Uscita dalla porta del dl Ristori, la proroga dei congedi Covid per aiutare le famiglie alle prese con le chiusure delle scuole rientra dalla finestra del dl Sostegno (ovvero il nuovo nome che il governo Draghi ha dato al decreto). Come raccontato già da gennaio dal Fatto, la misura è scaduta il 31 dicembre. E da allora si può richiedere solo un congedo straordinario per gli alunni che vivono nelle zone rosse con scuole chiuse e lezioni in Dad. A patto, però, che questi territori siano individuati da un’ordinanza del ministro della Salute. Ma con il peggioramento della situazione, le zone rosse sono sempre più circoscritte e stabilite dagli enti locali. Ora per contenere il contagio e, visto, che da ieri è a casa uno studente su tre, il ministero del Lavoro ha chiesto il rinnovo, così come aveva già predisposto l’ex ministro Nunzia Catalfo. La novità, ha detto in tv la titolare della Famiglia Elena Bonetti, è che si starebbe anche valutando “una misura per i professionisti e le partite Iva”. I sindacati hanno chiesto un incontro con i ministri del Lavoro e della Famiglia.
Etruria, Rossi resta procuratore capo di Arezzo
Roberto Rossi, su decisione del Consiglio di Stato, resta procuratore di Arezzo. È una poltrona che non ha mai abbandonato anche se il 24 ottobre 2019 il Csm (relatore Piercamillo Davigo) non ha rinnovato la carica per il suo comportamento più volte “omissivo” con lo stesso Csm. Rossi non ha informato il Consiglio del prosieguo di una sua consulenza a Palazzo Chigi con Matteo Renzi premier e Maria Elena Boschi ministra, in contemporanea all’apertura dell’indagine su banca Etruria, con Boschi padre membro del Cda. Rossi poi non ha detto al Csm che aveva conosciuto i Boschi. Ora per il Consiglio di Stato, a differenza del Tar in primo grado, “non appare condivisibile” la motivazione del Csm e rimarca che per Rossi ci furono due archiviazioni: disciplinare, della Pg della Cassazione e del Csm, in merito alla pratica per il trasferimento. La mancata conferma a procuratore, però, riguarda la valutazione professionale che può essere negativa rispetto al requisito dell’immagine di indipendenza anche a fronte di archiviazioni.
Vogliamo i generali
Mancava giusto un bel generale, per far capire anche ai più duri di cervice il senso dell’Operazione Draghi. E il generale, anzi supergenerale Figliuolo, è puntualmente arrivato subito dopo il superbanchiere, i supertecnici e il superpoliziotto Gabrielli. Il generalissimo si occuperà di vaccini e di tutti gli altri acquisti anti-Covid al posto di Arcuri (troppo efficiente e soprattutto sprovvisto di uniformi, stivaloni, mostrine e codici Nato). Il poliziottissimo controllerà i servizi segreti dopo averli guidati al Sisde e all’Aisi, con la stessa logica che fa dell’avvocato di B. il sottosegretario alla Giustizia. Naturalmente il dittatore era Conte, che affidava le forniture a un manager pubblico esperto del ramo e il controllo degli 007 all’autorità politica. Ora, con la giunta bancario-tecnico-poliziesco-militare, basteranno un presentat’arm, un fianco destr, un avanti marsch, un “fermo o sparo!” e un paio di missili terra-aria con le colonne sonore di Full Metal Jacket e 007-Dalla Russia con Sputnik per far piovere una marea di vaccini e piegare alla resa i cattivoni di Big Pharma. L’esultanza delle destre – Lega, FI, Iv e financo FdI – è sacrosanta: erano loro, con giornali e talk al seguito, a chiedere la testa di Arcuri, pur non sospettando di essere scavalcati a destra con l’avvento di un militare. Troppa grazia.
Resta da capire che ci stiano a fare lì M5S, Pd e LeU, che avevano chiesto la conferma di Arcuri per l’ottima partenza delle vaccinazioni (fino al taglio delle dosi) e ieri hanno appreso dai tg che era saltato. Come già sui ministeri-chiave e sul cambio della guardia alla Protezione civile, noto a Lega e FI ma non a loro, relegati al ruolo di spettatori e donatori di sangue. Per l’angolo del buonumore, ci sovviene il monito di Mattarella: “Non si cambiano i generali in piena guerra”, intesi come Conte, Speranza, Gualtieri, Arcuri, Borrelli &C. Non n’è rimasto neppure uno, a parte Speranza, che apprende dalle agenzie la decimazione dei suoi bracci operativi. Ma in fondo di “generali” prima non ce n’erano: adesso sì. Intanto, mentre ci distraggono con le grandi manovre in alta uniforme, i 32 miliardi dei Ristori attendono il decreto da due mesi. Le task force, onta e disdoro di Conte, diventano orgoglio e vanto di Draghi, che ne ha fatte 8 in una settimana (ne ha una pure Brunetta). E il Recovery Plan? A novembre era già “in ritardo” sul 30 aprile e il tiranno Conte voleva “accentrarlo bypassando il Parlamento” fra gli alti lai dei partiti e dei Cassese. Ora Repubblica informa che Draghi “ha fretta” e “se lo riscrive da solo”, con l’ausilio di tali “Franco, Giavazzi e D’Alberti”, mai visti né sentiti in Parlamento. È, citiamo sempre Rep, il “ritorno della Costituzione”, che avanza a passo di marcia. Anzi, marcetta.
In missione con Laika. La street artist senza volto
È Laika per un motivo: “Il nome l’ho scelto per la cagnetta sovietica, primo essere vivente mai lanciato nello Spazio, forse da lassù le cose si vedono più chiaramente”. La maschera bianca che copre il volto di una delle street artist più famose d’Italia serve a proteggere dalle contraddizioni: è “il filtro che permette l’espressione, che garantisce libertà”. La ragazza sotto la parrucca rosso fuoco, (“ho una vita normale e ci tengo a mantenerla”), ama da sempre “disegno, stencil, Mimmo Rotella: facevo bozzetti di cui sono molto gelosa, sono stati gli altri a convincermi ad andare in strada ad attacchinare, vado sempre in giro accompagnata”.
Né de Roma, né di Roma, dice solo di essere “della Roma: sono romanista”. Prova d’amore e d’appartenenza l’ha data con il ritratto dedicato a DDR, il capitano giallorosso Daniele De Rossi, ma nella sua arte “centrale è l’attualità, ci sono opere che vanno realizzate subito”. Su di lei sono piovute intimidazioni sin da Budapest quando ha ritratto un eurodeputato ungherese coinvolto in un’orgia a Bruxelles con i colori dell’arcobaleno Lgbt: “Mi hanno scritto ‘Vengo e ti strappo il cuore al centro di Roma’ oppure che avevo oltraggiato lo stemma nazionale magiaro. In realtà è tutto positivo, vuol dire che il messaggio è arrivato. Le minacce mi fanno sorridere, le critiche piacere, io comunque rispondo sempre inviando tanti cuori e baci”. Prima di obbedire alle regole dello spazio, ibridando col paesaggio urbano disegno, carta e colla, Laika decide di sottostare a quelle del tempo: i suoi disegni scompaiono, fluttuano, rimangono innestati nelle strade in cui li lascia crescere oppure vengono distrutti. È accaduto al disegno di Giulio Regeni e Zaki, strappato nei pressi dell’ambasciata egiziana a Roma: “In quel momento bisognava tenere alta l’attenzione su un argomento di cui si parlava troppo poco”. Al ritratto dei due ragazzi piegati dal regime del Cairo è stata aggiunta dopo una terza presenza: l’ombra che distrugge il disegno. “Se decidi di metterli su strada, i disegni cambiano sempre, si deteriorano, a volte diventano tutt’uno col muro, fa parte del gioco”. Col rischio intrinseco del metodo scelto, Laika decide di interagire con la strada fino al limite estremo: “Ciò che mi entusiasma è l’azione, scegliere il muro che farà da cornice al poster, amo i giorni di preparazione fino al gesto, che è illegale, e bisogna compierlo velocemente”.
Ancora molti criminalizzano questa forma d’arte, “ennesima contraddizione di Roma e della gente che dice di amarla, mentre i muri stessi della città cadono a pezzi”. Se le chiedi quanta dirompente rivolta sia ancora rimasta nel messaggio della street art – ora osannata nei musei e battuta a prezzi stellari alle aste delle gallerie – risponde che sta pensando “al numero uno: Banksy. Ormai è talmente potente l’artista che qualsiasi cosa voglia comunicare, a prescindere da notorietà e quotazioni, arriva”. Ai paragoni con l’artista dall’identità segreta Laika non si abitua. Sorride se appare come nuova voce dell’enciclopedia Treccani. Ha recentemente stretto la mano all’ambasciatore argentino per un’opera che celebra la legalizzazione dell’aborto, è apparsa sulle copertine dei magazine con il “Muro della vergogna” contro il razzismo.
La Capitale, specchio di se stessa, è la cornice di Laika ma anche la soglia di partenza. “Attaccare un poster a Roma non era abbastanza: avrei raccontato una storia incompleta, inefficace. Sono dell’idea che certe cose vanno viste per essere raccontate. Ed ecco che sono partita”. Tra i migranti in Bosnia, a cui ha dedicato la sua ultima opera, ha conosciuto “persone piene di speranza di vivere, persone come Ahmed, che viene dal Pakistan, che dopo un viaggio di 5 anni fatto di botte, freddo, mancanza di acqua e cibo, spera ancora di raggiungere l’Italia”. Bianca come la superficie lunare nello Spazio era la neve dei Balcani in cui sentiva agitare le ciabatte e piedi nudi dei rifugiati.
Laika, dice la ragazza dietro la maschera, “è nata da un’esigenza”, quella di un’artista che ha scelto di rimanere anonima, e forse anche della Capitale intera, Roma, un pianeta che galleggia nel suo personalissimo universo di macerie, quelle antiche e moderne, la città dove passeggia la ragazza che non sappiamo che nome abbia e di che colore siano i suoi occhi. Di lei conosciamo solo i disegni rimasti dopo notturne missioni anonime, quelli che riportano notizie dei suoi voli terrestri e aiutano “a vedere tutto un po’ più chiaramente”. Quaggiù, nello Spazio.
Le conseguenze della guerra 40mila profughi allo sbando
“Ci hanno staccato la corrente e le altre utenze per costringerci ad abbandonare il villaggio, ma noi non lo faremo”, raccontava a dicembre Harout Genejian, un ragazzo di Aghavno che si è unito alle truppe volontarie filo-armene dopo lo scoppio della guerra tra Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno-Karabakh. “Questo luogo per noi è sacro”, spiegava con un Kalashnikov in mano e una sigaretta nell’altra, mentre le donne intorno a lui parlavano degli orrori dei bombardamenti dei droni.
Oggi queste persone si trovano in Armenia e hanno dovuto lasciare le loro case. Quelle stesse donne che parlavano con apprensione dei mariti o dei figli al fronte hanno già incorniciato la foto di chi non tornerà più sopra la bandiera a lutto. È una terra martoriata, il Nagorno-Karabakh. Una storia di assegnazioni arbitrarie e ripensamenti che risale agli anni Venti dello scorso secolo ma che esplode nel 1991, quando sette province si auto-dichiarano indipendenti dall’Azerbaijan e assumono l’antico nome armeno di Repubblica dell’Artsakh. L’Azerbaijan non riconosce il nuovo stato e l’Armenia interviene in sua difesa; ne scaturisce una guerra sanguinosa che dura fino al 1994 e si conclude con la vittoria armena e l’autonomia di fatto dell’Artsakh. Fino all’autunno del 2020, quando una poderosa offensiva delle truppe azere con il supporto turco riconquista due terzi della regione lasciando solo Stepanakert (che ne era anche la capitale) e pochi territori limitrofi sotto il controllo stabile del governo filoarmeno. Per settimane gli abitanti dei villaggi che ora si trovano lungo i nuovi confini hanno atteso di capire dove passasse il nuovo confine e se fossero o no obbligati a emigrare. Migliaia di agricoltori hanno perso i propri campi e sono stati costretti ad abbandonare beni e macchinari. Altri, come gli abitanti del piccolo paese di Pirdjamal, a nord di Stepanakert, hanno dovuto dividere le terre con i nuovi padroni accettando di credere a una pace nata già precaria. Il villaggio di Aghavno è l’esempio perfetto di questo limbo.
Qualche casa visibile dalla strada e un silenzio da cimitero lungo i vicoli sterrati che separano le vecchie abitazioni in rovina dai prefabbricati che in molti avevano accolto come il simbolo di una nuova stabilità, come a dire che in alcuni casi le convinzioni umane sono fondamenta più resistenti del cemento. Per questo, mentre nel resto dell’Artsakh migliaia di famiglie abbandonavano le province incalzate dall’avanzata azera, qui gli abitanti avevano scelto di rimanere e organizzarsi in piccoli gruppi armati per difendere le proprie case, anche dopo la resa di novembre. “Di notte vedevamo le auto che correvano verso Goris (la prima cittadina oltre il confine, ndr) e ogni tanto sentivamo delle forti esplosioni, allora il cielo si illuminava per un po’ e noi scappavamo verso quelle case di pietra laggiù”, raccontava Mane, una ragazza di quindici anni che aspettava con la madre e i due fratelli di avere notizie del padre, contadino richiamato dall’esercito e inviato al fronte nella provincia di Hadrut. Sopra Aghavno, infatti, passa il cosiddetto “Corridoio di Lachin”: una lingua di terra di 5 chilometri disseminata di scheletri di auto carbonizzate e ponti bombardati, che prende il nome della città di confine attraverso cui si snoda l’unica via percorribile tra Stepanakert e il territorio armeno. A presidiarla ci sono i soldati del contingente di pace russo inviati a garantire il “cessate il fuoco”. Duemila per cinque anni, stando agli accordi ufficiali, ma di recente il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan ha chiesto a Mosca di aumentare gli effettivi.
Più avanti, poco prima della capitale, c’è Shushi, città simbolo dell’Artsakh per la storia secolare, le chiese antiche e, soprattutto, per la posizione strategica. “Chi controlla Shushi, controlla il NagornoKarabakh”, dice un adagio locale. Perciò gli azeri hanno impiegato le forze speciali e tutti i mezzi disponibili per conquistarla, in una sanguinosa battaglia, combattuta casa per casa tra il 4 e il 7 novembre. Oggi dalla rocca di Shushi domina una gigantesca bandiera azera, visibile dall’altro lato della vallata. In quel punto i militari dei diversi contingenti sono a distanza di poche decine di metri e passando il check-point, fino a qualche settimana fa, si poteva vedere una bandiera turca di fianco a quella azera. Moltissimi profughi provenienti da Shushi sono a Stepanakert nell’attesa di capire come si evolverà la situazione. In una mensa per rifugiati chiediamo a Meline, seduta a un tavolo con i suoi tre figli, se pensa che riuscirà a recuperare i suoi averi: “Ho visto in un video su Facebook che la mia casa è stata bombardata, ora sono qui solo per aspettare mio marito, poi ce ne andremo non so dove”. Il marito di Meline è prigioniero di guerra, insieme alla sua unità è stato catturato a fine ottobre e da quel momento la donna non ne ha più notizie. Come lei in molti attendono comunicazioni da parte del governo, ma non è ancora chiaro quanti siano i soldati catturati e dove siano. Le loro vite sono al centro dei trattati post-bellici e sono usate come moneta di scambio in uno scontro che intreccia diversi tipi di interessi.
Ora il governo armeno affronta una situazione interna drammatica: l’economia è in ginocchio e il malcontento per la disfatta militare è montato fino a scatenare massicce proteste nelle piazze di Yerevan. I militari accusano il governo, il primo ministro denuncia un tentativo di colpo di stato e chiama i suoi fedelissimi a raccolta. Intanto Meline aspetta notizie, il padre di Mane è ancora disperso, migliaia di famiglie aspettano di sapere che fine hanno fatto i corpi dei propri cari e gli abitanti di Aghavno sono stati costretti a trasferirsi altrove dagli stessi russi che in molti avevano accolto come liberatori.
Ora Harout vive nel nord dell’Armenia e ha smesso l’uniforme: la sua è la vita di quasi 40 mila profughi dell’Artsakh che cercano di ricominciare da zero e che, quotidianamente, affrontano i fantasmi di una guerra che lascerà per molto tempo strascichi e cicatrici.
Siria Cohen, il re delle spie conta anche da morto
Secondo l’Organizzazione siriana per i diritti umani (SOHR), special team delle forze russe in Siria da settimane stanno scavando nel povero cimitero di un campo profughi palestinese, nei pressi della capitale, alla ricerca dei resti di una leggendaria spia israeliana.
Nella terra, fra le tombe di Yarmouk, sarebbero stati sepolti da anni i corpi di due soldati israeliani e della spia più famosa dello Stato ebraico, Eli Cohen che venne impiccato nella capitale siriana nel 1965. Il Mossad all’inizio degli anni Sessanta riuscì a infiltrare questo ebreo di origine egiziana, costruendogli falso passato in America Latina e inserendolo nel mondo arabo come un ricco uomo d’affari, amante della bella vita. Si fece strada nella società siriana fino a diventare il consigliere ufficiale del ministro della Difesa siriano. Cohen trasmetteva le sue informazioni con una piccola radio dalla capitale siriana, ma dopo oltre un anno di caccia alla spia, venne scoperto e poi impiccato pubblicamente in Piazza Marjeh a Damasco il 18 maggio 1965. Israele ha sempre attribuito alle informazioni fornite da Cohen un peso rilevante nella “Guerra dei Sei Giorni” del 1967. Centinaia di strade e piazze in Israele portano il suo nome, così come un insediamento sul Golan. Secondo il SOHR, che monitora la guerra in Siria, la Russia ha condotto analisi del DNA su “un gran numero” di resti e intende restituire quelli di Cohen a Israele. Lo Stato siriano si è sempre rifiutato di restituire le spoglie, conoscendo bene la grande importanza che ha per la religione ebraica l’inumazione del corpo secondo un certo rito. Negli anni ci sono stati appelli e mediazioni ma Damasco ha sempre opposto un netto rifiuto. Per lui nel cimitero degli Eroi sul Monte Herzl a Gerusalemme, c’è solo una piccola lapide nel terreno in attesa di un degno funerale. La storia di Cohen – interpretato per la tv da Sacha Baron Cohen – è stata recentemente raccontata nella serie Netflix “The Spy”.
Nonostante la Russia si sia schierata a favore del regime siriano le relazioni con Israele sono piuttosto buone. La restituzione dei resti di un eroe dello Stato ebraico sarebbe per il Cremlino un vero colpo da maestro, destinato a lasciare un segno nelle relazioni fra i due Stati.
Sinistra carioca, c’è un problema: non si trova un nuovo Lula
Vent’anni dopo la vittoria di Lula alle elezioni presidenziali in Brasile, lo scrutinio del 2022, come quello del 2018, rischia di doversi piegare al ritmo del calendario giudiziario. Sconfitta dopo sconfitta, per il Partito dei Lavoratori (Pt), principale movimento di opposizione, il bilancio di questi ultimi anni non è buono. Il voto del primo febbraio scorso dei presidenti delle due camere del Congresso si è concluso con la vittoria di due alleati del presidente Jair Bolsonaro. Il Pt si è dimostrato incapace di unificare le sue forze alla Camera (52 deputati su 513). “Queste elezioni erano particolarmente importanti, una sorta di continuazione delle municipali di novembre – spiega Josué Medeiros, docente all’università federale di Rio de Janeiro (UFRJ) -. Il livello di divisione interno del partito in un momento così importante è l’indicatore di una crisi profonda”.
In questo scrutinio il voto è segreto, ma diversi deputati del Pt hanno votato per il candidato vicino al presidente di estrema destra, Arthur Lira (Partito progressista). Subito dopo il voto, una parlamentare del Pt, con il sostegno di Lira, è stata scelta per occupare un posto chiave in Parlamento. Non succedeva dal 1985. Al Senato, il Pt ha ufficialmente, e secondo una logica poco comprensibile, sostenuto il candidato di Bolsonaro. “Tutta l’opposizione, dal Pt alla destra tradizionale, è uscita indebolita da queste elezioni. L’implosione della coalizione del candidato di centrodestra a favore del favorito di Bolsonaro mette in luce la difficoltà per le opposizioni di unirsi contro un nemico comune”, spiega Tatiana Roque, docente di filosofia all’UFRJ e affiliata al Psol (Partito socialismo e libertà). Con un presidente della Camera alleato, Bolsonaro vede allontanarsi il rischio di un impeachment. Il risultato delle municipali di novembre era già stato preoccupante per il Pt. Per la prima volta, il Pt non ha vinto in nessuna delle 27 capitali regionali del Brasile, realizzando in alcuni casi risultati storicamente bassi, come a Belo Horizonte, dove ha raccolto solo l’1,88% dei voti. Dopo l’enorme sconfitta del 2016 (con il 60% di sindaci in meno), il partito sperava di rifarsi a novembre. Alberto Cantalice, membro della direzione nazionale, riconosce “una sconfitta inequivocabile”. Il presidente Gleisi Hoffmann ha invece difeso su Twitter la “sinistra che sa lottare”. Questo atteggiamento preoccupa Josué Medeiros: “Dopo il primo crollo del numero dei deputati nel 2014, il problema è stato ignorato. Nel 2016, la sconfitta è stata attribuita esclusivamente all’impeachment di Dilma Rousseff. Il Pt continua a fuggire una riflessione, che invece è necessaria”. Il partito attraversa un brutto periodo dalle grandi manifestazioni del giugno 2013 e non riesce a venire fuori. Nel 2014 è iniziata la crisi economica. Dilma Rousseff è stata destituita nel 2016, anno anche della débâcle elettorale. Poi, nel 2018, Lula è stato imprigionato e il Pt ha perso le elezioni presidenziali. Mentre un certo sentimento “anti-Pt” si diffonde nella società brasiliana, il partito fatica a reagire. Ma il Pt non è morto, grazie soprattutto alla sua rete di militanti presenti su tutto il territorio brasiliano e alla popolarità di Lula. Secondo Jaques Wagner, senatore e figura di spicco del partito, la sua formazione politica non è riuscita ad adattarsi ai cambiamenti della società, soprattutto nel mondo del lavoro, dove il sindacalismo ha perso l’antico splendore.
In un’intervista a The Intercept, Wagner ha dichiarato che il partito “si è formato in un mondo che sta scomparendo e ha bisogno di un cambio generazionale”. Nuove figure carismatiche, soprattutto di colore, sono emerse a sinistra con le municipali, e alcune, come Guilherme Boulos (Psol), si stanno affermando anche a livello nazionale. “Ma al Pt mancano volti nuovi sul breve termine”, spiega Medeiros. L’egemonia di Lula sul partito ha impedito l’emergere di nuove figure. Con la scadenza elettorale del 2022 alle porte, il Pt dovrebbe scegliere il suo candidato senza consultare la base, come fece Lula nel 2010 scegliendo Dilma Rousseff. “Sarebbe accettato dai militanti, anche se – analizza Medeiros – resta una manovra meno democratica per un partito che si è costruito storicamente sul metodo partecipativo”. Secondo Tatiana Roque “le procedure giudiziarie contro Lula hanno rallentato il rinnovamento interno”. Per la prossima scadenza elettorale, del resto, quella delle presidenziali, è ancora una volta Lula, 75 anni, ad essere presentato come il candidato naturale del Pt. Alcuni rari dirigenti sono pronti a rompere il tabù. “Altri nomi sono validi. Lula può guidarci, presentare il nuovo progetto, partecipare alla campagna… ma per questo non ha bisogno di candidarsi”, assicura Alberto Cantalice, le cui idee incontrano tuttavia delle serie resistenze. L’ultima parola spetta comunque a Lula, che il 5 febbraio scorso ha annunciato che, nel caso non potesse presentarsi, avrebbe appoggiato la candidatura di Fernando Haddad, il candidato sconfitto alle ultime presidenziali. Come nel 2018, la strategia del partito dipenderà da una sentenza della Corte suprema. All’epoca i giudici avevano respinto la richiesta di libertà di Lula, invalidando la sua candidatura. Questa volta devono pronunciarsi sull’annullamento della condanna. Difficile anticipare la loro decisione, ma nuove rivelazioni sui sospetti di manipolazione del processo da parte del giudice Sérgio Moro potrebbero influenzare i magistrati. Questo clima di incertezza fa temere uno scenario alla 2018. Per evitare di ripetere gli errori dell’ultima campagna, durante la quale Haddad aveva ufficializzato la sua candidatura solo poche settimane prima delle elezioni, i due uomini dovrebbero iniziare presto a percorrere il paese. In ogni caso, da quando è uscito di prigione, nel novembre 2019, e dal suo primo discorso contro Bolsonaro, Lula non ha saputo imporsi come la figura forte dell’opposizione, come molti avevano sperato. Josué Medeiros dubita delle sue intenzioni: “Lula dice che vuole godersi la vita con la nuova moglie, in una regione nota per le sue spiagge e lontana dai centri di potere. È anche rimasto discreto durante le municipali”. D’altro canto, il docente sa che Lula è un animale politico, un predatore che sa aspettare il momento giusto. Ma via via che il tempo passa, i ricordi dei governi Lula si offuscano e il tempo in cui il Pt, nel 1999, aveva conquistato il potere sui progressisti sembra finito. A sinistra, le forze cominciano un po’ alla volta a equilibrarsi. Un’alleanza per le presidenziali a sinistra con un candidato Pt come vicepresidente resta improbabile, “ma non è impossibile”, ritiene Josué Medeiros. Tatiana Roque trova sorprendente “che invece di tentare di prendere la guida dell’opposizione, il Pt sembra rimanere sulla difensiva”.
L’annuncio della candidatura probabile di Haddad, che si è detto “frustrato” per il fallimento di un fronte unito nell’elezione del presidente alla Camera, ha scatenato una dura reazione da parte di Guilherme Boulos: “Difendo una sinistra unificata contro Bolsonaro. Ma prima di avanzare nomi, bisogna discutere del progetto”. Un nuovo scoglio da superare nella costruzione di una sinistra unita, ma che non dovrebbe minare la relativa buona intesa tra il Pt e le personalità emergenti di Psol. Flávio Dino, figura emergente del PCdoB (Partito comunista del Brasile), ha di recente dichiarato che si ritirerà dalla corsa alle presidenziali se Lula fosse candidato. “Le relazioni sono molto più tese con il centrosinistra, e in particolar modo con il PDT, il Partito democratico dei lavoratori, di Ciro Gomes. Quest’ultimo ha incontrato Lula a settembre, il che era sembrata una buona notizia, ma pare che l’incontro non abbia portato risultati”, ha sottolineato Josué Medeiros. Per il ricercatore, è urgente che i partiti di opposizione si adeguino alla logica autoritaria di Bolsonaro, che ha stravolto le regole della politica brasiliana.
Lezione dal disastro del Texas: un errore privatizzare l’energia
La notte fra il 14 e 15 febbraio, a causa di un’ondata di gelo che ha fatto scendere a -15 gradi la temperatura di Dallas, il 40 per cento della fornitura elettrica dello Stato del Texas è saltato. A deciderlo è stato la Ercot (Electric Reliability Council of Texas), per evitare un completo collasso delle rete che avrebbe impiegato mesi a essere riparata. Nelle ore immediatamente successive al black out oltre 4 milioni di persone sono rimaste senza elettricità, isolate, al buio e senza riscaldamento. Il blocco delle reti idriche ed energetiche nelle case, negli ospedali, nelle aziende elettriche, nelle raffinerie ha causato più di 80 morti. La vicenda texana è una miscela esplosiva degli elementi di una futura possibile crisi energetica: cambiamento climatico, fragilità di infrastrutture e impianti sotto la pressioni di eventi climatici estremi, iniquità sociale prodotta dal sistema energetico liberalizzato.
Il paradosso è che il Texas è una (forse la) superpotenza energetica mondiale. Lo scorso anno pompava 5,3 milioni di barili di petrolio al giorno – il 40% della produzione americana – nonché il 25 per% della produzione di gas naturale del Paese. Il bacino Permiano del Texas è il maggior bacino di idrocarburi al mondo: centro mondiale del petrolio e gas di scisto che ha fatto salire gli Usa in cima alla lista dei produttori mondiali di idrocarburi. Proprio il Texas, simbolo della generosità della Natura verso il popolo americano, ha visto paralizzarsi il sistema energetico sotto il peso di una Natura maligna.
Per non sottostare alle regole federali, già dagli anni 30 la rete elettrica dello Stato è isolata da quella del resto degli Stati Uniti. Sebbene la spinta alla “deregolazione” a partire dagli anni 70, sia stata forte in tutti gli Stati Uniti e in tutti i settori, in Texas questa spinta alla libertà dai vincoli burocratici è stata più vigorosa che altrove. Nel 1999 George W. Bush, allora Governatore, ha siglato una legge che deregolava completamente il mercato elettrico texano, proprio mentre un’impresa Texana, la Enron, protagonista assoluta della finanza creativa nel settore energetico, diventava una delle 10 società più ricche degli Usa. Il fallimento di Enron nel 2001, all’epoca il più grosso della storia del capitalismo americano, fu derubricato a caso isolato di mala gestione.
Eppure Enron avrebbe dovuto essere un segnale di come la deregolazione delle forniture energetiche nasconda grandi fragilità, specie in momenti di crisi. Con pozzi ghiacciati le centrali a gas, che forniscono la maggior parte della produzione elettrica texana, si sono bloccate, così come molte delle pale eoliche, che forniscono il 7% della produzione. La drastica diminuzione dell’offerta, seguendo l’infallibile legge del mercato, ha fatto schizzare in alto le bollette con il risultato che alcuni clienti si sono visti addebitare sulla carta di credito anche più di 10mila dollari per pochi giorni di fornitura. Il prezzo all’ingrosso dell’elettricità è passato in una settimana da una media di 25$ milliwattora a 9000$. Qualcuno ha fatto molti soldi. Al danno si aggiunge la beffa: secondo il Wall Street Journal, i texani che a partire dal 2004 hanno fatto affidamento sul mercato libero hanno pagato 28 miliardi di dollari in più rispetto ai clienti che invece sono rimasti al mercato regolato locale tradizionale
L’assenza di adeguata regolazione ha impedito investimenti nella schermatura di reti e impianti da eventi estremi. Il risultato è stato non solo il collasso del sistema elettrico, ma l’esposizione della sua iniquità sociale. I più ricchi si sono rifugiati negli alberghi di lusso delle città. Il senatore repubblicano Ted Cruz è volato direttamente in un resort di Cancun in Messico. I più poveri hanno dovuto fare i conti con l’inclemenza di madre Natura e con bollette insostenibili.
La tempesta energetica perfetta texana scopre la debolezza del sistema deregolato e l’entità delle sfide future. Servono massicci investimenti infrastrutturali e di cura del territorio per resistere alle sfide ambientali, garantire forniture alle aree marginali e a gruppi sociali più disagiati, nonché per migliorare l’interconnessione tra i diversi Stati (il “sovranismo elettrico” del Texas è stato una delle cause della sua incapacità di far fronte alla crisi). Il mercato deregolato è intrinsecamente iniquo non solo perché sensibilissimo alle pressioni al rialzo dei prezzi, ma anche perché tende ad aumentare i costi in bolletta per le famiglie (nell’Ue i prezzi dell’elettricità per le famiglie dal 2010 sono aumentati il doppio dell’inflazione) a scapito degli investimenti. In terzo luogo mostra che, se una superpotenza energetica come il Texas può incorrere in questi probemi, questo vale anche per i Paesi dell’Ue che non controllano le forniture di idrocarburi e sono impegnati in una monumentale sfida a espandere le rinnovabili, che sono esposte alle insidie del clima.
Crediti marci. L’idea del giubileo bancario (del Pd) bocciata da Renzi
Negli scorsi mesi tra le proposte su come usare i 209 miliardi di euro del Recovery plan è arrivata forte, ma inascoltata, anche la richiesta di risolvere il problema dei crediti deteriorati, vale a dire i crediti delle banche (mutui, finanziamenti, prestiti) che i debitori non riescono più a ripagare regolarmente o del tutto. Si tratta di circa 340 miliardi di euro che il sistema bancario non riesce a recuperare a causa della crisi economica che da oltre 10 anni ha schiantato le famiglie. E che, ora, con la pandemia, rischia di implodere: lo stock complessivo di crediti deteriorati potrebbe addirittura superare i 440 miliardi nel 2022, quando verranno meno le varie moratorie messe in campo per aiutare famiglie e imprese (dallo stop delle cartelle alle rate dei mutui, dallo stop dei licenziamenti a quello di fallimenti ed esecuzioni). Da un lato ci sono 11 milioni tra privati e imprese nella morsa della crisi che rischiano di soccombere perché le banche gli chiedono di rientrare. Mentre, sotto la pressione dell’Ue, le stesse banche cercano di sbarazzarsi il prima possibile di queste sofferenze a prezzi di saldo che aprono voragini nei bilanci a favore dei fondi speculativi. Ora chiedere di attivare misure straordinarie per la sopravvivenza di famiglie e imprese è una proposta di legge targata Pd, primo firmatario Gianni Pittella, che propone la possibilità per il debitore di concordare direttamente con l’intermediario finanziari una transazione stragiudiziale per la restituzione a saldo e stralcio di quanto dovuto. È anche previsto che il creditore non possa rifiutare la proposta qualora l’importo offerto coincida con il valore netto di bilancio dell’esposizione maggiorato del 10%. Una novità che eliminerebbe il debito invece di spostarlo alla banca e che smetterà di favorire gli speculatori della Caiman”, commenta Giovanni Patore, tra i fondatori dell’associazione Favor debitoris che aiuta le famiglie. Il ddl, del resto, ricalca l’idea lanciata nel 2017 dall’ex banchiere di lungo corso di Unicredit Dino Crivellari che aveva presentato un emendamento alla manovra per introdurre il cosiddetto “giubileo bancario”, allora sostenuto da M5S (tra cui Daniele Pesco), LeU e Lega. Poi non se ne fece nulla per l’opposizione del Pd di Matteo Renzi che bloccò tutto. Intanto prosegue la petizione su Change.org “Mai più famiglie rovinate dall’ingiustizia” che propone che tutte le aggressioni al patrimonio del sovraindebitato siano sospese al deposito del ricorso.
Patrizia De Rubertis
A4 Brescia-Padova: l’ennesimo regalo pubblico ai Benetton
Il sassolino nell’ingranaggio di uno sconcertante dòmino infrastrutturale durato quindici anni porta il nome di Besenello, Comune di 2.700 anime in Vallagarina, fra Trento e Rovereto. Non avesse fatto strenua resistenza alla delibera del Cipe (adottata con ilplacet di quattro ministeri) che nel 2013 dava il via libera al tratto veneto dell’autostrada Valdastico Nord, non si sarebbe scoperchiato il pentolone di una concessione dai piedi di argilla, per una delle autostrade più redditizie d’Italia. Riguarda la società A4 Holding spa che gestisce la “Serenissima” Brescia-Padova, un tratto trafficatissimo dall’alta redditività.
Nel 2007 Anas prorogò la concessione (in scadenza nel 2013) in base all’impegno della società a completare verso Trento la A31, quella che nel secolo scorso era conosciuta come Pi-Ru-Bi, in quanto voluta (ma costruita solo da Vicenza a Piovene Rocchette) dai potenti democristiani Piccoli, Rumor e Bisaglia. A4 Holding avrebbe continuato a gestire A4 e A31 in base al presupposto di riuscire entro il 2026 (scadenza della proroga) a collegare Veneto e Trentino, sgravando il traffico dell’Autobrennero.
Questo è il prologo di una storia in cui l’autostrada che non sarà mai finita s’intreccia con furbate all’italiana, connivenze di apparati tecnico-politici dello Stato, con una compravendita da 600 milioni di euro e con una concessione – secondo i giudici – a dir poco opaca. Il primo filone si è chiuso il 4 febbraio, quando le sezioni unite della Cassazione hanno dato ragione al sindaco di Besenello. Il Cipe aveva sbagliato ad autorizzare il primo lotto della Valdastico Nord, che ne prevedeva la costruzione solo in territorio vicentino e faceva – in modo “illogico e irrazionale” – uno spezzatino di un’opera concepita unitariamente, priva di senso senza il secondo lotto fino all’Autobrennero. Il Tar del Lazio aveva graziato il Cipe, il Consiglio di Stato gli aveva dato torto. Ora la bocciatura della Valdastico Nord è definitiva.
La sentenza apre uno squarcio su una seconda storia. Pochi giorni fa la procura della Corte dei Conti di Roma, dopo un’inchiesta del pm Massimo Perin, ha citato in giudizio cinque membri del Cda di Anas del 2006, l’allora presidente (onnipotente) PietroCiucci, Eugenio Pinto, Sergio Scicchitano, Umberto Siola ed Enrico Della Gatta. Ai primi quattro è contestato un danno erariale di 160 milioni di euro, al quarto solo di 17,8 milioni. La loro “colpa grave”? Aver autorizzato la proroga della concessione sulla base di un’idea, più che di un progetto fattibile, perchè all’epoca la Provincia autonoma di Trento era contraria alla prosecuzione della Valdastico. Solo nove anni dopo, nel 2015, le posizioni dei trentini avevano cominciato ad ammorbidirsi, con la valutazione di tre possibili progetti. Ma nessun accordo a tutt’oggi è stato raggiunto. Eppure Anas ha pubblicato il bando di gara (2010) e approvato (2012) – senza intesa con Trento – il progetto preliminare ridotto a un solo lotto (1,3 miliardi di euro, mentre il secondo sarebbe di 2,7 miliardi), su indicazione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici (2013). Tutto sembrava fatto apposta per motivare l’allungamento della concessione, anche se si sapeva che la Valdastico non era nemmeno cantierabile.
Ma perchè le contestazioni ai vertici Anas? Questo è il terzo capitolo della storia, un regalo ai privati. A4 Holding era di proprietà di Intesa San Paolo, Astaldi e famiglia Tabacchi, i quali la cedettero nel 2016 – dopo aver ottenuto la proroga – agli spagnoli di Abertis. Il prezzo per il 51% fu di 594 milioni, che diventano ora la base del calcolo del danno erariale “per mancate entrate cagionato al bilancio dello Stato”. Abertis (che oggi ha il 90% di A4 Holding) dal 2018 è controllata di Atlantia, cioè dai Benetton.
Cosa accadrà ora? La concessione ballerina ha una ricaduta che riporta ancora a Trento, o meglio alla Regione Veneto, che sulla conclusione della Valdastico Nord puntava per sostenere i flussi di traffico della Pedemontana Veneta (2,5 miliardi) in corso di costruzione da anni. Un puzzle dalle ricadute impensabili e un punto interrogativo su una concessione anomala che in passato è stata a rischio di infrazione europea.A4 Holding però non molla e punta a ottenere il via libera da Trento sul progetto completo, con innesto della Valdastico Nord a Rovereto Sud. A quel punto, Europa permettendo, chiederebbe una nuova proroga, per fare quell’autostrada che in 15 anni non è riuscita nemmeno a progettare e che dalla prima pietra richiederebbe dieci anni di lavoro.
Sarebbe una beffa, visto che Atlantia (via Abertis) si tiene un’autostrada che macina 70 milioni di utili l’anno e la cui concessione è stata prorogata senza che vi fossero i presupposti. Il ministero potrebbe rimetterla a gara. Il neoministro Enrico Govannini che dice?