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Se il cambio di passo… è un passo marziale

Pensiamo sia sbagliato continuare a manifestare ammirazione incondizionata per Draghi. Abitiamo a Siena e non possiamo dimenticare la sua approvazione dell’acquisto di Antonveneta da parte di Mps. Ora il suo decisionismo: uno spostamento a destra dove tanto piace l’uomo forte. L’entusiasmo all’annuncio di un generale dell’Esercito al posto di Arcuri dovrebbe mettere sul chi vive e far temere per la democrazia. Non vorremmo che il tanto esaltato cambio di passo non significasse un “passo marziale”.

Claudia Chiostri e Andrea Vivi

La campagna vaccinale era partita bene. Poi il rallentamento dovuto a contratti maldestramente conclusi dai burocrati europei. Ora si cambia il commissario Arcuri, facendolo apparire implicitamente come il responsabile. Che pochezza questo banchiere!

Carlo Zaccari

 

Renzi è molto simile al centrodestra

Vi segnalo l’errore nel titolo “Esultano centrodestra e renziani”: che differenza c’è?

Orlando Murray

 

Ha ragione, caro Orlando: sono la stessa cosa.

M. Trav.

 

Querele temerarie e Rinascimento saudita

Credo che sia arrivata l’ora di farla finita con le querele temerarie nei confronti della libera stampa. Tutta la mia solidarietà al Fatto.

Roberto Napoletani

Vorrei proporre una raccolta fondi per la libertà di stampa del Fatto Quotidiano per scoraggiare querele temerarie e segnalare al rissoso senatore quante persone vi sostengano.

Maria Zucano

I media americani stanno martellando Bin Salman. Ma perché questi americani continuano a visitare le nostre città d’arte se non imparano a riconoscere i tratti tipici del Rinascimento?

Carmelo Sant’Angelo

Ma ci possiamo meravigliare del comportamento di Renzi, che si reca a casa di un mandante di omicidio per conversare allegramente con lui ?

Alessandro Bazzan

 

Il “Fatto” spesso non arriva in edicola

Il suo (e mio) quotidiano subisce gli schemi mentali dei giornalisti televisivi e i pregiudizi di chi non lo conosce. Ma del resto, a Brescia, se non prendi il Fatto la mattina presto, poi non lo trovi più. Per quali motivi viene distribuito con il contagocce?

Annamaria Guerrini

Cara Annamaria, tireremo le orecchie ai distributori di Brescia.

M. Trav.

 

DIRITTO DI REPLICA

Abbiamo letto con stupore sul suo giornale l’articolo dal titolo “Acea ha finanziato ospedali cattolici: interrogazione Pd”, nel quale neanche tanto velatamente si accusa l’azienda di aver preferito alcuni piuttosto che altri nell’erogare fondi per il contrasto della pandemia. Affermazioni decisamente diffamatorie da chiunque esse provengano. Andiamo ai fatti. Acea, all’alba dell’emergenza Coronavirus, nei primi giorni di marzo 2020, decise di porre subito in atto azioni concrete per poter sostenere le diverse realtà che, in prima linea, cercavano di arginare la diffusione di questo terribile virus e di aiutare la popolazione che ne veniva colpita. In quel particolare momento due furono le iniziative che il gruppo decise di supportare: quella del Policlinico Gemelli, che stava realizzando una struttura separata per accogliere al meglio coloro che contraevano il virus con circa 250 mila euro, e quella dell’Istituto Spallanzani, con 350.000 euro, di cui metà frutto delle donazioni dei dipendenti. Queste, allora, erano le strutture che si erano immediatamente attivate con progetti concreti e sulle quali parecchie altre aziende, in una bellissima gara di solidarietà, stavano inviando donazioni, a volte molto, ma molto più importanti di quelle di Acea, che ha potuto contare esclusivamente su uno specifico budget dedicato alle sponsorizzazioni, dal quale sono state liberate risorse solo rinunciando ad altri impegni che obiettivamente sono parsi superflui in un momento di così dura emergenza. Poi, sempre con questi criteri, altre attività sono state intraprese; tutte per rafforzare chi già stava facendo tanto per alleviare le sofferenze di tante persone. Nessuno vuole una medaglia. Ciascuno di noi in questa terribile pandemia la meriterebbe. Ma vorremmo che illazioni varie fossero risparmiate ad un’azienda ed ai suoi dipendenti che hanno fatto da sempre, in oltre 110 anni di storia, della solidarietà e di una generosità mai sbandierata il suo tratto distintivo.

Ufficio Stampa Acea

Nessuna accusa, nessuna illazione. Abbiamo messo insieme i fatti (confermati da fonti Acea e dal contenuto della vostra lettera) citando – fra l’altro – l’interrogazione di un consigliere comunale del Pd.

Vinc. Bisb.

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri, nel mio articolo su Matteo Renzi che intervista Matteo Renzi, nell’edizione cartacea è saltato per sbaglio un “non” nella frase che doveva essere: “I giornalisti NON li elimina con la motosega”. Fortunatamente, il tono ironico del resto della frase lo lasciava facilmente intuire. Mi scuso personalmente con il senatore Matteo Renzi per il vulnus giornalistico.

Selvaggia Lucarelli

Piano vaccini. Evitare gli sprechi è una responsabilità delle Regioni

Sono una vostra assidua lettrice. Vi scrivo perché in questo oblio di giornali e giornalisti vi reputo l’unico giornale libero, serio e felice. Vorrei accendere un faro sulla fine che fanno i vaccini inutilizzati: se qualcuno non si presenta all’appuntamento di somministrazione prenotato, il vaccino scongelato viene buttato? È la burocrazia?

Anna Paola Cozzoli

 

Gentile Anna Paola, in questo caso la burocrazia c’entra poco o forse nulla. Più semplicemente, è una questione di efficienza. Ogni struttura sanitaria preposta alle vaccinazioni dovrebbe sempre prevedere una aliquota di riserva (si chiama così) di persone da vaccinare qualora qualcuno, nonostante si sia prenotato, non si presenti all’appuntamento fissato per la somministrazione. Questo per evitare di gettare il siero inutilizzato. Cosa che vale prima di tutto per il vaccino Pfizer-BionTech, che deve essere somministrato entro sei ore da quando è stato prelevato. Ma vale anche per gli atri due vaccini, l’americano Moderna e l’europeo AstraZeneca. In quest’ultimo caso, in teoria, i flaconi che non vengono usati possono essere nuovamente riposti in frigorifero. Ma ciò non può essere fatto una volta che il siero è stato preparato e diluito per l’iniezione. Il problema che lei pone è reale ma riguarda la capacità organizzativa di ogni singola Regione. La cosiddetta aliquota di riserva serve proprio a scongiurare il rischio degli sprechi. Tutte le aziende sanitarie dovrebbero prevederla. In pratica dovrebbero, quotidianamente, redigere una lista di persone che si sono già prenotate e che possono recarsi con celerità al punto di somministrazione qualora a fine giornata ci siano rimanenze di sieri già pronti per l’inoculazione. Questo anche per evitare, come è accaduto nell’azienda sanitaria di Modena, che i vaccini vengano somministrati a persone che, in base al piano vaccinale, non ne hanno ancora diritto, per esempio amici e parenti. Ma va ricordato che ogni Regione procede con un proprio piano e con proprie disposizioni. Il problema è a monte. Manca un coordinamento nazionale con indicazioni precise per una procedura condivisa. Coordinamento che è stato più volte chiesto dagli stessi operatori sanitari, insieme a una piattaforma nazionale di prenotazioni.

Natascia Ronchetti

La logica del “valore” rischia di mangiarsi la Casa delle Donne

La Casa delle Donne di Milano, ospitata da anni in locali del Comune, è a rischio chiusura. Ma siccome Giuseppe Sala non è Virginia Raggi, nessuno protesta, nessuno s’indigna, come invece successe nel 2020 per la Casa delle Donne di Roma. A Milano è dal 2013 che gli spazi di una ex scuola di via Marsala sono stati assegnati per bando (anche grazie all’impegno di Anita Sonego, allora delegata alle pari opportunità del sindaco Giuliano Pisapia) alla Casa delle Donne. Sono 900 metri quadrati con un bel giardino, dove per sei anni sono state organizzate attività, corsi, incontri, presentazioni di libri e riviste, sportelli di orientamento e sostegno psicologico, eventi culturali, artistici e politici. Nel 2019 il contratto è scaduto. “Da oltre un anno è ormai scaduta l’assegnazione in comodato d’uso della Casa delle Donne di Milano e il protrarsi dell’incertezza per il nostro futuro è fonte di grande preoccupazione”, si legge in una allarmata “lettera aperta alle donne e agli uomini di Milano”. Il 15 gennaio 2021 è arrivata “la tanto attesa delibera comunale” che avrebbe dovuto risolvere il problema. Invece ha definito le “linee di indirizzo per la concessione in uso terzi di alcuni locali dell’immobile sito in via Marsala 8 da destinare ad attività sociali, culturali, educative e/o formative e per la partecipazione attiva dei cittadini”. Cittadini: scomparso ogni riferimento alla Casa delle Donne, con “una svista linguistica”, “una cancellazione simbolica” che – dice la lettera aperta – sembra dimenticare che “la cittadinanza non è fatta solo di uomini”. Il Regolamento del Comune, spiegano a Palazzo Marino, impone di fare una gara e vinca il migliore, perché gli immobili comunali vanno “valorizzati” (cioè affittati a prezzi di mercato), altrimenti potrebbe intervenire la Corte dei conti. Ma le attività di valore civile, culturale, sociale? Il lavoro svolto in questi anni dalla Casa delle Donne? E i soldi già spesi (oltre 150 mila euro raccolti grazie a bandi e donazioni) per ristrutturare e rendere ospitale (con bar, cucina, laboratorio di sartoria, bibliomediateca…) uno spazio inizialmente inabitabile? Impossibile sostenere un affitto di mercato, per una associazione senza fini di lucro. Difficile anche con lo sconto del 70 per cento previsto per le attività di rilievo civile (a Torino, la sindaca Chiara Appendino l’ha alzato al 90 per cento).

Come fare allora? Nei giorni scorsi le responsabili della Casa sono state chiamate a Palazzo Marino a incontrare un paio di assessori. Si è aperta una trattativa. Per assegnare, con bando, una parte dell’immobile in affitto, scontato del 70 per cento. E un’altra parte a titolo gratuito, con la procedura dei “patti di collaborazione” (già sperimentati, per esempio, dalla Casa delle Donne di Ravenna). È comunque un impegno economico pesante – spiegano le responsabili – perché i prezzi degli affitti milanesi sono altissimi. Perché non sono considerate le spese già sostenute per arredare e ristrutturare. E perché resta l’incertezza di una assegnazione che potrebbe vedere vincitore un altro soggetto.

La trattativa continua. La sorte della Casa delle Donne resta incerta. Il dibattito resta sottotraccia, perché Sala è come Garibaldi: non si può parlarne male. È per definizione verde, efficiente e amico delle donne. Eppure le soluzioni si potrebbero trovare. Anche grazie ai soldi del fondo contro le discriminazioni e la violenza di genere: 2 miliardi messi a disposizione per le associazioni dalla legge di bilancio dello Stato, che prevede anche la concessione di spazi gratuiti per attività contro la violenza di genere. Vedremo che cosa succederà nei prossimi giorni e se la Casa delle Donne di Milano potrà continuare la sua storia.

 

Tra fedeltà e cabaret. L’inesistente democrazia interna ai partiti: vero Iv?

Sì, capo. Certo, capo. Come no, capo. Uno dei grandi temi della politica italiana – una variante del cabaret – è quello della fedeltà, forse perché si assiste a un campionario intero di capriole, giravolte, riposizionamenti, dispiegamenti tattici. È la politica, bellezza, e ogni testacoda è chiosato dai saggi con quella formuletta astuta secondo cui “solo i cretini non cambiano mai idea”. Frase interessante, che non tiene conto però di un fatto conclamato: anche i cretini possono cambiare idea (e i furbi, ovvio, che la cambiano quando serve).

Caso di scuola, le espulsioni di massa nei 5 Stelle, che spingono tutti – più che giustamente – a interrogarsi sulla democrazia interna di una forza politica, sui meccanismi del dissenso, sulla possibilità di dire al capo: “Non sono d’accordo, stai sbagliando” senza essere cacciati a calci. Ma non è l’unico caso. In questi giorni di polemiche saudite, con un senatore che si intervista da solo per dirsi “bravo”, dopo aver intervistato un feroce dittatore per dirgli “bravo”, la questione della democrazia interna dovrebbe coinvolgere anche un piccolo partito come Italia Viva. Insomma, piacerebbe a molti che qualche voce dissonante si levasse dall’interno, magari flebile, magari incerta, ma abbastanza “schiena dritta” da dissentire dal segretario. Ebbene: niente. Zero. Non una vocina, non una mano che si alzi e dica: “Ma… veramente…”.

Certo, tutti ricordano la famosa frase di Ferruccio de Bortoli in un editoriale sul Corriere (24 settembre 2014), quella su “la fedeltà che fa premio sulla preparazione”. Ma forse, e almeno sulle grandi questioni di principio (non lapidare le adultere, per dirne una; non tagliare la testa alla gente davanti a un pubblico plaudente, per dirne un’altra) ci si aspetterebbe qualcosa di più. Invece tocca sentire proprio dalla ministra delle Pari opportunità, Elena Bonetti, che l’Arabia Saudita “ha iniziato un primo percorso nell’allargamento dei diritti”. Cioè, non sarà il Rinascimento, ma su, dài, ci manca poco. Strabiliante.

Quanto ad altri renzianissimi, non solo non dissentono dal capo, dalle sue visite saudite e dai suoi complimenti al regime (“vi invidio il costo del lavoro”), ma lo difendono a spada tratta, con vari argomenti tra cui: siete ossessionati. Lo fanno tutti. Che male c’è. Parliamo di vaccini. Fuffa retorica, insomma, difesa d’ufficio. Eppure tra questi armigeri che corrono a difesa del capo in difficoltà, c’è anche chi non è insensibile al tema. Per esempio Ivan Scalfarotto, che nell’ottobre 2018 firmò una dura interrogazione parlamentare sul caso Khashoggi, sui diritti umani, sui bombardamenti sauditi di civili in Yemen. Scalfarotto, Paita, Giachetti: alcuni dei nomi più in vista del renzismo firmavano allora quelle parole di condanna. Luciano Nobili si spingeva fino al boicottaggio, e tuonava su Twitter che non bisognava giocare una finale di Supercoppa a Riyad (dicembre 2019).

Poi, due anni dopo, di colpo, silenzio. Muti, allineati e coperti. Ora verrebbe da chiedersi quando hanno cambiato idea, e se l’hanno cambiata davvero, oppure se la fedeltà, oltre che sulle competenze, fa premio anche su certi valori (i diritti umani: ora sì, ora no, ora sì, ora no). Insomma, dato che si ironizza spesso sulle millemila correnti del Pd, o sulle consultazioni dei 5S, non è peregrino chiedersi se esista anche dentro Italia Viva una democrazia interna, o se veramente hanno tutti cambiato idea, spontaneamente, liberamente, sull’Arabia Saudita e sul suo sanguinario principe.

 

Il Covid rimette in gioco la nostra idea di morte

Più va avanti questa storia del Covid e meno mi convince. A un anno, anzi un po’ di più, dall’inizio della pandemia i morti per Covid in Italia sono circa 97 mila, lo 0,16% della popolazione. Sempre in Italia i morti per tumore all’anno sono mediamente più di 190 mila. Il tumore però, e per fortuna, non è contagioso, mentre l’epidemia lo è e il suo rischio sta proprio nel fatto che i suoi numeri possono diventare esponenziali. La domanda è quindi questa: quanti sarebbero stati i morti per Covid se non fossero state adottate le misure di contrasto, dai lockdown alla sanificazione alle mascherine? Negli Stati Uniti i morti per Covid sono mezzo milione. Una cifra enorme. All’apparenza. Mezzo milione su 330 milioni di abitanti dà, in percentuale, un numero più o meno uguale al nostro, lo 0,15%. Ma negli Stati Uniti per tutto il periodo Trump, cioè fino a poco più di un mese fa, la gestione dei lockdown è stata affidata ai singoli Stati confederali che si sono quasi equamente divisi, alcuni hanno applicato lo stay at home order, altri no, così come si sono divisi persino sulla meno fastidiosa delle precauzioni antiCovid, la mascherina, per cui erano democratici coloro che la indossavano, trumpiani gli altri. Peraltro, almeno dalle riprese televisive, si vedeva che negli States a portare la mascherina erano davvero in pochi. Comunque sia una gestione molto più lasca dei lockdown ha dato percentualmente lo stesso numero di morti in Italia (e con essa in Europa) e negli Stati Uniti. Quindi se si fosse lasciata andar libera la pandemia, che era la prima idea di Boris Johnson, non a caso perché gli inglesi sono estremamente insofferenti a ogni limitazione delle libertà personali, il numero dei decessi poteva raddoppiare o, siamo generosi, al massimo triplicare, cioè raggiungere lo 0,48% della popolazione. Nel mondo i morti per Covid sono circa 2,5 milioni, vale a dire lo 0,031% della popolazione globale. Certamente i valori mondiali vanno presi particolarmente con le pinze perché non credo che chi si sta battendo in Siria o in Libia o in Afghanistan sia particolarmente attento al Covid e alle sue conseguenze né, in quelle aree, ci possono essere statistiche attendibili. Durante la Seconda guerra mondiale i morti, più civili che militari, furono dai 60-68 milioni, circa 11 milioni l’anno, ma in un’area molto più ristretta rispetto al mondo globale di oggi (Europa e Giappone). A questi dati vanno aggiunte, ma in realtà sottratte, le morti causate in modo diretto o indiretto dai lockdown, perché conti più o meno esatti, come ha detto Lena Hallengren, ministra della Salute della Svezia che in pratica lockdown non ne ha fatti, “si faranno fra due o tre anni”.

Valeva la pena devastare le strutture sociali, nervose, economiche di intere popolazioni per una malattia che comporta una percentuale di decessi statisticamente quasi irrilevante? E che riguarda in larghissima parte persone anziane con due o tre patologie pregresse che, è duro dirlo ma va pur detto, sarebbero comunque morte di lì a poco? Sant’Agostino va giù ancora più piatto: “Che male c’è se muoiono in guerra uomini comunque destinati a morire?”. Ma qui sta proprio il nocciolo di tutta questa storia Covid. Lo stesso concetto di morte è scomparso dall’orizzonte della contemporaneità, semplicemente non è accettato (nemmeno linguisticamente, si parla di “decessi”) e ciò vale, ed è sorprendente, tanto per le culture occidentali che orientali. In Occidente la religione ha fatto la sua fortuna proprio giocando sul terrore della morte, cercando di superarlo con la concezione di “una vita oltre la vita” e quindi, di fatto, negandola. In Oriente le cose sono andate diversamente. Tutte le religioni, o piuttosto le filosofie orientali dal buddhismo all’induismo, hanno (o piuttosto avevano) un approccio molto diverso con la vita e con la morte. Per Lao-Tse (Il libro della norma) che ha influenzato tutto il pensiero orientale, il concetto è quello della “in-azione”, cioè della non azione che è uno stato che allontana il più possibile dai dolori della vita e quindi dalla vita stessa e dal pensiero della morte (per dirla in parole più spicciole il nirvana del buddhismo). Per buona parte dell’islamismo, almeno quello radicale, la morte è una felice liberazione dalla vita.

Non tutto il Covid sarà venuto per nuocere, qui in Europa, se ci avrà fatto ricordare un semplice concetto molto presente nel Medioevo contadino: la morte non è solo la conclusione inevitabile di ogni vita, ma è la precondizione della vita. Va quindi combattuta nei limiti del possibile ma, alla fine, anche accettata senza vivere sotto una costante cappa di terrore e di paura dice il vecchio e saggio Epicuro: “Muore mille volte chi ha paura della morte”.

 

Caro Massimo, la tua posizione è nota e vedo che non viene scalfita neppure dal clamoroso fallimento – ammesso dalle stesse autorità locali – del “modello svedese”. Non sono d’accordo, ma come sempre pubblico il tuo articolo perché il “Fatto” è un giornale libero.
Marco Travaglio

 

“Allen contro Farrow”: oltre alle molestie è guerra sul copyright

Skyhorse Publishing, la casa editrice che l’anno scorso ha dato alle stampe il memoir di Woody Allen “A proposito di niente”, ha minacciato di far causa al documentario a puntate “Allen contro Farrow” in onda da domenica su Hbo (1 milione di spettatori, record degli ultimi due anni) per aver utilizzato senza autorizzazione brani della versione audio del volume. In una dichiarazione inviata all’“Hollywood Reporter”, il presidente di Skyhorse ha fatto sapere che i suoi legali hanno contattato Hbo minacciando un’azione legale per violazione del copyright. Gli autori del documentario, Amy Ziering e Kirby Dick, hanno replicato: “L’uso di materiale limitato del memoir è avvenuto sulla base della dottrina del Fair Use” che in specifiche circostanze promuove la libertà di espressione permettendo l’uso senza autorizzazione di pubblicazioni protette dal copyright: tra queste notizie, critica, commenti, insegnamento e ricerca (Ansa, 23 febbraio).

Il copyright, nei Paesi di common law, dove cioè l’ordinamento giuridico si fonda più sui precedenti giurisprudenziali (sentenze) che su codici e leggi, come invece nel nostro sistema (civil law), è il monopolio temporaneo su un’opera, concesso dallo Stato all’autore.

La dottrina statunitense sull’uso legittimo (Fair Use), codificata nel 1976, riguarda le opere derivate (parodia, riassunto, antologia, incorporazione, &c.) ed elenca quattro fattori, non esclusivi, che vanno tenuti in considerazione nel giudizio di violazione del copyright: natura del nuovo utilizzo (ok se è trasformativo oppure non commerciale); la natura dell’opera originaria (ok se è idea o fatto; non ok se è espressione, o se non ancora pubblicata); la quantità dell’opera originaria utilizzata (e la sua qualità); e come il nuovo utilizzo influisca sul valore dell’opera originaria. Un uso trasformativo è quello che, al materiale precedente, “aggiunge qualcosa di nuovo, con uno scopo ulteriore o un differente carattere; oppure lo altera con una nuova espressione, significato, messaggio”. (Campbell v. Acuff-Rose Music, Inc., 1994). I casi mostrano che i giudici considerano trasformativo l’uso che, tramite un cambiamento dei contenuti, una ricontestualizzazione, o aggiunte creative, cambia lo scopo dell’opera derivata (Murray, 2012). Il giudizio di uso legittimo o di infrazione del copyright in un’opera derivata non è per niente immediato: va ponderato caso per caso, poiché la casistica è composta da una variabilità infinita di occasioni e combinazioni di circostanze. Per esempio, trasformazioni oggettive minime possono comportare trasformazioni concettuali notevoli, tramite un reframing (Rotstein, 1993), come dimostra lo scalpore suscitato dall’orinatoio di Duchamp (Fontana, 1917) e dal silenzio per pianoforte di Cage (4’33”, 1952). Blanch v. Koons (2006) diede ragione a Koons poiché Koons, con il suo riutilizzo di una foto di Blanch, aveva coinvolto gli spettatori in un diverso discorso interpretativo (Heymann, 2008). Il quarto fattore, che riguarda il danno commerciale, domina l’analisi giurisprudenziale. Il danno va provato, non basta presumerlo (Bartow, 2014). Un documentario sul cineasta Peter Graves utilizzava estratti dai suoi film, protetti da copyright; ma fu giudicato legittimo poiché, oltre a informare, avrebbe potuto aumentare l’interesse del pubblico per Graves, e quindi i suoi profitti (Hofheinz v. Amc Prods. Inc., 2001). Considerare il mercato, a volte, è inappropriato: quando un’opera derivata esprime un punto di vista dissidente, applicare le norme alla lettera censurerebbe la libertà di parola (Lange & Anderson, 2001): su questo puntano gli autori del documentario. Sarà interessante vedere come andrà a finire.

 

Rinascimento saudita: chi è l’inventore? Non Renzi

La differenza nella posizione dei due presidenti degli Stati Uniti rispetto ai mandanti dell’assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, collaboratore del Washington Post, non è dovuta all’afflusso di nuove informazioni. La Cia aveva già fornito a Trump un documento riassuntivo delle proprie ricerche che concludeva con l’attribuzione del ruolo di mandante e organizzatore dell’uccisione e successivo smembramento al principe saudita Muhammed bin Salman. Trump decise di far finta di niente. Biden no. Ma il 29 settembre 2020 il quotidiano Domani pubblicava l’articolo di un filosofo ed esperto di islamistica, Massimo Campanini, che sosteneva che per noi occidentali ignoranti degli usi e costumi del Medio Oriente, era quasi impossibile non lasciarsi fuorviare dalle apparenze e capire come fossero andate le cose, e proseguiva elevando un vero peana al principe bin Salman: giovane e promettente vice-sovrano e iniziatore di un rinascimento saudita! Sì, Rinascimento. Diamo a Campanini ciò che è di Campanini, non di Renzi, un mero seguace.

Poiché i fatti erano invece stati accertati ad abundatiam sia dai turchi sia dagli americani, e l’articolo era un abile tentativo di confondere ciò che invece era chiaro, mandai una lettera al Domani, che non la pubblicò. Affermava l’esimio islamista che nei due anni interceduti dal giorno dell’assassinio sono emerse due “contraddizioni”. La prima è che forse Jamal Khashoggi era un membro dei Fratelli Musulmani, non un liberale all’occidentale. Tra le righe, Campanini suggerisce che solo se Khashoggi fosse stato veramente di convinzioni anti-totalitarie sarebbe stato grave farlo assassinare. In conclusione, Matteo Renzi non ha inventato niente. Lo scopritore del “Nuovo Rinascimento” saudita è il suo elettivo maestro, Massimo Campanini. Purtroppo Massimo solo un paio di settimane dopo aver pubblicato il suo articolo sul Domani decedette.

Serve un nuovo manifesto per progettare il futuro

Il M5S avrebbe bisogno prima di tutto di un nuovo manifesto. Lo suggerii anni fa a Beppe Grillo, dovrebbe farlo adesso: prendere alcuni intellettuali – lui ne conosce tantissimi da tutto il mondo – e riunirli per disegnare il tipo di società che il Movimento vuole costruire. Senza sapere dove andare, è inutile tutto il resto. Qualunque grande progetto politico del passato ha avuto origine su una base intellettuale, su un manifesto messo nero su bianco.

Poi viene la parte organizzativa, ovvero quella che deve provvedere a costruire una struttura interna che sia fatta di uno Statuto, di probiviri, di quello che vogliono. Ma è inutile chiedersi, per esempio, se Conte debba portare o no i 5 Stelle tra i socialisti europei. Già solo porsi il dubbio significa che non c’è alcuna chiarezza su quale direzione prendere. E questa chiarezza può venire soltanto da un lavoro teorico molto preciso.

È tempo di diventare partito e di stare nel centrosinistra

Non so cosa intenda fare il M5S, ma credo che abbiano dimostrato di non funzionare più come movimento: o si fanno partito o resteranno in un limbo. Essere un movimento va benissimo per mobilitare la società civile, ma a questo punto potrebbe funzionare solo affidando un potere incontrollato a qualcuno. L’alternativa, allora, è diventare definitivamente un partito dotandosi di quelle strutture – un congresso, una direzione, eccetera – che sono l’essenza della vita democratica e della partecipazione. Anche perché la democrazia diretta va benissimo, ma non è certo quella che si è vista su Rousseau, con voti plebiscitari e scelte tra Sì e No a domande fuorvianti. Quella mi pare più una truffa.

Spero che questa sia anche l’occasione per una collocazione definitiva nel centrosinistra, perché il Movimento ha dato il peggio di sé durante il governo con la Lega e il meglio di sé da alleato con il Pd e LeU.

L’ex premier ora deve ricucire con gli espulsi

Finora il professor Conte ha dimostrato grande abilità nell’equilibrare coalizioni difficili, sia con la Lega che con il Pd. Adesso però il compito è più arduo, perché dovrà fare da mediatore tra i governanti – come preferisco chiamare i governisti – e i cosiddetti duri e puri. E questa capacità politica non è detto che Conte ce l’abbia, essendo molto diversa da quella di uomo delle istituzioni.

Ora Conte dovrebbe per prima cosa chiarire le priorità del suo Movimento, quelle riforme da portare al tavolo e rivendicare come proprie, come è stato negli anni scorsi per il Reddito di cittadinanza o l’abolizione dei vitalizi. E poi negoziare con le altre parti politiche. Ma sarà fondamentale anche recuperare un rapporto con gli espulsi dal Movimento. Lui può farlo, intanto perché quegli ex 5 Stelle non sono stati espulsi da lui e dunque devono quantomeno stare ad ascoltarlo. E poi perché credo che tra loro ci siano molte persone con cui è possibile riallacciare i rapporti. Il compito di un capo politico è aggregare, non sovrintendere a scissioni.