Zaki, l’incubo continua: altri 45 giorni di detenzione

Patrick Zaki rimane prigioniero nella periferia del Cairo. Il tribunale ha stabilito il rinnovo della custodia cautelare: per altri 45 giorni il giovane resterà dietro le sbarre del tristemente noto carcere di Tora, dove ha già trascorso, senza processo, gli ultimi 13 mesi. A renderlo noto è stato il team di avvocati dell’ong Eipr, Egyptian Initiative for Personal Rights, una squadra con cui il 28enne collaborava per difendere diritti della persona, dei gruppi Lgbt e minoranze in patria, prima di essere fermato e arrestato, ormai più di un anno fa, nella Capitale egiziana perché sospettato di istigazione al rovesciamento del regime. Con un rinnovo dopo l’altro, di udienza in udienza (l’ultima risale al 1º febbraio scorso), la detenzione “arbitraria e illegale” dell’attivista viene ulteriormente prolungata. Le speranze di liberazione sono state nuovamente tradite. Nonostante le campagne internazionali di solidarietà e gli appelli da parte di istituzioni europee che chiedono il suo immediato rilascio, le autorità egiziane non si smuovono. Inutili anche gli sforzi di Giampaolo Cantini, ambasciatore italiano al Cairo, che ha ripetutamente richiesto un incontro per chiedere chiarimenti sugli arresti degli attivisti vicini all’ong Eipr. La solidarietà degli attivisti italiani che attendono la liberazione di Zaki si fa più forte: lo studente è atteso soprattutto nella sua città d’adozione, Bologna, dove frequentava un master europeo ed è diventato, intanto, cittadino onorario. Una piccola vittoria dopo la cattiva notizia: ieri l’attivista è riuscito a rivedere sua madre, riferiscono gli autori della pagina “Patrik libero”. Preoccupato dello stato di salute del padre ricoverato, Zaki lamenta di non ricevere alcuna notizia sulla sua condizione. “Non capiva cosa stesse succedendo, nessuno lo informa dell’esito delle sue udienze”. Zaki riesce a capire che la sua detenzione è stata rinnovata solo perché “vengono a prendere i detenuti da liberare senza aprire o battere colpi sulla sua cella”.

Nigeriagate, tutte le fake news sui giornali per assolvere Eni

Prima che i giudici si chiudano in camera di consiglio per emettere la sentenza, Eni spara gli ultimi fuochi d’artificio. In aula, le repliche finali degli avvocati difensori sono bloccate, perché il Covid ha colpito il presidente del collegio giudicante, Marco Tremolada. Ma fuori scoppiano i petardi, i tric-trac e perfino la Bomba di Maradona, anzi di Biden. Ad accendere la miccia sono alcuni giornali. La Verità spara la notizia di una “lettera che smonta le accuse della Nigeria al Cane a sei zampe”. Il Foglio gioca il jolly e scomoda, come testimone a difesa, nientemeno che il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden.

Il processo è quello milanese in cui Eni, Shell, mediatori e manager (tra cui l’amministratore delegato Claudio Descalzi) sono accusati di corruzione internazionale per aver pagato 1 miliardo e 92 milioni di dollari per ottenere il permesso d’esplorazione del gigantesco campo petrolifero nigeriano Opl 245. La più gigantesca tangente mai scoperta, secondo i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. Il normale pagamento della licenza ricevuta, secondo Eni, che ribadisce di aver versato i soldi sul conto a Londra del governo della Nigeria e non ritiene dunque di avere alcuna responsabilità per i successivi passaggi del denaro, poi distribuito a pubblici ufficiali nigeriani, politici, manager, mediatori. L’attuale governo del Paese africano, ritenendosi danneggiato per i soldi sottratti alle casse dello Stato, ha chiesto un risarcimento miliardario a Eni e Shell. Richiesta incomprensibile, scrive La Verità, perché una lettera del 14 giugno 2018, firmata dall’allora ministro del petrolio Emmanuel Ibe Kachiwu, propone a Eni, “con toni molto cordiali”, di passare dalla licenza di esplorazione (Opl) a quella di estrazione (Oml). E di rientrare al 50 per cento nell’affare, possibilità prevista dell’accordo Opl 245 firmato nel 2011 ma contestato nel processo. Dunque il governo di Abuja, scrive La Verità, sette anni dopo quell’accordo e a processo penale già avviato, “non ravvedeva alcun problema o illecito nella condotta di Eni e Shell”. Venerdì 26 febbraio le difese Eni hanno depositato nel processo – fuori tempo massimo, per documenti che avevano a disposizione fin dal 2018 – parte del carteggio tra Eni e Stato della Nigeria che dimostrerebbe la tesi anticipata dalla Verità. Peccato che nessuno spieghi che la Nigeria nel 2018 chiedeva sì di rientrare al 50 per cento nello sfruttamento del petrolio di Opl 245, ma in modalità “no cost”, senza costi; mentre nell’accordo del 2011 il rientro (“back-in rights”) era previsto a condizione che la Nigeria pagasse (scalandola dalle entrate da estrazione) la quota parte (dunque metà) del miliardo versato da Eni e Shell per Opl 245 e anche delle ingenti spese sostenute dalle compagnie per la ricerca e la trivellazione. Nel 2019 lo Stato nigeriano cessa comunque ogni interlocuzione con Eni e decide di aspettare l’esito del processo milanese. La licenza Opl 245 scadrà a breve, nel maggio 2021.

In questi ultimi fuochi prima della sentenza, il Foglio è ancora meglio ispirato: ipotizza addirittura un contrasto tra Biden e la Procura di Milano: “Fossimo in Netflix, avremmo già acquisito i diritti per una serie tv: chi vincerà tra Joe Biden e la Procura di Milano?”. Il nuovo presidente Usa ha infatti appena propiziato la nomina ai vertici dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), come direttore generale, di Ngozi Okonjo-Iweala, esperta in economia dello sviluppo con esperienze alla Banca mondiale. Ebbene: Okonjo-Iweala è stata ministro delle Finanze della Nigeria, scrive il Foglio, proprio mentre arrivavano nel Paese africano i soldi che la Procura di Milano considera la maxitangente Opl 245.

Anche Biden smentisce dunque De Pasquale e Spadaro? Ma attenzione: non tornano le date. Ngozi Okonjo-Iweala, mai indagata dai pm milanesi, arriva al ministero il 17 agosto 2011. È il suo predecessore a ordinare tutte le operazioni per trasferire i soldi (1,092 miliardi di dollari) che Eni aveva depositato presso un conto londinese JpMorgan del governo nigeriano e che sono poi dirottati verso due conti in Nigeria (presso la First Bank of Nigeria e presso Keystone Bank) della società Malabu, riferibile all’ex ministro del petrolio Dan Etete. Okonjo-Iweala arriva a cose fatte: il suo predecessore, Olusegun Aganga, dispone in tutta fretta il trasferimento dell’ultima tranche dei soldi Eni il 16 agosto 2011, ultimo giorno del suo mandato. Il denaro viene poi accreditato sul conto Malabu il 24 agosto, ma solo per motivi contabili. Sarebbe stato semplice verificare date e fatti. Ma c’è chi alla dura realtà preferisce le suggestioni e le sceneggiature Netflix.

Gop, il trumpismo è per sempre

Il Partito Repubblicano è ancora ammaliato da Donald Trump: l’ha confermato l’annuale conferenza di azione politica dei conservatori (CpaC 2021), svoltasi a Orlando in Florida: per The Donald il suo successore Joe Biden è, naturalmente “il peggior presidente nella storia degli Stati Uniti”, un radicale di sinistra come tutto il partito democratico che, con il suo “socialismo”, compromette il sogno americano. Tre giorni di kermesse, un mare d’elogi a Trump, voci di dissenso poche, un’ora di discorso del magnate costellata da decine di ‘Io’. I ‘trumpiani’ c’erano quasi tutti, con in testa il governatore della Florida Ron DeSantis e il senatore del Missouri Josh Hawley. I ‘non trumpiani’ non si sono fatti vedere: avrebbero preso bordate di fischi. The Hill, il giornale della Washington trae cinque lezioni dalla CpaC 2021. Trump ha perso le presidenziali 2020, ma tutto l’evento ruotava intorno a lui e gli è stata pure dedicata una statua dorata. Il magnate ha ricambiato i suoi sostenitori, mettendo la sordina all’idea di fondare un partito ed evocando una sua ricandidatura: “Riconquisteremo la Camera e poi un presidente repubblicano farà un ritorno trionfale alla Casa Bianca. Mi chiedo chi possa essere”. Un sondaggio indica che il 55% dei partecipanti alla conferenza voterebbero Trump nelle primarie 2024 e che il 95% auspica che il partito repubblicano porti avanti la sua agenda. Ma non mancano quelli che chiedono un volto nuovo per Usa 2024, sia pure per attuare l’agenda di Trump. Fra i più citati, DeSantis, che giocava in casa, e Kristi Noem, ‘trumpissima’ governatrice del South Dakota, il figlio Donald Jr, l’ex segretario di Stato Mike Pompeo e il senatore del Texas Ted Cruz, nonostante la fuga dalla neve del Texas. Nella lista, assenti eccellenti: non c’è Ivanka, la ‘prima figlia’, né Nikki Haley, che ha preso le distanze dal magnate dopo il 6 gennaio, né il vice ‘traditore’ Mike Pence. Gli anti-Trump non si sono fatti vedere: Mitt Romney e Liz Cheney, per dirne due, sono rimasti a casa. Trump ha indicato per nome tutti i repubblicani che hanno votato per il suo impeachment, invitando a ‘liberarsi di loro’ alle prossime elezioni, facendoli fuori alle primarie repubblicane. Il voto per l’ex presidente resta ‘rubato’: la convinzione che Trump sia stato defraudato della vittoria è stata ribadita, oltre che dall’ex presidente, in molti interventi. La gente della CpaC è impermeabile ai fatti e abbacinata dalla ‘post-verità’ del suo idolo.

Così il ‘trumpismo’ resta centrale nel Partito repubblicano: “Trumpismo – dice Trump, in uno dei pochi passaggi articolati del suo discorso – è frontiere forti, Law & Order, forte tutela dell’emendamento” che dà il diritto di possedere e portare armi; ed “è sostegno ai dimenticati” della globalizzazione.

Suu Kyi accusata di altri due reati, i golpisti cercano di annientarla

Il popolo birmano ha il diritto di riunirsi pacificamente e di chiedere il ripristino della democrazia. Questi diritti fondamentali devono essere rispettati dall’esercito e dalla polizia, non repressi nel sangue”. Il Dipartimento dei Diritti umani e il Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, “condannano con forza” la repressione che domenica, nel giorno più drammatico di un confronto fra giunta militare e popolazione che va avanti dal golpe del 1° febbraio, ha lasciato sul suolo birmano 18 vittime e almeno 30 feriti. Le Nazioni Unite hanno già stigmatizzato l’uso di gas lacrimogeno sulla popolazione inerme e gli arresti di massa dell’ultimo mese. Ma la repressione non ha intimidito la popolazione, che ieri è tornata nelle strade delle città principali a piangere i suoi morti e ha iniziato a erigere barricate di fortuna all’ingresso dei quartieri presi di mira da esercito e polizia. In alcuni casi, sulle vie d’accesso sono state disegnate riproduzioni del viso del capo del governo, il generale Min Aung Hlaing: per passare i soldati devono calpestarle. E la straordinaria foto della suora cattolica che si è interposta fra esercito e manifestanti, postata su Twitter anche dal cardinale Charles Bo, presidente dei vescovi del Mynamair, e diventata virale in tutto il mondo, è già icona potentissima della protesta. La leader de facto della democrazia birmana Aung San Suu Kyi, di cui non si avevano notizie dal giorno dell’arresto, ieri è apparsa in videoconferenza al processo-farsa intentato dai militari. L’hanno potuta vedere solo i suoi avvocati, a cui non è mai stato concesso di visitarla nella località segreta in cui è detenuta. Sarebbe in buona salute, ma la giunta la accusa di altri due reati, violazione della legge sulla comunicazione e incitamento al disordine pubblico, che si aggiungono a quelli di importazione illegale di walkie talkie e violazione delle disposizioni di sicurezza relative al coronavirus. Lo scopo del processo sembra essere quello, dopo la scontata condanna, di impedirle di ricandidarsi alle elezioni farsa promesse dal governo.

Il “sistema” di Sarkozy: arriva la prima condanna

Nicolas Sarkozy è stato condannato ieri a tre anni di detenzione, di cui due con la condizionale, per corruzione e traffico di influenze nello scandalo detto delle “intercettazioni”. Una condanna che sembra compromettere ogni ritorno alla vita politica dell’ex presidente, sempre molto popolare a destra e sostenuto in blocco dai suoi, ora che le presidenziali del 2022 sono alle porte. Durante la lettura del giudizio, per 45 minuti, l’ex presidente di 66 anni è rimasto immobile e ha lasciato la sala subito dopo senza fare dichiarazioni. Se la condanna è meno dura di quanto era stato richiesto in un primo tempo (quattro anni), le parole della presidente del Tribunale nazionale finanziario (PNF), Christine Mée, sono state molto severe.

Come capo dello Stato, Sarkozy era “il primo garante dell’indipendenza della giustizia” ed è per questo che i reati commessi “sono particolarmente gravi” e “hanno gravemente pregiudicato la fiducia pubblica”. Lo scandalo era esploso nel 2014, due anni dopo che Sarkozy aveva lasciato l’Eliseo. All’epoca gli inquirenti indagavano su di lui, ma per altri motivi: i presunti finanziamenti libici della campagna per le presidenziali (vinte) del 2007. Intercettando le sue telefonate, gli investigatori avevano scoperto che Sarkozy aveva attivato una linea telefonica segreta con il suo avvocato, Thierry Herzog, utilizzando il nome in codice “Paul Bismuth”, e aveva tentato di corrompere un magistrato della Corte di Cassazione, Gilbert Azibert: quest’ultimo aveva accettato di fornire informazioni coperte da segreto, relative a un’altra inchiesta in cui era implicato Sarkozy, in cambio di una promozione a Montecarlo. Secondo i giudici, i tre uomini avevano stretto un “patto di corruzione”: “Sarkozy – ha detto la presidente del tribunale – si è servito del suo statuto e delle sue relazioni politiche e diplomatiche per gratificare un magistrato che gli era tornato utile per interessi personali”. I tre sono stati condannati alla stessa pena. Per Herzog, penalista di fama, combinata con un periodo di cinque anni di interdizione della professione. È la prima volta che un ex presidente francese viene condannato per fatti commessi mentre era ai vertici dello Stato. Jacques Chirac, condannato nel 2011 a due anni (con la condizionale), aveva dovuto rendere conto per degli impieghi fittizi, ma negli anni in cui era sindaco di Parigi. Sarkozy potrà chiedere di scontare l’anno di carcere rigido ai domiciliari con il braccialetto elettronico e così eviterà la prigione. Inoltre farà appello e la pena è sospesa fino al nuovo giudizio.

Per mesi ha denunciato un complotto. I suoi legali hanno insistito sull’“illegalità” delle intercettazioni. I responsabili della droite, che fanno blocco dietro di lui, hanno rivolto le loro accuse contro il PNF – l’ufficio del procuratore nazionale – creato nel 2014 da François Hollande e da loro considerato al saldo della gauche. Il presidente del partito Les Républicains, Christian Jacob, parlando di giudizio “sproporzionato”, ha denunciato un “accanimento giudiziario”. Sarkozy aveva già tentato di tornare alla ribalta nel 2016, partecipando alle primarie per la scelta del candidato LR per le Presidenziali del 2017, ma era stato eliminato. Di fatto non ha mai lasciato la politica, continuando a tenere le file del partito dietro le quinte. Ora pare tutto più complicato anche per il fitto calendario giudiziario che lo aspetta: già il 17 marzo dovrà di nuovo comparire in tribunale per il caso “Bygmalion” sulle spese di campagna per le Presidenziali (perse) del 2012. E diversi altri fascicoli sono aperti su di lui, tra cui quelli sulle spese in sondaggi all’Eliseo e sui presunti fondi illeciti del dittatore libico Gheddafi.

Cristiani, sunniti, curdi Sono in tanti a soffrire nell’Iraq dei Pasdaran

“Sono il pastore di chi sta soffrendo”, ha affermato Papa Francesco ai media internazionali alla vigilia della sua visita in Iraq, la prima di un Pontefice, dal 5 all’8 marzo. E non c’è dubbio che la popolazione irachena, in particolare quella di religione cristiana, stia soffrendo da anni per numerose ragioni. Soffre anche la comunità sunnita, minoranza subito dopo quella cristiana, soffre quella curda ma anche la sciita, pur essendo numericamente in maggioranza. L’Iraq è un Paese del tutto destabilizzato dalla Seconda guerra del Golfo del 2003, voluta dall’allora presidente americano George W. Bush, che portò alla caduta di Saddam Hussein.

Con il crollo del regime e l’occupazione americana, la vita degli iracheni non è migliorata, anzi si è fatta ancora più difficile a causa dell’impianto settario su cui si basa la Costituzione post Saddam. Di conseguenza agli sciiti spetta la carica di primo ministro e di numerosi dicasteri. Ciò ha innescato non solo nuove discriminazioni settarie interne, ma ha anche permesso alla confinante repubblica islamica sciita iraniana di estendere la propria influenza su Baghdad. Oggi l’Iraq è diventato, di fatto, una provincia dell’Iran anche se, paradossalmente, il grande ayatollah al-Sistani – la massima autorità religiosa sciita irachena – si è trovato spesso in disaccordo con il potente regime clericale di Teheran nonostante la comunanza religiosa. Le milizie iraniane e irachene guidate dai pasdaran (il corpo militare delle guardie della rivoluzione fondato da Khomeini all’indomani della conquista del potere nell’ex Persia) hanno aggiogato le istituzioni irachene e terrorizzano la popolazione, inclusa quella della regione autonoma del Kurdistan iracheno. I curdi già massacrati da Saddam, nel 2017 hanno perso, a causa dell’intervento delle milizie sciite, la propria Gerusalemme, ovvero la provincia e città di Kirkuk, la più ricca di petrolio di tutto l’Iraq. Kirkuk è diventata ufficialmente una località sotto il governo centrale di Baghdad. Nonostante i peshmerga (guerriglieri del Kurdistan iracheno) avessero contribuito massicciamente sul campo alla sconfitta dell’Isis a Mosul assieme a una eterogenea coalizione che andava dagli americani ai pasdaran, il destino dei cittadini curdi iracheni non ne ha beneficiato. Mosul allora era sede anche di una importante comunità cristiana, che ha dovuto sopportare molti lutti ed emarginazione. Ma le deprivazioni riguardano tutti gli iracheni, come dimostrato dalle manifestazioni intersettarie che prima della diffusione del Covid erano state organizzate in numerose città, a partire dalla Capitale. Per la prima volta a scendere in piazza uniti al di là dell’appartenenza religiosa sono stati specialmente i giovani – maggioranza in termini demografici – schiacciati dalla mancanza di libertà, servizi e infrastrutture e scuole e università laiche. E, infatti, le proteste, prima che dal Covid, furono annichilite dalle pallottole delle milizie sciite guidate dai pasdaran.

Il divieto di assembramento non ha fermato i curdi dall’andare davanti agli uffici governativi locali e federali della regione autonoma a protestare per il mancato pagamento degli stipendi. Da mesi i lavoratori curdi del settore pubblico, tra cui infermieri e medici coinvolti nella lotta contro la pandemia, non vengono pagati. Il governo locale accusa quello centrale e viceversa , come più volte accaduto in passato, ma quel che emerge è la totale mancanza di fiducia dei cittadini comuni nelle autorità politiche che continuano a giocare a scarica barile. Nella città curda di Sulaymaniyah la sollevazione è finita nel sangue, lasciando sul terreno morti e feriti. La capitale del Kurdistan, Erbil, il mese scorso invece ha dovuto affrontare le conseguenze di un nuovo attacco missilistico tra la zona dell’aeroporto e la base della forze della Coalizione internazionale a guida americana. La rivendicazione dell’attentato è stata firmata da Saray Awliya al-Dam, una milizia sciita dei “Guardiani del Sangue”. L’attacco ha causato la morte di un civile e il ferimento di cinque civili e di un militare statunitense. Il neo Segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha subito espresso “indignazione” per quello che è il primo attacco in quasi due mesi contro una struttura militare o diplomatica statunitense in Iraq. I miliziani filoiraniani hanno affermato in un messaggio via social di aver lanciato 24 razzi “contro l’occupazione americana, che non sarà al sicuro dai nostri attacchi da nessuna parte, nemmeno in Kurdistan”. Pochi giorni dopo, come per ribadire e amplificare il messaggio, c’è stato un altro attacco, questa volta direttamente contro l’ambasciata americana a Baghdad e anche contro il governo iracheno che, secondo l’Iran, non sta facendo nulla per cacciare gli americani dal Paese.

Il nostro diritto di partecipare

La retorica ufficiale vuole che il presente governo sia a chiamato a mobilitare le “energie migliori” per affrontare la crisi pandemica e la ricostruzione economica e sociale. Ma il compito di una democrazia funzionante dovrebbe sempre essere quello di mobilitare le “energie migliori”, non solo ai vertici dello Stato, ma a ogni livello, a partire dal contributo che ogni singolo cittadino può fornire.

Dobbiamo dunque chiederci se il sistema istituzionale della Repubblica italiana (non del governo, ma di tutto il sistema) sia all’altezza della sfida. La nostra risposta è negativa: lo Stato ha reso inservibili gli strumenti di partecipazione esistenti (referendum e leggi popolari) e si rifiuta di introdurne di nuovi, quali le assemblee di cittadini estratti a sorte. Per cambiare rotta, il 3 marzo si terrà il primo appuntamento pubblico di un comitato trasversale per introdurre anche in Italia il modello delle Citizens Assembly, applicandolo sul tema dei cambiamenti climatici.

Siamo consapevoli che per alcuni ora ci sia solo da aspettare gli effetti dell’azione di governo. Per noi, invece, è illusorio ritenere che il sostegno da parte di partiti sempre meno rappresentativi sia sufficiente. L’autorevolezza di una sola persona non risolve magicamente problemi che affondano le radici nella storia italiana, fatta di poteri autoreferenziali che violano la Costituzione, come dimostrano decenni di esiti referendari calpestati o di condanne alla Corte europea dei Diritti Umani.

La ricerca delle “energie migliori” deve implicare il coinvolgimento di cittadini adeguatamente informati in ogni fase del processo decisionale. A maggior ragione, di fronte al fatto che la motivazione esplicita per escludere il ricorso alle urne da parte del presidente della Repubblica è stato il rischio epidemiologico. Diventa così indispensabile investire per rafforzare altre forme di partecipazione diverse dal voto. Democrazia non vuol dire solo “elezioni”, come ci ricorda l’articolo 21 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: “Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio Paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti” (da notare che la partecipazione diretta è menzionata prima ancora di quella elettorale).

L’Italia, l’anno scorso, è stata condannata proprio dal Comitato diritti umani dell’Onu per violazione dei diritti civili e politici sulla base della denuncia – a firma Mario Staderini e Michele De Lucia – del carattere discriminatorio delle regole per la raccolta firme, che ostacolano l’iniziativa di gruppi di cittadini non già collegati al sistema di potere. La condanna è stata ignorata dalla politica italiana, e tuttora nessuna misura è stata presa per consentire che la sottoscrizione di proposte referendarie e legislative di iniziativa popolare sia effettuabile “a distanza”, come invece accade a livello di Ue con le Ice-Iniziative dei cittadini europei. In legge di Bilancio è stato preso un impegno per il 2022, e dovremo batterci per farlo rispettare.

Il governo Conte è entrato in crisi sul ruolo delle forze politiche nella gestione del Piano nazionale di resistenza e resilienza. Nessuno però ha sollevato – né con Conte né con Draghi – la questione del coinvolgimento dei cittadini, anche in modalità innovative come ha fatto Macron con assemblee di cittadini estratti a sorte sull’emergenza climatica, e come si fa da anni con successo in Paesi come l’Irlanda, il Canada, l’Olanda, l’Islanda e da ultimo anche la Germania, che ha indetto un’assemblea dei cittadini sul “ruolo della Germania nel mondo”, nella convinzione che la partecipazione civica possa offrire una visione strategica anche in politica estera.

L’Italia avrebbe tutto l’interesse a introdurre modalità innovative di esercizio della sovranità dei cittadini, senza dover in questo inventare nulla, ma limitandosi a copiare dalle migliori pratiche internazionali. In particolare, se si vuole che la transizione ecologica sia il perno degli investimenti del Next Generation EU, va tenuto presente che nulla più dell’emergenza climatica merita risposte immediate e allo stesso tempo orientate sul lungo periodo, quali la politica dei partiti sempre meno riesce a offrire. È proprio per questo che nel mondo le assemblee dei cittadini sul clima stanno fiorendo sempre più, aiutando a rispondere a quei problemi che gli eletti, spesso ostaggio di interessi particolari, non riescono più a risolvere da soli: dalla tassazione delle emissioni inquinanti alla transizione verso le energie rinnovabili, dal problema dei sussidi alle fonti fossili a quello degli allevamenti intensivi.

Nell’assenza di dibattito politico sul tema, qualcuno si sta mobilitando nella società civile per chiedere un’assemblea dei cittadini estratti a sorte proprio sulla transizione ecologica. La proposta viene dal comitato promotore “Politici per Caso – Cittadini Informati per Decidere”, che ha promosso un appello sostenuto da personalità della politica, del mondo scientifico, della cultura e dello spettacolo, unite nel chiedere a governo e Parlamento di affrontare l’emergenza climatica non solo con le ricette dei tecnici, ma anche con una consapevole e informata visione popolare.

Il 3 marzo alle ore 18, dalla pagina facebook di Politici Per Caso sarà possibile seguire l’evento web “Transizione Ecologica? Sentiamo i cittadini estratti a sorte!”, con la partecipazione del comitato promotore francese che racconterà l’esperienza della Convention Citoyenne pour le Climat. Mentre si prepara in aprile la raccolta firme su una proposta di legge popolare per istituire nell’ordinamento le assemblee dei cittadini come forma ordinaria di integrazione della rappresentanza elettiva, quello del 3 marzo è il primo appuntamento di una nuova rete civica decisa a fare della partecipazione la risposta a quella crisi della democrazia elettorale che ancora paralizza gran parte delle questioni essenziali per la vita del Paese.

 

Scalfarotto, decollato come un Casini che non ce l’ha fatta

Fortuna che, nel “governo dei migliori”, c’è ancora Lui. Nel Conte-2 era agli Esteri, ora l’han piazzato agli Interni. Nessun problema: Egli tutto può. Infatti, con Renzi e Gentiloni, era allo Sviluppo economico. Eclettico come Gascoigne, simpatico come una detartrasi portata avanti con la scimitarra e coerente come un Casini che non ce l’ha fatta. È Lui e solo Lui: Ivan Scalfar8.

La sua è la storia dell’ennesimo sopravvalutato di sinistra. A certa sinistra basta poco, anzi niente, per gridare al miracolo. Pensate ai peana che piovvero addosso a una giovine Serracchiani per avere fatto un intervento vagamente iconoclasta contro la dirigenza di centrosinistra. Oppure alle insopportabili celebrazioni che incensarono Mattia Santori, sedicente leader ex (ex?) renzino delle fu Sardine.

Con Ivan Scalfa8 accadde lo stesso. Nato nel 1966 a Pescara. Sposato (nel 2017) con Federico Lazzarovich. A 22 anni è già consigliere comunale nei Verdi. Gli basta una lettera a Repubblica nel 1996, in cui si dice “deluso” dal primo governo Prodi, per farsi invitare a Palazzo Chigi. Si batte meritoriamente da sempre per i diritti civili. Attivista, blogger. Iscritto ai Ds nel 2007, primo dei non eletti in Lombardia alle Politiche del 2008. Collaboratore de L’Unità, inviato di Crozza su La7. Autore di libri in cui chiede “l’estensione del matrimonio alle coppie omosessuali, una più forte lotta all’omofobia, l’istituzione di un congedo di paternità e la possibilità di chiedere la rettifica dell’attribuzione di sesso anche senza intervento chirurgico”.

Poi, nel 2012, la folgorazione che cambia (ovviamente in peggio) la sua parabola politica di per sé mai trascendentale: la folgorazione per Matteo Renzi. Di colpo ne diventa uno dei Farinacci più lividi, nonché ovviamente caricaturali. La sua carriera decolla come un sottomarino sfracellato contro i più reconditi abissi. Si mette a crivellare diuturnamente su Twitter, il social morto e dunque perfetto per gli ultrà renziani, chiunque osi criticare la Diversamente Lince di Rignano. Segue il Churchill del Valdarno nei suoi tour dopo le scoppole di 2016 e 2018, risultando oltremodo malinconico nel ridere come a comando – ai piedi del palco e del Capo – alle “battutone” di quel che politicamente resta di Renzi. Si iscrive a settembre 2019 a Fim (Forza Italia Morta), il quasi-partito nato subito dopo il varo del Conte-2.

Pur di sabotare l’alleanza giallorosa, si candida epicamente a giugno come governatore della Puglia. Neanche i suoi colleghi renziani credono alla sua candidatura, infatti perfino la Bellanova inciampa in un lapsus mitologico e durante un comizio chiede di votare Emiliano. Permalosissimo, Scalfar8 si arrabbia con il sottoscritto per avere sostenuto che in Puglia non avrebbe mai raggiunto il 5 per cento. Aveva ragione lui, perché in effetti non raggiungerà neanche il 2 per cento (1,5 per cento, per l’esattezza). Roba che, se avessero candidato un daino, i renziani avrebbero ottenuto più fortuna.

Sfollatore di elettori e consensi come neanche Genny Migliore, a fine 2018 il buon Scalfar8 era stato giustamente duro con il principino saudita Bin Salman in merito all’omicidio del giornalista Khashoggi. Ora lo è un po’ meno, forse perché nel frattempo il Gran Capo Renzi ha detto che con il principino immacolato potrebbe addirittura rinascere il neo Rinascimento. Così, quando qualcuno storce il naso, lui si stizzisce. E ricomincia a scomunicare tutti dall’alto del suo niente.

Il renzismo, da sempre, incarna il peggio del peggio della politica. E Scalfar8 è bravissimo a ricordarcelo ogni giorno. Daje Ivan.

 

Draghi: quando finisce la ola tutti i nodi vengono al pettine

Una quindicina di giorni, pure in una situazione di perdurante emergenza e urgenza, non sono ancora sufficienti per giudicare il governo Draghi. Offrono, però, materiale abbastanza significativo che consente di intravedere alcuni non piccoli problemi. Si è oramai esaurita la lunga ola dei sostenitori del cambio di governo a favore dell’ex presidente della Banca centrale europea. Diversi nodi stanno già venendo al pettine. Inevitabilmente, chi ha espresso la sua forte preferenza per un governo di ampie intese sotto la benedizione presidenziale non può oggi mettersi a criticare la scelta (imposizione?) dei ministri derivanti da rose di nomi stilati dai dirigenti dei partiti. Non era però l’unica scelta possibile.

Allo stesso modo, la nomina dei sottosegretari non ha in nessun modo configurato l’affermazione di un governo dei migliori. Sicuramente, il ruolo di Mattarella è stato molto rilevante, ma esattamente quanto non è possibile dirlo. Poiché di politica e di uomini (e donne) in politica, Mattarella ne sa molto di più di Draghi, è lecito pensare che avrebbe potuto e dovuto sconsigliare nomine ed effettuare scelte tali da configurare qualcosa di molto più simile al “governo dei migliori” si potrebbe avere oggi in Italia. A stento, i corifei stanno nascondendo le loro delusioni. Adesso, è già possibile affermare, e le prime dichiarazioni di alcuni ministri e sottosegretari lo comprovano, che nella compagine governativa e nei suoi dintorni molto frequentemente si produrranno tensioni e conflitti in parte derivanti anche dal non avere collocato le persone giuste nei posti giusti. Probabilmente, il presidente del Consiglio Draghi confida che i disaccordi e gli scontri potranno essere circoscritti e che, comunque, la sua azione di governo riuscirà a svilupparsi sui terreni a lui più congeniali, sui quali la sua competenza e il suo prestigio faranno aggio su qualsiasi preferenza particolaristica. Credo si sbagli.

Il raggio di azione di un governo, anche, anzi, proprio nella pandemia, deve essere molto ampio per creare e mantenere la fiducia dei cittadini e, naturalmente, degli operatori economici le cui valutazioni non si limitano mai alle sole dinamiche economiche. D’altronde, non va dimenticato che, secondo troppi osannanti commentatori, Draghi, emerso da una crisi di sistema (valutazione a mio parere profondamente errata), doveva/dovrebbe assumersi anche il compito, onerosissimo, di ristrutturare la politica italiana. Fermo restando che nessun capo di governo, neppure il più preparato, potrebbe da solo ristrutturare la politica di qualsiasi Paese quandanche disponesse di un possente veicolo partitico, Draghi non ha fatto cenno alcuno di volere andare in questa direzione. Appare, consapevolmente, un uomo molto solo al comando. Una volta apprezzato il terso, sobrio e colto discorso programmatico pronunciato per il suo insediamento, è più che legittimo chiedersi se il suo successivo silenzio sia produttivo. Forse, il suo predecessore Giuseppe Conte ha esagerato con le conferenze stampa e le dichiarazioni pubbliche, e anche con i “famigerati” decreti del presidente del Consiglio dei ministri. Subito, però, è già spuntato il primo Dpcm Draghi senza che gli allarmatissimi giuristi si strappassero, come coerentemente dovrebbero fare, le vesti e i capelli.

Non sarebbe, a questo punto, il caso che il presidente Draghi desse inizio alla sua comunicazione politica con l’elettorato, con l’opinione pubblica? Non è in questo modo che in democrazia si pongono in essere e si rinsaldano i legami fra politica e società, fra governanti e governati? Temo che sia proprio qui che i “tecnici”, ancorché di grandi competenze e qualità, finiscano per dimostrare che, purtroppo per loro e, in definitiva, per tutto il sistema politico, sono quasi irrimediabilmente carenti.

 

La mossa di Mattarella è politica (verso destra)

Ora che il “governo del Presidente” è tutto sotto i nostri occhi, è possibile criticare il Presidente? I manuali di Diritto costituzionale spiegano che non si è mai stabilito un divieto legale di criticare il presidente della Repubblica perché lo scopo della tacita regola per cui il capo dello Stato non si critica è quello di indurlo ad agire in modo da non ricevere critiche. Se l’attività del Presidente diventasse insindacabile, verrebbe meno la garanzia che questi non faccia un uso politico dei suoi poteri.

Ora, la decisione di non sciogliere le Camere è stata frutto di una valutazione dello stato del Paese: come tale, quintessenzialmente politica. La scelta di non comunicare questa decisione al presidente del Consiglio Conte, che aveva appena ricevuto la fiducia dal Parlamento, è stata politica. La decisione di incaricare Mario Draghi senza ricavarne il nome da un ulteriore giro di consultazioni, e mettendo i partiti davanti a un fatto compiuto, è un’altra scelta politica di Sergio Mattarella. Tutto nei limiti formali della Costituzione, sia chiaro, ma, come ha osservato Gustavo Zagrebelsky, fuori dalle consolidate convenzioni che circondando l’attuazione della Carta. E con la chiara volontà politica di uscire dalla crisi “dall’alto”, e non “dal basso”. Verso l’oligarchia, non verso la democrazia parlamentare. Coerentemente, Mattarella si è assunto davanti al Paese la responsabilità dell’identità del nuovo esecutivo: “Di alto profilo” e “che non deve identificarsi in nessuna formula politica”.

Come mentore e garante di un “governo del Presidente di alto profilo”, Mattarella ha assunto su di sé (ancor più di quanto non preveda l’articolo 92 della Costituzione) la responsabilità della scelta dei ministri, e quindi dei sottosegretari: ben sapendo, tra l’altro, che il Consiglio dei ministri è organo collegiale il cui presidente è solo un primo tra pari. Ora, come pensare che la credibilità della Presidenza non sia intaccata dalla qualità infima, in molti casi disdicevole fino al rigetto, della compagine ministeriale? Da cittadino, sono francamente sconcertato che il Presidente, dopo aver promesso al Paese l’“alto profilo”, abbia firmato i decreti di nomina di ministri come Stefani o Gelmini, e di sottosegretari come Molteni o Sisto. Borgonzoni alla Cultura e Sasso all’Istruzione, poi, sono veri e propri schiaffi alle parti più sensibili del progetto costituzionale.

E veniamo alla formula politica: che, in realtà, esiste eccome. Anzi, quella larghissima formula fino a ieri impensabile potrebbe essere la base per la rielezione dello stesso Mattarella al Quirinale: in un cortocircuito che avrebbe implicazioni inedite. Ancor più se questo secondo mandato, di cui si inizia a sentir parlare, avesse termine precoce: magari proprio per permettere l’ascesa di un successore (lo stesso Mario Draghi) che sarebbe così in qualche modo un erede designato, in una torsione dal sapore monarchico. E inoltre: la scelta di portare la Lega in un governo del Presidente comporta un’assunzione di responsabilità politica per nulla neutrale, visti i molti nodi irrisolti nei rapporti di quel partito con i neofascismi e il suo sostanziale rigetto di gran parte dei principi fondamentali della Carta. E anche la scelta di affidare l’opposizione a un solo partito, ancor più compromesso col neofascismo, è gravida di conseguenze politiche (a mio avviso, nefastissime). In Cecità di Saramago (libro che, a rileggerlo oggi, mette i brividi) la radio finalmente trovata, diffonde “notizie non confortanti: correva voce che fosse prevista a breve scadenza la formazione di un governo di unità e di salvezza nazionale”. Credo che anche oggi, nell’Italia resa politicamente cieca dalla pandemia, la notizia più sconfortante sia proprio questa. La resa della politica; la teorizzazione, dal più alto colle della Repubblica, che di fronte all’emergenza si debba abbandonare qualsiasi “formula politica”. E non per il presunto commissariamento da parte dei tecnici (che sembrano in verità assai poco autorevoli), quanto proprio per la dimensione dirompentemente antipolitica del messaggio che ne scaturisce. Tutti i partiti insieme, a correre sulla monorotaia imposta dal mercato e dalle banche (Draghi): a far capire che davvero There Is No Alternative, nessuna scelta è possibile. E cioè di fatto affermando che è inutile (oggi e domani) votare, perché comunque le scelte sono obbligate, e prese in alto: per il bene dello Stato.

Come dimostrano le prime mosse di Draghi (dalla scelta dell’ultraliberista Giavazzi alla incomprensibile opposizione, in sede europea, alla donazione dei vaccini per il personale sanitario africano proposta da Francia e Germania), la formula politica c’è: l’asse della politica italiana si è ulteriormente spostato a destra. E non per un voto, ma per una decisione politica del presidente della Repubblica.