Porro, Sisto e Sansonetti: è la festa dell’impunità

Nicola Porro si supera: l’ultima puntata del suo Quarta Repubblica non è soltanto la solita passerella di Matteo Salvini (ovviamente ospite) ma un autentico festival dell’impunità. Una lunghissima, inesausta tirata contro i magistrati, i giudici e la giustizia. A questo proposito gli ospiti sono illustrissimi: Alessandro Sallusti, Piero Sansonetti e Francesco Paolo Sisto (avvocato di Berlusconi e a tempo perso anche sottosegretario alla Giustizia). E allora nessuno si può sorprendere se sotto la regia di Porro, gli intellettuali in parterre si producano in pensieri di tale levatura: “Il fulcro del problema è la comunicazione della giustizia. È giusto dare tanta pubblicità a chi fa le inchieste? Il modo per manifestarsi del giudice non è il volto, ma il provvedimento” (Sisto); “Da anni questo potere è fuori controllo, io non ho nessuna fiducia nella magistratura!” (Sansonetti); “Palamara ti racconta come il sistema delle correnti cerca di accaparrarsi i giovani magistrati. L’indottrinamento dei magistrati avviene ancora prima che diventino magistrati” (Sallusti); “C’è un correntismo che va oltre l’immaginabile, è un fenomeno che va segnalato. Il fenomeno più pericoloso è il carrierismo, abbiamo bisogno di più giudici, oggi se il processo non condanna viene considerato inutile” (Sisto). Che meraviglia.

Il pilota attento dalla guida dolce

 

• C’è del metodo che non è follia bensì individuazione e perseguimento degli obiettivi, nell’agire governativo di Mario Draghi. Supermario, il funambolo solitario.
Quotidiano del Sud

 

• Parla il meccanico di Draghi, Marcello Venanzi: ”Tempo fa mi portò la sua Bmw, sarà successo due/tre volte. Nessun problema grave ma dato che non era mai a Roma, gli si scaricava spesso la batteria. È un pilota tranquillo, attento, con una guida dolce”.
Un giorno da pecora

 

• Draghi ha già cambiato tutto, la politica è tornata. Il presidente Draghi è un insperato colpo di fortuna per l’Italia. (…) Il silenzio di Draghi è una conquista della nostra democrazia afflitta fino all’altroieri da una chiacchiera quotidiana a reti unificate, origine evidente del “Grande Fratello”.
Il Riformista

Il metodo del premier e il ministro Speranza

“Speranza apprende dalle agenzie la decimazione dei suoi bracci operativi”, scrive Marco Travaglio a proposito delle “dimissioni” del commissario anti-Covid, Domenico Arcuri, e prima ancora della sostituzione del capo della Protezione civile, Angelo Borrelli. Poiché l’informazione proviene da fonte sicura, sorge spontanea una domanda sul rapporto funzionale, operativo o personale tra Mario Draghi e i suoi ministri, in questo caso il ministro della Salute. Il giorno del varo del governo, celiando (ma fino a un certo punto) avevamo immaginato che ci fossero distanze diverse tra il premier e i membri dell’esecutivo, un po’ come Ignazio Silone descrive in Fontamara

la lontananza tra “il principe Torlonia padrone della terra” e i suoi sottoposti. Ripeto, un paragone scherzoso, ma che forse ci aiuta a comprendere il disagio (se pure c’è stato) di un ministro considerato troppo lontano da Palazzo Chigi per essere consultato. O quantomeno avvertito della sostituzione di un pezzo fondamentale della strategia sanitaria nella presente emergenza.

Intendiamoci, niente che non si sia visto prima nella storia delle relazioni intergovernative, spesso funestate dalla caratterialità dei personaggi (si narra che un presidente del Consiglio dell’antichità, Amintore Fanfani, convocasse un suo ministro con nervose scampanellate). Ipotesi del tutto fuori luogo nel caso di Draghi della cui cortesia formale e istituzionale nessuno può dubitare. Resta l’interpretazione politica, e cioè l’esistenza di un cerchio di stretta fiducia a cui il premier ha delegato i dicasteri strategici, e di cui evidentemente Speranza non fa parte. Si è già molto scritto di alcuni pochi ministri scelti personalmente da Draghi, mentre tutti gli altri sono frutto delle indicazioni dei partiti (e che infatti hanno saputo della nomina dai tg, come del resto la pletora dei sottosegretari). Con la differenza che il ministro della Salute dovrebbe, in questa fase e con ogni evidenza, agire in stretto contatto e in piena fiducia con il quartier generale. A tutela di tutti. Altrimenti, o si cambia il metodo o si cambia il ministro.

“L’Ue paghi i danni”. La sentenza riscrive i crac di Etruria&C.

Questa storia ha una sua particolare geografia: si inizia a Pescara, si passa per Teramo e poi Bari, si fa tappa a Roma e Bruxelles, poi ad Arezzo, Ferrara, Chieti e Ancona, infine in Lussemburgo, dove si scopre che è stato tutto un equivoco. La Corte di Giustizia Ue ieri ha rigettato il ricorso della Commissione europea: il salvataggio di Tercas (Cassa di Teramo) da parte di Popolare di Bari con l’appoggio del Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) non fu “aiuto di Stato”, come Bruxelles aveva sostenuto. Le sofferenze inflitte a decine di migliaia di risparmiatori da allora, il crollo dell’intero settore bancario in Borsa seguito a quella decisione e al successivo mezzo bail-in di Etruria & C. (-60% in pochi mesi) non erano necessari. Come si dice in questi casi: e ora chi paga? Nessuno, probabilmente.

Per capire l’enormità della sentenza di appello emessa ieri dai giudici lussemburghesi bisogna riavvolgere il nastro di questi ultimi anni. In principio, come detto, fu Pescara: alla fine del 2010, con la benedizione di Banca d’Italia (regnante Mario Draghi), la malandata CariPescara fu accompagnata dentro la Cassa di Teramo; un boccone che si rivelerà troppo difficile da digerire per l’istituto abruzzese, tanto che nel 2014 – sempre su caldo invito di Bankitalia, nel frattempo passata a Ignazio Visco – Tercas viene affidata a Pop Bari con l’aiuto appunto del Fitd; è appena il caso di ricordare che anni dopo anche Bari scoprirà che la cassa teramana gli era rimasta sullo stomaco finché, e siamo all’oggi, non dovrà intervenire il pubblico Mediocredito Centrale. Quel che rileva qui, però, è il passaggio intermedio.

Nel 2013/2014 Bankitalia stimò il buco Tercas in oltre 600 milioni: il “salvataggio” avvenne azzerando il capitale sociale, usando le riserve, i soldi di Popolare di Bari (230 milioni) e quelli del Fondo interbancario, che ci mise 270 milioni. Gli azionisti, ovviamente, persero tutto, gli obbligazionisti no.

Fu a questo punto che arrivò lo stop della Commissione: l’uso del Fidt, un fondo alimentato obbligatoriamente dalle banche e gestito su indicazioni di Banca d’Italia, era da considerarsi aiuto di Stato anche se si usavano soldi privati. E se è aiuto di Stato, argomentava la Dg Competition guidata da Margrethe Vestager, allora va applicata la Bank Recovery and Resolution Directive – per gli amici il bail-in – che prevede di tosare azionisti, obbligazionisti e correntisti prima di poter intervenire con pubblico denaro. Che ci crediate o no, per Tercas la vicenda si concluse cambiando maglietta al Fondo interbancario: i 270 milioni tornarono indietro al Fitd “obbligatorio”, che nel frattempo aveva creato un fondo “volontario”, che partecipò al salvataggio con 270 milioni.

Questa operazione, che a tutti gli effetti è una presa in giro, ha però un “lato B”. Il governo italiano dell’epoca (Renzi&Padoan) decise – o fu costretto a decidere – che non avrebbe più potuto usare in futuro il Fondo interbancario in situazioni simili. E in quel momento ce n’erano giusto quattro di situazioni simili che l’esecutivo stava discutendo con Bruxelles: quelle ormai famose di Banca Marche, Popolare Etruria, CariFerrara e CariChieti, le quattro “banchette” che finirono in risoluzione a novembre 2015 azzerando oltre 100mila azionisti, circa 12mila risparmiatori e creando un terremoto nel settore del credito che coinvolgerà poco tempo dopo le due grandi popolari venete (PopVicenza e Veneto Banca) e il Monte dei Paschi.

Oggi insomma si scopre, definitivamente, che questa catena di eventi poteva essere impedita con un intervento meno oneroso e che non avrebbe messo in crisi l’unica vera merce del sistema bancario: la fiducia dei risparmiatori. Secondo il presidente del Fitd, Salvatore Maccarone, l’uso del Fondo avrebbe comportato una spesa per il settore di 2,2 miliardi: il conto della “risoluzione”, al netto degli effetti sistemici, è stato di quasi 5. Da allora peraltro – in ossequio alla categoria dello spirito detta “aiuti di Stato” – l’Italia combatte con Bruxelles su quanto, come e con che scusa risarcire i piccoli risparmiatori coinvolti: gente che aveva investito i suoi soldi in titoli ritenuti sicuri e la cui natura fu, nel caso dei bond subordinati, di fatto cambiata dopo l’acquisto.

L’incredibile errore o l’incredibile malafede di Vestager e soci – che nel 2019 autorizzarono il salvataggio da 3,6 miliardi della NordLB di Amburgo con soldi pubblici “regionali” e 1 miliardo del Fondo interbancario tedesco – non può far dimenticare l’acquiescenza del nostro governo dell’epoca: incompetenza, subalternità culturale, conflitti di interessi e relativa coda di paglia ci condussero ad arrenderci senza sparare neanche un colpo.

Già un anno fa, dopo la sentenza della Corte di Giustizia confermata ieri contro il ricorso di Bruxelles, in molti pretendevano i danni dalla Commissione. Una posizione che si è rafforzata ieri: i vertici di Pop Bari, ovviamente, i risparmiatori salassati e, sul fronte politico, Lega e M5S. Edoardo Gambaro dello studio legale Greenberg Traurig Santa Maria, che rappresenta Popolare di Bari, la mette così: “La Corte di giustizia Ue conferma, implicitamente, che l’interpretazione della Commissione era errata ed è innegabile che tale interpretazione abbia creato un danno al sistema bancario italiano”. Quell’errore “è costato miliardi al nostro Paese, oltre ai danni patrimoniali e morali inflitti a centinaia di migliaia di famiglie”, dice Letizia Giorgianni, presidente dell’Associazione Vittime del Salva-banche.

Forse Pop Bari ha qualche speranza, ma per il resto è improbabile che Bruxelles paghi: intanto Vestager è ancora lì a gestire gli aiuti di Stato e l’ex ministro Padoan, com’è noto, si appresta a diventare presidente di Unicredit.

Intanto vanno a casa gli interinali

Senza far troppo rumore, nelle ultime settimane, in diversi stabilimenti italiani di Stellantis (cioè la ex Fiat Chrysler, oggi fusa coi francesi di Psa) hanno perso il lavoro quasi 300 precari.

Afine febbraio, a Mirafiori è stata mandata a casa buona parte dei 250 interinali assunti a fine 2020 per la linea della 500 elettrica; solo alcuni sono riusciti a farsi confermare ed essere dirottati sulla produzione delle mascherine sanitarie. Negli stessi giorni, alla Sevel di Atessa (Chieti), sono scaduti e non sono stati rinnovati i contratti di somministrazione di un’altra cinquantina di addetti, sostituiti con colleghi in trasferta da altri impianti.

È l’effetto diretto del massiccio utilizzo di cassa integrazione nella galassia ex Fca. Appena in una fabbrica torna l’ammortizzatore sociale, questo costringe a un rimescolamento di personale e a pagare il prezzo più alto sono i meno tutelati, i giovani “affittati” tramite le agenzie del lavoro. Un traffico che in Fca è molto frequente, legato all’altalenante andamento dei siti. Prendiamo il caso di Torino: qui alcuni mesi fa sono stati reclutati i 250 per la fase di lancio del nuovo modello elettrico. In una prima fase hanno contribuito alla costruzione di 298 vetture al giorno, ma nel giro di poco tempo il ritmo si è abbassato a 210. Poi è pure arrivata la nuova Cig che ha provocato la fermata della “Maserati Levante”. Una fetta di operai impegnati sul Suv è quindi stata spostata sulla 500 e così quasi tutti gli interinali hanno visto sfumare le speranze di rinnovo o stabilizzazione.

Come mai il nuovo stop? A detta dei vertici Stellantis, c’è una somma di fattori: il calo di mercato, come sempre, ma anche il ritardo nella fornitura di componenti dall’Asia. “Ecco perché va fatto un ragionamento anche sulla filiera – fa notare Ugo Bolognesi della Fiom – per farla diventare più corta e produrre componenti sul territorio”. L’altro ieri l’ad Carlos Tavares ha anche parlato di un “alto costo produttivo per gli stabilimenti italiani”. Ma “se gli impianti vengono usati al 50% della loro capacità, è ovvio che ogni auto ha un costo maggiore. Anche per questo serve un piano industriale che porti alla piena occupazione e all’ingresso di giovani”, dice Edi Lazzi, segretario dei metalmeccanici Cgil a Torino.

In Abruzzo, invece, sono stati messi alla porta in 47, e i sindacati hanno protestato indicendo per oggi uno sciopero di due ore previsto. Per mesi hanno lavorato sei giorni su sette, nella speranza di non essere lasciati a casa a fine contratto, ma nella scorsa settimana hanno scoperto che saranno rimpiazzati dai cosiddetti “trasfertisti”.

Fiat, Tavares ai sindacati: “In Italia costi troppo alti”

Torino

Produrre auto in Italia, negli stabilimenti che furono di Fiat e Fca, costa sino a quattro volte di più che in Francia e in Spagna. Parola di Carlos Tavares, l’amministratore delegato di Stellantis, il colosso dell’automotive nato poco più di un mese fa dopo l’acquisizione da parte di Psa-Peugeot del gruppo costruito da Sergio Marchionne.

Una campana a morto per la produzione in Italia e, soprattutto, per l’occupazione negli stabilimenti dell’ex impero della famiglia Agnelli? Non è detto e, anzi, è possibile intravedere spiragli, se solo si presta attenzione a ciò che Tavares aveva promesso al momento della fusione di Peugeot con Fca (“ci impegniamo a non chiudere impianti in Europa”), ma soprattutto a ciò che ha detto ai delegati sindacali di Mirafiori e della ex Bertone di Grugliasco, durante una visita improvvisa.

Il principale problema di Stellantis in Italia infatti, per il manager franco-portoghese, non sarebbe tanto il costo del lavoro, inferiore addirittura a quello francese, ma invece l’incapacità dei volumi di auto che escono dagli stabilimenti ex Fca – e dunque delle vendite – di coprire i costi industriali legati all’energia, alle spese per ricerca e sviluppo e per l’ammortamento delle tecnologie e delle strutture degli impianti.

Ma torniamo all’inizio. Lunedì 22 febbraio, Tavares ha visitato gli stabilimenti di Mirafiori e di Grugliasco, come aveva già fatto per Cassino e Melfi, accompagnato dal presidente di Stellantis, John Elkann. Un gesto non solo formale, per un manager nuovo e che deve varare il piano dell’intero gruppo. Subito dopo, però, con una scelta che ha ricordato il primo Marchionne, ha voluto incontrare i delegati di tutte le sigle sindacali; questa volta da solo e con l’unica intermediazione di un interprete.

E tra lo stupore di chi lo ascoltava, il manager ha snocciolato confronti del tutto inaspettati: produrre il Suv Maserati “Levante”, per esempio, ha costi industriali diretti per 3.300 euro a veicolo, le berline “Ghibli” e “Quattroporte” per 6.000 euro. In Francia, invece, la “DS 7 Crossback”, allestita a Mulhouse, costa solo 1.400 euro. Quanto alla “500 elettrica”, il fiore all’occhiello del rilancio di Mirafiori, la cifra è di 1.200 euro, rispetto ai 500 euro della “Opel Corsa” elettrica, prodotta a Saragozza.

Numeri sui quali, nello scorso fine settimana, la rivista online statunitense Automotive News ha chiesto conferme a Stellantis, a esperti del settore e ai sindacati (come Fim Cisl). Ricevendo un’analisi che indica nel 75-80% la spesa dei materiali per produrre, mentre il resto delle voci si ricompone sempre secondo un valore di circa il 5% per ogni capitolo: il costo del lavoro appunto, le forniture energetiche, gli ammortamenti di ricerca e sviluppo, di tecnologie e di strutture. Esclusa la manodopera, dunque, un 15% circa di costi per vettura. Con un brutto “inciampo”, infine, legato ai volumi prodotti, come hanno confermato le fonti aziendali: “Se si costruisce la metà del volume previsto per un modello, il valore di quei costi raddoppia, se se ne costruisce un quarto, si quadruplica”.

Una realtà negativa che si può riscontrare proprio a Mirafiori e ancora di più a Grugliasco. Nella ex Bertone (1.149 operai), nel 2012 Fca aveva investito 500 milioni di euro per i nuovi modelli, con una previsione di 30 mila veicoli prodotti ogni anno. Una cifra superata solo nel 2014 (36.100 unità), ma nel 2020 sono state allestite appena 6.676 unità. Nello stesso periodo, invece, dallo storico ed enorme Fiat Mirafiori (7 mila impiegati e quasi 10.000 operai, di cui solo una piccola parte esce dalla cassa integrazione), sono state prodotte 11.018 Maserati “Levante”, 19.008 “Nuova 500” e 19.000 “500” elettriche.

L’ultima sorpresa della “narrazione” di Tavares, anche questa non del tutto negativa per il futuro occupazionale, è arrivata riguardo al livello tecnologico degli impianti. In qualche caso, per così dire, persino troppo “elevato” e non in grado di garantire, qualora i francesi decidessero di portare in Italia le linee del loro “segmento C” (i suv), una sorta di “flessibilità” a basso costo. Come dire: è più economico far cambiare modo di lavorare agli uomini piuttosto che ai robot.

Gli elementi del piano di Stellantis per l’Italia sembrano dunque delinearsi almeno un po’: non per forza meno lavoratori, ma risparmi su energia, ricerca e sviluppo, investimenti “giusti” e mirati sull’adeguamento tecnologico. “Qualcosa che avverrà però molto in fretta – commenta Giorgio Airaudo, segretario regionale della Fiom Cgil – e che, questa volta, non dovrebbe più vedere inattivo il governo italiano, anche nell’ottica di pensare una parte del Recovery Plan orientata sulla filiera dell’automotive, con particolare attenzione all’ambiente, alla ricerca e alle infrastrutture per quanto riguarda le nuove energie, a cominciare dall’elettrico. In cambio di garanzie occupazionali e di un futuro produttivo in Italia”.

Se non accadesse, allora è molto probabile che anche Tavares sarebbe costretto ad affidarsi prima agli ammortizzatori sociali e, per finire, alla riduzione del costo del lavoro.

Palazzo di Londra.“Pure la segreteria di Stato sapeva”

Sono arrivate in Vaticano le carte bancarie svizzere sull’affare del palazzo londinese di Sloane Avenue. Le avevano chieste per rogatoria alla Confederazione elvetica, a fine 2019, le autorità giudiziarie vaticane che stanno indagando sulle operazioni immobiliari del finanziere Raffaele Mincione. È colui che “ha maggiormente beneficiato” dell’affare del palazzo di Londra, che ha causato un danno “ingente” al patrimonio della Santa Sede, quantificabile in “non meno di 300 milioni di euro”.

Ora il Tribunale federale svizzero ha accolto definitivamente la richiesta vaticana e ha mandato a Roma la documentazione bancaria sui conti di Mincione e di una serie di società a lui collegate. Ha inoltre confermato il blocco dei conti correnti utilizzati per l’affare. I giudici elvetici affermano che, “data la natura dei reati contestatigli, tutta la documentazione bancaria litigiosa deve essere messa a disposizione dell’autorità rogante, anche in relazione a operazioni intervenute prima dell’operazione immobiliare londinese”.

La rogatoria conferma che “l’operazione è stata effettuata in complicità con funzionari della Segreteria di Stato” vaticana e ricapitola le cifre dell’affare: “A fronte di un esborso pari a 250 milioni di euro, la Segreteria di Stato si trova oggi proprietaria di un immobile che sulla carta varrebbe 260 milioni di euro, ma per assicurarsi la piena proprietà del quale avrà sostenuto un costo pari a oltre 360 milioni di euro”. A questa cifra si devono aggiungere le ulteriori somme che Mincione ha ricevuto “per mezzo delle sue società”, tra cui “circa 243 mila euro non pagati da società della moglie” per gli affitti del palazzo di Sloane Avenue.

Nel luglio 2020, a Mincione erano stati sequestrati dalle autorità vaticane i suoi cellulari, dopo che un altro finanziere coinvolto nell’operazione, Gianluigi Torzi, era stato addirittura arrestato e rinchiuso per una decina di giorni in una cella vaticana con vista su San Pietro.

La vicenda era iniziata nel 2014, quando Mincione era stato coinvolto negli affari vaticani da Enrico Crasso, allora funzionario di Credit Suisse e collegamento tra la banca svizzera e il Vaticano. Mincione propone al cardinale Giovanni Angelo Becciu, allora sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato vaticana, di investire i soldi vaticani in un suo fondo lussemburghese che a sua volta investe al 45 per cento in azioni e obbligazioni che interessano a Mincione (Bpm, Carige, Fiber, Retelit…) e al 55 per cento in immobili: nell’ormai famoso palazzo al numero 60 di Sloane Avenue, a Londra, ex sede dei magazzini Harrods.

Gli investimenti finanziari si rivelano però un bagno di sangue. Il Vaticano perde decine di milioni. Nel novembre 2018, Mincione esce di scena passando la palla dell’affare a Gianluigi Torzi. Finché il papa toglie a Becciu la porpora cardinalizia e i promotori di giustizia vaticani aprono un’inchiesta in cui contestano a vario titolo accuse di estorsione, peculato, truffa aggravata, autoriciclaggio. Oltre a Mincione e Torzi, sono indagati anche alcuni responsabili dell’amministrazione vaticana, tra cui monsignor Alberto Perlasca e Fabrizio Tirabassi. Ora le carte svizzere dovranno chiarire tutti i passaggi dell’affare.

Cosche e Vaticano: 15 milioni della sanità per i “mafia bond”

Dagli affari vaticani ai “mafia bond” della ’ndrangheta, passando per una truffa da 15 milioni ai danni della società di mutuo soccorso in ambito sanitario Cesare Pozzo con sede a Milano fondata nel 1887. A corredo, una pletora di imprenditori calabresi legati tra loro e alcuni, secondo il procuratore Francesco Greco, vicini alle cosche, i quali attraverso un risiko di false fatture hanno drenato milioni di euro dai conti della Cesare Pozzo grazie – è l’ipotesi dell’accusa – alla connivenza di Ferdinando Matera e Armando Messineo, rispettivamente ex procuratore speciale e presidente del Cda della società di mutuo soccorso. Il caso è scritto in 60 pagine di ordinanza con le quali ieri il gip ha confermato 11 misure cautelari (6 ai domiciliari) con accuse che vanno dall’associazione a delinquere alla truffa, disponendo il sequestro di 16 milioni. L’inchiesta, coordinata dai pm Giordano Baggio e Carlo Scalas, è stata condotta dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Milano.

Tra i protagonisti anche due nomi noti delle vicende giudiziarie vaticane come il broker molisano Gianluigi Torzi e l’avvocato crotonese Nicola Squillace. Entrambi risultano indagati nell’inchiesta di Milano, mentre Torzi è coinvolto anche nell’opaco acquisto di un palazzo di Londra con denaro del Vaticano. Tornando all’indagine di ieri: le operazioni per l’acquisto di 15 milioni si consumano tra il 2017 e il 2018 e vengono portate avanti dal duo Matera-Messineo sotto la regia, scrive il gip, dell’avvocato Squillace con Torzi come broker per l’acquisto “di obbligazioni lussemburghesi” che rientrano per la loro caratteristica nella definizione di “mafia bond” come descritta in un articolo del Financial Times di luglio. Il giornale inglese aveva svelato la presenza sul mercato di un miliardo di questi titoli, ricavati da obbligazioni costituite con crediti vantati da società private del Sud Italia nei confronti delle rispettive aziende sanitarie. Società private che sarebbero riconducibili alla ’ndrangheta. Agli atti dell’indagine di Milano: settembre 2017, si attiva un comitato d’affari, probabilmente inconsapevole della presunta provenienza mafiosa dei titoli, composto dai due manager della Cesare Pozzo e da una cerchia di broker collegati a Torzi. Vengono smobilitati 15 milioni per l’acquisto di obbligazioni lussemburghesi Csj Healthcare 4% emesse dalla società anonima B Securitization. Scrive il gip: “L’operazione viene ascritta al genus della cartolarizzazione, in questo caso avente a oggetto crediti sanitari vantati da Istituti di cura nei confronti di Aziende Sanitarie pubbliche del Sud Italia”. I crediti di queste società, la cui provenienza mafiosa sarà oggetto di approfondimento, finiscono a due società “veicolo”, che emettono “i titoli negoziabili sui mercati internazionali”, poi “collezionati” dall’anonima B Securitization rappresentata dalla Beaumont Invest Service del broker vaticano Torzi che li vende alla Cesare Pozzo.

C’è in questo un problema. Spiega il giudice: “L’azienda cedente a monte non deve fornire alcuna garanzia alla società veicolo in caso di mancato pagamento da parte dei debitori”. Risultato, se il credito risulta inesigibile, in quanto ad esempio la società privata è legata alla mafia, l’acquirente finale, in questo caso la Cesare Pozzo, rischia concretamente di non ricevere gli interessi della cedola e soprattutto di non recuperare il capitale. Un rischio enorme taciuto tra i tanti (ad esempio l’assenza di rating) da Matera e Messineo ai membri del Cda i quali hanno così sporto querela nel 2019. Nel verbale del Cda del 2017 Messineo e Matera illustravano l’operazione come “acquisto di obbligazioni garantite da debiti contratti dallo Stato di certa esazione”. L’inchiesta spiega poi come le risorse della Cesare Pozzo siano finite nelle tasche di un gruppo di imprenditori coordinato dal crotonese Fausto Lopez, soprannominato “Papi”, attraverso fatture per operazioni inesistenti. La società Pandora Innovation srl rappresentata dall’indagato Mirko Faga ha ottenuto pagamenti dalla Cesare Pozzo per 3 milioni. Alcuni soggetti, spiega Greco, “titolari di aziende” sono “risultati contigui ad ambienti della criminalità organizzata”. A Matera è contestato l’uso di carte prepagate in qualità di procuratore del Fondo Salute Sce: 641mila euro in tre anni “per pagare night club e beni di lusso”. Bella vita e quadri d’autore, come due opere di Mimmo Rotella finite in una finta “compravendita” tra Ferdinando Matera e una società del gruppo di Gianluigi Torzi.

Video-colloqui tra i boss al 41-bis e i figli minori: lo deciderà la Consulta il 9 marzo

Il divieto per i detenuti al 41-bis, mafiosi e terroristi, di avere, in tempo di Covid, colloqui con i figli minori via Skype sarà al vaglio della Corte costituzionale il 9 marzo. Il ricorso è del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, che ha accolto l’eccezione di incostituzionalità presentata dalla difesa di un boss sottoposto al carcere duro, a cui era stato vietato un video-colloquio via Skype con la figlia di 5 anni. A causa della pandemia, per quanto riguarda i colloqui dei detenuti al 41-bis, il decreto Bonafede del 10 maggio 2020 prevede che quelli in presenza siano sostituiti da colloqui telefonici. Invece, per i detenuti comuni, al posto delle visite ci possono essere colloqui-video. Secondo il tribunale reggino il divieto di video-colloqui per i detenuti al 41-bis, esteso anche a quelli con i figli minori, sancisce una disparità di trattamento con i figli sotto i 18 anni dei detenuti comuni. Ci sarebbe anche una “lesione di diritti inviolabili dei minori stessi, come quello di intrattenere rapporti affettivi con i familiari detenuti, idonei a garantire un corretto sviluppo della loro personalità e una condizione di benessere psico-fisico del minore”. I giudici denunciano perciò la violazione di una serie di norme della Costituzione (articoli 2, 3, 30 e 31 oltre che l’articolo 27), perché fondamentale “per il recupero sociale del reo è il mantenimento dei rapporti familiari e soprattutto genitoriali”. Sarebbe leso anche l’articolo 117 della Costituzione, in riferimento agli articoli 3 e 8 della Carta europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che vietano pene inumane e degradanti e garantiscono il rispetto alla vita familiare.

La questione è molto più complessa di quanto possa apparire, proprio perché si parla di minorenni e della loro tutela. Ma in questi anni ci sono stati alcuni casi in cui, durante colloqui dal vivo, figli minori anche molto piccoli sono stati usati senza alcuno scrupolo per passare “pizzini” ai padri detenuti al 41-bis. È vero che in questo caso si parla di video-colloqui, ma diversi inquirenti sostengono che sarebbe impossibile per gli agenti della polizia penitenziaria controllare che eventuali conversazioni via Skype con i figli minori non servano a qualche boss detenuto per dare e avere messaggi con i segni, magari grazie al genitore o qualcun altro che sta accanto al minore.

Voto di scambio, a giudizio deputato Sammartino (Iv)

Sarà processato per corruzione elettorale il deputato regionale siciliano Luca Sammartino, eletto nel 2017 nelle file del Pd e poi passato alla corte di Matteo Renzi in Italia Viva. Secondo l’inchiesta della Procura di Catania e della Digos, il 36enne odontoiatra catanese avrebbe fatto carte false per procacciarsi i voti, a cavallo tra le Regionali del 2017 (dove raccolse 32mila preferenze) e le Politiche del 2018 (ottenne 16mila voti). Tra i diversi episodi di scambio elettorale contestati a Sammartino ci sarebbero le promesse di assunzioni, raccomandazioni per promozioni e trasferimenti in alcune aziende. Gli inquirenti hanno setacciato il cellulare del deputato renziano, analizzando circa 390mila messaggi, chat e video. Sammartino è indagato per voto di scambio anche in un’altra vicenda, quella con Girolamo Lucio Brancato, considerato esponente del clan mafioso dei Laudani. La Procura di Catania però non contesta l’aggravante mafiosa.