Erano i giorni caotici delle consultazioni del 2018, quando Sergio Mattarella meditava di dare un pre-incarico a deputato Giancarlo Giorgetti, esponente della parte “moderata” del Carroccio, legato all’Europa anche attraverso il rapporto personale con Mario Draghi. Dopo due anni e mezzo e due governi, Giorgetti è una figura centrale nell’esecutivo dell’ex presidente della Bce. Dato non secondario nella ricomposizione del quadro politico in atto: il progetto implicito di chi questo esecutivo lo ha voluto è anche quello di privilegiare gli aspetti meno radicali delle forze politiche. Se Matteo Renzi sta defilato, ma non fa certo mistero del suo rapporto con Matteo Salvini e i Cinque Stelle sono totalmente assorbiti dal tentativo di trovare uno sbocco alla loro crisi interna, la Lega tende a prendersi tutto lo spazio politico (di lotta e di governo) a disposizione. Con il Pd che arranca alla ricerca non solo della sua “identità”, ma pure di un rapporto con il Carroccio che porti qualche vantaggio.
Il dialogo avviene secondo due filoni. Il primo (ma anche il più superficiale per le dinamiche complessive) è quello tra il segretario dem, Nicola Zingaretti e Salvini. I due si sono incontrati il 15 febbraio, a giuramento del governo appena avvenuto. E hanno messo in campo una sorta di patto di non accoltellarsi alle spalle reciprocamente. Entrambi sono fuori dal governo, entrambi in questa fase rappresentano la linea “perdente” all’interno dei loro partiti. Zinga ha spinto fino alla fine sul Conte o voto, Salvini ha dovuto rimangiarsi sovranismo e anti-europeismo. C’è però un dialogo molto più profondo e costante. Giorgetti e Luigi Zaia, governatore del Veneto, da sempre parlano con i presidenti di Regione del Pd. Tanto che sono mesi che sotto traccia alcuni zingarettiani raccontano di un progetto targato Confindustria per portare Stefano Bonaccini alla guida del Pd e Zaia a quella della Lega. Non è certo passata inosservata la richiesta di riaprire i ristoranti anche a cena da parte del governatore dell’Emilia Romagna, in contemporanea con quella della Lega. Con l’esecutivo Draghi i canali, poi, di comunicazione si sono evidentemente moltiplicati. C’è un dialogo costante dei sindaci con i ministri leghisti. Per esempio, Dario Nardella, primo cittadino di Firenze, ha già iniziato una interlocuzione con il ministro del Turismo, Massimo Garavaglia. “Non c’è nessuna voglia di contiguità politica con la Lega, si tratta di una collaborazione istituzionale”, ci tiene a chiarire lui. Che però già si è fatto notare per aver proposto modifiche al codice degli appalti. Certo, la Lega ne propone la cancellazione, mentre lui sui limita a chiedere la sospensione delle norme che non sono previste dalle direttive comunitarie in materia di appalti.
Alcune convergenze tematiche che guardano a mondi simili ci sono. Se la Lega propone il “modello Genova” per tutte le opere pubbliche importanti, la maggior parte dei sindaci del Pd comunque crede che per alcune la figura del sindaco-commissario sia necessaria. Declinare il rapporto tra due partiti antagonisti per definizione non è semplice. Anche se a livello parlamentare, dem e leghisti hanno sempre collaborato, soprattutto sui temi fiscali ed economici. Per esempio, sulla semplificazione del sistema fiscale e sulla necessità di rimodulare l’Irpef, per renderla davvero un’imposta progressiva. Due proposte simili sono state presentate sulla riforma tributaria. Non solo. Anche se i dem si sono sempre detti contrari ai condoni, la Rottamazione 1 e 2, così come la voluntary disclosure sono stati fatti da governi Pd.
Oggi, soprattutto tra i dem, si nega una ricerca di collaborazione politica con il Carroccio, che vada oltre l’esigenza di un’organizzazione a livello di governo e di lavoro nelle Commissioni. Ma negli anni passati c’erano anche parlamentari del partito “dedicati” anche ad avere rapporti con il Carroccio. Primo su tutti Daniele Marantelli. Perché poi il tema non è solo guardare al Nord imprenditoriale, ma anche a quello più disagiato. Ieri nel Pd c’è stata l’ennesima puntata della sagra del congresso (che per ora parrebbe fissato definitivamente al 2023) con un’assemblea di Base Riformista. Ragionava il coordinatore, Alessandro Alfieri: “Non possiamo lasciare alla Lega il tema della crescita che serve ad allargare la torta per sanare le diseguaglianze sociali che sono cresciute con il Covid”. I percorsi si moltiplicano.