Profitti e pregiudizi: la sfida per avere algoritmi più equi

I principi etici espressi a parole hanno bisogno di un’applicazione pratica: in Alphabet, Timnit Gebru, la coordinatrice del team di etica per l’Intelligenza Artificiale di Google è stata licenziata a dicembre dopo essere stata redarguita per una sua ricerca sulla necessità di rendere più equi e ambientalmente sostenibili gli algoritmi alla base del giro di affari del colosso di Mountain View. La settimana scorsa, in scia, è toccato alla sua collega Margareth Mitchell. Entrambe si occupavano di giustizia nei dati, rappresentanti di un movimento globale che si sta allargando tra ricercatori, studiosi e professori.

In Italia, uno dei rappresentanti è Dino Pedreschi, professore di scienze informatiche dell’università di Pisa e membro della “Global Partnership on AI”, che lavora a un approccio etico all’Intelligenza Artificiale, ad oggi tutt’altro che priva di vulnerabilità. “I sistemi basati sull’AI, dal riconoscimento facciale al supporto nei processi decisionali, si sviluppano a partire dai dati – spiega Pedreschi – Ma nei dati ci possono essere pregiudizi legati alla loro fonte: l’uomo, le persone con le loro storie e le loro idee. L’algoritmo impara da noi e se impara da informazioni che hanno più o meno implicite discriminazioni di genere e di razza, poi se le porta dietro”. Non c’è intervento umano a correzione.

L’esempio classico è quello dei traduttori automatici: se si rendono in italiano parole che in inglese sono neutre, come “doctor” o “nurse”, il primo termine verrà tradotto come “dottore” , il secondo come “infermiera”. I vizi di forma (e sostanza) nella società vengono ereditati dagli strumenti. Lo stesso vale per etnie e minoranze. Basti pensare che la raccolta di dati nei Paesi in via di sviluppo è estremamente limitata rispetto a quella dei Paesi più avanzati. Il machine learning (l’apprendimento automatico applicato all’AI), senza adeguati accorgimenti, rischia di generare prodotti e servizi tarati su una concezione del mondo incompleta. E si possono creare discriminazioni senza accorgersene. Se alcuni utenti particolarmente rispondenti al target delle pubblicità sui casinò online sono davvero ludopatici, l’azienda valuterà come redditizia l’inserzione di fatto approfittando della debolezza delle persone. “Big Tech è diventata talmente grande da aver smarrito il suo intento originario – dice Pedreschi – Lo spirito di innovazione c’è ancora, accoglie e attrae persone incredibili che fanno cose incredibili. Poi però subentra il tradimento del monopolista che arriva pure ad acquisire competitor e startup per cancellarli”.

La sfida, ora, è superare l’individualismo estremo degli Usa o il collettivismo spinto della Cina. “Le tecnologie devono amplificare l’umanità, non ridurla. Non possono solo ottimizzare le scelte individuali, ma coadiuvare l’uomo nella sfida della complessità, che sia ambientale o economica”. Difficile. Nel 2019, la commissione etica di Google è stata una debacle, con fuoriuscite in polemica (tra cui l’italiano Luciano Floridi) anche per la scelta di inserire nel team fornitori di droni per il Pentagono e consulenti di Trump omofobi o negazionisti della crisi climatica. “Non abbiamo bisogno di macchine che ci emulino – dice Pedreschi – ma che siano più intelligenti, potenzino l’umanità, ci aiutino a fare scelte migliori per il bene comune, la sostenibilità e la lotta alle disuguaglianze”. Etica e profitto, però, non vanno di pari passo. “Organizzazioni private così grandi sono incompatibili con la democrazia. Sono più rilevanti della maggior parte dei Paesi del mondo. Controllano una fetta contrattuale e di profitto troppo grossa, anche in un’ottica capitalista”. Spacchettarle è una opzione a tutela della democrazia. Etica e concorrenza, in fondo, non sono così distanti: “Sono diverse ma hanno obiettivi comuni. Proteggere la diversità nei sistemi sociali ed economici è l’obiettivo più importante, va difesa a tutti i livelli, anche negli strumenti”.

Fine del mito: dentro big tech si ridesta la voglia di sindacato

Il 2021 è iniziato in modo scoppiettante per il comparto sindacale statunitense, dove nell’ultimo decennio le sigle sono arrivate a rappresentare poco più del 7 per cento dei lavoratori del settore privato con un progressivo e costante calo (in linea con quanto accade in Europa e in Italia). A portare nuova linfa, però, a sorpresa è stata l’industria tecnologica. Terminata l’era del mito del datore di lavoro illuminato, con le sedi super moderne e decine di benefit per i dipendenti, oggi Big Tech si trova a fare i conti con la perdita dei propri ideali e dell’efficacia della sua narrazione. Si potrebbe quasi dire che, a furia di lavorarci, i dipendenti abbiano compreso quale sia la vera essenza di questi quasi monopolisti. L’elemento di novità è che a dare il via, soprattutto mediatico, a questo movimento è stata proprio la parte di lavoratori iper specializzata e meglio pagata.

Il licenziamentoi delle due ricercatrici di Google

A gennaio i dipendenti di Alphabet, la società madre di Google, hanno annunciato la nascita di una sigla, la Alphabet Workers Union (Awu), criticata sin da subito per la sua presunta debolezza, così lontana dalle lotte sindacali “tradizionali”. Uno dei maggiori motori della protesta, infatti, è stato il licenziamento “esemplare” – a dicembre – di Timnit Gebru, 37 anni, co-leader del team di etica per l’intelligenza artificiale di Mountain View. Nata ad Addis Abeba da genitori eritrei, dopo un dottorato in computer vision all’Università di Stanford, Gebru aveva lavorato anche in Apple e Microsoft. Nel 2017 aveva co-fondato “Black in AI” un network di professionisti che si propone di aumentare la presenza dei ricercatori neri nel campo dell’intelligenza artificiale e a novembre aveva firmato un articolo, insieme ad altri collaboratori, sulla necessità di trovare una soluzione ai rischi di discriminazioni nell’Intelligenza Artificiale (di cui parliamo in dettaglio nell’articolo qui accanto) e ai danni dal punto di vista ambientale di data center sempre più grossi e sempre più inquinanti. Il lavoro era stato sottoposto a un procedimento di revisione interna, una prassi, nell’ottica di presentarlo a marzo. L’azienda ha però prima chiesto a Gebru di ritirare dal paper le firme dei dipendenti di Google, poi ha commentato che la ricerca non sembrava rispondere ai requisiti per la pubblicazione, visto che – tra le altre cose – non includeva riferimenti alle soluzioni dell’azienda per ridurre l’impatto ambientale oppure ciò che era stato fatto nel campo per iniziare a “ridurre i bias nei modelli linguistici”. La ricercatrice ha quindi chiesto spiegazioni e maggiore trasparenza sulle procedure di approvazione, sottolineando l’ipotesi di terminare il proprio rapporto con la società al termine di un periodo di transizione qualora le sue istanze non fossero state soddisfatte. A far scattare il licenziamento (mascherato da “accettazione di dimissioni” ) è stato però lo sfogo inviato da Gebru via mail ai membri del suo team, con questo oggetto: “Mettere a tacere le voci emarginate in ogni modo possibile” poi pubblicato dalla newsletter Platformer. La settimana scorsa è toccato all’altra fondatrice del team, Margareth Mitchell, licenziata con l’accusa di “molteplici violazioni del codice di condotta e delle norme di sicurezza, tra cui l’uscita di documenti riservati sensibili e dati privati di altri dipendenti”, ha detto un portavoce del gruppo.

“Questi sono attacchi alle persone che stanno cercando di rendere la tecnologia di Google più etica”, ha commentato un portavoce dell’Alphabet Workers Union che, nelle ultime settimane, ha raccolto il primo giro di quote dai suoi circa 800 membri. Come rileva l’Economist, considerando il livello salariale di questi lavoratori, solitamente medio-alto, ci saranno molti soldi da poter spendere in avvocati.

I tentativi dentro Amazon in Alabama e nel mondo

In Alabama, invece, nelle scorse settimane a 5.800 lavoratori di Amazon sono state spedite le lettere per il referendum sindacale. A fine marzo, con lo scrutinio dei voti, si saprà se è nato il primo sindacato completamente dedito al gigante dell’e-commerce in America. “Pur di mettere in cattiva luce questo nuovo movimento – ci spiega Gianpaolo Meloni, lavoratore di Amazon a Piacenza e attivista per la rappresentanza dei lavoratori in Italia – l’azienda aveva costruito un sito internet apposito, con 10-12 punti che ne sminuivano l’efficacia”. In America, spiega Gianpaolo, le battaglie sono fortissime anche perché i lavoratori Usa non hanno le stesse tutele riservate a quelli italiani o europei. Fuori dagli Usa, al di là del ruolo che i sindacati tradizionali stanno assumendo nell’azienda, esiste una Unione di lavoratori di Amazon che, ad esempio, tiene in contatto i rappresentanti dei diversi Paesi europei. Ogni lavoratore e ogni Paese ha infatti una diversa sensibilità nei confronti di Amazon. “Il lavoratore medio di Amazon in Italia – spiega Gianpaolo – è quello che arriva da condizioni di disoccupazione altissima. Amazon predilige sedi là dove sa che sarebbero ben accolte dalla comunità e sa che rispetto alle condizioni di lavoro nella logistica tradizionale può apparire come il paese dei balocchi. Capisci però che non è proprio così quando dopo due o tre anni, lavorando a ritmo di 120 pacchi all’ora, per otto ore al giorno inseguendo una produttività inculcata come un mantra, iniziano a far male polsi, spalle e tendini”. C’è concorrenza, le prospettive di carriera interne illudono migliaia di lavoratori di potercela fare. I consigli su come lavorare in sicurezza diventano così inutili e trascurati: referent, responsabile, lead, manager. Ma su 2mila, a farcela sono dieci persone al massimo. “Presto ti accorgi che le dinamiche sono le stesse di qualsiasi altra struttura produttiva ma inserite in un contesto raccontato come eccezionale. Facevo lo stesso lavoro per un privato: sgobbavo ugualmente, ma almeno non pretendeva che credessi al motto ‘work hard, have fun’”. E se i lavoratori più anziani hanno imparato a difendersi, i giovani e i precari non hanno strumenti di difesa. “Le istituzioni dormono: se da un giorno all’altro l’azienda annunciasse che vuole sostituire i lavoratori con le macchine che impacchettano, lasciando per strada 4mila persone, non ci sarebbe nessuna legge a tutelarli. In più, ci sarebbe il grande tradimento di quel territorio che ti ha accolto proprio per l’occupazione e di quelle istituzioni che ti hanno reso un quasi monopolista. Eventualità che non è poi così lontana”.

Wokness e salari: insieme nella lotta

Sindacati in Google e Amazon, quindi, anche se si tratta di due realtà molto diverse: da un lato i sostenitori della cosiddetta “wokeness”, ovvero la consapevolezza di problemi sociali come il razzismo e le disuguaglianze in un contesto, quello dei lavoratori dell’informatica, dove la sindacalizzazione è inesistente. Dall’altro il personale che lavora nei magazzini. I programmatori di Google, che sono tra le categorie di lavoratori più forti perché più difficili da sostituire, sono intenzionati a lottare per migliorare sia le condizioni dei lavoratori dei data center meno pagati, sia quelli dei lavoratori temporanei o provenienti da fornitori e appaltatori. “Nessun lupo solitario dovrebbe ululare da solo senza un branco”, si legge sul sito di Awu. Il 5 febbraio il sindacato ha presentato una denuncia contro Modis, unità di outsourcing di Adecco. Awu sostiene che Modis abbia sospeso illegalmente un dipendente di un data center per aver messo in dubbio il divieto di discutere la retribuzione. Per i colossi, ora, la preoccupazione è che questi movimenti possano prendere piede spingendo altri a reclamare gli stessi diritti. Sarebbe auspicabile: intanto ha iniziato la Communications Workers of America (Cwa), un sindacato di 83 anni, che ha recentemente costituito la campagna per l’organizzazione dei dipendenti digitali, la Code-Cwa includendo tutto il mondo tech, compreso quello notoriamente stressante dei videogames.

Tv o non tv. Piccolo schermo, le regole segrete del successo: “Guai a essere troppo bravi”

Ma come si fa ad avere successo in televisione? È la domanda che mi pongo ogni volta che la guardo, perché anche io appartengo a quella grande categoria che aspira ad avere successo sul piccolo schermo. Si può essere grandi ballerini, straordinari cantanti, attori talentuosi ma, per avere successo in tv, entrare nella testa e nel cuore dei telespettatori, tutte queste qualità possono non bastare. “Hai visto quant’è bravo Vittorio Gassman? Come ha declamato bene il canto V dell’Inferno dantesco? E Pavarotti? L’ho sentito l’altra sera cantare da far suo ‘All’alba vincerò’… sublime! E la Fracci in Giselle divina!”.

Tutti questi straordinari talenti non diventeranno mai personaggi televisivi: potranno suscitare ammirazione sconfinata e addirittura scaturire entusiasmi idolatrici, come scrive Umberto Eco nel suo Diario minimo, ma solo in teatro! O solo per pochi minuti sul teleschermo. In tv, l’idolo non è né Pavarotti, né Gassman, né Fracci, ma l’annunciatrice, amata e famosa, che rappresenta meglio i caratteri medi: bellezza modesta, sex appeal limitato, gusto discutibile e una certa casalinga inespressività. Una così, la puoi vedere tutte le sere, ti entra in casa, diventa una di famiglia, una da non invidiare o con cui essere in competizione. Una di noi, una come te, come tua sorella, tua madre, tuo zio, un’amica in visita. Se ti entrasse in casa Gassman, all’ora di pranzo a recitare l’inferno di Dante, al terzo giorno non lo ascolterebbe più nessuno. Direbbero: “Bravo, bravissimo. Per carità. Anche troppo bravo…”.

In televisione, non funziona il superman, ma l’everyman! L’uomo comune. Lo spettatore, anche per pigrizia mentale, in un personaggio “semplice” vede la rappresentazione dei propri limiti. Ma allora, io che devo fare per avere successo in tv? Io due cose le so fare… non è che risulterò troppo brava?

 

La fiaba della pandemia. Tutta la verità sul virus in un libro per bimbi curiosi (e adulti intelligenti)

Sono usciti molti libri sul coronavirus. Ne hanno scritto (e presumibilmente ne scrivono) medici curanti, medici scienziati, medici accorsi subito al fronte e medici increduli, pazienti guariti in modo avventuroso, pazienti che non si sono neppure accorti di essere malati, chi era vicino, chi è stato bloccato lontano, chi formula ipotesi. Nessuno aveva provato a dire tutto.

Fingendosi autrice debuttante, Mimma Gaspari, moglie geniale del geniale Enzo Golino, autrice di alcune della più belle canzoni italiane (ha lavorato, tutta la vita, tra i grandi nomi della canzone portandone al successo più d’uno) si dedica ai bambini, come dimostrano subito le festose ed eleganti illustrazioni (firmate Jessica Lagatta) del suo Palla di Spilli (Baldini & Castoldi). E decide di spiegare loro il virus Corona19: chi è, da dove viene, come si intrufola, come inganna e come, almeno per ora, riesce sempre a farla franca. Leggendo si capisce subito che il mondo della musica ha insegnato molte cose alla Gaspari-Golino.

Un primo insegnamento è un tono lieve che prevale, come nelle canzoni d’addio, persino se il tema è doloroso e irrimediabile (“Un uomo piange solo per amore”). La seconda lezione che la Golino ha imparato dalla “musica leggera” è l’identificazione, con poche parole o una sola, dei personaggi, benevoli o crudeli, di quella fulminante vicenda che è una canzone. La terza è che se anche non tutto va bene, troveremo il modo di mantenere viva l’attenzione del pubblico. Questa è la parte che alla fantasiosa scrittrice, che si rivolge ai bambini dopo avere intrattenuto a lungo il pubblico adulto, riesce meglio. Non ci nasconde nulla della cattiveria del virus, e di quanto sia pericoloso, ma anche di quanto sia affrontabile e battibile. Non è la storia di una vittoria scontata, ma di una vittoria possibile che comunque non dipende dal virus ma da noi.

Bello il linguaggio, nello stesso tempo preciso e semplice. Le parole offrono le stesse immagini a due platee diverse (che nostalgia usare la parola “platea”) che le capiranno e si allarmeranno e avranno fiducia in modo diverso, anche opposto; ma partecipando allo stesso spettacolo. Quando il libro diventa “la storia di Huan”, il personaggio in cui tutto nasce e diventa nello stesso tempo malattia e guarigione, si aggiunge una evidente inclinazione letteraria a narrare che fa della storia di Huan una sorta di mini-romanzo. Dentro la narrazione del virus.

Dentro la narrazione del virus incontriamo belle pagine che trattengono e informano il lettore incerto e ansioso. Come tutti i libri per bambini, Palla di Spilli può ricominciare da capo nel punto e nel momento in cui finisce. La ragione, pensate, è che parla del virus con il calore affettuoso delle fiabe.

 

Palla di Spilli – Mimma Gaspari Golino, Pagine: 160, Prezzo: 16, Editore: Baldini + Castoldi

Il mercato (non) rende liberi: perché l’economia vera non si comporta come quella ideale

Neoliberismo è ormai una parola sulla bocca di tutti. Se molti condannano lo strapotere della finanza e la perdita dei diritti dei lavoratori, sono ancora pochi quelli che ne criticano le radici teoriche. Un atteggiamento che alla lunga rischia di dare ragione a chi dice “there is no alternative”. Ma qualcosa si sta muovendo. Un segnale in tal senso è l’uscita di un libro di Mauro Gallegati, professore di economia all’università di Ancona. A leggere solo il titolo (“Il mercato rende liberi e altre bugie del neoliberismo”), ci si aspetterebbe una serie di invettive contro i falsi miti della politica economica mainstream: l’austerità espansiva, il mercato che garantisce a tutti prosperità diffusa e via fantasticando.

Ma Gallegati percorre una strada diversa: se davvero vogliamo criticare il neoliberismo, non possiamo non decostruire la sua teoria economica. È nelle università, nei think tank e nei centri di ricerca che nascono le politiche adottate dai governi.

L’economia ha bisogno innanzitutto di una rivoluzione metodologica. Per affrontare i problemi concreti, per essere davvero economia politica, bisogna cambiare il modo in cui si studia la realtà. Invece, alla stragrande maggioranza degli studenti viene insegnata una sola dottrina: quella marginalista (o neoclassica). La stessa che ha ispirato le disastrose politiche degli ultimi quarant’anni.

Una dottrina che fino alla crisi del 2008 non incorporava la moneta e la finanza nei suoi modelli. Una dottrina che, ispirandosi alla fisica classica, descrive la realtà come un meccanismo. Una dottrina che ruota attorno al concetto di “agente rappresentativo”: siamo tutti uguali (e ci formiamo aspettative sul futuro in modo razionale). Semplificazioni, anzi errori concettuali, con cui gli economisti mainstream hanno instillato la fiducia nell’efficienza del mercato fra addetti ai lavori e comuni cittadini.

Il bello è che spesso non ci credono neanche gli economisti neoclassici, che però in propria difesa affermano che l’economia “vera” si comporta come se fosse quella “ideale”. Un metodo da sciamani, più che da economisti. Attenzione, però: l’economia dominante non è stupida, ma prigioniera di vecchi assiomi.

In ogni caso, negli ultimi anni il mainstream più accorto ha corretto il tiro, inserendo frizioni e imperfezioni nei modelli, per renderli più aderenti alla realtà. Questi cambiamenti, però, oltre a generare contraddizioni interne, spesso sono solo apparenti e non mettono in discussione il nucleo teorico fondamentale. Per Gallegati, perciò, è necessario un cambio di paradigma radicale. Gli strumenti per costruire un’economia della complessità ci sono. Si pensi agli agent-based models, con cui “la falsificazione delle ipotesi – quattro secoli dopo Galileo – si applica all’economia”. E i risultati sono più rilevanti rispetto ai modelli mainstream.

Serve la volontà, anche politica, di riaprire il dibattito e stimolare il pluralismo. Il libro di Gallegati è un ottimo punto di partenza.

 

Dal ponte alle grandi opere: si riparte da dove eravamo?

Per segnare al meglio il “cambio di passo” del governo Draghi si riparte dall’usato sicuro. Da decenni un’Italia che si impoverisce viene accompagnata nel declino con la favola che ci siano forze oscure che bloccano i cantieri; che serve sburocratizzare, sbloccare, oliare ingranaggi inceppati nelle costruzioni; che le grandi infrastrutture sono un volano per il Paese. Un concetto che si sublima nel ponte sullo stretto di Messina, un’opera che 8 anni fa è stata fermata perché considerata uno sperpero inutile ma che non ci abbandona mai. Nel 2012 Matteo Renzi diceva: “Il ponte? Quei 9 miliardi meglio darli alle scuole”. Ora dice che “il ponte ai nostri figli costerà più non farlo che farlo”. Nel 2016 Matteo Salvini diceva: “Mi preoccupa che non ci siano i treni per raggiungere il ponte: sono d’accordo con il Renzi di prima, quando lo contrastava”. Oggi dice che “il lavoro all’Ilva lo dai partendo con i lavori del ponte sullo Stretto”.

È così che funziona. L’ex ministra Paola De Micheli a fine 2020 ha messo su una commissione chiamata a rifare una discussione di 50 anni fa: è meglio il ponte o un tunnel sottomarino o sub-alveo? Allora si decise che solo il ponte era possibile, oggi se ne dibatte. “Saipem crede molto nel progetto di attraversamento sottomarino dello Stretto di Messina”, ha detto giovedì l’ad della controllata dell’Eni, Stefano Cao. “Se il ponte ce lo fanno fare, noi siamo molto contenti”, gli faceva eco da Genova Pietro Salini, patron della Salini-Impregilo (oggi Webuild) che nel 2006 vinse la gara per l’opera e oggi è in causa con lo Stato i cuoi rappresentanti gli stendono i tappeti rossi.

Cosa ne pensa il neoministro Enrico Giovanni? Nessuno lo sa. In una pensosa intervista alla Stampa si è limitato a dire che non rientra nel Recovery plan, il cui orizzonte è il 2026. Del resto nel piano italiano il capitolo grandi opere ferroviarie è ingente, ed è cresciuto di 20 miliardi dopo l’offensiva renziana (più di qualsiasi altro). Pare di capire che in sostanza resterà così, anche se il ministero è stato ribattezzato delle “Infrastrutture e trasporti sostenibili”. Giovannini dice che ha confermato “molti dirigenti”. Speriamo vivamente che il nome del ministero non sia l’unica cosa a cambiare.

Vittoria versus Naomi: Sanremo e il sanscemo della stampa tutta

 

A‘cca nisciuno è fess. Qui di seguito trovate un breve apologo sulla gestione della comunicazione del Festival di Sanremo, tema di grande attualità che chiama in causa noi giornalisti e lo scarso rispetto di cui evidentemente godiamo (e probabilmente ci meritiamo). Domenica sera (21 febbraio) Amadeus e Fiorello sono stati ospiti di Fabio Fazio e da “Che tempo che fa” hanno rilanciato la notizia della presenza di Naomi Campbell, chiamata ad inaugurare il Festival accanto a Fiorello, martedì 2 marzo. È, di fatto, l’unico grande nome di questa sfortunata edizione. Lunedì a metà mattinata cominciano a girare voci (autorevoli e informate) di un possibile forfait della super top. A metà pomeriggio Amadeus annuncia la presenza di un’altra top model, l’italiana Vittoria Ceretti: “La kermesse si arricchisce di una nuova presenza femminile, è la giovane Vittoria Ceretti, super top model italiana che a poco più di vent’anni ha sfilato sulle passerelle di tutto il mondo per le più importanti griffe. È apparsa sulle copertine delle più prestigiose riviste di moda ed è la musa ispiratrice dei grandi maestri della fotografia contemporanea. Vittoria sarà la mia partner in una delle cinque serate di Sanremo 2021”. Poi, ma solo in tarda serata quando i giornali sono in chiusura (alle 21.30), il conduttore conferma il forfait di Naomi Campbell, spiegando che è legato alle “nuove restrizioni negli Stati Uniti” contro la pandemia. Dunque la strategia è quella di dare prima il nome della nuova ospite sperando di far passare sotto silenzio la defezione della Campbell, confermata tardi. Ora va da se che, con tutto l’affetto per la giovane e bellissima nuova invitata, Naomi Campbell era l’unico grande nome di questa edizione particolare non certo per colpa degli organizzatori. È un momento sfigatissimo e dunque tutto è possibile e si spiega alla luce di questo tsnumani che attraversa il mondo e si chiama Coronavirus. Detto questo, il direttore artistico del Festival deve credere che i giornalisti siano tutti allocchi, facili da prendere il naso. Il guaio è che la strategia della smentita ritardata ha in parte funzionato. E dunque parafrasando Nanni Moretti, “Ce lo meritiamo Amadeus”.

Falce e zimbello. Pare che “Live-Non è la D’Urso vada verso la chiusura anticipata”. Il talk show, scrive Dagospia, alle prese con i bassi ascolti, tra il 10-12% fino a notte fonda, dovrebbe salutare il pubblico di Canale 5 addirittura tra fine marzo e inizio aprile. I dirigenti Mediaset studiando una soluzione per evitare di far passare la chiusura come una sonora bocciatura per la conduttrice. Ora, a parte quello che noi pensiamo della trasmissione e della conduttrice, facciamo presente un vecchio adagio delle nonne: il troppo stroppia. Non è di questo parere il segretario del Pd Nicola Zingaretti che, con grandissimo sprezzo del pericolo e del ridicolo, ha twittato la sua solidarietà a Barbara D’Urso: “In un programma che tratta argomenti molto diversi tra loro hai portato la voce della politica vicino alle persone. Ce n’è bisogno!”. Zinga, quando il Pci era il primo partito non c’era la D’Urso (ma c’era il popolo e soprattutto c’erano altri segretari). Bandiera rotta.

Meglio tardi che mai. Dopo l’introduzione del nuovo codice civile, è arrivata in Cina la prima sentenza destinata a far parlare molto di sé: un tribunale divorzista di Pechino ha ordinato a un uomo di risarcire la ex moglie per i lavori domestici svolti durante il periodo in cui la coppia è stata sposata. La donna riceverà quindi 50.000 yuan (circa 6.300 euro), per cinque anni di lavoro non retribuito.

 

Bandiere in panca. Dopo Pirlo l’apripista, la valanga: arrivano De Rossi e Cambiasso

Se nel governo Draghi è entrata come sottosegretaria alla Cultura la leghista Lucia Borgonzoni, quella che si vanta di non aver letto un libro negli ultimi tre anni e che, da candidata alla presidenza dell’Emilia Romagna, disse che l’Emilia confinava con il Trentino Alto Adige; se la politica sta messa così, dicevamo, allora lunga vita al mondo del pallone. Che avrà mille difetti, ma non quello di inserire in ruoli strategici figure che c’entrano, come si dice, come i cavoli a merenda. Diciamo questo perché pare ormai pronto, dopo che il debuttante Pirlo alla Juventus ha fatto da apripista, il ritorno sulle scene come allenatori di altri due numeri uno del nostro movimento: Daniele De Rossi, il Capitan Futuro della Roma ai tempi di Totti, e l’argentino Esteban Cambiasso, il popolare Cuchu colonna portante dell’Inter del Triplete 2010.

Come Pirlo, anche De Rossi e Cambiasso potrebbero sedersi presto su panchine importanti senza aver fatto alcuna gavetta (De Rossi) o una gavetta minima (Cambiasso, vice di Pekerman, c.t. della Colombia, per pochi mesi nel 2018); ma di certo non li abbiamo mai sentiti dire di non aver visto una partita negli ultimi tre anni o di non sapere chi alleni oggi il Napoli, se Gattuso o Benitez, o la Roma, se Fonseca o Spalletti. Ed è vero: essere stati grandi giocatori non significa avere le stigmate, anche, del grande allenatore; ed essere promossi con 107/110 a Coverciano con una tesi su Il calcio che vorrei, come Andrea Pirlo, in cui spieghi che “L’idea fondante del mio calcio è basata sulla volontà di un calcio propositivo, di possesso e di attacco, un calcio totale e collettivo…”, eccetera eccetera, non ti mette al riparo dalle brutte figure. Pirlo lo sa bene, a volte basta un Crotone o un Porto per capire che il Maestro siede forse sulla panchina di fianco. E tuttavia.

Esteban Cambiasso, 40 anni, argentino, 10 stagioni all’Inter dopo un breve apprendistato al Real Madrid, dal 2019 possiede il diploma di “Allenatore Uefa Pro” conseguito in Spagna che gli consente di allenare in qualunque club: Inter compresa, e lo diciamo non tanto perché Conte non stia facendo bene (l’Inter è la favorita numero 1 per lo scudetto), ma perchè il carattere fumantino di “Andonio” potrebbe comunque portarlo, a giugno, a separarsi dalla proprietà cinese con cui non ha mai realmente legato. E non è un mistero che Cambiasso sia rimasto nel cuore di tutti, ma proprio tutti, i tifosi nerazzurri; che in tv lo sentono discettare di calcio a Sky, specie nello Speciale Champions, vedendolo giganteggiare al cospetto dei compagni di studio, con tutto il rispetto per i compagni di studio.

Daniele De Rossi ha invece 3 anni meno, 37, e ha perso un po’ di tempo nel fine-carriera che lo ha portato a vestire, sia pure brevemente, la maglia del Boca in Argentina. Tutto ciò, aggiunto ai ritardi nei corsi dovuti al Covid, non gli ha ancora consentito di ottenere il diploma “Uefa Pro”; perciò ha rifiutato le offerte di Fiorentina, Cagliari e Crotone giuntegli di recente una dopo l’altra. Dicono però che il motivo dei suoi no sia un altro: De Rossi aspetta la Roma. Oggi sta seguendo il corso combinato B-A a Coverciano per poter fare il secondo in serie A. Ma anche il primo (da allenatore ombra), purché un allenatore col patentino lo sostituisca nelle uscite ufficiali, tipo conferenze-stampa.

Pirlo, Cambiasso, De Rossi: le bandiere in panchina. Aria nuova in Serie A? Aspettare per credere.

 

Simona Ravera. L’infermiera di Codogno (volontaria in Umbria) è sempre in trincea

È il prezzo di una rubrica settimanale. Mi ero già ritagliato mentalmente la storia di cui parlare oggi e, zac, mi ha battuto sul tempo Radio1. Volevo essere il primo, con Il Fatto, a raccontarvi la scelta esemplare e coraggiosa di un gruppetto di medici e infermieri di Lodi che dopo avere fronteggiato, in solitaria avanscoperta, il Covid maledetto nel febbraio del 2020, si sono oggi dati volontari per andare a combattere il nuovo Covid nell’Umbria rossa per lessico sanitario. Descrivemmo un anno fa la resistenza fai-da-te del gruppetto che all’ospedale di Codogno scoprì d’incanto la peste del Duemila e che tutto dovette inventare da solo in una notte per arginare il contagio. Così avevamo parlato di un’infermiera, Simona Ravera, che con alcuni suoi colleghi si era accollata 48 ore di lavoro consecutive, turni di pulizie compresi, per consentire a chi stava fuori dalla terapia intensiva di allestire le difese. Metto dunque tra parentesi la notizia della nuova nobile avventura di gruppo e vi racconto invece di questa donna che domenica 21 alle 7.42 del mattino avverte come niente gli amici che parte per l’Umbria, ospedale di Spoleto, terapia intensiva. “Starò via 28 giorni. La mia terra umbra chiama e ha bisogno, ed io rispondo facendo quello che posso, quello che so”.

Rende onore alla sua piccola famiglia, spiegando che “mio marito e Bianca non mi hanno fatto ostruzione. Sono preoccupati per la situazione pandemica locale ma non c’è stata nessuna obiezione legata al funzionamento ordinario della casa, per esempio”. Ricorda la coincidenza dell’anno esatto prima, il giorno in cui deflagrò la prima notizia di Covid in Italia con la creazione della prima zona rossa. E senza astio si rammarica dei racconti diffusi in libertà su quei mesi, solo sperando “che un giorno si possa realizzare quel libro fatto dei racconti nostri”. Ho letto il suo messaggio con stupore. E ho ripensato non solo a Codogno, ma anche a quanto questa donna ha cercato, respinta con perdite e perfino sbeffeggiata (“chiami pure i carabinieri”), di donare al liceo di Piacenza in cui era stata eletta rappresentante dei genitori.

Ricordo le sue amarezze di fronte alla convinzione altrui che non ci siano procedure da osservare nella gestione di una scuola; che la richiesta di votazioni regolari per eleggere un consiglio di istituto sia frutto di una bizzarria individuale. Le ultime mi giunsero via mail dieci giorni prima della notte di Codogno. Rileggo: “Sono arrivata anche a non mangiare, a prendere gocce per dormire, a trascurare la famiglia, a non avere più attimi sereni, a non godere più delle piccole cose, a maledirmi di aver messo il naso dentro un sistema che mi si è gattopardescamente palesato”.

Oggi l’Italia dice di averlo capito: la sanità e la scuola prima di tutto. Ebbene, sono stati esattamente i fronti di impegno totale di questa signora. Che con le sue scelte al servizio del pubblico ha dimostrato come, a dispetto dei luoghi comuni, reclamare i diritti non impedisca affatto di sacrificarsi ai doveri, pure quelli non scritti (“la mia terra umbra chiama…” dice lei perugina di origine). Per questo vorrei che oggi chi cercò di umiliarla perché esigeva legalità e trasparenza, la chiamasse e le dicesse: “Signora Ravera, mi scusi, non capivo, grazie per quello che sta facendo per tutti noi, in quanto scuola di sua figlia siamo orgogliosi di averla come nostro genitore”.

Così si farebbe in una scuola degna di questo nome. L’infermiera, intanto, si farà il suo volontariato nei luoghi del massimo rischio di contagio al servizio di persone sconosciute. Commossa – già lo è – per la riconoscenza dei nuovi colleghi. E sia chiaro: non c’è nulla di deamicisiano in questa storia. C’è solo l’antica lotta tra l’I care e il chi te lo fa fare. In genere vince il secondo. Ma in tempi di tragedie vince il primo. Per k.o., senza ritorno.

 

Tragedie dispari. Seconda ondata, quando i morti valgono meno (e i giornali tacciono)

 

“Il Covid ha bussato il giorno del compleanno e s’è preso tutto”

Cara Selvaggia, a un anno dall’inizio della pandemia vorrei raccontarle la mia storia e quella della mia famiglia. Che non accade nella prima “ondata” di marzo, no. La primavera per noi è stata un periodo di risveglio. Come narrava Wedekind nel suo Risveglio, io la mia futura moglie Silvia, i nostri genitori e la nonna Lina ci siamo trovati divisi (ognuno nelle proprie case) a sostenerci, a prevenire, a lavorare, a studiare ma sopratutto a viverci. Ebbene sì, perché fino a quel momento, per lavoro, sono sempre stato via dalla mia città. Sono un lavoratore dello spettacolo, prima tour manager, poi produttore teatrale, e la precarietà del mestiere spinge ad accettare spostamenti continui e repentini. Da marzo a giugno abbiamo annaffiato e coltivato il nostro amore, soli a casa, con i nostri sogni e i nostri bisogni primari che improvvisamente sono diventati fare la spesa, cucinare, mangiare e coltivare il tempo per stare insieme il più possibile. Durante questo “non tempo” ho deciso di sposare Silvia, il 30 maggio le ho chiesto di sposarmi, sul balcone, davanti ai nostri genitori e alla amata nonna Lina, che ha fatto volare da sotto il balcone 100 palloncini colorati verso il cielo. Avevo architetto tutto al meglio. Tornato a Novara, a settembre ho lavorato per l’inaugurazione della nuova sede al Teatro degli Arcimboldi della nostra Scuola, riconosciuta dal Ministero dell’Università e Ricerca come prima Laurea in Musical, nel luglio 2020 (in pieno caldo estivo). Proprio così, in un anno impossibile, abbiamo reso un qualcosa di impossibile in-possibile. Poi è tornato il freddo e nonostante il primo vento, mi ostinavo in ottobre ad andare a lavoro in bicicletta. 3 chilometri all’andata e 3 al ritorno. Con molta difficoltà andavo avanti, nascondendo tanta paura e tanta incertezza. Avevamo un piano A, B e C. Purtroppo però non avevo considerato il piano D. Chiamalo destino.

Lo avevo esorcizzato, con molta attenzione e sicurezza, ma quei droplets, quella sera di ottobre hanno oltrepassato le mascherine mie e di P. Le chiedo: “Mamma mia che tosse, ma non ti è ancora passata? Hai sentito il tuo medico?”. E lei: “Sì, sì, ha detto che è una semplice influenza”. Non mi pongo molte domande ma non sono sereno, mi rigiro nel letto da una settimana intera con quel tarlo. E mi chiedo come sia possibile che ci sia ancora così tanta superficialità e poca chiarezza. Esattamente dopo 14 giorni P. ci scrive un messaggio su watshapp dicendo che la febbre saliva, la tosse non smetteva e che il dottore le consigliava finalmente di fare un tampone. Nel frattempo io Silvia e mia mamma iniziamo ad avere una strana tosse secca. Per me è normale, vado in bici a lavoro, sudo, caldo-freddo, è probabile che abbia preso una “freddata di stagione”. Dopo due giorni arriva l’esito: tampone positivo. P. ha il covid. E io l’ho vista, all’aperto e ci ho parlato. Inizio ad avere mal di ossa. Sento il medico di famiglia, ci consiglia di fare il tampone privatamente. Siamo tutti positivi al covid. Io, Silvia e mamma Daniela. Ogni giorno passa lento, interminabile.

È metà novembre inoltrato, il 24 compivo 31 anni. Purtroppo le cose non migliorano e il fato non mi regala buone nuove. La nonna e papà si ammalano, hanno anche loro il virus. La nonna il 23 notte, a cavallo del mio compleanno, cade per terra, mentre si stava avvicinando al letto. Papà ci chiama nel cuore della notte dicendo che la nonna sta male. Silvia la sera prima aveva cucinato 2 torte: una per me, lei e mamma; l’altra alle mele per papà e nonna Lina. Contro la sua volontà e in lacrime di paura, la nonna sale in ambulanza con molta inconsapevolezza. Le ultime parole che dice a sua figlia Daniela sono: “Ma dobbiamo festeggiare il Davide che fa il compleanno…”. Poi da lì, le sirene si fanno eco lungo il corso che divide la campagna novarese dall’Ospedale Maggiore della Carità. Reparto pneumologia, padiglione B. Il papà Damiano nel frattempo ha un crollo: classe 1962, 58 anni, viene preso in carico dall’Usca. Arriviamo agli inizi di dicembre e finalmente ci fanno vedere la nonna in una videochiamata su WhatsApp. È un’immagine straziante. Commossi tratteniamo le lacrime vedendo la nostra nonnina coperta da un misero lenzuolo e infilata in un casco più grande di lei.

Le notizie tra nonna e papà viaggiano ora in ora come un eterno ping pong dove ha la meglio chi punta più in alto la racchetta della speranza. Il 3 dicembre rivediamo la nonna in video, senza casco, ma con la mascherina. Ci fa delle richieste: un cambio, un pettine, del burrocacao. Saranno le ultime parole. Il 5 dicembre, dopo aver mangiato qualche fetta biscottata, si spegne. Senza salutarci, sola, senza un bacio. È un dolore inspiegabile. Quella pandemia che ci sembrava così lontana in primavera, ci ha colpito – in pieno – nel bel mezzo di un gelido inverno. Mai me lo sarei aspettato. Ma la vita mi ha insegnato, in questo anno cosi impossibile, a trasformare l’ “IM” in “IS”. Is possible. Si può andare avanti, si deve andare oltre.

Papà guarisce. Sono passati quasi 3 mesi dal gelido inverno che ci ha portato via tutto. Avevo bisogno di esorcizzare tutto ciò. Di restituirlo, buttarlo fuori. Le storie servono per raccontare attimi di vita e per dare luce.

Davide

 

Caro Davide, grazie per aver raccontato una storia di questa seconda ondata in cui i morti sembrano essere stati meno importanti che nella prima. In cui è mancata la mano di un parente per l’ultimo saluto e pure un ultimo articolo di giornale che l’abbia raccontata.

Selvaggia Lucarelli