrivata la prescrizione e, adesso, l’oblio.

Ma nel pallone ci è finita anche Italia Viva. Caduto il governo Conte e spariti improvvisamente gli avversari politici, al partito di Matteo Renzi non resta che prendersela con il Fatto Quotidiano, pubblicando la graduatoria delle ospitate dei giornalisti a Cartabianca, la trasmissione di Bianca Berlinguer su Rai3. Dimostrando passione per il tempo da perdere, i renziani hanno così calcolato – e messo in una grafica – che le firme del Fatto sono state 82 volte in trasmissione dal settembre 2018, contro le 69 dei giornalisti della Verità, le 45 del Corriere, le 22 della Stampa e le 17 di Repubblica. E questo cosa dimostra, si chiederanno i lettori, e soprattutto cosa c’entra con la comunicazione di un partito politico? Non lo sappiamo, ma tant’è.

D’altra parte, Iv è la stessa che in questi giorni ha esultato con passione per un altro grande successo: “La Virginia sarà il primo Stato del Sud degli Usa ad abolire la pena di morte. Siamo il Paese di Cesare Beccaria, questa vittoria un po’ ci appartiene”. E chissà che feste quando la pena di morte sarà abolita pure in Arabia Saudita.

Per sua fortuna, nel delirio comunicativo Italia Viva ha parecchia compagnia e agli esempi già citati si aggiunge il Movimento 5 Stelle.

Dopo aver promesso ai suoi iscritti un super ministero che tenesse insieme Mise e Ambiente, i grillini hanno prima spacciato il nuovo dicastero della Transizione ecologica per quello annunciato – fingendo che il Mise non fosse rimasto indipendente – e poi hanno persino provato a far passare il ministro Roberto Cingolani per un 5 Stelle della prima ora. Avendo poi il coraggio di brindare sui social: “Da oggi l’Italia ha il ministero della Transizione ecologica. Abbiamo vinto anche questa battaglia”. Il modo ideale per fare il paio col Beccaria e la strepitosa vittoria nel Sud degli Stati Uniti.

Sussidio, la riforma scontenta tutti

Malgrado l’emergenza Covid che mette in difficoltà molti lavoratori – ieri il governo ha approvato il vaccino Astrazeneca per la fascia di età 65/74 anni, rivedendo la disposizione precedente –, Macron non rinuncia alla sua contestata riforma del sussidio di disoccupazione, che restringe l’accesso alle indennità. Una riforma che, decisa nel luglio 2019 e poi sospesa per la crisi sanitaria, non fa contento nessuno, né i sindacati né, per altri motivi, il Medef, la Confindustria francese, che ha i suoi motivi di perplessità. Per Macron, che ha già dovuto sospendere la riforma delle pensioni, una nuova marcia indietro non sarebbe stata accettabile, per cui è andato avanti con le modifiche. In Francia sei milioni di persone erano in cerca di lavoro a fine 2020, in crescita (+7,5%) rispetto al 2019. L’obiettivo della riforma è uno: permettere allo Stato di risparmiare 1-1,3 miliardi di euro all’anno. Il nuovo decreto è stato presentato ieri ai sindacati dalla ministra del Lavoro, Élisabeth Borne, e la riforma – a meno di ulteriori ripensamenti legati alle contestazioni – entrerà in vigore sin dal prossimo 1º luglio, con una concessione: sarà scadenzata e adeguata alla ripresa dell’economia e del mercato del lavoro in Francia nei prossimi mesi. Per i sindacati non cambia nulla, dal momento che le misure contestate, anche se in parte riviste dopo l’intervento del Consiglio di Stato, stanno tutte ancora lì. Per mesi hanno chiesto che il testo fosse messo da parte e sono scesi in strada per protestare. Per una volta tutti, nessuno escluso, hanno firmato un comunicato unitario per contestare il “principio della riforma secondo il quale il calo delle indennità inciterebbe a un ritorno più rapido al lavoro”. Se per il governo significa instaurare un sistema di sussidi più “equo”, per i sindacati chi pagherà di più, soprattutto in questo momento di incertezza, saranno i più precari. A luglio entreranno in vigore due misure, tra cui la più contestata: il nuovo metodo di calcolo dell’indennità mensile. Per cui oltre 800 mila disoccupati si ritroveranno con un assegno più basso in media del 20%. Quindi la misura del sussidio decrescente per chi percepiva più di 4.500 euro lordi di stipendio: l’assegno mensile sarà tagliato del 30% dopo otto mesi. Dal 1º ottobre partiranno poi i nuovi criteri di accesso al sussidio: ne avrà diritto solo chi avrà versato contributi per sei mesi in un anno, mentre ora ne bastano quattro. È stata rinviata invece al settembre 2022 la misura che non piace ai datori di lavoro: sarà instaurato un sistema di bonus-malus che penalizzerà le aziende che moltiplicano i contratti brevi. Un rinvio incomprensibile per i sindacati.

“Kiev ritrova l’alleato Usa, il nemico comune è Mosca”

L’agenda estera del neo presidente americano Joe Biden si basa su due colonne: il contenimento della Cina e della Russia. La Casa Bianca nei giorni scorsi aveva già mostrato una inversione di rotta rispetto all’Amministrazione Trump sottolineando pubblicamente che la penisola di Crimea, annessa unilateralmente dalla Russia nel 2014, è parte integrante del territorio ucraino. Se questa dichiarazione viene percepita dal Cremlino come una sfida reale o solo un ammonimento non è dato saperlo perché non ci sono state reazioni ufficiali. Cosa ne pensino in Ucraina lo abbiamo chiesto all’analista politico Milan Lelich.

Crede che questa dichiarazione del neo presidente Biden riporterà l’Ucraina al centro dell’agenda estera americana solo in chiave anti Mosca o sia foriera di un impegno concreto per aiutare il suo paese a ristabilire i propri confini pre annessione, considerato che nel Donbass è ancora in corso, da 7 anni, una guerra tra separatisti finanziati e armati da Mosca e ucraini fedeli al governo di Kiev ?

Sono sicuro al cento per cento che l’atteggiamento del presidente Biden mostrato anche da questa dichiarazione contro l’occupazione della Crimea da parte di Mosca sia già di per sé una buona notizia per l’Ucraina. L’altro aspetto favorevole per il nostro paese è che gli Stati Uniti sono tornati a considerare la Russia come una potenza rivale sullo scacchiere geopolitico e, di conseguenza, chiedono all’alleata Unione europea di far fronte comune per contrastare la politica estera di Putin. Il presidente russo la esprime in modo aggressivo, per usare un eufemismo, non solo in Ucraina ma anche in altre aree del mondo e non solo a livello militare. Bisogna considerare, per esempio, gli attacchi alla cybersecurity non solo degli Stati Uniti, le violazioni dei diritti umani, l’utilizzo del denaro per corrompere i politici dei paesi che tentano di uscire dalla sfera russa.

Di certo il presidente Biden non farà una guerra per far sì che la Crimea torni a far parte del suo paese…

Non riesco a prevedere se Biden, dopo aver risolto i problemi interni, metterà l’Ucraina ai primi posti della sua agenda, ma escludo anch’io che possa ordinare un intervento militare per la Crimea. Resta il fatto che la nuova Amministrazione può aiutarci comunque vendendo armamenti ma anche incoraggiando gli investimenti stranieri per aiutarci a migliorare la nostra situazione economica.

Se Biden vorrà aiutarvi dovrà convincere Berlino a rinunciare all’attivazione del corridoio energetico Nord Stream 2 che porterebbe direttamente il gas russo in Germania, bypassando l’Ucraina. Crede che ci riuscirà ?

La prossima cancelliera o cancelliere tedesco saprà senza dubbio comprendere che l’oleodotto Nord Stream 2 è un serio problema non solo per l’Ucraina ma per l’intera Europa, parte fondamentale della Nato. Non c’è dubbio che lo sappia anche l’uscente cancelliera Merkel, ma è possibile che la Germania cambierà prospettiva proprio grazie al riavvicinamento alla Ue degli Stati Uniti che, a causa della politica isolazionista di Trump, avevano abbandonato l’Europa in termini di strategia difensiva ed economica comune.

Anche sul fronte energetico-geopolitico dunque gli interessi della nuova amministrazione americana e ucraina convergono?

Sì. Se il corridoio energetico Nord Stream 2 diventerà operativo, l’Ucraina perderà gli ingenti introiti provenienti dal pagamento dei diritti di transito del gas da parte di Mosca e gli Stati Uniti avranno difficoltà ad aumentare l’esportazione di gas shale verso i porti tedeschi. Biden e il suo staff sono ben consci del fatto che, qualora la Russia possa disporre di un terminale diretto in Europa per rifornirla a livello energetico, lo sfrutterà anche in chiave politica.

Libia, il governo della mazzetta

Ci contavano tutti, dall’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, Ján Kubiš, al ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, che nell’incontro di sabato scorso alla Farnesina ha sottolineato a Kubiš come la fiducia dell’8 marzo avrebbe permesso in Libia l’insediamento di “un governo unificato e nel pieno delle funzioni, essenziale per salvaguardare l’appuntamento elettorale di fine anno, avviare la riconciliazione nazionale e attenuare le ripercussioni economiche e sociali della crisi”. Ma questo esecutivo, guidato dal Abdul Hamid Dbeibah e Mohamed Younis Ahmed al-Manfi, eletti rispettivamente premier e presidente del Consiglio presidenziale il 5 febbraio in Svizzera al Forum di dialogo libico sotto la supervisione delle Nazioni Unite, già partito claudicante, pare sia nato dalla corruzione, almeno secondo l’Onu. Dbeibah aveva vinto a sorpresa a Ginevra, passando davanti al ticket favorito composto da Aguila Saleh, appoggiato dalla Comunità internazionale e dall’Egitto nonché presidente del Parlamento di Tobruk, e Fathi Bashagha, ministro degli Interni del governo di accordo nazionale (Gna), non ben visto dai libici perché intenzionato a ripulire il campo dalle milizie, così come dai trafficanti di migranti. È di ieri la notizia dell’arrestato di M.a.a, il trafficante di 20 anni accusato dell’uccisione di 30 migranti quasi tutti provenienti dal Bangladesh nel maggio del 2020 a Miza, 160 chilometri a Sud di Tripoli e ricercato per massacro. “Una grande vittoria”, l’ha definita il ministro Bashagha, che ha dalla sua l’America. Dbeibah invece sembra già finito. A dargli il colpo di grazia è intervenuta l’Onu svelando la storia delle mazzette dietro alla sua elezione.

Il manager di Misurata, con un patrimonio da 6 miliardi di dollari, amico della famiglia Gheddafi, già sotto inchiesta nel Regno Unito per frode ed evasione, infatti, avrebbe pagato fino a 200 mila dollari per ottenere voti dai delegati. La corruzione, i cui dettagli verranno resi noti a metà marzo, ma che l’Associated Press ha già anticipato – sarebbe iniziata dalle elezioni di Tunisi e si sarebbe poi protratta fino a Ginevra. Ma è a Tunisi che il caso sarebbe stato svelato da un litigio avvenuto nell’albergo tra i delegati, perché alcuni di loro avrebbero scoperto di aver ricevuto mazzette meno corpose rispetto a quelle elargite ad altri. Secondo un delegato ci sarebbero stati sul piatto fino a 500 mila dollari. Due partecipanti avrebbero offerto tangenti tra i 150 e i 200.000 dollari ad almeno tre funzionari in cambio della promessa di voto per Dbeibah. Un’accusa che il premier definisce fake news, mentre già sabato scorso sei delegati al Forum hanno denunciato con un comunicato le voci che circolavano sui social riguardo il presunto giro di bustarelle chiedendo all’Onu di pubblicare subito il rapporto per mettere fine a quella che descrivono come una campagna di diffamazione. La notizia delle tangenti, infatti, potrebbe rappresentare la fine prematura dell’esecutivo di transizione. I termini per la presentazione dei membri del governo, d’altra parte, scadevano venerdì scorso, dopo 21 giorni dall’elezione, ma dei ministri non c’è traccia, perché, pare, Dbeibah avesse intenzione di offrire a Saleh la possibilità di negoziare sui nomi. Nomi come quello del ministro degli Esteri o della Difesa, quasi impossibili da scegliere in un Paese con l’ingerenza di Turchia e Russia. Dal canto suo, Saleh, uscito perdente dal Forum, conscio che con un nuovo governo avrebbe perso anche la presidenza di un Parlamento riunificato, ieri ha fatto sapere che per ottenere la fiducia il governo dovrebbe farsela votare a Sirte. Peccato che molti deputati del Parlamento di Tobruk, in Cirenaica, non potrebbero viaggiare nella città in mano al capo dei ribelli dell’Est, Khalifa Haftar, che la controlla anche grazie ai mercenari russi della Wagner.

In questo modo però non sarebbe possibile raggiungere il quorum della votazione. Come alternativa, Dbeidah ha proposto Ginevra e il Forum, soluzione che – benché prevista dagli accordi di Berlino – sarebbe vista come illegittima e screditerebbe il governo nascente, così come è già avvenuto per quello di Sarraj. Se non dovesse esserci il voto di fiducia, non sarebbe questo nuovo esecutivo a portare il Paese alle elezioni del 24 dicembre.

La soluzione più immediata a quel punto, potrebbe essere esecutivo modello Sarraj, con un primo ministro che metta d’accordo est e ovest. Uno scenario reso possibile anche dal clima buono tra le parti, dalla tenuta del cessate il fuoco siglato a ottobre e dal dialogo fluido tra Cirenaica e Tripolitania negli ultimi mesi. Si tratterebbe di un accordo che permetterebbe di riunificare anche il bilancio economico e quindi lo sblocco delle riserve derivanti dal petrolio, ora sui conti della National Oil Corporation (Noc), ma sempre più necessarie, soprattutto a est, in questo momento di grave crisi. A preoccupare è anche il Covid, che ieri ha segnato un nuovo record di contagi: 780 nelle ultime 24 ore su una popolazione di meno di 7 milioni di abitanti.

 

La trappola saudita e le bugie di Renzi

Nelle stesse ore in cui il governo Conte annunciava il blocco permanente delle vendite di armi all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti, il senatore Matteo Renzi volava a Riyad, quasi volesse rassicurare un partner così ingiustamente sanzionato. Era il 29 gennaio, e la crisi di governo scatenata dal capo di Italia Viva era in pieno corso.

La carriera politica di Renzi è sporcata da questa visita: sia per quello che il senatore ha taciuto nella Capitale saudita (la guerra per procura che Sauditi ed Emirati conducono in Yemen; l’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi) sia per quello che ha detto, adulando in televisione il principe ereditario Mohammad bin Salman (il “nuovo Rinascimento” incarnato dal “grande principe”; l’invidia per un costo del lavoro così meravigliosamente basso). Renzi sapeva che il governo di cui era parte fino al 13 gennaio aveva deciso l’embargo sulle armi. Sapeva che il principe è il mandante dell’omicidio-smembramento di Khashoggi (2 ottobre 2018). Il rapporto della Cia che lo conferma è uscito in questi giorni, ma già nel giugno 2019 l’Onu ne aveva pubblicato uno simile. Gli 80mila dollari che il senatore ed ex presidente del Consiglio riceve annualmente dai sauditi – in qualità di membro dell’istituto Future Investment Initiative, emanazione della monarchia – non saranno illeciti, ma non cessano di far scandalo.

Nei prossimi mesi o anni sapremo se il governo Draghi cambierà politica sull’Arabia Saudita. Se l’Italia si allineerà alle posizioni di Parigi e Londra, che continuano il loro commercio di armi con Riyad e Abu Dhabi, o se seguirà l’esempio dei governi che come Conte hanno applicato l’embargo: Germania in primis, oltre a Belgio, Danimarca, Finlandia, Grecia, Olanda. Anche il presidente Joe Biden ha deciso di sospendere, sia pure provvisoriamente e parzialmente, le ingenti forniture d’armi garantite da Trump. I motivi dei vari embarghi sono due: l’assassinio di Khashoggi e la guerra iniziata dai sauditi nel 2015, con l’appoggio diretto statunitense e quello indiretto israeliano. Guerra che continua a seminare migliaia di morti fra i civili e che è sfociata in un disastro umanitario di proporzioni gigantesche (più di 24 milioni bisognosi di aiuto umanitario: l’80 per cento della popolazione).

Fin dal 2018 il presidente Conte aveva deciso di revocare le esportazioni di missili e bombe a Arabia Saudita ed Emirati: “Adesso si tratta solo di formalizzare questa posizione e di trarne le conseguenze”, diceva nella conferenza di fine anno, in risposta a una domanda concernente la vendita di armi e l’assassinio di Khashoggi. Una decisione costosa per le industrie italiane degli armamenti, accolta con entusiasmo dalle associazioni umanitarie e di sicuro mal vista dai commercianti d’armi. Veniva infatti annullato, e non semplicemente sospeso, l’accordo di forniture che il governo Renzi aveva negoziato nel 2016, per un totale di 400 milioni di euro (la fonte è la Rete Italiana Pace e Disarmo).

Nonostante le conferme che vengono dalla Cia sulle responsabilità dirette di Bin Salman nell’assassinio di Khashoggi (un giornalista inizialmente favorevole alle riforme del principe) Renzi non fa autocritiche. Aveva promesso di spiegare subito dopo la crisi politica i motivi delle parole dette a Riyad, e dopo parecchi giorni è ricorso a un’intervista a sé stesso, senza senso del ridicolo, seguita ieri da un’intervista al Giornale. Nessuna marcia indietro: “intrattenere rapporti” con l’Arabia Saudita “non solo è giusto, ma è anche necessario. L’Arabia Saudita è un baluardo contro l’estremismo islamico ed è uno dei principali alleati dell’Occidente da decenni. Anche in queste ore – segnate dalla dura polemica sulla vicenda Khashoggi – il presidente Biden ha riaffermato la necessità di questa amicizia in una telefonata al Re Salman”.

In parte quel che dice è un’ovvietà: si possono avere “rapporti” con il regime saudita, dittatoriale come tanti altri nel mondo. Ma in questione sono le vendite di armi, non i rapporti diplomatici. In parte Renzi mente spudoratamente (assieme al ministro di Italia Viva Elena Bonetti): l’Arabia Saudita non è affatto “un baluardo contro l’estremismo islamico” (immagino e spero che Renzi alluda al terrorismo e non all’estremismo: simili svarioni lessicali sono inquietanti perché adottano il vocabolario dei monarchi sauditi e di Donald Trump). Erano sauditi gli attentatori dell’11 settembre, come lo erano i fondatori dell’Isis. Riyad è un baluardo per i sunniti che contendono all’Iran sciita il primato nel grande Medio Oriente. È un baluardo per il governo israeliano, che per anni ha premuto su Washington perché uscisse dall’accordo sul nucleare e attaccasse militarmente l’Iran. Renzi mette il piede nella trappola del Grande Gioco mediorientale e adopera il linguaggio di Trump, di Jared Kushner genero dell’ex presidente, di Mike Pompeo, fautori di un patto militare con Riyad. Difficile credere che non sappia quel che fa. Che non abbia letto neanche un articolo di Khashoggi sul Washington Post.

Non meno inquietante è la disinvoltura con cui il capo di Italia Viva vive il proprio ruolo di ex presidente del Consiglio e senatore. Nella carica che ricopre rappresenta l’Italia, quando si reca in Paesi autoritari. È davvero singolare che non capisca la differenza esistente fra una visita diplomatica e una visita pagata, che culmina in smaccati esercizi di cortigianeria verso un principe ereditario sospetto di assassinio e responsabile in Yemen di una guerra di sterminio dei civili.

Ma probabilmente Renzi si sente sicuro, convinto com’è che non sia questo il momento di far traballare la grande alleanza in via di costruzione fra Israele, Arabia Saudita e gli altri Stati del Golfo, in funzione anti-iraniana. Macron la pensa come lui, i neo-conservatori in Nord America pure, repubblicani o democratici che siano. I deputati che nel Parlamento europeo fanno capo al presidente francese (il gruppo Renew Europe, compreso l’ex ministro per gli Affari europei Sandro Gozi) si sono recentemente astenuti su una risoluzione che chiede il blocco di tutte le vendite di armi a Riyad.

Infine, è probabile che Renzi non potesse dire altro, una volta invitato a intervistare pubblicamente il principe ereditario. L’unica via per evitare lo scandalo era di rifiutare l’invito, e non prender più soldi dalla monarchia. Renzi non ne è stato capace, e i veri motivi di quest’incapacità restano oscuri, nonostante i soliloqui in Internet e le numerose interviste concesse fuori Italia.

 

Il riso amaro di Propaganda Live

Tra le poche cose godibili della tetra telepandemia in corso c’è Propaganda Live, il programma di Diego Bianchi, alias Zoro, cresciuto come un cactus nel deserto: punge e fa sorridere nell’unico modo possibile, di riso amaro. Dietro la facciata da centro sociale ci sono solide basi: un cast di ospiti fissi che non devono fingere di essere amici perché lo sono davvero, ognuno ha il suo ruolo e ognuno improvvisa nello spirito della “jazz television” inventata da Renzo Arbore. Propaganda Live è l’unico talk a non prendere sul serio gli altri ma nemmeno se stesso perché può sfruttare una miniera inesauribile, il rovinoso declino di un impero, quello della fu egemonia culturale della sinistra. Oggi l’unica egemonia rimasta alla sinistra è quella del comico.

Ultimo caso, il j’accuse di Nicola Zingaretti contro la chiusura di uno degli svariati programmi di Barbara D’Urso su Canale5: (“Avvicina la politica alla gente. Ce n’è bisogno!”). Con un colpo in puro stile “Arbore de sinistra”, Zoro ha mandato in onda un fake in cui Enrico Berlinguer disquisiva con D’Urso sull’omosessualità di Gabriel Garko; quindi si è collegato con il vero Michele Serra, uno che piuttosto di andare ospite a Non è la D’Urso si farebbe impalare sulla pubblica piazza di Capalbio. “Forse Zingaretti non sa chi è la D’Urso”, ha tentato la difesa d’ufficio il (giustamente) venerato maestro della satira di sinistra. “Veramente c’è andato ospite tre settimane fa”, gli ha detto Zoro, senza aggiungere, forse per pietà, che era l’ultima ospitata di una lunga serie. Ne è nato un attimo di esilarante tristezza, breve e indimenticabile quanto un’eclissi di sole. Questo riso amaro è l’asso, anzi, il coltello nella manica di Propaganda Live, momenti di verità e sofferenza perché senza l’una non c’è l’altra. Sono passati 23 anni da quando Nanni Moretti gridava “D’Alema dì una cosa di sinistra! Dì qualcosa!”.

Adesso bisogna implorare Zingaretti di non dire niente.