Effetto Conte. 5S oltre il 20% sorpassa Meloni e il Pd

L’effetto Conte, almeno sul Movimento, ci sarà. Tre, quattro, cinque o anche sei punti percentuali in più nei sondaggi, che dovrebbero consentire ai 5 Stelle di tornare sopra alla soglia del 20 per cento, superando sia Fratelli d’Italia che il Partito democratico.

Queste almeno sono le previsioni di chi già nelle settimane scorse aveva sondato gli umori degli elettori riguardo a un M5S guidato da Giuseppe Conte, trovandosi di fronte numeri che non a caso Rocco Casalino aveva sbandierato entusiasta in diretta televisiva. Quasi tutti i sondaggisti, però, avvisano: Conte porterà voti al M5S, ma il suo arrivo sposterà molto poco nella percentuale della coalizione giallorosa.

I numeri. Come ovvio, si parla di valutazioni di partenza, il valore aggiunto che Conte sarà in grado di portare già nelle prime rilevazioni da quando sarà formalizzato il suo ruolo all’interno del Movimento. I numeri poi cambieranno in base all’azione di governo e a come lo stesso Conte interpreterà il suo incarico, ma una spinta iniziale così rilevante non può essere ignorata. E i primi dati Swg, forniti ieri dal Tg La7, sono clamorosi: il M5S guadagna il 6,2 per cento, portandosi al 22 e tallonando la Lega (22,3 per cento). A farne le spese è soprattutto il Pd, che crolla poco sopra il 14 (-4 per cento). Alessandra Ghisleri, con la sua Euromedia Research, aveva anticipato tutto tre settimane fa: “Noi il 10 febbraio stimammo oltre il 20 per cento il Movimento con Conte leader”. Una percentuale che potrebbe crescere se l’ex premier sfruttasse un importante vantaggio rispetto agli ultimi leader dei 5 Stelle: “Almeno per un periodo, Conte sarebbe libero da ogni incarico di governo – ci spiega la Ghisleri – e dunque avrebbe più tempo per dedicarsi al Movimento e a girare i territori, riallacciando un rapporto che è stato perso. In fondo Salvini anni fa costruì così gran parte del suo consenso”. Starà a Conte, poi, scegliere come porsi: “Di certo gli elettori di centrosinistra lo guarderanno con interesse. Se non avrà fretta, potrà attrarre ancor più persone da quell’area”.

Intanto, però, c’è un enorme bacino di 5stelle delusi da recuperare. Secondo Antonio Noto (Noto Sondaggi), l’operazione vale parecchi punti: “Oggi il Movimento lo stimiamo intorno al 14 per cento, ma con Conte leader potrebbe arrivare tra il 20 e il 22, superando il Pd. Questo balzo sarebbe dovuto in buona parte al voto degli astenuti, soprattutto ex elettori dei 5 Stelle nel famoso 33 per cento del 2018, persone che poi si erano allontanate”. A differenza di altri casi, oltretutto, il balzo nei sondaggi è immediato e non ha bisogno di periodi di assestamento: “Conte è ben conosciuto e ha un livello di gradimento molto alto – è la versione di Noto – dunque l’effetto sulla percentuale dei 5 Stelle si vedrà subito”.

Coalizione. È d’accordo anche Michela Morizzo, amministratore delegato dell’Istituto Tecné: “La discesa in campo di Conte avrà sicuramente un effetto benefico per i 5 Stelle, che noi stimiamo possano crescere di 4 o 5 punti. Si tratta di persone che votavano Pd o non esprimevano preferenze”. E qui però c’è l’avvertimento alla coalizione, perché la pesca tra gli indecisi o i delusi difficilmente sarà in grado di far recuperare all’asse M5S-Pd-LeU il distacco accumulato rispetto al centrodestra: “Secondo noi il saldo sarebbe molto vicino allo 0 per il centrosinistra allargato al Movimento. A quel punto dipenderà anche da cosa accadrà nel Pd, che finora ha visto in Conte un potenziale leader unitario e adesso comunque lo tratterà da competitor, seppur alleato”.

Proprio quest’aspetto potrebbe incidere, più in generale, sul consenso personale di Conte. A lungo l’ex premier è stato apprezzato anche al di fuori dal M5S, complice l’emergenza Covid. L’analista Giovanni Diamanti, fondatore di Youtrend, sottolinea però come cambierà la percezione nei suoi confronti: “Gli veniva riconosciuto un ruolo di terzietà, in grado di star sopra alle beghe della politica. Questo cambierà per forza, Conte dovrà essere un po’ più polarizzante, anche se non mi aspetto certo diventi Grillo”. Nel gioco dei vasi comunicanti dei partiti, però, si torna sempre lì: “Ai 5 Stelle, Conte porterà una crescita immediata di qualche punto, ma in effetti non credo ci saranno sviluppi clamorosi nella somma della coalizione”. A quantificare il tutto ci penserà presto anche Fabrizio Masia (Emg Acqua), che all’Adnkornos annuncia “rilevazioni in corso” il cui esito è però immaginabile: “La sensazione è che per i 5 Stelle dovrebbe esserci un vantaggio, perché definendo una leadership e assegnandola a Conte si rimette ordine dopo settimane di confusione e schizofrenia”.

 

I PARERI

Impresa dovrà recuperare la democrazia interna e collocarsi nel centrosinistra

Assumere la guida di un movimento politico, per giunta allo sbando, è ancor più complicato che ritrovarsi d’emblée primo ministro. Giuseppe Conte, è vero, ha rivelato notevoli doti da autodidatta e buon senso delle istituzioni. Credo che il suo rapporto con il Quirinale non sia interrotto e lo stesso Draghi commetterebbe un errore a sottovalutarne le potenzialità di riserva della Repubblica. Goffo e infelice, viceversa, è stato il suo tentativo di ricostituirsi una maggioranza parlamentare con l’“operazione Responsabili”. Trarne insegnamento comporterà un nuovo apprendistato fuori dal Palazzo, perché la politica trova le sue energie in una conoscenza della società che precede l’arte del governo.
Dovrà promuovere una partecipazione dal basso, un attivismo civico, del quale i clic sulla piattaforma Rousseau altro non erano che una grottesca caricatura. Ce n’è bisogno e Conte ha i requisiti necessari per provarci; purché non si limiti a chiedere pieni poteri ma indichi un percorso di effettiva democrazia interna e un progetto culturale che non sacrifichi in nome del moderatismo l’ineludibile netta collocazione di centrosinistra.

Gad Lerner

 

Svolta radicale si faccia dare dai 5stelle il potere di cambiare tutto, anche il nome

I 5 Stelle hanno tutto da guadagnare dall’arrivo di Conte, mentre l’ex premier rischia assai: il M5S è un campo minato, ma il partito personalistico sarebbe ancora più complicato.
Affinché il giochino funzioni, Conte deve avere potere pressoché assoluto e rivoltare quel che resta del Movimento 5 Stelle come un calzino. Si arrabbieranno i talebani? Verrà leso quanto deciso dagli Stati Generali? Sticazzi.
I 5 Stelle così com’erano non esistono più e la respirazione bocca a bocca, ai morti, non serve. La segreteria deve essere scelta da Conte e costituita da nomi forti (tipo Di Maio). Va poi cambiato radicalmente non solo lo Statuto, ma proprio il nome: serve un nuovo soggetto politico, che tenga il meglio dei 5 Stelle, ma che sappia pure attrarre chi odia i grillini.
Basta con Casaleggio, Rousseau e tutte ’ste menate. Conte deve creare una realtà un po’ Verdi, un po’ Dc cattocomunista, un po’ radicalismo civico. E rilanciare l’alleanza progressista contro Renzi & destraccia nostrana. Auguri.

Andrea Scanzi

 

Nuovi orizzonti vorrei che i suoi fari fossero l’antifascismo e la costituzione

Come ha sottolineato qualche giorno fa Gustavo Zagrebelsky, viviamo una fase in cui c’è un allentamento di pressione nei confronti dei partiti. Conte ne può approfittare, mettendo ordine nei 5 Stelle, i quali hanno senz’altro bisogno di un leader se vogliono continuare a esistere.
I due fari dell’azione dell’ex presidente del Consiglio dovrebbero essere l’antifascismo e il rispetto della Costituzione, due questioni che mi stanno molto a cuore e intorno a cui credo si combatta la battaglia dei prossimi anni, soprattutto se penso a Salvini. Su questo credo che Conte sia in grado di indicare la strada ai 5 Stelle, che spesso sono andati un po’ in confusione (ma mai a tal punto da andare in Arabia Saudita a parlare di Rinascimento, questo va detto). Dopotutto, Conte in questi anni, pur avendo vissuto un’epoca difficile, è riuscito a mantenere un buon consenso dai cittadini e questo sentimento non va affatto disprezzato ma, anzi, è una ricchezza da cui è giusto ripartire.
Non so se poi Conte potrà essere la persona giusta anche per il centrosinistra, che mi auguro invece faccia finalmente il percorso che deve: da troppo tempo ignora del tutto le donne e i molti giovani capaci che ci sono, soprattutto tra i sindaci, ma a cui poi vengono sempre preferiti i soliti nomi. Spero che questa sia l’occasione anche per il Partito democratico per darsi una mossa e recuperare un collegamento con la realtà.

Sandra Bonsanti

 

Decreto Ristori e “pieni poteri”: i giornaloni non sbraitano più

Il primo era stato Matteo Renzi, che durante la conferenza stampa del 13 gennaio per far dimettere le ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti, aveva annunciato che Italia Viva avrebbe votato lo stesso lo scostamento di Bilancio da 32 miliardi e il decreto “Ristori 5” per aiutare le categorie più colpite dalle nuove chiusure. Lo scostamento è stato approvato mentre del decreto Ristori non si è saputo più niente visto che, senza una maggioranza, il governo non avrebbe potuto licenziarlo. Pochi giorni dopo, a Renzi gli faceva eco Silvio Berlusconi su Il Giornale utilizzando il famoso titolo del Sole 24 Ore dell’estate 2011 che a sua volta aveva ripreso quello de Il Mattino in occasione del terremoto dell’Irpinia: “Fate presto”. E giù titoli sulle “chiusure che accelerano ma i ristori frenano” (Il Sole 24 Ore), sui “ristori che sono già un pasticcio” (Il Giornale”) e dichiarazioni dei leader politici in mezzo alla crisi: “Subito ristori e Recovery” (Teresa Bellanova) o “ristori subito” (Matteo Salvini). Oggi, dopo due mesi di crisi, il decreto è ancora fermo al palo e non sembra che il governo abbia fretta di approvarlo: il ministro Massimo Garavaglia ha annunciato che il dl Sostegno vedrà la luce “venerdì o la prossima settimana”. Non proprio tempi rapidi.

Per non parlare dei titoli e dei commenti dei mesi scorsi sul presunto accentramento di poteri dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “Conte uomo solo al comando” (L’Espresso), “troppo potere nelle mani del premier” (Sabino Cassese a La Stampa) fino alle accuse di volere “i pieni poteri” come Matteo Salvini (Matteo Renzi). Oggi che a Palazzo Chigi Mario Draghi accentra tutto su di sé – dai vaccini alla scelta di ministri e commissari fino alle task force – però tutto tace.

“Appalti senza regole”: Nardella (Pd) e Salvini per cancellare il codice

Incassato lo scalpo figurativo di Domenico Arcuri, Matteo Salvini ha deciso (o così fa sapere) che è sui cantieri che aprirà il nuovo fronte mediatico. L’assist gliel’ha offerto il sindaco di Firenze, l’ex renziano Dario Nardella, che ieri, sul Corriere, ha chiesto di “sospendere il Codice degli appalti e affidarsi solo alle direttive europee”. Il tema non è nuovo, ma intercetta un sentimento caro a parte al centrodestra e a pezzi della maggioranza. A meno di 9 mesi dall’ultimo decreto “sblocca cantieri” – tecnicamente il “Semplificazioni” – riparte il martellamento per un nuovo intervento che tolga lacci e lacciuoli nel settore delle costruzioni, magari per spendere meglio i soldi del Recovery fund. “Anche il Pd chiede di cancellare il Codice degli Appalti. Bene, avanti col Modello Genova!”, ha esultato ieri il leghista. Anche il premier Mario Draghi ha parlato della necessità di semplificare le procedure.

Il problema è che non si capisce più cosa si debba sbloccare. Nardella se la prende con la legge approvata nel 2016 dal governo Renzi e che nel giugno di quell’anno si vantò di aver applicato per primo in Italia. Ieri se ne doleva: “Col codice ci vogliono 10 anni per realizzare un’opera di 25 milioni…”. Cancellarlo e affidarsi alle sole norme Ue è un vecchio pallino dei grandi cementificatori. L’ex ministro Maurizio Lupi, per dire, si è subito accodato: “Per far ripartire gli appalti non serve niente di più, niente di meno”.

La realtà è più complessa. Il codice è per il 90% frutto della normativa europea, che però consente il subappalto fino al 100% dei lavori, utilizzo del criterio del massimo ribasso anche sopra la soglia comunitaria (5 milioni) e non prevede verifiche preventive su fornitori e subappaltatori. Paletti che il Codice italiano ha inserito per aumentare la trasparenza. “Il Pd è contro la logica del massimo ribasso e del subappalto indiscriminato, ed è per procedure di selezione delle imprese efficienti ma di massima trasparenza, a tutela di una libera concorrenza”, ha spiegato il ministro del Lavoro e vicesegretario dem, Andrea Orlando.

Il nodo è proprio questo. Le norme Ue prevedono la possibilità di evitare le gare, anche per appalti di grande entità, un’ipotesi che il decreto Semplificazioni di luglio ha previsto solo fino a fine 2021. È il “modello Genova” usato per la ricostruzione post-Morandi che però ha caratteristiche irripetibili e non ha brillato per trasparenza. Alle Camere è fermo il decreto legislativo del governo Conte che nomina 30 commissari (scelti tra i dirigenti di Anas e Ferrovie o nelle amministrazioni pubbliche) per 59 opere. La settimana prossima arriverà il parere positivo. La Lega e il centrodestra (ma con addentellati in Pd e M5S) con la scusa del Recovery vogliono eliminare i paletti del codice e con esso l’obbligo di gara. Un sogno dei colossi del settore, sicuramente dell’ex Salini Impregilo (oggi WeBuild), che ha lavorato a Genova ed è in causa con lo Stato, che nel 2012 ha bloccato la costruzione del ponte sullo Stretto (di cui vinse la gara). Magari è un caso, ma il ponte è il nuovo pallino di Salvini.

Già 8 task force: ma ora gli esperti non sono “inutili”

Tutto era iniziato in primavera quando Giuseppe Conte aveva deciso di coinvolgere gli esperti (tra cui l’attuale ministro Vittorio Colao) per coordinare la “fase 2” della pandemia: l’allora premier era stato attaccato a testa bassa da commentatori, leader politici e giuristi. Poi a dicembre era stata proprio sulla cabina di regìa tra Palazzo Chigi e i ministeri per gestire i 209 miliardi del Recovery Plan che erano partiti i primi bombardamenti di Matteo Renzi evocando la crisi di governo. Le ormai celebri task force – espressione coniata dal gergo navale per indicare un gruppo di esperti che si riunisce per discutere e decidere su un determinato tema – sono state la croce del governo Conte. Per mesi politici (da Matteo Renzi a Matteo Salvini), giuristi (come Sabino Cassese) e commentatori hanno irriso la scelta dell’ex premier di nominare esperti “su tutto”, parlando di gruppi “inutili” e volti solo a “perdere tempo” con quotidiani che titolavano sui “sei manager e 300 esperti” pronti a “mettere le mani sui fondi Ue”. Oggi il governo Conte non c’è più, al suo posto a Palazzo Chigi è arrivato Mario Draghi, ma le task force sono rimaste. Anzi: si sono moltiplicate. Nei primi 16 giorni del governo Draghi, tra Palazzo Chigi e i ministeri, ne sono già state istituite otto. Una ogni due giorni.

Quattro di queste riguardano la pianificazione del Recovery Plan. La madre delle task force è quella istituita al ministero dell’Economia, guidato dal fedelissimo di Draghi, Daniele Franco, che avrà il coordinamento tecnico del piano. Il premier ha deciso di affidare l’unità di missione in capo alla Ragioneria dello Stato al dirigente Carmine di Nuzzo che coordinerà altri sei funzionari e un altro gruppo di economisti (in tutto una trentina di persone): del gruppo di lavoro ristretto fanno parte anche il Ragioniere generale Biagio Mazzotta, il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera e il sottosegretario agli Affari Ue Enzo Amendola. Poi, nel Consiglio dei ministri di venerdì, sono stati istituiti due super comitati interministeriali – Cite e Citd – formati da cinque ministri ognuno che dovranno “aiutare” Roberto Cingolani e Vittorio Colao a pianificare e decidere come spendere parte dei 209 miliardi. I due super comitati hanno creato dei malumori nell’esecutivo perché il Pd era stato tagliato fuori da entrambi con Dario Franceschini che lo ha fatto notare durante il Cdm. Alla fine i dem sono stati recuperati: il comitato per la Transizione Ecologica è composto, oltre che da Draghi e Cingolani, da Franco, Giorgetti, Giovannini, Franceschini e Patuanelli mentre quello per la Transizione Digitale da Colao, Franco, Brunetta, Giorgetti, Speranza e altri 60 funzionari. Infine, per scrivere il Recovery da consegnare entro aprile a Bruxelles, il premier ha nominato due nuovi consulenti a Palazzo Chigi: il consigliere economico Francesco Giavazzi e quello giuridico, il professore di Diritto amministrativo, Marco D’Alberti. Una mini cabina di regìa che taglia fuori i ministri.

Ma le task force del governo Draghi non riguardano solo la gestione dei fondi Ue. C’è quella anti-Covid composta da Agostino Miozzo (Cts), Silvio Brusaferro (Iss) e Franco Locatelli (Css) a cui presto potrebbe affiancarsi il nuovo consigliere sanitario di Draghi. Poi ci sono le unità di missione ministeriali. C’è quella di Renato Brunetta, che ha chiamato a Palazzo Caffarelli l’economista Carlo Cottarelli per scrivere la riforma della P.A: oltre a lui ne fanno parte altri otto economisti tra cui Bernardo Giorgio Mattarella, figlio del presidente della Repubblica e allievo di Cassese, ma anche il direttore del Censis Giorgio De Rita e il segretario generale della Regione Lazio Andrea Tardiola. Infine, il 23 febbraio si è insediato al ministero dell’Istruzione il “Comitato tecnico per il recupero dell’apprendimento”. Presieduto dall’ex capo dipartimento del Miur Giovanni Biondi, è composto da educatori, presidi e insegnanti: dovranno capire come limitare i danni di un anno in didattica a distanza.

Dal virus al Recovery: Draghi continua a fare tutto da solo

“Non ne sapevamo assolutamente nulla”. Un ministro dei Cinque Stelle commenta così la decisione di Mario Draghi di sostituire Domenico Arcuri, commissario all’emergenza Covid. Comunicata con una nota di Palazzo Chigi e non preceduta da alcun commento dell’interessato. Mentre Matteo Renzi e Matteo Salvini cantano vittoria, la reazione della maggior parte dei membri del governo è il silenzio. Nell’era Draghi, si parla il meno possibile. Anche quando le decisioni arrivano dall’alto e senza troppa condivisione. Questa è la regola numero uno. Si comincia a percepire una certa insofferenza latente da parte dei partiti, ma non è ancora venuto il momento di farla venire a galla. Perché una cosa è ormai chiara: uno dopo l’altro, Draghi sta sostituendo tutti i super tecnici scelti da Conte. E la continuità con il governo precedente (nonché le caselle assegnate ai suddetti partiti) è garantita da alcuni politici, sempre più depotenziati.

Se è per la gestione del Recovery Plan, le Commissioni Bilancio e Politiche europee sentiranno Daniele Franco, ministro dell’Economia, in Senato lunedì prossimo. Sarà forse uno dei primi momenti in cui si capirà come il governo Draghi sta gestendo il dossier. Per adesso, l’unica certezza è la decisione del premier di gestirlo attraverso il suo uomo di fiducia (Franco), non senza qualche struttura di supervisione a Palazzo Chigi. Il Mef dunque avrà il coordinamento del Recovery, attraverso la Ragioneria dello Stato, con un’unità di missione, guidata da Carmine Di Nuzzo. In considerazione dell’istituzione del nuovo dicastero della Transizione ecologica, presso la presidenza del Consiglio dei ministri si istituisce il Comitato interministeriale per la transizione ecologica (Cite). E poi, è stato istituito il Comitato interministeriale per la transizione digitale (Citd), con il compito di assicurare il coordinamento e il monitoraggio dell’attuazione delle iniziative di innovazione tecnologica e transizione digitale delle diverse pubbliche amministrazioni. Come sottosegretario alla presidenza del Consiglio per il coordinamento della politica economica la scelta è caduta su Bruno Tabacci, che con il premier ha un rapporto antichissimo. I sottosegretari hanno giurato ieri e le deleghe non sono ancora state attribuite, ma a Tabacci dovrebbe andare anche quella di coordinare il Cipess, Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile (il nuovo Cipe), da cui dipendono il programma delle infrastrutture strategiche e i piani di investimento pubblico. Anche Enzo Amendola, sottosegretario agli Affari europei, non ha ancora avuto le deleghe. Ma vista l’organizzazione complessiva del dossier, non avrà il compito che aveva nel governo Conte bis, ovvero una sorta di supervisione su tutto, ma continuerà a gestire i rapporti con Bruxelles. Manca ancora qualche casella: tra Cite e Citd ci sarà una struttura di raccordo. Mentre si lavora anche alla tempistica.

Nel frattempo, Draghi continua a rafforzarsi a Palazzo Chigi. Si sta completando la squadra e lo staff dei consulenti. Oltre a Francesco Giavazzi per l’economia e al giurista Marco D’Alberti sono in arrivo anche una serie di altre figure. Si parla di Alessandro Aresu, consigliere di Limes e direttore della Scuola di Politiche di Enrico Letta. Proprio per quest’ultimo a Palazzo Chigi faceva un’attività di speech writing: la stessa cosa potrebbe farla forse oggi per il governo Draghi. Della squadra comunicativa fanno già parte sia la portavoce Paola Ansuini, che Federico Giugliano, incaricato del rapporto con i media stranieri.

Tra i consulenti in arrivo su questioni più giuridiche si fanno i nomi di Serena Sileoni, vicedirettore di quell’Istituto Bruno Leoni che spicca per il pensiero liberal e Simona Genovese, già capo della segreteria tecnica di Andrea Martella all’Editoria, in passato tra i consiglieri politici di Paolo Gentiloni premier, via Luigi Zanda.

Calabria, Sardegna e Umbria lasciano il 42% di dosi in frigo

Sulla nuova tabella di marcia del piano di vaccinazioni, i primi di febbraio, le Regioni erano tutte d’accordo. Ma l’obiettivo di portare a termine 14 milioni di somministrazioni entro aprile sembra lontano. Ieri erano poco più di 4,3 milioni le dosi somministrate. E solo circa 1,4 milioni le persone vaccinate, vale dire quelle che hanno ricevuto prima e seconda dose. Certo, le Regioni sono azzoppate dai tagli alle forniture. Ma questo non basta a spiegare i ritardi che si stanno accumulando. E nemmeno l’alta percentuale di dosi inutilizzate, in molti casi maggiore di quella quota del 30% di scorta necessaria per il richiamo. Quota che se è indispensabile per i due vaccini americani Pfizer e Moderna, che richiedono la seconda dose in tempi brevi, non lo è per quello europeo di Astrazeneca, che prevede il richiamo dopo tre mesi.

Sullo sfondo c’è l’Italia delle autonomie, con molte differenze: c’è chi cerca di correre e chi arranca. Fatto sta che ben tre Regioni – Umbria, Calabria, Sardegna – non hanno ancora usato dal 42% (è il caso dell’Umbria) al 45,4% (Calabria) delle dosi consegnate. Altre, come il Veneto, la Sicilia, la Puglia, il Molise, le Marche, l’Abruzzo e la Lombardia, quel 30% di rimanenza lo hanno superato. In Umbria è Astrazeneca a riempire i depositi. “Sono dosi già impegnate con una programmazione fino a maggio – dicono dallo staff della governatrice Donatella Tesei –. Abbiamo appena iniziato con il personale scolastico e le forze dell’ordine”. In ben poche regioni – tra queste la Campania e il Lazio – è stata ultimata la vaccinazione degli operatori sanitari e degli anziani delle case di riposo. Mentre quasi tutte sono in ritardo con quella rivolta agli over 80. L’Emilia-Romagna ha vaccinato 84mila anziani, ma tra questi ci sono anche gli ospiti delle Rsa. Il Piemonte è fermo a nemmeno 45mila, la Liguria a poco più di 20mila: pagherebbe lo scotto di una media età della popolazione molto alta senza sufficiente personale medico, mentre nei laboratori si accumulano riserve di Astrazeneca. Anche i medici di famiglia non si mettono in moto in modo omogeneo. “Oggi possono partire dieci regioni – dice Silvestro Scotti, segretario nazionale Fimmg (medici di base) –, cioè quelle dove sono stati siglati accordi”.

Tra le Regioni che arrancano c’è la Lombardia. A fronte di oltre un milione di dosi ricevute, ieri ne aveva utilizzate solamente 678.779, con una rimanenza di oltre il 34,5%. Le somministrazioni agli over 80 erano 61.615, a fronte di una popolazione di 720 mila persone. In pratica, come rileva il capogruppo M5s in consiglio regionale, Massimo de Rosa, “tra gli over 80 i vaccinati sono intorno al 6%”. Nemmeno qui è stata ancora conclusa la vaccinazione dei sanitari e degli ospiti delle Rsa. Nulla ancora si sa per quanto riguarda i cronici e i soggetti deboli. Idem per i lavoratori della scuola. Secondo il nuovo piano enunciato da Bertolaso, una volta terminati gli over 80 (ma non si sa quando), toccherà non agli over 70, come previsto dal ministero, ma “ai dipendenti di bar e ristoranti”. Non va meglio in Sardegna, dove a fronte di 158.780 dosi fornite, ne sono state utilizzate solo 88.586: una rimanenza del 44%. Le somministrazioni nell’isola sono state 88.586 su una popolazione target di 1.452.890 persone. In base al piano vaccinale della giunta Solinas avrebbero dovuto già aver ricevuto almeno una dose 111.456 residenti: siamo a quota 70.708. La Sardegna poi è ancora molto indietro rispetto ai 115.000 over 80, avendone vaccinati solo 3.127. Il consigliere Alessandro Solinas (M5S) racconta: “Nell’ospedale di Ghilarza, in provincia di Oristano, siamo arrivati ai medici in affitto: la sanità paga 700 mila euro l’anno per 11 dottori”. In Campania sono state consegnate 473.215 dosi, di cui 394.785 utilizzate, con un tasso di inutilizzo tra i più bassi del Paese, il 16,57%. Merito di una macchina che si è messa in moto speditamente nonostante le prime, iniziali incertezze. “Speriamo di avviare la fase due a cominciare dalle forze dell’ordine, subito dopo metà marzo – dice Ugo Trama, l’uomo dei vaccini nell’Unità di crisi antivirus della Campania –, sottolineando, come spesso ha ricordato il governatore De Luca, abbiamo ricevuto un numero di vaccini pro-capite più basso rispetto a quello di regioni con la nostra stessa popolazione, come il Lazio”. Le principali difficoltà si sono riscontrate nelle adesioni degli anziani: si sono prenotati in 202.000 rispetto a una platea di 307.000. La “colpa” sarebbe nel metodo congegnato dalla Regione Campania, ovvero l’iscrizione alla piattaforma informatica Sinfonia. Nel Lazio – dove partiranno dopodomani le prenotazioni per le persone “vulnerabili”, cioè con patologie importanti – le somministrazioni sono state oltre 436mila, le vaccinazioni complete (con seconda dose) 128.422. La percentuale di inutilizzo dei vaccini sfiora il 30%.

Al posto di Arcuri c’è un generale più la cabina di regia dei ministri

Verso le 14 Domenico Arcuri è entrato a Palazzo Chigi per la prima volta da quando è arrivato Mario Draghi e ne è uscito dopo circa mezz’ora: non sarà più il commissario straordinario all’emergenza Covid, incarico che aveva assunto il 13 marzo scorso quando l’Italia era stata travolta dalla pandemia insieme al primo dispositivo d’emergenza che ruotava attorno alla Protezione civile. Un gelido comunicato della Presidenza del consiglio esprime i “ringraziamenti per l’impegno e lo spirito di dedizione”. Colloquio sereno, assicurano tutti. Ad Arcuri è stato chiesto di dimettersi. Al suo posto andrà Francesco Paolo Figliuolo, generale di corpo d’armata dell’Esercito, di cui è comandante logistico dal 2018.

Hanno esultato subito Lega, Forza Italia e Italia Viva che l’avevano giurata ad Arcuri. Sono arrivati molto più tardi i commenti di Pd e M5s che avevano chiesto a Draghi di confermare Arcuri. Il ministro della Salute Roberto Speranza scrive: “Grazie a Domenico Arcuri che in questi mesi così difficili ha servito il Paese con ogni energia, con passione e con disinteresse personale”. E soltanto “buon lavoro al generale Figliuolo”. Anche stavolta, come per la sostituzione di Angelo Borrelli con Fabrizio Curcio alla Protezione civile decisa venerdì scorso, Speranza e altri ministri hanno saputo a cose fatte. “Dal telegiornale”, dice qualcuno. Curcio e Figliuolo dovranno occuparsi innanzitutto del piano vaccinale, che risente di ritardi e mancate consegne dovuti anche ai contratti firmati dall’Ue ma procede a macchia di leopardo nelle Regioni. Negli ambienti della Salute e di Invitalia il malumore è notevole: “Ora la campagna vaccinale è in discesa, le dosi disponibili aumenteranno, abbiamo messo su 4.000 punti di vaccinazione e altri raccoglieranno i risultati”, si osserva. Arcuri si è detto “riconoscente a chi mi ha dato la possibilità di occuparmi della più grande emergenza che la storia recente ricordi”, “onorato di aver potuto servire il mio Paese” e ha ringraziato “uomini e donne” della sua “squadra”.

Ci si domanda che fine farà la struttura commissariale: “Cinquanta persone che lavorano giorno e notte, l’ufficio legale e specialisti di contratti pubblici” che hanno gestito ordini per oltre 3 miliardi in 12 mesi. Si attende la formalizzazione della nomina del generale e il nuovo piano, che lascerà meno autonomia alle Regioni.

 

L’ufficiale e l’impegno delle forze armate

Figliuolo, 60 anni, lucano, vive in Piemonte. Viene dagli Alpini, ha comandato la missione italiana in Afghanistan e le forze Nato in Kosovo, è stato capo ufficio dell’ex capo di Stato maggiore della Difesa, generale Claudio Graziano. Ha fatto anche un master alla Link university e a suo tempo fu allievo anche del generale Pier Paolo Lunelli, che abbiamo conosciuto in questi mesi come il miglior esperto dei piani pandemici che l’Italia non aveva.

Del resto le forze armate sono già in campo dall’inizio della pandemia: medici e infermieri militari lavorano in 142 drive through in tutta Italia dove fanno tamponi, circa 13/14 mila al giorno secondo fonti militari (1,7 milioni dall’inizio del loro impegno) e in misura minore vaccini, consegnano le dosi in tutta Italia (il 27 febbraio 463 mila in 114 luoghi del Paese), curano al momento poco meno di un centinaio di malati Covid ricoverati nei tre ospedali militari (Roma, Taranto e Milano) e i 4 presidi da campo di Perugia, Barletta, Cesena e Aosta; forniscono personale ad alcuni ospedali in Campania, Liguria e Lombardia e a una quindicina di residenze per anziani per lo più nelle Marche e in Emilia-Romagna.

Il governo è alle prese con il nuovo Dpcm, che deve entrare in vigore sabato 6 marzo alla scadenza (il 5) di quello in vigore.

 

Chiusure si discute anche dei centri commerciali

Lo avremo solo oggi. Tutto confermato, comprese le maggiori restrizioni nelle zone “rosse” (barbieri e parrucchieri, visite, seconde case) e la riapertura dei musei anche nel weekend nelle Regioni “gialle” (o “bianche”), ma c’è il nodo scuole. Saranno chiuse, dalla materna alle superiori, come sollecitato dal Comitato tecnico scientifico, nelle Regioni “rosse” e nelle aree “arancione rafforzato” disposte dalle Regioni per contrastare le varianti più aggressive, alcune delle quali sembrano responsabili del significativo aumento contagi nelle fasce d’età under 20, rilevato nell’ultimo studio dell’Istituto superiore di sanità. Sono centinaia in tutta Italia, da ieri anche Cremona e Como.

Si discute della soglia dei contagi per le zone non rosse: 250 ogni 100 mila abitanti negli ultimi 7 giorni, si è detto, ma non hanno ancora deciso se il limite vale a livello regionale o provinciale. E il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, d’accordo con Speranza e il fronte “rigorista”, ha chiesto anche la chiusura dei centri commerciali, dove altrimenti rischiano di assembrarsi i ragazzi: dovrebbero farlo i presidenti di Regione e il centrodestra non è d’accordo.

Genova, reading per morti: “Promo per prof. Bassetti”

Un reading interpretato da Sergio Castellitto e accompagnato da un quartetto d’archi del Teatro Carlo Felice. Il contesto è quello della terrazza del Policlinico San Martino, l’ospedale più importante della Liguria, trasformato per un giorno da trincea contro il Covid a teatro all’aperto, per commemorare le vittime. Ma la cerimonia si porta dietro una coda di veleni. Castellitto, intervenuto a titolo gratuito, ha letto brani tratti dal libro sulla prima ondata scritto da Matteo Bassetti, epidemiologo ormai noto ai salotti televisivi nazionali. La diretta televisiva della manifestazione, appaltata all’emittente regionale Primocanale, è costata 21mila euro. Costi che, fa sapere la direzione amministrativa dell’ospedale San Martino, sono stati coperti “con fondi propri della Clinica malattie infettive”. Il reparto diretto dallo stesso Bassetti.

La circostanza ha portato l’opposizione in consiglio regionale ad attaccare duramente l’iniziativa: “Vogliamo sottolineare una doppia questione – commenta Ferruccio Sansa, capogruppo dell’opposizione – Primo, una cerimonia per ricordare i morti rischia di sembrare anche un evento che promuove il libro del professor Bassetti. Secondo, ci sembra rilevante la provenienza di questi fondi”. Sul caso è arrivata anche una nota successiva dello stesso ospedale San Martino, che ha ricordato come, a sua volta, Bassetti abbia messo a disposizione del suo reparto i proventi del libro: “Aver promosso il reading è stato un modo per valorizzare l’intero ospedale, che ha nel volto dei suoi professionisti la rappresentazione dell’impegno quotidiano. La lettura ha messo sotto i riflettori lo sforzo di tutti i professionisti impegnati nella lotta contro il Covid”. L’epidemiologo era già finito sulle cronache per aver prestato il proprio volto alla pubblicità di un negozio di cravatte e per la certificazione anti Covid apparsa fuori dell’albergo gestito dalla moglie.

Ho osservato l’umanità da due bottiglie di grappa

Comincio a dubitare che in quello che faccio da qualche tempo a questa parte ci sia qualcosa di vagamente patologico, anche se non ancora degno di ricovero né di intervento farmacologico. Capire il perché, ecco, quello già sarebbe importante. Mi spiego. Da tempo, come detto, nel bar che frequento solitamente sto tenendo d’occhio due bottiglie di grappa. Stanno affiancate sullo scaffale, gemelle tanto nella forma delle bottiglie quanto nei caratteri che le denunciano alla clientela. La differenza sta nel colore del contenuto. Una è bianca, l’altra invece ha un colore ambrato. La ragione del mio interesse sta nei livelli del liquido dentro le due bottiglie che variano di giorno in giorno (rilevo il dato la mattina in genere), e con degli scarti notevoli a volte nell’arco anche di sole ventiquattro ore. Su quella variabilità si è appuntata la mia quasi patologica curiosità, come se quelle due grappe e relativi consumatori fossero oggetto di uno studio sociologico. Ora, se avessi potuto darmi al bel tempo, giuro che mi sarei piazzato con tanto di calepino in mano ad annotarmi le caratteristiche di chi beve l’una o l’altra, cercando poi in quei cataloghi denominatori comuni. Purtroppo il ritorno in arancione ha fatto sì che, per essere completato, il mio studio abbia dovuto ricorrere a un aiuto. A chi, se non al proprietario del locale che disseta l’umanità da mane a sera? Stante la confidenza non mi sono vergognato di sottoporgli la questione e lui, con lessico adeguato al momento corrente mi ha risposto con tutta serietà. La bianca, intesa quale grappa, è prediletta da coloro che ha definito “aperturisti”, volendo intendere quei soggetti che, ligi a vecchi costumi, usano avviare la mattina di lavoro corroborando lo spirito con quel liquore. L’altra, l’ambrata, attrae invece consumatori serali, diversi per età, estrazione sociale e anche sesso. Una variegata compagnia insomma che sembra essersi messa insieme applicando il metodo borderlainer, le larghe intese, così come è successo in Europa e poi in Italia. Ho ringraziato per la spiegazione e mi sono sentito un po’ meno patologico.

“Soldi alla Mare Jonio per il trasbordo di 27 migranti”. Casarini tra i 4 indagati

Un accordo spregiudicato tra due compagnie navali per prendere in consegna i migranti in cambio di soldi. Un episodio di possibile favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violazione alle norme del codice di navigazione ha fatto scattare ieri perquisizioni in tutta Italia. L’inchiesta della Procura di Ragusa, coordinata dal magistrato Fabio D’Anna, si concentra sul trasbordo di 27 migranti, salvati da un naufragio nel Mediterraneo dalla mercantile danese Maersk Etienne il 5 agosto scorso. I naufraghi sono poi passati sull’imbarcazione della Mare Jonio, legata alla società armatrice Idra Social Shipping, ma che in mare agisce per conto della ong Mediterranea Saving Humans. “La ong non risulta indagata – spiega il procuratore capo D’Anna – e non risulta coinvolta allo stato attuale”. Sono indagati Beppe Caccia, il comandante Pietro Marrone, l’attivista no global Luca Casarini e il regista romano Alessandro Metz. Ieri la Guardia di finanza si è recata per le perquisizioni in otto diverse città, tra cui la sede della ong Mediterranea. La vicenda si riferisce all’estate scorsa, quando il 5 agosto, il cargo Maersk Etienne salvò 27 migranti, tra cui una donna incinta e un bambino. Per 38 giorni la nave danese rimase senza indicazioni, con a bordo i naufraghi. Poi, dal porto di Licata (Agrigento) la Mare Jonio si mise in viaggio, per una nuova missione di search and rescue, e in acque Sar maltesi, avvenne il trasbordo dei migranti da una parte all’altra. Fu la stessa Ong a spiegare di aver trovato i migranti “in gravi condizioni psico-fisiche ormai incompatibili con ulteriore permanenza sulla petroliera” danese e di aver chiesto alle “autorità di Malta, responsabili di questo evento Sar del 5 agosto”, di indicare un pos. Ma il giorno successivo, la Mare Jonio ricevette il pos dall’Italia, dirigendosi così a Pozzallo. Secondo la Procura ragusana, l’emergenza sanitaria a bordo non avrebbe trovato riscontro negli atti delle indagini, e non ci sarebbe stato neanche coordinamento da parte di Malta e dall’Italia. L’ipotesi accusatoria riferisce che ci sarebbe stato un accordo economico tra la società armatrice danese e quella italiana, che avrebbe ricevuto un’“ingente” somma di denaro per farsi carico dei migranti. Un’operazione commerciale, che gli inquirenti definiscono “in modo spregiudicato” e che non avrebbe nulla a che vedere con la salvaguardia delle vite in mare.