Il piano di Confindustria per il partito demoleghista

Erano i giorni caotici delle consultazioni del 2018, quando Sergio Mattarella meditava di dare un pre-incarico a deputato Giancarlo Giorgetti, esponente della parte “moderata” del Carroccio, legato all’Europa anche attraverso il rapporto personale con Mario Draghi. Dopo due anni e mezzo e due governi, Giorgetti è una figura centrale nell’esecutivo dell’ex presidente della Bce. Dato non secondario nella ricomposizione del quadro politico in atto: il progetto implicito di chi questo esecutivo lo ha voluto è anche quello di privilegiare gli aspetti meno radicali delle forze politiche. Se Matteo Renzi sta defilato, ma non fa certo mistero del suo rapporto con Matteo Salvini e i Cinque Stelle sono totalmente assorbiti dal tentativo di trovare uno sbocco alla loro crisi interna, la Lega tende a prendersi tutto lo spazio politico (di lotta e di governo) a disposizione. Con il Pd che arranca alla ricerca non solo della sua “identità”, ma pure di un rapporto con il Carroccio che porti qualche vantaggio.

Il dialogo avviene secondo due filoni. Il primo (ma anche il più superficiale per le dinamiche complessive) è quello tra il segretario dem, Nicola Zingaretti e Salvini. I due si sono incontrati il 15 febbraio, a giuramento del governo appena avvenuto. E hanno messo in campo una sorta di patto di non accoltellarsi alle spalle reciprocamente. Entrambi sono fuori dal governo, entrambi in questa fase rappresentano la linea “perdente” all’interno dei loro partiti. Zinga ha spinto fino alla fine sul Conte o voto, Salvini ha dovuto rimangiarsi sovranismo e anti-europeismo. C’è però un dialogo molto più profondo e costante. Giorgetti e Luigi Zaia, governatore del Veneto, da sempre parlano con i presidenti di Regione del Pd. Tanto che sono mesi che sotto traccia alcuni zingarettiani raccontano di un progetto targato Confindustria per portare Stefano Bonaccini alla guida del Pd e Zaia a quella della Lega. Non è certo passata inosservata la richiesta di riaprire i ristoranti anche a cena da parte del governatore dell’Emilia Romagna, in contemporanea con quella della Lega. Con l’esecutivo Draghi i canali, poi, di comunicazione si sono evidentemente moltiplicati. C’è un dialogo costante dei sindaci con i ministri leghisti. Per esempio, Dario Nardella, primo cittadino di Firenze, ha già iniziato una interlocuzione con il ministro del Turismo, Massimo Garavaglia. “Non c’è nessuna voglia di contiguità politica con la Lega, si tratta di una collaborazione istituzionale”, ci tiene a chiarire lui. Che però già si è fatto notare per aver proposto modifiche al codice degli appalti. Certo, la Lega ne propone la cancellazione, mentre lui sui limita a chiedere la sospensione delle norme che non sono previste dalle direttive comunitarie in materia di appalti.

Alcune convergenze tematiche che guardano a mondi simili ci sono. Se la Lega propone il “modello Genova” per tutte le opere pubbliche importanti, la maggior parte dei sindaci del Pd comunque crede che per alcune la figura del sindaco-commissario sia necessaria. Declinare il rapporto tra due partiti antagonisti per definizione non è semplice. Anche se a livello parlamentare, dem e leghisti hanno sempre collaborato, soprattutto sui temi fiscali ed economici. Per esempio, sulla semplificazione del sistema fiscale e sulla necessità di rimodulare l’Irpef, per renderla davvero un’imposta progressiva. Due proposte simili sono state presentate sulla riforma tributaria. Non solo. Anche se i dem si sono sempre detti contrari ai condoni, la Rottamazione 1 e 2, così come la voluntary disclosure sono stati fatti da governi Pd.

Oggi, soprattutto tra i dem, si nega una ricerca di collaborazione politica con il Carroccio, che vada oltre l’esigenza di un’organizzazione a livello di governo e di lavoro nelle Commissioni. Ma negli anni passati c’erano anche parlamentari del partito “dedicati” anche ad avere rapporti con il Carroccio. Primo su tutti Daniele Marantelli. Perché poi il tema non è solo guardare al Nord imprenditoriale, ma anche a quello più disagiato. Ieri nel Pd c’è stata l’ennesima puntata della sagra del congresso (che per ora parrebbe fissato definitivamente al 2023) con un’assemblea di Base Riformista. Ragionava il coordinatore, Alessandro Alfieri: “Non possiamo lasciare alla Lega il tema della crescita che serve ad allargare la torta per sanare le diseguaglianze sociali che sono cresciute con il Covid”. I percorsi si moltiplicano.

Mano libera per i governatori. E l’Italia è sempre più spaccata

La chiusura delle scuole è prevista solo nelle zone rosse ed è un provvedimento eccezionale”. Eppure, di fatto, la decisione, contenuta nel Dpcm firmato ieri, sembra legittimare la scelta di molte Regioni di fare come vogliono nonostante quel “parametro uniforme” (250mila contagi su 100mila abitanti) identificato dalla ministra per gli Affari regionali, Mariastella Gelmini. Il divario del Paese è destinato ad allargarsi. Ma andiamo con ordine: dal 6 marzo, nelle zone rosse è prevista la sospensione della didattica in presenza per ogni ordine e grado, comprese le scuole dell’infanzia ed elementari. Si lascia però ai “presidenti delle regioni – si legge nella nota di Palazzo Chigi – di poter disporre la sospensione dell’attività scolastica sia nelle aree in cui abbiano adottato misure più stringenti per via della gravità delle varianti, sia nelle zone in cui vi siano più di 250 contagi ogni 100mila abitanti nell’arco di 7 giorni, sia nel caso di una eccezionale situazione di peggioramento del quadro epidemiologico”. Tradotto: se prima in zona rossa veniva garantita quanto meno l’apertura delle scuole dell’infanzia e delle elementari, adesso invece i bambini dovranno stare a casa. In più, alle Regioni è lasciato campo libero: “Viene lasciata una discrezionalità ai governatori sui contagi nei loro territori” ha ribadito la Gelmini. Le decisioni dovranno essere “motivate”, si legge nel Dpcm, ma non sono indicati parametri di riferimento per tali motivazioni. Si annuncia invece l’arrivo di 200 milioni di euro per i congedi parentali nel dl Sostegno, il nuovo nome dato al decreto Ristori. L’equazione è semplice: se tieni i ragazzi più piccoli a casa, dovrà rimanere con loro o un genitore o un babysitter e alle famiglie dovranno essere garantiti risotri e congedi. Ad oggi, l’idea circolata era riservare le misure di sostegno solo per un genitore degli under 14 delle zone rosse dichiarate tali da un’ordinanza del ministero della Salute. Resterebbero così fuori le aree in cui si applica la discrezionalità degli enti locali.

Aumenteranno ancora di più le ore in didattica a distanza e si continua a premere sulla possibilità di spostare in avanti la fine dell’anno scolastico. “Ritengo che ci sarà bisogno di un’ulteriore riflessione sull’ipotesi di un eventuale prolungamento – ha detto ieri il ministro della Salute, Roberto Speranza, riferendosi al maggiore impatto che sembra avere la variante inglese sulle generazioni più giovani –. Non si trasforma in sintomatologia grave, ma diffonde il contagio”.

Il Paese, insomma, è destinato a spaccarsi ancora di più. Ieri, i dati diffusi da Save the Children, hanno fotografato la perdita nel mondo di 112 miliardi di giorni di istruzione, 74 giorni in media ad alunno, più di un terzo dell’anno scolastico. Per l’Italia è emerso che al Nord i ragazzi sono andati a scuola il doppio rispetto ai ragazzi del Sud: da settembre 2020 a fine febbraio 2021, i bambini delle scuole dell’infanzia a Bari, per esempio, hanno potuto frequentare di persona 48 giorni sui 107 previsti, contro i loro coetanei di Milano che sono stati in aula tutti i 112 giorni. Gli studenti delle scuole medie a Napoli sono andati a scuola 42 giorni su 97 mentre quelli di Roma sono stati in presenza per tutti i 108 giorni. Per quanto riguarda le scuole superiori, a Reggio Calabria sono stati in presenza per 35,5 giorni su 97, i loro coetanei di Firenze 75 su 106. A Napoli solo 27 giorni contro gli 80 di Roma e i 61 di Milano.

Ancora una volta, la decisione di stringere sulla scuola non convince: “Sarebbe strano tornare alla didattica a distanza e poi rivedere negozi e centri commerciali pieni di persone”, ha detto ieri il presidente dell’Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli. Un concetto che è stato ribadito anche da Italia Viva e dal Movimento 5 Stelle.

L’Europa cerca il pass vaccinale, ma la Campania lo ha già trovato

“Un pass digitale verde per tornare a viaggiare”. Lo chiama così la presidente della commissione europea Ursula von der Leyen, annunciando l’impegno dell’Ue per dotare i cittadini vaccinati europei di un lasciapassare continentale. Proprio nel giorno in cui il governatore della Campania Vincenzo De Luca può annunciare: “Si è detto del passaporto sanitario, noi abbiamo già distribuito le prime 100mila card di avvenuta vaccinazione. Per quelli che hanno fatto le due dosi di vaccino abbiamo dato una tessera con microchip, che garantisce l’anonimato ma che, avvicinato al cellulare, può certificare dove e quando è avvenuta la vaccinazione. Stamperemo altre 4milioni di card, credo possa essere una cosa importante”.

E così la card realizzata dalla multinazionale americana Hid Global, con sede italiana ad Arzano, può diventare per l’Europa il “modello Campania”. La Regione ha contattato l’azienda a dicembre per chiedere la realizzazione di un certificato vaccinale di tipo digitale a basso costo e su standard internazionali, verificabile da qualsiasi dispositivo mobile senza bisogno di installare alcuna applicazione. Le prime 100 mila tessere agli operatori sanitari vaccinati già con la seconda dose, dotate di microchip, sono addirittura già state distribuite e realizzate dalla stessa multinazionale come progetto pilota, adesso però l’appalto sarà messo a gara e poi gli “inventori” cederanno la licenza a chi vincerà.

La privacy delle persone, argomento dibattuto anche in Unione europea, dovrebbe essere garantita – anche se l’Autorità italiana chiede una legge nazionale – da questo sistema la cui utilità può essere estesa, ad esempio, dall’ingresso sui mezzi pubblici (per altro la card è realizzata sullo stesso dispositivo di Unico Campania proprio sul sistema dei trasporti) al biglietto del teatro o dello stadio: c’è già un interesse di TicketOne per associare i tagliandi al bar code, cioè ogni biglietto personale sarà rilasciato facilmente a chi ha la card e a essa associato senza bisogno di ulteriori controlli ai tornelli.

L’Unione europea forse potrebbe aver trovato a Napoli, quindi, il sistema digitale che possa permettere il ritorno alla libertà di viaggiare anche in vista dell’estate atteso da tutti gli Stati, come spiega il ministro del turismo spagnolo Reyes Maroto: “È importante preparare gli strumenti per riavviare la mobilità e rendere di nuovo l’Europa una destinazione di viaggio sicura non appena i dati sull’incidenza del virus lo consentiranno”.

Sulla scuola è un “Dpcm-Pilato”. Triplicati i casi di variante inglese

Le varianti corrono, quella inglese è ormai “prevalente”, ha triplicato dal 17,8 al 54% tra il 5 e il 18 febbraio. Aumentano i contagi (+33% nell’ultima settimana) e i malati in terapia intensiva (+8,4% in 7 giorni). Così il compagno Roberto Speranza si è ritrovato a Palazzo Chigi con l’azzurra Mariastella Gelmini per illustrare il primo Dpcm di Mario Draghi, che a differenza di Giuseppe Conte non si è fatto vedere: il ministro della Salute ha reso omaggio a Domenico Arcuri, rimosso da Draghi senza neppure avvisare; la ministra degli Affari regionali di Forza Italia ogni tre parole ha detto “discontinuità”. Ma resta un po’ tutto come prima e speriamo che basti.

La principale novità è la chiusura obbligatoria delle scuole dalla materna alle superiori nelle regioni rosse e dove i contagi, anche a livello provinciale o comunale, superino i 250 a settimana ogni 100 mila abitanti (al momento, secondo i dati quotidiani, siamo a 204, cinque regioni sopra i 250); solo facoltativa dove ci sono restrizioni locali in genere legate alle varianti più infettive, capaci anche di radicarsi tra gli under 20. L’ha raccomandato il Comitato tecnico scientifico in base allo studio dell’Istituto superiore di sanità che documenta l’aumento dei casi tra i giovanissimi da metà gennaio. Le restrizioni locali sono ormai centinaia: da domani sono rosse anche Bologna e Modena. Governo nuovo, problemi vecchi: anche stavolta nessun intervento di rilievo sui trasporti pubblici. E i centri commerciali resteranno aperti, salvo le regioni rosse, anche dove chiuderanno le scuole. Sempre in zona rossa stop a barbieri, parrucchieri e centri estetici; non si potrà più andare in visita da parenti e amici né nelle seconde case. Però in zona gialla, se tutto andrà bene, dal 27 marzo i musei saranno aperti anche nei weekend e riapriranno cinema e teatri. Per il resto il Dpcm, che entra in vigore sabato 6 marzo, durerà fino al 6 aprile, che è il martedì dopo Pasqua.

Ieri Speranza e poi Gelmini hanno visto l’ingegner Fabrizio Curcio e il generale Francesco Paolo Figliuolo, scelti rispettivamente da Draghi per la Protezione civile e per l’incarico di commissario Covid, sia pure con un mandato che non dovrebbe estendersi ai contratti come quello di Arcuri. Un’ora di colloquio con il ministro della Salute per cominciare a prendere le misure al piano vaccinale: venerdì se ne discuterà con le Regioni. Sono state iniettate 4,5 milioni di dosi, 1,4 milioni di persone hanno avuto anche le seconde. Molte Regioni sono indietro. Protezione civile e forze armate si aggiungeranno al personale delle Asl, ai 42 mila medici di famiglia che rientrano nell’accordo firmato da Speranza, ai circa 7 mila medici e infermieri (meno dei 12 mila previsti) reclutati dalle agenzie interinali vincitrici del bando di Arcuri: l’obiettivo è arrivare a 400 mila somministrazioni al giorno tra aprile e giugno, quando le forniture dovrebbero aumentare anche con Johnson & Johnson. Una circolare da oggi autorizza la dose unica per chi ha già avuto il Covid, l’Aifa valuta se ritardare ancora le seconde dosi.

Ieri per la prima volta dal 6 gennaio abbiamo superato i 200 ingressi in terapia intensiva, sono stati 220: i malati gravi aumentano da due settimane. La sola variante inglese, con una maggiore trasmissibilità del 35-40%, è ormai “prevalente”, cioè al 54% dei contagi del 18 febbraio analizzati dall’Iss (è al 64% in Lombardia). Da allora sarà salita ulteriormente. Il presidente dell’Istituto, Silvio Brusaferro, ha spiegato che la variante brasiliana è al 4,3%, presente soprattutto in Umbria, Abruzzo, Marche e nel Lazio nel Frusinate e in misura minore a Roma: mostra, secondo alcuni studi, resistenza ai vaccini e casi di reinfezione, l’imperativo è “contenerla”. Quella sudafricana sarebbe diffusa solo in Alto Adige. C’è attenzione anche per la nigeriana. Diverse regioni passeranno almeno in arancione lunedì prossimo.

Ma il decreto bello sembra uguale a quelli brutti brutti di Giuseppe Conte

Orrore! Il Dpcm di Draghi somiglia terribilmente al Dpcm di Conte. Non solo è lo stesso strumento normativo – anche se tacciono le legioni di politici e giuristi in ansia per la tenuta democratica – ma sono proprio spiccicati: stessi colori, stessi paragrafi, stesse formulazioni, stesse parole, contenuti quasi identici. Gemelli separati alla nascita nella sostanza e tanto simili nella forma.

L’ultimo Dpcm contiano del 14 gennaio 2021 era di 29 pagine suddivise in 14 articoli più 25 allegati. Il primo Dpcm del governo dei migliori è di 38 pagine, però divise in 57 articoli molto più snelli, con meno commi, suddivisi a loro volta in 7 capi riassuntivi.

Per adesso la rivoluzione draghiana è una riorganizzazione degli spazi all’interno di un documento in pdf. Come in una casa, dove butti giù un tramezzo e lo ritiri su da un’altra parte, cambi la distribuzione, ma non aumenti la metratura. Il problema è che nell’edificio dell’Italia in pandemia c’è poco da inventarsi, lo stato dell’arte non consente rivoluzioni. L’ha detto il ministro della Salute (confermato) Roberto Speranza: “Il nuovo Dpcm mantiene l’impianto essenziale delle misure vigenti. Il principio guida è – ancora – la tutela della salute”. L’hanno detto in modo più brutale ma altrettanto efficace, dall’altra parte della barricata, i meloniani Ciriani e La Russa: “Sono misure da Conte ter, si prosegue a colpi di Dpcm, di chiusure e divieti”.

Però nel decreto draghiano il vecchio articolo 12 è spostato all’articolo 3; il vecchio articolo 5 è diviso a metà tra l’articolo 5 e l’articolo 6; il vecchio, lunghissimo articolo 1 è diluito nei nuovi articoli 1, 2, 7, 8, 9, 10, 11… ci sono scritte le stesse cose, ma vuoi mettere quanto si leggono meglio adesso?

Emeritocrazia

Non so voi, ma io sono seriamente preoccupato per l’emerito Sabino Cassese, scomparso dai radar da alcuni giorni: più o meno da quando, dopo l’annuncio “Mai più Dpcm, solo decreti”, si è saputo che Draghi stava per firmare il primo Dpcm, che conferma e anzi inasprisce l’ultimo di Conte. Sappiamo bene quali atroci sintomi provochi ciascun Dpcm al fisico del pur arzillo Cassese: arrossamenti cutanei, orticarie, eczemi, bolle, piaghe da decubito. Tant’è che si sospettava che quel diavolo di Conte ne sfornasse a getto continuo per farlo soffrire. “Basta Dpcm, ci vogliono i decreti legge!”, tuonava l’Emerito, dimentico del fatto che i decreti vengono convertiti in legge dal Parlamento dopo 50-60 giorni, quando in tempi di pandemia sono già stati superati da altri tre o quattro. “Chi ha scritto i Dpcm andrebbe mandato alla colonia penale, servirebbe la Siberia”, si accalorava. “Conte abusa dei Dpcm, siamo vicini all’usurpazione dei poteri, prima o poi interverrà la Consulta”, si spettinava tutto.

Poi in effetti la Consulta è intervenuta, per ben due volte, ma per dare ragione a Conte che aveva impugnato una legge regionale della Val d’Aosta in controtendenza con le sue misure anti-Covid. L’Emerito, prima di sparire nel nulla, ha commentato le due sentenze sul Corriere. Ma, siccome davano ragione a Conte, si è prodotto in un triplo salto mortale carpiato con avvitamento: “Più che la regione, è stato bocciato il governo stesso”. Che ha, sì, visto accolto il suo ricorso, ma “aveva imboccato la strada sbagliata, nonostante fosse stato messo sull’avviso” (ovviamente da lui). Quindi è ufficiale: quando la Consulta dà ragione a Conte, Conte ha torto. Ora però il governo Draghi – buono per definizione perché non è presieduto da Conte e recluta protégé di Cassese come se piovesse (da Mattarella jr. alla Cartabia) – ha un’ottima occasione per rimediare. Come? “Condividendo dati e valutazioni con la conferenza Stato-regioni, preparando insieme le decisioni e monitorando congiuntamente la loro esecuzione”. Proprio come faceva Conte all’insaputa di Cassese. Peccato solo per quel Dpcm di Draghi, pressoché identico a quelli di Conte, anche se ora il premier lo firma ma finge che non sia roba sua: si chiamano Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, ma lui li fa illustrare da Speranza (manco fossero dei DpcS) e Gelmini (DpcG). E purtroppo, proprio quando servirebbe un Cassese con la consueta grinta per avviare anche Draghi alla colonia penale anzi in Siberia per abuso e usurpazione di poteri, l’Emerito scompare. Si chiami dunque Chi l’ha visto?, si mobiliti il soccorso alpino, si sciolgano i cani da valanga. O almeno un altro generale degli Alpini.

Sua Altezza Totò: “Un comico è chi fa guerra alla vita”

Debutta oggi sul “Fatto Quotidiano” la rubrica “Libro in gocce” di Giorgio Dell’Arti: appuntamento ogni martedì su queste pagine.

Coserellina. “A proposito di politica, ci sarebbe qualche coserellina da mangiare?” (in Fifa e arena).

Morte. “Il 13 aprile 1967 girò la scena di un film diretto da Nanni Loy, Il padre di famiglia, dove Totò interpretava il ruolo di un vecchio anarchico. La prima sequenza, girata in esterni, rappresentava un funerale. Il giorno successivo avrebbe dovuto girare di nuovo, ma si era alzato molto stanco, perciò fece avvertire che quel giorno non sarebbe andato a lavorare. Già dalla sera prima aveva provato un certo malessere… Nel pomeriggio lo tranquillizzarono: il cuore non dava problemi. Ma proprio la notte del 14 aprile il principe soffrì di atroci attacchi cardiaci, e, dopo i primi interventi di assistenza, si rese conto d’essere giunto alla fine. Si strappò il cannello dell’ossigeno e la siringa della flebo, dicendo ai medici: ‘Lasciatemi in pace’. Erano passate da poco le tre del mattino di sabato 15 aprile, e Antonio de Curtis spirò nel suo appartamento al numero 4 di via dei Monti Parioli”.Principe. Il 18 luglio 1945 il Tribunale di Napoli ammise che Totò, figlio di una cameriera analfabeta e di un marchese spiantato, aveva diritto di fregiarsi di nomi e titoli quali Antonio Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illyria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e di Durazzo.Retrocesso. In quarta elementare non solo lo bocciano, ma lo retrocedono in terza.Prete.Da bambino s’era messo in testa di fare il prete, serviva messa, teneva un altarino in camera. La madre: “Totò pazzeia a fa’ ’o prevete”. Un’amica della madre: “La faccia da prete non ce l’ha”.Ossa. “Un comico che fa ridere con le ossa, muovendo gli angoli più imprevisti dello scheletro. Si muove, nei momenti di parossismo, come si muovono sulla lavagna i quadrati costruiti sui lati del triangolo del teorema di Pitagora… A questa violentissima capacità di pantomima… si accompagna per contrasto l’alta mestizia degli occhi più disillusi del mondo. La bocca sorride e si illude, bonaria, gli occhi non credono alla favola gaia entro la quale vivono, il corpo balla e si scompone come nel grottesco di una danza macabra” (Orio Vergani).Elastico. Il Messaggero del 13 novembre 1922: “Totò, comico elastico”.Politici. Ai politici che gli chiedevano il voto. “Ma voi dimenticate che un sovrano non vota”.Altezza. Il 5 giugno del ’44 Totò incontra Zavattini in piazza San Pietro. Zavattini: “Buongiorno, Principe”. Totò: “La prego, Zavattini, ormai siamo in democrazia. Mi chiami pure Altezza”.Miseria. “Non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate, alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffellatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Insomma, non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita”.Pensatore. “Democrazia significa che ognuno può dire tutte le fesserie che vuole”.Notizie tratte da: Emilio Gentile, “Caporali tanti, uomini pochissimi. La storia secondo Totò”, Laterza

Che bellezza mangiare: Romano e Sorrentino svelano la loro dieta “BeautyFood”

Il filosofo Ludwig Feuerbach scrisse che l’uomo è ciò che mangia, sostenendo che è impossibile credere nel dualismo anima-corpo visto che siamo fatti di sola materia. Insomma, mangiare meglio dovrebbe far pensare di più, stare meglio e – perché no – far diventare più belli. Del resto, la bellezza esteriore è prima di tutto una questione di salute, come hanno scritto la dottoressa Pucci Romano, specialista in Dermatologia e Venereologia, e il professor Nicola Sorrentino, dietologo e idrologo medico, in BeautyFood. La dieta della bellezza. Come ci si riesce? La premessa è tanto chiara quanto disarmante: non esistono segreti, unguenti miracolosi o macchinari all’avanguardia in grado di garantire una pelle sana e luminosa. L’unico trucco è seguire un regime alimentare ricco di vitamine, sali minerali e antiossidanti che proteggono la cute, rigenerano e riparano i danni causati dallo stress e dallo scorrere del tempo.

Per averne conferma, basta chiedere alle nostre nonne come si fa ad avere una pelle bella (e con poche rughe) anche se si sono superati gli “anta” da un po’: bere un litro d’acqua (i suoi benefici partono dalla testa e arrivano fino alle gambe: se si è idratati ci saranno meno rughe e meno cellulite), prendere la giusta dose di sole, non fumare e mangiare sano. Che per un italiano è facilissimo: c’è la dieta mediterranea che ci accompagna da quando ci si affaccia al mondo alla vecchiaia, passando per la pubertà e la gravidanza.

Romano e Sorrentino sfatano anche i falsi miti, duri a morire: l’attività sessuale non guarisce l’acne, il cioccolato non fa venire i brufoli e, soprattutto, la “moda” del momento che porta le persone a eliminare il glutine dalla propria dieta, anche se non si è celiaci, conduce solo a un regime dietetico sbilanciato. Insomma, è attraverso spiegazioni scientifiche basate su studi e pubblicazioni internazionali che gli autori spiegano tutte le buone abitudini da seguire per restare in forma. E non ci sono scuse: nella seconda parte del libro c’è un ampio ricettario che combina scienza dell’alimentazione e cucina, ovvero la migliore medicina che abbiamo a disposizione. Intanto anche leggere è un buon metodo per perdere calorie: ogni 30 minuti se ne consumano 12.

I prevedibili Globe su Zoom: regine, tazzine e Pausini

Di che cosa parliamo quando parliamo di premi? Innanzitutto, di premi: ai 78esimi Golden Globes hanno trionfato The Crown tra le serie e Nomadland tra i film. Nulla di cui stupirsi, la prima ha contribuito al primato di Netflix, che incassa dieci riconoscimenti, il secondo fa storia: Chloe Zhao è la seconda donna, dopo la Barbra Streisand di Yentl, e il secondo asiatico, dopo Ang Lee, ad aggiudicarsi il Globo per la regia, e suo è il primo film con regia femminile a vincere, sia tra i drammi che le commedie.

Non è detto però, sebbene sia da considerare il favorito, che il Leone d’Oro di Venezia possa replicare agli Oscar, la cui Notte è fissata al 25 aprile: negli ultimi sei anni solo Moonlight e Green Book hanno centrato la doppietta Globes e Academy Awards, e per la regia la cinese Zhao ha il solo precedente di Kathryn Bigelow per The Hurt Locker. Eppure, Nomadland ha una carta decisiva da giocare al Dolby Theater: è l’unico tra i papabili a non essere espressione di un servizio streaming. Old but gold? Comunque sia, i riconoscimenti della stampa estera accreditata a Hollywood (Hfpa) sono stati più rilevanti per quanto hanno palesato, un sistema audiovisivo ridotto dalla pandemia a riunione su Zoom, e per quel che hanno cercato di occultare: la Hfpa è sotto accusa perché non annovera alcun nero tra gli 87 membri e per una certa permeabilità alle lusinghe e prebende di streamers e studios.

Sull’ultima questione la serata condotta da Tina Fey a New York e Amy Poehler a Los Angeles ha glissato, sulla prima Sacha Baron Cohen, premiato con e per Borat, ha affondato il colpo, Tina e Amy hanno scherzato, l’Hfpa ha convenuto con Morandi-Ruggeri-Tozzi che “si può dare di più”, e qualcosa in effetti ha già dato. In peggio: dopo aver snobbato buoni titoli black quali One Night in Miami, Ma Rainey’s Black Bottom, Judas and the Black Messiah e The United States vs. Billie Holliday nella categoria principale dei film drammatici, ha sparso a pioggia riconoscimenti agli interpreti afroamericani degli stessi, alcuni condivisibili, come per il compianto Chadwick Boseman di Ma Rainey’s, altri assai meno, da Andra Day a Daniel Kaluuya. Insomma, una riparazione perniciosa.

Ah, parliamo con i Globes anche di Italia: Laura Pausini spartisce con Diane Warren e Niccolò Agliardi gli allori della miglior canzone originale Io sì (Seen), ne La vita davanti a sé diretto da Edoardo Ponti e interpretato da Sophia Loren.

Whatever it takes Sanremo. Festival blindato e surreale

Volendo raccontare con una canzone l’atmosfera che si respira, con il filtro della mascherina Ffp2, al festival della canzone, è più Buongiorno tristezza che Volare. La città che ci accoglie quest’anno è cauta, frastornata dai colpi dell’annus più orribilis tra quelli di pace. Se è vero che il festival è lo specchio del Paese, mai come quest’anno un Sanremo ci vuole. Il gioco dei pantoni oggi porta la città dei Fiorelli in zona gialla, ma è un senape corretto dal fatto che le scuole, tutte, sono chiuse.

È il primo evidente cortocircuito dell’edizione 70+1 (Ventimiglia, 25 chilometri di costa da qui, è rossissima per via dell’enorme focolaio di Nizza). Il gazebo degli accrediti Rai per accedere alla dimagritissima sala stampa (da più di 1.500 accreditati a una settantina) sta al Casinò, chiuso da mesi, dietro l’ingresso delle Slot machine. E chissà se uscirà il jackpot nella settimana che, si può dire fin da ora, è un grande azzardo.

Il corso principale della Città dei fiori è un percorso a ostacoli, tra saracinesche abbassate e tentativi di sopravvivenza: il cinema è virtuale e si può “andarci” da remoto, il grande caffè di piazza Colombo paga lo scotto del nome, “Reinassance”. Il palazzo a fianco del quale Mike Bongiorno statuariamente invitava all’allegria è tutto avvolto dalle impalcature. E se qualcuno prova a ristrutturare, qualcuno ha rinunciato: in Corso Matteotti uno storico negozio di calzature non ha nemmeno tentato di riaprire e le scarpe rimaste in vetrina appassiscono sotto tre dita di polvere.

La resa ha lo sguardo dei ristoratori che si sono inventati il “servizio mensa” per aprire come ristoranti degli alberghi, ma sono mezzi vuoti, non solo per necessità di distanziamento. E l’Ariston, il cuore di tutto? Dentro non sappiamo dire, perché è più blindato del caveau di una banca. Fuori ci sono i carabinieri, i vigili urbani, la security e forse anche i ranger del Texas. Nessuno si ferma, anche perché non c’è nessuno da vedere: autografi e selfie configurano reati da corte d’Assise. Il protocollo di sicurezza, quello che ha consentito a Viale Mazzini di organizzare il Festival nonostante tutto e a qualunque costo, è un lunghissimo elenco di prescrizioni: c’è una regola per ogni gesto e un tampone per ogni respiro. Tra le mille raccomandazioni compare anche quella, all’indirizzo degli artisti, di non farsi riconoscere. Tutti in giro travisati come ultrà, nascosti dai vetri oscurati dei van che li trasportano e sembrano quelli dell’Fbi. Anche le vetrine delle radio, che come vuole la tradizione ospitano i cantanti, sono annerite per celare i volti alla vista dei fan-passanti.

Un po’ listata a lutto e un po’ covo di spie, Sanremo ci prova. Arriva (domani sera) la salvatrice della patria Laura Pausini, neovincitrice dei Golden Globe (ha dedicato il premio all’Italia) con il brano Io, sì colonna sonora di La vita davanti a sé: che è sì un film di Edoardo Ponti con Sophia Loren, ma è soprattutto un romanzo pieno di grazia di Romain Gary. Lo ricordiamo noi perché nel collegamento con Pausini, intervenuta a sorpresa nella prima conferenza stampa dell’organizzazione, del film è stato detto di tutto tranne che questo (e comunque, senza nulla togliere al film, anche stavolta vale il “preferisco il libro”). Oltre ai ringraziamenti e alle consuete ovvietà (non ci crederete ma “la musica torna protagonista” anche quest’anno!), da registrare la distensione diplomatica tra gli organizzatori e il governo. “Non è Sanremo che può salvare dai mali del mondo”, ha detto Amadeus rispondendo a una domanda sulle proteste del mondo del teatro e della musica dal vivo. “Un Sanremo dimesso non risolve. Bisogna che siano le istituzioni, non il Festival: molti artisti sono arrivati qui con l’emozione di chi ha detto che era un anno che non faceva musica live. Ci sono altre sedi: noi auspichiamo ovviamente la riapertura. Non ho parlato con il ministro Franceschini, lui non ha parlato con me: sono contento di averlo sentito dire però ‘Viva Sanremo’, stamattina a Rtl”.

Qualcuno ha fatto una domanda “draghiana” al direttore di Rai1, Stefano Coletta, che in mezzo a questi oratori sembra un po’ Emanuele Severino (parla di vulnus, ritualistica, codice dell’imprevedibilità). “È un Sanremo whatever it takes? Possiamo dire di sì. Ma non esserci sarebbe stato un importante vulnus per il servizio pubblico”. Forse questo è troppo, di certo un po’ di evasione e spensieratezza male non possono fare. Non saranno in modica quantità perché le scalette sono lunghissime, non si finirà mai prima dell’una e mezza, più facilmente saranno le due. Esclusa la serata finale, che si concluderà a domenica abbondantemente iniziata. Fiorello, che si è presentato con una matrioska di mascherine, ha fatto presente che la sua resistenza fisica è limitata. Si parla già di un Ama-ter (domandarsi perché) e Rosario scherza: “Fazio, Cattelan, De Filippi, mettetevi l’anima in pace, Amadeus non molla l’osso, non ci pensa nemmeno, me lo ha confidato. Ma io gli ho detto che stavolta non ci sono”. Lì accanto il suo socio lo rassicura: non potrei mai fare Sanremo senza di te. “E allora non ci sarà”, risponde l’altro. I due si vogliono bene (“Neanche Renzi potrebbe farci litigare”), ma è un siparietto che abbiamo già visto l’anno scorso.

Intanto vediamo come va quest’anno: è sempre vero che non c’è contro-programmazione, però vige l’incognita dell’azzardo. Il cast – tanti giovanissimi, molto più di qualunque edizione – non è esattamente in linea con il pubblico “anziano” di Rai1.