Il potere di supermario: far ingoiare tutti i rospi indigesti (pure il dpcm)

Politic fact checking. Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, ha preso una buona abitudine: prendere l’affermazione letterale di un politico, riportarla su Twitter e contestarne nel merito la percorribilità pratica e la veridicità scientifica. Questa volta il bersaglio della confutazione pubblica è stato Matteo Salvini e la sua ricetta per un “sovranismo vaccinale”, che ci permetterebbe di produrre vaccini in Italia in tempi brevi come risposta alla diminuzione delle dosi in arrivo dalle grandi aziende farmaceutiche straniere (“Visto che c’è il dibattito tra europeisti e sovranisti, un po’ di ‘sovranismo vaccinale’, ce li produciamo in casa, potrebbe servire”). Le cose purtroppo non sono così semplici: ammesso che le aziende che detengono i brevetti siano disposte a condividerli, perché l’Italia possa dotarsi di macchinari adatti e riconvertire le aziende nostrane ci vorranno comunque dei mesi. E Cartabellotta lo sa bene: “On. #Salvini #vaccini non sono #mascherine. Secondo #Farmindustria per produrre #VaccinoAntiCovid in Italia ci vogliono 6-12 mesi per convertire impianti, 4-6 mesi per produrre le fiale #COVID19” . Purtroppo, le ricette semplici e immediate (che tanto piacciono ai politici) in quello che loro amano chiamare “Paese reale” sono di difficile attuazione. Che ci sia un grillo parlante che intervenga a spiegare alle persone perché non si può fare, serve a non creare illusioni prima e ad evitare delusioni poi.

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Tutti insieme appassionatamente. Per capire esattamente a cosa serve il governo Draghi e perché l’ex banchiere sia stato chiamato in tutta fretta ad abbandonare il suo “buen retiro” umbro e a trasferirsi a Palazzo Chigi, si può partire da un tweet in cui Guido Crosetto commenta la decisione del neo presidente di ricorrere anch’egli all’utilizzo del dpcm per prolungare le misure sanitarie vigenti: “Di nuovo un Dpcm? Veramente? E sono tutti d’accordo? Anche quelli che prima, come me, pensavano fosse una forzatura costituzionale inaccettabile?”. Il tratto che provoca lo stupore del fondatore di Fratelli d’Italia è in realtà la ragione profonda che sta alla base della chiamata di Draghi: mettere tutti d’accordo. Se in questo governo c’è un unico vero aspetto di discontinuità (parola entrata a gamba tesa nel gergo politico attuale, il cui abuso è secondo solo ad “élite” e “populismo”) rispetto al “Conte due”, è la capacità di rendere accettabili a ciascuno tutto ciò che prima veniva dichiarato inaccettabile. Le larghe intese, oltre alla taglia “extra large” del perimetro parlamentare, si connotano appunto per l’intesa, ovvero la capacità di far andare d’amore e d’accordo coloro che naturalmente tenderebbero alla contrapposizione. La scelta di Mario Draghi ha come principale obiettivo quello di silenziare la cacofonia di polemiche che ha fatto da basso continuo all’intera gestione della pandemia: per tacitare chi in precedenza si è opposto è sufficiente ostentare come indennizzo lo scalpo del governo precedente. E a quanto pare tanto basta per blandire anche i contestatori più agguerriti. Che alla fine il destino di questo governo istituzionale, di unità nazionale o dei migliori che dir si voglia, sia di fare buona parte di quel che avrebbe fatto il governo precedente, ma senza tutto il rumore di fondo? Staremo a vedere.

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Chiesa. Iniziava otto anni fa l’èra dei due Papi. E Francesco ritorna a parlare di dimissioni

Era il 28 febbraio del 2013, di giovedì. Esattamente otto anni fa. L’Italia era senza governo dopo le elezioni politiche – l’allora leader del Pd, Bersani, si stava incartando in una trattativa impossibile con il M5S – e la bandiera gialla e bianca del Vaticano, quella sera, venne ammainata sul pennone del Palazzo Apostolico. Sede vacante. Per la rinuncia di un pontefice, dopo quasi otto secoli.

Benedetto XVI si congedò dai cardinali e dalla folla in piazza san Pietro a distanza di 18 giorni dal clamoroso annuncio dato l’11 febbraio. Andò in elicottero a Castel Gandolfo, nella residenza papale vicino a Roma. Successivamente si ritirò in un monastero all’interno dei Giardini Vaticani. Le sue ultime parole ai cardinali furono: “Tra voi, tra il Collegio Cardinalizio, c’è anche il futuro Papa al quale già oggi prometto la mia incondizionata reverenza ed obbedienza”.

Fu questo l’incipit dell’inedita èra della Chiesa dei due papi. Il regnante Francesco, eletto il 13 marzo nel conclave. L’emerito Ratzinger, sempre vestito di bianco e ancora appellato come Sua Santità. La coabitazione in questi otto anni è stata spesso problematica. Ché il teutonico Ratzinger ha continuato a parlare o scrivere, non sempre in sintonia con l’argentino Bergoglio, ma soprattutto perché Benedetto è diventato (contro la sua stessa volontà) il riferimento dei clericali di destra che considerano Francesco un eretico, da vari cardinali per finire al leghista Salvini. Ed è per questo che la convivenza tra due pontefici si è posta pure come una questione da definire giuridicamente, visto che l’attuale diritto canonico non la contempla. Un rebus tornato d’attualità in questi giorni. E non solo per l’ottavo anniversario ratzingeriano.

È stato lo stesso Francesco a dire in un’intervista che “immagina” la sua morte da “papa in carica o emerito”. Specificando: “a Roma”, perché “non tornerò in Argentina”. Si tratta di un colloquio che risale al 16 febbraio 2019 per un libro sulla salute dei papi di Nelson Castro, medico e giornalista. La conversazione è stata pubblicata dal quotidiano argentino La Nación. Non è la prima volta che papa Bergoglio, 84 anni compiuti nel dicembre scorso, parla di rinuncia, in caso di malattia grave oppure di declino fisico e mentale dovuto all’età. L’ipotesi di un Bergoglio papa emerito resta però remota al momento. Almeno finché l’emerito Raztinzer, 94 anni il prossimo aprile, è in vita. Cinico dirlo, ma è così. Altrimenti non si dovrebbe escludere una Roma con tre papi, uno regnante e due emeriti. Uno scenario davvero surreale.

In ogni caso, la coabitazione esistente tra i due papi è anche un freno all’introduzione di regole canoniche per l’emerito. Se infatti dovesse passare la linea dura propugnata per esempio dal cardinale Pell, si potrà mai costringere Benedetto XVI a rivestire l’abito rosso porpora dei cardinali e a rinunciare al titolo di Sua Santità? Per il prelato australiano – riabilitato dopo essere stato assolto per pedofilia – l’emerito dovrebbe essere infatti reinserito nel collegio dei cardinali, senza fare più dichiarazioni pubbliche. Ma tocca a Francesco colmare questa lacuna legis. Come lo farà? E soprattutto quando?

 

Caravaggio, il “testimonial” d’alto profilo sulle note trash

“Si l’ammore se perde / nun ‘o puó cancellá / pecchè chello ca resta / te serve pe’ campà”. Questo ispiratissimo testo, il neomelodico Andrea Sannino lo canta da par suo tra i sommi capolavori della Collezione Farnese, nelle sale del Museo Nazionale di Capodimonte. Il video – realizzato con fotografia e regia che alludono sagacemente alle pubblicità locali proiettate, ad ottobre, nei cinema delle località di vacanze: tocco di vicinanza alle classi subalterne – riprende il cantante a pochi passi dal Paolo III coi nipoti e dalla Danae di Tiziano (quest’ultima torturata da primi piani efferati: con voluto brivido sadomaso), dall’Antea di Parmigianino, dai busti scultorei di papa Farnese. Ma quando si raggiunge l’acme del pathos (e della qualità poetica: nei versi “Voglia ‘e fa ammore cu’tte / voglia, che voglia, pecchè? / sempe sta smania ‘e capi /ma ‘o core vó accussi”), la sapiente regia colloca la scena di fronte alla Flagellazione di Caravaggio. E qui lei capisce: lei. La ragazza, muto oggetto del desiderio. Arrendevole al dominio maschile quasi quanto una sottosegretaria Pd. E corre, corre – spinta dalla Voglia, titolo del pezzo – verso l’amato: mentre un raffinato reggiseno occhieggia, garbatamemte, dal poco vistoso completo a righe larghe.

E così l’ultimo tabu è infranto: alto e basso si mescolano, nel troppo rimandato trionfo di quella “cultura” (popolare) a cui Dario Franceschini e Mario Draghi hanno voluto reintitolare il già Ministero per i Beni culturali. Devo chiedere scusa, sono un imperdonabile codino, professorone, parruccone: perché mai ho scritto “ultimo”? Già all’orizzonte appaiono, luminosi traguardi ormai prossimi, una rassegna cinematografica dei capolavori di Rocco Siffredi a Brera (titolo: Ars longa, vita brevis); una finale di Ballando con le stelle nella Cappella degli Scrovegni (così finalmente spiegando il senso delle stelle di Giotto sulla volta); una faceta, popolaresca “Gara di rutti” nel Teatro Farnese di Parma (titolo: Dissonanze barocche); una mostra, al Bargello (antica sede di polizia), sul dissenso in Arabia Saudita (titolo: Teste (servite) calde. Libertà di parola e continenza nel Nuovo Rinascimento).

È finalmente archiviata la stagione oscurantista in cui la “valorizzazione” serviva “allo sviluppo della cultura”. Quando monumenti e musei non potevano essere adibiti a usi incompatibili con il loro carattere storico e artistico: vuote parole reazionarie di un Codice dei Beni Culturali più inutile e disatteso di quanto lo sia, oggi, il Codice di Hammurabi. Finalmente abbiamo capito che Caravaggio è come la Coca-Cola: un grande brand, che è di tutti. E che solo il mercato può davvero dare a Caravaggio il posto che gli spetta nell’immaginario collettivo.

Caravaggio testimonial delle vendite di una hit neomelodica è un traguardo culturale e civile che rappresenta forse il vertice dei risultati, che oserei dire messianici, ottenuti dalla riforma dell’ormai sempiterno ministro della Cultura. Una riforma che risemantizza in profondità il nostro patrimonio culturale.

Pensate alla Flagellazione di Caravaggio: quadro sacro, apice della rappresentazione della tortura inflitta dal potere ai corpi dei dissenzienti. Quadro di proprietà pubblica (del Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno) sottratto al suo altare in San Domenico Maggiore per ragioni di sicurezza, e ora conservato nello scrigno sicuro di Capodimonte: ma finora negletto, mai davvero compreso nella sua essenza profonda. E finalmente, come attraverso una rivelazione, illuminato dalle parole, terebranti, di Sannino: “Si nu juorne, dimane / te turnasse a ‘ncuntrà / io nun sbagliasse niente…”. Chi è che non veda che qua sono gli aguzzini del Cristo a parlare, toccati dalla grazia della musica neomelodica? Una mirabile conversione, un raggio di luce ottimista che finalmente si apre in quel quadro buio, pessimista: e tutto questo grazie al profondo storytelling di un giovane maestro della cultura popolare e di un coraggioso, coltissimo direttore.

Non sarà sfuggito agli osservatori più acuti, che l’epica svolta impressa da questo sagace direttore di Capodimonte alla politica culturale del Paese, trovi simbolico suggello nel provvidenziale ritorno di Lucia Borgonzoni nel ruolo chiave di Sottosegretaria alla Cultura. La lucidità del Capo dello Stato e l’onnisciente scrutinio della realtà garantito dal Presidente del Consiglio (sempre sia lodato) hanno affiancato all’ormai esausto, quanto benemerito, ministro la scorta sicura di una mente non offuscata dalla perniciosa lettura di libri (polverosi, vecchi, sovversivi).

L’alto profilo che un popolo intero riconosce a questa eletta compagine di governo, è lo stesso alto profilo cui Voglia di Sannino finalmente eleva opere oscure, e finora mute, di quei Tiziano e Caravaggio che, dal Cielo, si uniscono, grati, al plauso del Paese.

Ed è solo l’inizio.

“Se il partito del Nord si divora il Recovery al Sud solo briciole?”

Tre ministri dei dicasteri economici pesanti, il presidente della Cassa depositi e prestiti, il sottosegretario al coordinamento di tutta la politica economica. Tutti lombardi, residenti lungo l’asse che da Mantova conduce a Varese e due di essi (il ministro Colao e il presidente di Cdp Gorno), addirittura testimoni di nozze. Esiste un partito del nord? E, nel caso, come dimostrerà la sua influenza?

“Non si può dire che la geografia sostituisca la politica. Si può presumere però che il dato territoriale influisca eccome”.

Il professor Gianfranco Viesti, da Bari, conduce spesso in solitaria la campagna in difesa di un Sud depredato da quel potere affluente e decidente che staziona sopra Roma.

Mi preoccupo che la ripartizione delle risorse, specialmente ora che bisogna iscriverle nel grande registro degli appalti, delle opere da realizzare, di cui si compone questo Recovery plan, avvenga nel solco di sempre: di più al nord e di meno al sud. Più dei grandi capitoli generali, delle linee di fondo che mettono d’accordo tutti, temo le cifre di dettaglio. Opera per opera. Ciò che si fa e ciò che si cassa. O meglio: ciò che si aggiunge, dove si aggiunge, e ciò che si toglie, dove si toglie.

Le opere al Sud sono quelle di sempre. Essendo da trent’anni ferme al palo, si ripropongono nella stanca litania.

Mettere nel Recovery, faccio un esempio, la realizzazione del grande asse ferroviario Napoli-Bari sarebbe un atto di pura sostituzione. Prenderemmo i soldi del Recovery per un’opera già programmata e finanziata. Cosa si aggiunge? Questo è il vero pericolo, perché il Sud, anche per suoi demeriti, subirebbe due colpi in testa. L’esito della pandemia è illuminante.

La pandemia ha fatto male soprattutto al nord. La Lombardia ha pagato più di tutti.

Dal punto di vista sanitario le cose stanno così, ma dal punto di vista economico la crisi è generalizzata.

L’idea della Moratti, l’assessora alla Sanità lombarda, di godere di maggiori vaccini per mettere in sicurezza il tessuto produttivo, la locomotiva che traina l’Italia?

Conosce la teoria dello sgocciolamento? È quella idea di fare ricco chi è più ricco perché in qualche modo il di più gocciolerà poi nelle tasche del povero. Veste di altruismo un principio egoistico. Il “trainato” spesso scompare nella nebbia padana e addio alle promesse. In verità il Nord aumenta di peso e di Pil se la domanda del Sud aumenta di consistenza. Se anche al di sotto del Garigliano si spenderà, si comprerà, si investirà e soprattutto si produrrà.

La pandemia non deve contare nei saldi di spesa del Recovery e del bilancio statale?

Oggi le regioni del Sud, eccetto la Puglia e la Sardegna, hanno ogni 100mila abitanti 81 unità sanitarie. Più nel dettaglio al Sud per 100mila abitanti sono in servizio 35 infermieri. Nel resto d’Italia, e soprattutto al nord, questo rapporto è di 108 sanitari per 100mila abitanti, di cui 49 infermieri. È chiaro che la capacità sanitaria avrà un suo ruolo già nell’esito delle vaccinazioni di massa. Sarà colpa del Sud sempre attardato o delle forze in campo diseguali? E se sono diseguali, l’investimento nella sanità dovrà essere più corposo nei territori più fragili, giusto?

Giusto.

Aspettiamo di leggere le tabelline delle ripartizioni.

Lei non ci crede.

Attendo speranzoso. Cambio esempio: l’Italia si è impegnata ad innalzare fino al 33% la soglia dei bimbi con età inferiore ai due anni da accogliere nei nidi. Oggi l’Emilia si attesta sul 38% mentre la Campania è ferma al 9%. Se resistono le diseguaglianze l’Emilia aumenterà la quota e la porterà al 45%, la Campania al 15%. L’obiettivo sarà raggiunto ma lo squilibrio resterà intatto.

Perciò teme il partito del nord.

Per adesso resta una suggestione. Mica possiamo fare il processo alle intenzioni?

A pensar male si fa peccato ma spesso si indovina, diceva Giulio Andreotti.

E anche questo è vero.

La sai l’ultima?

 

Italia L’ingegner Terrone fa causa alla Crusca: la parola “terrone” non è offensiva, va rivista

L’ingegner Terrone non ci sta. “Terrone” per lui non deve essere più un insulto, quindi ha fatto causa all’Accademia della Crusca: vuole che venga riconosciuto che il termine non è offensivo. Va rivalutato. “Non è una questione personale”, dice Francesco Terrone all’Ansa, “ma una battaglia di verità e di civiltà”. Perché “la parola ‘terrone’ è legata alla terra ricca dei latifondisti e dei feudatari, e quindi alla ricchezza, oltre ad essere un cognome i cui discendenti diedero lustro all’Italia intera”. Nella sua azione giudiziaria il Terrone non è solo: si fa appoggiare dalla “Fondazione Francesco Terrone di Ripacandida e Ginestra” (il nostro è di nobili origini) e dal “Movimento Economico Social Popolare Intereuropeo Culturale”: enti che hanno effettuato studi e ricerche per risalire al significato storico del termine. È l’ultimo grido della cancel culture de noantri. Se si cambia il “terrone” , finiscono pure i pregiudizi anti meridionali?

Salento Lecce e Bari non si amano: maxi-rissa in carcere per motivi calcistici. Il derby finisce con 21 condannati
Sono volate mazzate a go go nel carcere di Lecce. Ma non era una resa dei conti criminale, non era per qualche traffico, per questioni di “onore” o malavita: era un duello tra tifosi del Lecce e tifosi del Bari. Gli scontri in carcere del 2014 hanno generato un processo con 21 condannati per rissa aggravata. Lo racconta un’agenzia di stampa LaPresse: “Il tribunale di Lecce ha condannato 21 detenuti ristretti nel carcere salentino per rissa aggravata. I fatti in questione avvennero il 6 agosto 2014. Stando a quanto ricostruito dagli agenti della polizia penitenziaria, alla base della rissa ci furono rivalità calcistiche tra tifosi delle squadre del Lecce e del Bari scoppiate mentre i detenuti stavano passando da una sezione ad un’altra. Quattro gli agenti che rimasero feriti. Le pene inflitte dal tribunale vanno da un anno e un anno e quattro mesi”. Dentro o fuori, un derby è un derby.

 

Foggia Il sindaco di Rodi Garganico: “Mi sono stufato, compro 3mila fiale di vaccino russo, le pago di tasca mia”
C’è un filo magico che lega il sindaco di Rodi Garganico e Vladimir Putin: dal foggiano alla Siberia è una linea retta, basta sognare. Il primo cittadino Carmine D’Anelli ha un suo piano vaccinale personale: “Ora basta, sto perdendo la pazienza – ha dichiarato – . O chi di dovere si decide ad intervenire tempestivamente o agirò in autarchia!”. Il sindaco vuole comprare il vaccino russo Sputnik, pagandolo di tasca sua, per mettere in sicurezza i suoi concittadini. “Lo Sputnik russo è efficace e disponibile sul mercato, Repubblica di San Marino docet. Non è sottoposto a normativa europea e quindi acquistabile. Tremila dosi le potrei comprare a ‘gratis’ utilizzando le indennità di sindaco che non ho mai percepito. Ancora qualche giorno e poi deciderò”. Volendo essere pignoli sullo Sputnik deve ancora pronunciarsi l’Ema, l’agenzia europea per i medicinali, ma immaginiamo le parole di Camine D’Anelli saranno arrivate anche a Mario Draghi e tenute nella massima considerazione.

 

Surfin’ Tuscia Attraversano il confine tra Lazio e Toscana per fare surf: danno la colpa al vento ma vengono multati
Bello il sole, bello il mare, bello il surf, adesso però pagate la multina. Non c’è grande eroismo nell’impresa di due surfisti laziali che sono passati da una regione “gialla” a una “rossa” a bordo della tavola. Conte o Draghi, il Dpcm non perdona. La racconta LaPresse: “Avevano deciso di surfare attorno Tarquinia, ma poi, forse a causa del vento avverso, si sono ritrovati ad Ansedonia. Per questo, per aver violato il divieto di spostamento tra Regioni visto che le due località si trovano una nel Lazio, l’altra in Toscana, due surfisti laziali sono stati multati a Orbetello dalla guardia di finanza di Grosseto”. Gli è costata cara la surfata: “Per i due trasgressori è scattata la verbalizzazione delle violazioni, con una sanzione pecuniaria che va dai 400 euro ai 1.000 euro ciascuno e, al termine delle procedure di rito, sono stati invitati a rientrare nella loro regione di appartenenza, il Lazio”.

 

Australia La pecora fuggitiva non viene tosata per anni, quando la ritrovano ha addosso un vello che pesa 35 chili
La pecorella smarrita si era trasformata in un enorme, grottesco, pesantissimo, maleodorante ammasso di lana. Dopo anni di vagabondaggio solitario e senza tosature, la pecora Baarack (il nome geniale è merito dei soccorritori) è stata ritrovata con addosso un vello di 35 chili. Un impressionante ovino rastafariano. Baarack si era perso in un bosco nello stato di Victoria, in Australia. Il suo pascolare ramingo è stato interrotto dai volontari di un rifugio per animali. La pecora aveva lana ovunque, il vello le era cresciuto anche attorno al muso, rendendo faticosa l’alimentazione e facendola dimagrire in modo quasi letale. Al momento della tosatura, riporta il Giornale di Vicenza, “Baarack aveva addosso una quantità di lana pari a quella che cresce in circa cinque anni, per un peso pari alla metà di quello di un canguro adulto”. Dopo il salvataggio la pecora è stata ospitata in una struttura di recupero per ovini. Ha perso la peculiare capigliatura ma si sta rimettendo in salute.

 

Bengala Felini che non odiano l’acqua: il gatto pescatore nuota alla grande con le zampe palmate e la coda timone
Tutti sapevano del pesce-gatto, pochissimi sapevano del gatto-pescatore. In Bengala esiste un felino “anfibio” – molto raro e a rischio estinzione – che vive e caccia a metà tra terra ferma e corsi d’acqua. Non corrisponde all’idea di felino che abbiamo in Occidente: ha le zampe palmate e quando nuota usa la coda come un timone. Il nome scientifico è Prionailurus viverrinus, questo gattone elusivo è stato studiato a lungo dalla biologa locale Tiasa Adhya, intervistata dal Guardian: “Il gatto pescatore si è evoluto per diventare il maggior predatore nel suo habitat. Ha artigli parzialmente retrattili che l’aiutano a uncinare il pesce, zampe palmate che lo aiutano sui terreni fangosi, un pelo resistente all’acqua, una coda a timone e altre forme di adattamento che lo rendono un eccellente nuotatore”. Questi micioni sono grandi il doppio dei cugini domestici ma non altrettanto numerosi: in Bengala è stato fondato un ente di salvaguardia per proteggere la specie e aiutarla a sopravvivere. Come nuotare contro corrente.

 

Torino Il micio di Cristiano Ronaldo vola a Madrid sul jet privato per curarsi in una clinica specializzata
Libertè, egalitè, jet privè: Cristiano Ronaldo, miliardario animalista, centravanti dal cuore gentile, ha mandato il suo gatto a curarsi in Spagna, in una clinica specialistica, a bordo dell’aereo privato. È straordinaria la sensibilità dello juventino: la bestiola era stata investita da un auto qui in Italia, a Torino, e per un po’ si era dovuta arrangiare, curandosi come i gatti dei poveracci, da un veterinario qualunque. Ma a quanto pare non faceva progressi, come sostiene la compagna di Cristiano, Georgina Rodriguez: “Stava quasi morendo e dopo un mese e mezzo in terapia intensiva dal veterinario, abbiamo deciso di mandarlo in Spagna, da mia sorella Ivana”. Fatto sta che Pepe – il gatto di Ronaldo si chiama come un modesto difensore con cui ha condiviso lo spogliatoio – è stato mandato a Madrid in una clinica specializzata per felini. Niente cadute di stile o disavventure low cost: Pepe ha raggiunto la Spagna a bordo del jet privato del giocatore. Non vi preoccupate: adesso sta meglio.

Covid, 3 milioni di studenti di nuovo a lezione da casa

Ormai è un eterno ritorno che non tiene conto di ministri o governi, anche se gli schemi dei partiti sono sempre gli stessi, con una parte di ministri (Pd e Leu e parte della Lega) che preferirebbe la Dad e un’altra parte “aperturista” (Iv, Fi e M5s). Quali che siano i mutevoli orientamenti, il risultato è che da oggi – secondo il sito specializzato Tuttoscuola – sono almeno tre milioni gli studenti che seguiranno le lezioni da casa, di cui 800 mila della scuola dell’infanzia e primaria, quasi mezzo milione delle medie e 1,8 milioni delle superiori. In pratica, uno su tre degli 8,5 milioni di studenti italiani.

Ancora una volta, nella speranza che ripeterlo giovi, la Campania è il corpo critico: solo qui sono 994.993 gli alunni in dad (ormai da un anno) mentre si attende che vengano vaccinati tutti i docenti (richiederà un mese almeno). La regione è in realtà arancione, dunque di norma dovrebbe permettere l’accesso in classe almeno fino alla terza media. Come la Puglia dove il Tar ha confermato la validità dell’ordinanza regionale, lasciando così in didattica a distanza i 320.432 studenti della secondaria di I e II grado nonostante la regione sia gialla. I 264.912 di primaria e infanzia possono scegliere se andare o meno in presenza. Restano a casa, poi, gli alunni dalle medie in poi delle regioni rosse (i 159.721 dell’Alto Adige, i 75.896 della Basilicata e i 37.558 del Molise) e anche quelli delle aree rosse (o arancione rinforzato) inferiori al territorio regionale. In Abruzzo, per dire, di quasi 176mila alunni soltanto 30.556 dell’infanzia potranno frequentare in presenza. E ancora: la provincia di Brescia con oltre 172 mila alunni in Dad, la città metropolitana di Bologna (113mila), Ancona e Macerata, (14.700 delle medie e 73.060 studenti delle superiori dell’intera regione), Pistoia e Siena (80mila) e piccoli comuni laziali dichiarati in zona rossa (si stima siano 14.100). Si aggiunge, poi, il 50 per cento degli alunni delle superiori che restano a casa (a rotazione) nelle regioni gialle e arancioni. Fanno eccezione gli studenti sardi: la regione è la prima a essere diventata “bianca”: 207mila alunni oggi tornano in aula.

Intanto si attende il nuovo Dpcm sulle misure anti-Covid in vigore dal 6 marzo. Dovrebbe essere definito nelle prossime ore ma le bozze che circolano sembrano stabilire i primi punti fermi tra cui l’idea che le restrizioni resteranno in vigore anche per Pasqua, quindi fino al 6 aprile. Poche le novità: si parla ancora della possibilità di riaprire, in zona gialla e con specifici protocolli, teatri e cinema dal 27 marzo, insieme ai musei nel weekend. Via invece la raccomandazione di non ricevere in casa persone non conviventi, che diventa un divieto di feste al chiuso e all’aperto. Niente spostamento tra regioni e forse chiusura anche per i parrucchieri. Vano, per ora, l’asse Salvini-Bonaccini: bar e ristoranti ancora chiusi di sera, eccetto asporto e consegna a domicilio, anche in zona gialla.

Se il compare di MbS è Telemaco, erano molto meglio i Proci

Da quando gli amici di Renzi hanno preso a farci o a minacciarci cause (civili, di solito: più remunerative) come fa lui ogni due o tre giorni, stiamo molto attenti a dare conto delle sue relazioni nazionali e internazionali. Tutto vorremmo, fuorché impelagarci in una contesa legale col regime di Rayd, per ragioni che sono atrocemente chiare a tutti.

Secondo l’intelligence degli Stati Uniti dell’amico di Renzi Joe Biden, l’amico di Renzi Mohammad Bin Salman, principe saudita, è il mandante dell’omicidio del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi, ucciso e fatto a pezzi nel 2018 nel consolato saudita di Istanbul in quanto oppositore del regime. Regime che invece, come Renzi ha spiegato al mondo, è sede di un Nuovo Rinascimento, come la Firenze di Lorenzo il Magnifico, Pico della Mirandola, Poliziano: anticaglia di famiglia resuscitata dallo storytelling che lui si vende da anni come alveo di un renzismo ante litteram.

Il senatore della Repubblica pagato dai cittadini per rappresentare il popolo italiano aveva promesso di spiegare i suoi rapporti con una delle petromonarchie più sordide del mondo appena fosse finita la crisi di governo (innescata da lui, peraltro: che intanto baciava la pantofola del principe con una piaggeria agghiacciante, da subalterno deciso a far carriera). Naturalmente non ha spiegato niente: si è autointervistato (con più grinta di molti giornalisti quando lo intervistano, va detto), dandosi risposte risibili sull’Arabia Saudita “baluardo contro il terrorismo”, come se fosse andato a curare interessi diplomatici nazionali e non personali, dietro la corresponsione di denaro.

Nessuna dissonanza cognitiva, nessun imbarazzo, alla luce delle rivelazioni della Cia. Lo scandalo è chiaramente un’ossessione dei suoi nemici, su tutti il Fatto, che intende citare in giudizio, non si capisce per cosa. Forse lo abbiamo avvicinato noi al mandante di un omicidio più di quanto ci sia avvicinato egli stesso? Dall’encomio che gli riserva in quella specie di cerimonia televisiva del salamelecco, si direbbe che bin Salman, chiamato ripetutamente “amico mio” e “grande principe”, incarni l’ideale del governante come lo immagina Renzi. Un nuovo Cesare Borgia (il Valentino di Machiavelli), un giovane ambizioso che si sbarazza di parenti, avversari e dissidenti e dissemina le mega-città cementificate di sue gigantografie; che predica un ecologismo di facciata e finto rispetto per le donne, ma in realtà esercita il potere con autorità e reagisce con ferocia alle critiche di giornalisti e cittadini comuni, persino quelle sui social, che possono costare l’arresto.

Forse sbaglia chi dice che rinuncia alla dignità per soldi: forse ammira davvero il principe dal terrificante sorriso. Una persona ragionevole si dimetterebbe dal board degli assassini e farebbe un passo indietro; infatti lui non lo fa, non per mancanza di intelligenza dell’accaduto, ma per sfida: perché vuole dimostrare di poter essere totalmente irragionevole e restare comunque in sella, nonostante non abbia praticamente voti. Più gli si dirà che sarebbe opportuno si dimettesse da conferenziere o da senatore, più non lo farà. Non perché condivida l’etica degli assassini, ma perché dovrebbe ammettere di aver sbagliato, e la negazione dell’errore, cioè l’incapacità di far tesoro dell’esperienza, è il fondamento della sua etica. Per i suoi fallimenti dà sempre la colpa a qualcun altro, persino al popolo che non ha compreso il suo genio. Oltre che con le critiche, Renzi ha sempre avuto un problema con l’autorità, a cui ai tempi d’oro contrapponeva la strafottente e ribellistica presa del potere. I padri per lui erano “rottami”, i sapienti “professoroni”, chiunque fosse in disaccordo con lui era d’intralcio alla sua ascesa palingenetica (i “sassi sul binario”), da eliminare con (metaforico) lanciafiamme; perciò ammira il quasi coetaneo senza scrupoli, fratello spregiudicato di rottamazione, che esce di metafora e i dissidenti li elimina fisicamente. Altro che Telemaco, altro che il “figlio giusto” (dov’è Recalcati quando serve?).

Se questa era la generazione Telemaco, erano meglio i proci.

“È incostituzionale difendere gli interessi di un altro Stato”

Non solo Matteo Renzi con la sua e-news di sabato sera non ha “chiarito” sulla sua partecipazione di fine gennaio a una conferenza in Arabia Saudita con il principe Mohammed bin Salman, ma se possibile le parole del senatore di Scandicci hanno gettato altra benzina sul fuoco. Sia per il modo – un’autointervista – sia per il messaggio che non ha convinto politici e giuristi: “Non solo è giusto intrattenere rapporti con l’Arabia Saudita, ma è anche necessario” ha scritto Renzi sabato sera definendo quel paese un “baluardo contro l’estremismo islamico”. La replica del senatore fiorentino, che ieri ha annunciato querele contro Il Fatto, non è piaciuta ai suoi avversari ma nemmeno ai suoi alleati politici. La leader di FdI Giorgia Meloni critica il senatore fiorentino reo di aver “elogiato servilmente” il principe MbS, accusato di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Kashoggi. E, dopo la e-news di sabato, ad attaccare l’ex premier non c’è solo l’ala zingarettiana del Pd ma anche Base Riformista, corrente di Luca Lotti e Lorenzo Guerini da sempre vicina a Renzi.

Il portavoce di Br Andrea Romano parla di “doppia irresponsabilità” da parte di Renzi: “Un’irresponsabilità politica nell’aver definito ‘rinascimentale’ un regime oppressivo e l’irresponsabilità morale e istituzionale del ricevere un compenso da una dittatura straniera mentre si svolgono le funzioni di senatore”. Ed è proprio sul tema del compenso – fino a 80.000 dollari all’anno per sedere nel board della fondazione saudita Fii – che sia l’economista Carlo Cottarelli sia Carlo Calenda, con cui Renzi dovrebbe formare il polo centrista, attaccano l’ex premier chiedendo una norma “che vieti a un rappresentante in carica di percepire soldi direttamente o indirettamente da un governo straniero”.

La questione però assume anche un problema costituzionale. Se l’ex senatore Ds Gian Giacomo Migone ha inviato una lettera (che pubblichiamo qui sotto) alla presidente del Senato Casellati per chiederle di applicare l’articolo 54 della Costituzione, il costituzionalista dell’Università di Pisa Andrea Pertici spiega che il caso deve essere considerato alla luce dell’articolo 67, secondo cui “ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione”. “Un parlamentare, al quale la Costituzione affida la rappresentanza della nazione – spiega Pertici al Fatto – non dovrebbe poter lavorare per uno Stato straniero o istituzioni da questo dipendenti”. Quindi, “anche se purtroppo mancano specifiche disposizioni di legge sul conflitto d’interessi – continua il costituzionalista – il problema di intrattenere rapporti di lavoro con Stati stranieri o loro istituzioni, anche finanziarie, si pone. E ciò a prescindere dal fatto che siano più o meno democratici”. Ciò non ha a che fare con i rapporti diplomatici, conclude Pertici, “che sono curati dalle istituzioni (a partire dal Governo) e non possono certamente passare attraverso incarichi assunti privatamente da singoli parlamentari”.

La vice Segreteria dem, c’è l’ok alla quota rosa

Dovrebbe arrivare oggi il via libera “ufficiale” del Pd a una vicesegretaria donna, in tandem con Andrea Orlando, dopo il benestare di ieri di Nicola Zingaretti. La scelta sul nome arriverà nell’assemblea del 13 e 14 marzo, intanto l’ordine del giorno sarà sottoposto al voto della direzione del partito. Fra i nomi che circolano, c’è quello di Cecilia D’Elia, molto vicina a Zingaretti, ma si parla anche di Debora Serracchiani, Roberta Pinotti e Anna Rossomando. “Credo sia opportuno indicare una vicesegretaria donna – ha commentato Alessandra Moretti, eurodeputata Pd – ma quella ferita (l’assenza di adeguata rappresentanza di genere nella delegazione Pd al governo – non si potrà sanare in nessun modo. È un errore molto grave che è stato compiuto e resta lì”.

Giorgetti ai superboiardi: “Arriviamo a settembre…”

Venerdì pomeriggio, Palazzo Chigi. In una delle tante pause del consiglio dei ministri che deve approvare la riforma dello Sport e il decreto per l’istituzione del nuovo Ministero della Transizione Ecologica, un paio di ministri scorrono le agenzie: “Borrelli a rischio, ipotesi sostituzione in cdm” leggono ad alta voce informando la squadra dei colleghi “politici”. Alcuni restano a bocca aperta, sbigottiti: della sostituzione del capo della Protezione Civile Angelo Borrelli nessuno sapeva niente, tranne i pochi tecnici con cui Mario Draghi si confida abitualmente. Tantomeno qualcuno – nemmeno il ministro della Salute Roberto Speranza – era a conoscenza del suo successore, quel Fabrizio Curcio che aveva già guidato la Protezione Civile dal 2015 al 2017. E se la lista dei dossier su cui decide tutto Palazzo Chigi senza informare nessuno si allunga – squadra dei ministri, delega ai Servizi Segreti a Franco Gabrielli, Curcio alla Protezione Civile – anche la coesione dell’esecutivo inizia a sgretolarsi.

Dentro il governo non si respira più il clima da “tutti uniti” dei primi giorni: per ora sono spifferi e mugugni ma la tensione sta iniziando a salire. E il motivo è che, tra loro, alcuni ministri politici si lamentano di “non essere coinvolti nelle decisioni” che contano: il premier, raccontano, ha costruito una sorta di cabina di regìa interna all’esecutivo e formata dai tecnici – dal sottosegretario Roberto Garofoli al responsabile del Tesoro Daniele Franco passando per Roberto Cingolani, Vittorio Colao e Marta Cartabia – con cui si confronta e a cui delega alcune decisioni. A volte, su alcuni dossier come la nomina di Gabrielli e quella del prossimo consigliere sanitario di Palazzo Chigi, “decide tutto da solo”. L’unico “politico” che Draghi ascolta invece è il leghista Giancarlo Giorgetti con cui ha un’antica consuetudine e che si è subito trovato in mano dossier spinosi come Alitalia, Ilva e la Rai.

E un primo sintomo di questa spaccatura tra la componente tecnica e politica dell’esecutivo si è avuta proprio durante il cdm di venerdì poco prima di approvare il decreto per istituire il nuovo Ministero per la Transizione Ecologica con annessa ripartizione di deleghe ai danni del Mise. Contestualmente il premier aveva individuato due super comitati interministeriali (Cite e Citd) formati da cinque ministri ognuno che avrebbero dovuto “aiutare” Cingolani e Colao a pianificare gli interventi e decidere come spendere buona parte dei 209 miliardi del Recovery Plan. Ma in questi due comitati, nella bozza originaria del decreto, non c’era alcun esponente del Pd. E così raccontano che il capo delegazione dem Dario Franceschini si sia adontato non poco, anche se l’ha fatto notare col consueto tono felpato: “L’unico partito tagliato fuori sarebbe il Pd”, avrebbe detto di fronte ai ministri riuniti. Una protesta che non è piaciuta alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, scelta direttamente dal premier e dal Quirinale, che avrebbe risposto glaciale: “Dario, qui facciamo gli interessi del Paese, non dei partiti”, provocando la stizza silenziosa del ministro veterano di ben 7 governi. Poi il Pd è stato recuperato in entrambi i “super comitati” con Franceschini e Orlando, ma la tensione è rimasta.

E che le ostilitànell’esecutivo siano ormai palesi lo dimostra anche una frase che il leghista Giancarlo Giorgetti ha detto ad alcuni dirigenti del Ministero dello Sviluppo Economico mentre sta decidendo come ripartire le deleghe: “Questo governo dura fino a settembre”. D’altronde, a quel punto, il Recovery e la campagna vaccinale saranno già incardinate e ad agosto si aprirà il semestre bianco in cui non si può andare a votare. Come dire: da quel momento, può succedere di tutto.